Considerazioni veneziane/
Il cinema internazionale è vivo - nelle periferieAdriano Aprà
La prima parte di questo articolo, sul cinema italiano a Venezia, potete leggerla sul
numero precedente di "Caffè Europa" (51)
La Mostra si è aperta con l'attesissimo Eyes Wide Shut (cioè
"Occhi barrati" o "sprangati") di Stanley Kubrick. La morte improvvisa
del regista, il segreto che ha circondato autore e film, il prestigio crescente della sua
opera (a cui Venezia aveva contribuito con una retrospettiva itinerante due anni fa) hanno
contribuito a montare una campagna mediatica di proporzioni intollerabili, che ha trovato
il suo terminale in questa anteprima europea. Come ogni forma di pubblicità, anche questa
era fondata sulla menzogna, che né la visione del film (vanificando tutto il
chiacchiericcio a sfondo sessuale) né certi dati di fatto precisati dai pochi che hanno
avuto un contatto diretto con Kubrick (p. es. la rivista "Positif" e il suo
direttore Michel Ciment) sono riusciti a contrastare.
L'evento ha condizionato l'opera, il sentito dire ha prevalso sulla
verità, come ormai avviene per tanti messaggi mediatici. Le pretese audacie sessuali del
film hanno addirittura influenzato la visione di altre opere da parte di quotidianisti
alla ricerca di "ombrelli" sotto i quali raccogliere i titoli presenti a
Venezia. Come nel film di Kubrick, così in altri film visti alla Mostra (Guardami,
Bugie, Une liaison pornographique) non è il sesso di per sé a essere al centro
dell'interesse ma il rapporto di coppia o il corpo.
Kubrick è uno dei rari sperimentalisti overground rimasti, capaci di
coniugare il cinema ad alto costo con la libertà espressiva propria in genere di opere
meno condizionate economicamente. L'invenzione è tuttavia in questo suo film meno
evidente che in altri. Il tema è tradizionale: una coppia altoborghese apparentemente
unita mette involontariamente alla prova il proprio matrimonio attraverso confronti
paralleli con le proprie pulsioni, per ritrovarsi alla fine (forse) più unita di prima;
una celebrazione del matrimonio, si potrebbe dire, o meglio della necessità di sottoporlo
a periodica verifica. E' un tema comune a film così diversi come Aurora (1927) di
Murnau, L'orribile verità (1937), commedia di Leo McCarey con Cary Grant e Irene
Dunne, Viaggio in Italia (1954) di Rossellini, con la Bergman e George Sanders o Dall'oggi
al domani (1997) di Huillet-Straub, da un'opera di Schoenberg del 1929-30, che forse,
anche per una possibile influenza diretta, è il parente più prossimo di Doppio sogno
(1927), il racconto lungo di Schnitzler dal quale il film di Kubrick è liberamente
tratto.
Nell'affrontare un tema intimista, il cui unico precedente è Lolita
(1962), Kubrick ricorre al suo inconfondibile stile espressionistico, esalta e esaspera
ogni dettaglio per rendere emblematico - Lui, Lei, la Coppia, l'Altro - ciò che
apparterrebbe di per sé alla dimensione del quotidiano. La tensione all'astrattezza o
all'universalità latente in uno stile espressionistico si scontra poi, in questo caso,
con due attori come Tom Cruise e Nicole Kidman che restano sospesi fra la loro icona
mediatica e il tentativo di annullarla in una dimensione più spontanea: né autentici
eroi né modelli dell'uomo e della donna qualunque.
Ciò che inoltre mi ha lasciato perplesso a una prima visione (ma i
film di Kubrick meritano sempre di essere rivisti) è la volontà di dare una spiegazione
logica e univoca al mistero così meticolosamente costruito. Paolo Cherchi Usai (su
"Segno Cinema" n. 99, settembre-ottobre 1999) solleva il dubbio che la lunga
scena fra Cruise e Pollack verso la fine - in cui sono concentrate molte di queste
spiegazioni - sarebbe stata tagliata da Kubrick se ne avesse avuto il tempo. Da parte mia
sarei portato a credere che siano state aggiunte successivamente due brevi voci fuori
campo che ribadiscono dettagli dell'intreccio che avrebbero potuto creare difficoltà di
comprensione allo spettatore medio abituato all'ascolto distratto della televisione.
