Considerazioni veneziane/Il cinema italiano
è vivo Adriano Aprà
Questo articolo è il primo di una serie in due parti. Il successivo apparirà sul
prossimo numero di Caffè Europa
"Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica": così si
intitola la manifestazione veneziana, giunta alla 56a edizione e ora diretta, con nomina
quadriennale, da Alberto Barbera, ex direttore del Torino Film Festival, una delle
roccaforti del giovane cinema internazionale. "Mostra" (in anni lontani
addirittura "esposizione"), per distinguersi dai "festival" e
avvicinarsi alle altre rassegne della Biennale di Venezia, per marcare cioè la differenza
dalle kermesse mondano-pubblicitarie; "d'arte", per ribadire la differenza dalle
pratiche altrove dominanti del cinema-industria.
Ma queste etichette fanno parte delle buone intenzioni, sia perché da
tempo la controparte - industria, televisione, stampa, pubblico - guarda e giudica la
Mostra alla ricerca prioritaria di scoop, presenze divistiche, anteprime di film di
imminente uscita e di presumibile successo, riducendola così a festival; sia perché il
direttore, forse per un (comprensibile) eccesso di prudenza al suo debutto, ha selezionato
i film equilibrando troppo i salutari azzardi con i consueti prodotti medi, quando non
mediocri, e così facendo ha sacrificato l'arte; sicché la sua mostra non si differenzia
poi tanto dalle precedenti.
Venezia non è ancora il luogo del cinema che verrà, anticipazione e
promozione di tendenze, tensioni, paure e desideri che travagliano questo mezzo
d'espressione dagli anni '90, da quando cioè si deve confrontare con un rivolgimento
tecnologico e distributivo e con una ibridazione dei generi e dei formati che ne
minacciano o, secondo il mio punto di vista, ne stimolano e ne alimentano la
sopravvivenza; da quando il cinema non è più solo cinema ma parte di un complesso
processo multimediale, che non si esaurisce certo negli effetti speciali e di cui la
tradizionale sala non è che uno dei terminali di visione.
Venezia è invece una vetrina, più o meno oggettiva, dell'esistente,
radiografato con uno sguardo che, per troppa considerazione di una controparte arroccata
sulla difensiva, rivela nostalgia del passato e timore del futuro, mettendo come di regola
in prima linea (il concorso, i programmi delle sale più capienti) il classico
lungometraggio (e un po' anche il cortometraggio) di finzione, e relegando nella sala
piccola (la sala Volpi) e in qualche convegno collaterale i timidi sguardi a certe
periferie sintomatiche di un altrove del cinema.
Se per quanto riguarda il cinema internazionale ci si trova di fronte a
un panorama inevitabilmente parziale ma comunque rappresentativo; per quanto riguarda
quello italiano si può ricavare da Venezia un bilancio abbastanza esaustivo almeno per i
lungometraggi di finzione, specie se li si somma a quelli della passata stagione.
I film italiani
Non sono fra quelli (praticamente tutti) che hanno gridato al
disastro nei confronti del nostro cinema. Questione di gusti, come sempre. Mi sono
piaciuti tra i lungometraggi di finzione Appassionate di Tonino De Bernardi, Guardami
di Davide Ferrario, Questo è il giardino di Giovanni Davide Maderna, Libero
Burro di Sergio Castellitto; tra le nonfiction Enzo, domani a Palermo! di
Daniele Ciprì e Franco Maresco, Conversazione italiana di Fiorella Infascelli (e
Alberto Arbasino), Il denaro di Ermanno Olmi (e la sua scuola Ipotesi Cinema). Non
è poco.
Certo, il valore di queste opere era inquinato dalla presenza di Autunno
di Nina di Majo, Come te nessuno mai di Gabriele Muccino, Non con un bang
di Mariano Lamberti, The Protagonists di Luca Guadagnino, Tìpota,
corto-medio di Fabrizio Bentivoglio (tutte opere prime), A domani di Gianni Zanasi
(opera seconda), Un uomo perbene di Maurizio Zaccaro. Non riuscito ma apprezzabile
per i rischi che sa correre, quindi non confondibile con i film precedenti, mi è infine
sembrato Il dolce rumore della vita di Giuseppe Bertolucci.

Se leggesse la rassegna stampa, il lettore ne ricaverebbe l'impressione
opposta. I migliori film (all'interno comunque di un discorso di delusione complessiva)
sono apparsi ai più Autunno, Come te nessuno mai e Il dolce rumore della
vita; per A domani c'è stata molta più indulgenza che per Appassionate
(erano i due film in concorso); Guardami, come peraltro Un uomo perbene,
sono stati ampiamente discussi ma per motivi esterni, la pornografia nel primo caso, la
politica nel secondo; Questo è il giardino e Libero Burro, aldilà del loro
essere produttivamente ed esteticamente agli antipodi, sono stati distrattamente
considerati, e deve aver spiazzato il premio (ufficiale) opera prima vinto da Maderna.
Come è possibile, ci si chiederà, una simile divergenza di giudizi?
Perché, io credo, la maggioranza della critica italiana si sente investita,
nell'occasione veneziana più che nella pratica quotidiana, dal dovere di indicare un
modello per rigenerare l'agonia del nostro cinema, identificato in un mix di
spettacolarità, comprensibilità, coerenza narrativa, recitazione corretta e, perché no,
autorialità però non troppo esibita. La critica esige cioè un cinema normalizzato e
perbenista, per nostalgia di come si faceva cinema da noi una volta (la commedia o il
dramma, non Rossellini, Pasolini o Ferreri) o di come si è sempre continuato a fare a
Hollywood: film da pubblico ma non volgari, soprattutto film non troppo intellettuali, non
troppo marcati dallo stile dell'autore, non troppo emotivamente eccessivi, non
"troppo" comunque.