Alla categoria del "cinema intelligente ma da pubblico",
quello che la critica si augura di vedere nei festival e poi nelle sale, appartengono tre
film anglofoni d'autore: Topsy-Turvy di Mike Leigh, Holy Smoke di Jane
Campion (entrambi in concorso) e Sweet and Lowdown di Woody Allen, nonché il
cinese Yi ge dou bu neng shao (Non uno di meno) di Zhang Yimou, che ha vinto
immeritatamente il Leone d'oro.
Topsy-Turvy è una piacevole rievocazione di alcuni momenti della
vita della celebre coppia di autori di operetta inglesi di fine Ottocento Gilbert &
Sullivan. Cambiando decisamente registro rispetto al naturalismo estremo dei suoi film
precedenti, Leigh riposa, con indubbia abilità, sul terreno sicuro di un cinema
post-viscontiano, rischiando l'accademismo.
La Campion fa in un certo senso il percorso inverso in Holy Smoke:
abbandona l'accademismo della rievocazione storica che l'ha resa celebre con Lezioni di
piano e Ritratto di signora per tornare a indagare i labirinti della psiche come nel
suo primo lungometraggio per il cinema, Sweetie (1989). Ma non riesce a liberarsi
dalle convenzioni del cinema industriale nel tratteggiare lo scontro spirituale-erotico
dei due protagonisti, le cui tensioni restano inespresse sullo schermo, dichiarate e non
vissute, mentre è semmai il coro grottesco che li circonda a emergere con più
convinzione.
Perfetto mi è sembrato Sweet and Lowdown, in cui Allen utilizza
un materiale finto-vero che fa pensare a Zelig (1983) e avvolge tutto con un'ironia
piena di calore che rimanda a Broadway Danny Rose (1984), cioè a due dei suoi film
più belli; quasi che il distacco dal suo consueto e spesso ripetititivo temario
naturalistico-borghese - penso anche all'espressionistico Ombre e nebbie (1992) e
al musical Tutti dicono I Love You (1996) - gli consentisse una maggiore fantasia e
una più libera invenzione.
Il Leone d'oro a Non uno di meno conferma l'equivoco su un
regista abile e furbo come Zhang Yimou, capace di adattare il suo eclettico stile a
seconda del tema trattato. Stavolta Yimou fa il verso a Kiarostami, naturalmente
sottolineando ciò che nell'iraniano è solo suggerito, con risultati comunque fra i meno
irritanti della sua carriera.
Ai margini di Hollywood si collocano tre film statunitensi: Jesus'
Son, opera seconda della neozelandese, ora americanizzata, Alison Maclean (in
concorso); Getting to Know You, opera prima di Lisanne Skyler; e julien:
donkey-boy (scritto proprio così, tutto minuscolo), opera seconda di Harmony Korine.
Sono tre esempi diversi e stimolanti di cinema indipendente.
Jesus' Son rievoca gli anni '70 con una narrazione frantumata,
sospesa, lacunosa. Le singole scene non sono sottoposte a un rapporto di causa-effetto con
quanto precede e segue. E' una narrazione vagabonda, come il protagonista, dove ogni
momento acquista una sua autonomia e una sua densità plastica ed emotiva. Il film è
fatto di tante piccole "esperienze", che addizionandosi finiscono per costituire
un destino. Abbandonandosi al flusso degli accadimenti con una sorta di innocenza
incantata, il nostro vagabondo attraversa la caduta e il dolore fino alle soglie di una
redenzione.
Il titolo Getting to Know You, cioè "arrivando a
conoscerti", allude al percorso che sia i due protagonisti fra di loro sia lo
spettatore nei confronti di tutti i personaggi debbono fare lungo il film. Questo percorso
è pieno di diversioni, divagazioni, distrazioni; vi si alternano liberamente presente e
passato, realtà e fantasia; ci si culla al ritmo suadente del cantastorie. E non importa
se si tratta di frammenti di storie, non importa se le storie sono vere o false. Il puro
piacere del racconto prende i personaggi come prende noi spettatori. Familiarizziamo col
banale quotidiano, ci appassioniamo, ci sorprendiamo. Per conoscersi basta abbandonarsi,
dunque darsi.
julien: donkey-boy si conferma il talento fuori norma di Harmony
Korine, di cui si era visto a Venezia due anni fa il sorprendente Gummo. Il film
porta il "marchio di riconoscimento" del movimento danese Dogma 95, e si vede
bene il legame formale e contenutistico con un'opera altrettanto fuori norma come
Idioti di Lars von Trier. Ecco un cinema autenticamente dissidente, che non scende a
patti con alcuna convenzione linguistica o tantomeno spettacolare, che fa terra bruciata
mescolando selvaggiamente le tecniche (come tutte le regole, anche quelle di Dogma 95 sono
formulate per essere contraddette). Korine fa esplodere il proprio materiale guidato da
una sofferta sincerità che buca lo schermo. Il suo è un cinema estremo che vuole
provocare lo spettatore fino ai limiti della sopportabilità e che non ammette
compromessi.
La Francia era anche troppo ampiamente rappresentata nelle varie
sezioni della Mostra da film che davano spesso l'impressione di somigliarsi: storie di
personaggi più che di ambienti, attori sempre impeccabili, micronarrazioni che non si
lasciano spaventare dai vuoti ma che insieme rivelano una costruzione sapiente.
Esemplare in questo senso Une liaison pornographique, opera
seconda belgo-francese di Frédéric Fontayne (in concorso). Un uomo e una donna si
incontrano tramite gli annunci economici per condividere un'esperienza sessuale
particolare. Nulla sapremo di questa particolarità, né tantomeno vedremo i loro rapporti
intimi. Solo incontri al tavolino di un bar, dialoghi sinceri protetti dall'anonimato e
scevri da equivoci amorosi, ma che portrebbero preludere a un amore che in realtà non si
realizza. La costruzione geometrica rivela a volte il meccanismo ma più spesso è
riscaldata dagli attori, a tu per tu fra di loro e con lo spettatore.
Le vent de la nuit di Philippe Garrel (in concorso) è un film di
svolta per questo grande cineasta irrequieto e intransigente. Grazie anche allo
scope-colore e alla presenza (anti)divistica di Catherine Deneuve, Garrel raffredda il suo
consueto materiale autobiografico, ne distanzia il calore altrove dominante, lo sottomette
a una forma depurata e cristallizzata. Ammiro questo rigore ma nello stesso tempo
rimpiango i film dove il cuore era più allo scoperto.
Una eccezione al "modello" francese è La voleuse de Saint
Lubin di Claire Devers, un esempio di realismo sociale, di impegno
politico-ideologico, così colpevolmente fuori moda nel cinema odierno. L'odissea della
protagonista, che non ha paura di muoversi contro tutti per affermare le proprie ragioni,
così come la regista non ha paura di essere "scorretta" nel dichiarare le
proprie tesi, mi ha fatto pensare a Europa '51 di Rossellini.
Leggendo trasversalmente le varie proposte della Mostra, mi è chiaro
che il vero cinema nuovo viene dai margini e dalle periferie, aldilà delle ripartizioni
geografiche: dal "terzo mondo". Come per il cinema italiano, anche a livello
internazionale la creatività più autentica si manifesta fuori dalle regole e le
costrizioni del cinema come sistema e come industria.
I conti veri il cinema di domani dovrà farli, per quanto riguarda la
fiction, con opere come - fra quelle in concorso - Le vent nous emportera (Il vento
ci porterà via), coproduzione franco-iraniana di Abbas Kiarostami, che avrebbe meritato
il Leone d'oro e che è stata invece un po' umiliata col Gran premio della giuria; Guo
nian hui jia (17 anni) del cinese Zhang Yuan, Premio speciale per la regia; Gojitmal
(Bugie) del sudcoreano Jang Sun-woo; e fra quelle di altre sezioni, il già citato
julien: donkey-boy; Abenland (Crepuscolo) del tedesco Fred Kelemen; Sao
Jerônimo del brasiliano Julio Bressane; Luna papa del tagiko Bakhtar
Khudojnazarov; Civilisées! della libanese Randa Chahal Sabbag; Mondo grúa
dell'argentino Pablo Trapero (che ha vinto il premio riservato ai film della Settimana
della critica), Oinaru genei (Vana illusione) del giapponese Kiyoshi Kurosawa
(niente a che vedere con Akira, di cui è stata presentata la corretta e efficace
"traduzione" dell'ultima sceneggiatura - un "racconto morale" - con Ame
agaru, Dopo la pioggia, diretto dall'ex aiutoregista di Akira Kurosawa Takashi
Koizumi).
Il vento ci porterà via di Abbas Kiarostami può sembrare
ripetitivo rispetto ai suoi precedenti capolavori. Il regista iraniano ha conquistato un
tocco, semplice ed essenziale, che rende poetica qualsiasi cosa riprenda. In questo film
fa a meno delle metafore cinematografiche di Close-up, Sotto gli ulivi e del
finale del Sapore della ciliegia, e anche dell'"evento" - il terremoto -
alla base del viaggio di E la vita continua. Tutto qui è ancora più semplice ed
essenziale, più puro e nudo, se possibile, e un ruolo fondamentale lo acquista il
"non detto" e il "non visto"; in termini tecnici: il "fuori
campo". Ciò che il protagonista - guida consueta dello spettatore - vorrebbe vedere
e sapere del piccolo villaggio in cui staziona per lavoro resta, per lui e per noi, un
mistero. In tale mistero si cela la verità del film.
17 anni di Zhang Yuan conferma il valore del cinema cinese
indipendente, di cui Zhang è il capofila, un cinema realizzato ai margini o addirittura
contro le direttive ufficiali (anche per questo il film è stato presentato sotto bandiera
italiana). Con stile densamente realistico, attento ai dettagli ridotti all'essenziale, il
film racconta di una ragazza accusata di aver ucciso la sorellastra per un banale
incidente familiare, di cui lei è ritenuta colpevole dai genitori mentre sappiamo che è
la sorellastra a esserlo. La ragazza torna con un permesso a rivedere per la prima volta i
genitori dopo 17 anni di carcere. Aldilà della colpa e dell'innocenza, conta ormai la
capacità reciproca di comprensione. Il dramma, centrato su personaggi i cui minimi gesti
riflettono scelte etiche, riesce anche a tratteggiare magistralmente un ritratto della
Pechino povera di oggi. Un film esemplare.
Bugie di Jang Sun-woo registra, senza ombre moralistiche o
sentimentali, "aldilà del bene e del male", il rapporto sadomasochista fra una
studentessa e uno scultore quarantenne. A Venezia colpivano le analogie da una parte con Guardami,
per la franchezza con cui sono visti il corpo e il sesso, dall'altra con Une liaison
pornographique, di cui questo film è in un certo senso l'inverso (lì non si vede
nulla e conta il rapporto psicologico, qui si vede tutto e le psicologie sono cancellate).
Come un film porno, il film si concentra quasi esclusivamente sui rapporti sessuali della
coppia, con scarso spazio per ciò che li circonda. Ma al contrario di un film porno, lo
sguardo non è mai voyeuristico, e dopo un po' la bizzarria delle situazioni cede il posto
al puro e semplice catalogo, come in Sade. Il giudizio implicito non è tanto sui
personaggi quanto sullo spettatore e, indirettamente, sulla società. Un film anarchico e
impassibile, senza concessioni.
Abendland di Fred Kelemen è un grande film dostoevskiano. Girato
con metodiche ed estenunati inquadrature lunghe, ambientato in una città di oggi che
sembra sopravvissuta a una catastrofe, il film dipinge un universo desolato abbandonato
dalla speranza, in cui ci si trascina senza meta, per forza d'inerzia. Solo il rigore
della regia conferisce allo sguardo una forza che supera la disperazione.
Nella tradizione visionaria di Glauber Rocha, Sao Jerônimo di
Julio Bressane mette in scena alcuni episodi della vita del santo con uno stile che
mescola disinvoltamente il poetico e il didascalico, il barocco e l'astratto. Fra la
contemplazione nel deserto e il paziente lavoro di traduzione in latino della Bibbia, San
Girolamo visto da Bressane si rivela un nostro contemporaneo, un saggio pazzo che vive
sulla propria pelle le contraddizioni del suo tempo.
Luna papa di Bakhtar Khudojnazarov ha un inizio travolgente,
carnevalesco, pieno di colori accesi, di narrazioni sovrapposte, di invenzioni a ogni
inquadratura. Procedendo il film perde un po' della sua carica iniziale perché si
concentra su alcuni elementi del racconto piuttosto che continuare a orchestrarli tutti
insieme. Ma resta la straordinaria inventiva di questo regista, che sa trasmettere allo
spettatore gioia e vitalità.
Civilisées! di Randa Chahal Sabbag rievoca la guerra civile a
Beirut negli anni '70 con coraggiosi e inusuali toni farseschi e grotteschi, che rendono
ancora più tragici e inquietanti i fatti narrati. Il racconto si frantuma in una miriade
di personaggi che, come le tessere di un mosaico, ricompongono alla fine il ritratto
vivace di una collettività in stato di precarietà permanente.
Mondo grúa di Pablo Trapero è un film fatto in economia e girato
con uno stile neorealistico constatativo. Niente giudizi nello scandire il precario
percorso di lavoro di un operaio non più giovane. Le scene si succedono come se fosse
impossibile cambiare il corso degli eventi e inutile opporvisi. Solo alla fine lo
spettatore, a forza di essere costretto a confrontarsi con una pura descrizione di fatti,
si ribella e giudica. Mondo grúa è un film politico.
Vana illusione di Kiyoshi Kurosawa fa pensare al cinema di Ozu per
il modo in cui la vicenda amorosa di due giovani è sottratta agli eventi narrativi e
sottomessa a uno sguardo che la distanzia e la analizza, aldilà di una tensione
sentimentale o drammatica. L'amore, appunto, come "vana illusione".
Sul fronte della nonfiction, due omaggi al cinema italiano: Martin
Scorsese si muove fra saggistica e autobiografia con Il dolce cinema, di cui è
stata presentata una versione in progress e in video, circa la metà del progetto.
Colpisce il pathos della rievocazione, che disinteressandosi di ogni correttezza
storicistica sa cogliere con essenzialità e a volte con finezza la specificità del
nostro cinema; l'olandese Peter Delpeut, specialista di "rimontaggi" di film
muti, ritaglia sapientemente in Diva dolorosa brani di opere con Lyda Borelli,
Francesca Bertini, Pina Menichelli e altre signore degli anni '10, facendo risaltare una
poetica baudelairiana (la passione come patimento) che rende quel cinema più affascinante
di quanto lo sarebbe a vedere i film per intero.
Un altro esempio di "cinema di compilazione" è Godard à
la télé di Michel Royer, esilarante e sfrenato montaggio video delle apparizioni di
Godard in (e regolarmente contro la) televisione, dove si rivela critico implacabile del
mezzo e insieme icona mediatica di prim'ordine.
Sul fronte della nonfiction saggistica ricordiamo Se a memória
existe di João Botelho, un lucido ed essenziale cortometraggio didattico in video
sulla rivoluzione del 1974 che ha riportato la democrazia in Portogallo, e Tsion,
auto-emancipatcie di Amos Gitai, riflessione attraverso documenti d'epoca e
testimonianze odierne sulle radici e sul significato del sionismo in Israele.
L'esempio più originale di una nonfiction svincolata dalla tradizione
documentaristica e aperta al mescolamento dei generi mi è parso Wisconsin Death Trip
dell'inglese James Marsh, che a partire da fotografie e cronache giornalistiche d'epoca
mette in scena ipotesi di ricostruzione realistico-poetica delle vicende paradossali, tra
crimini e follie, di una piccola comunità del Wisconsin alla fine dell'800.
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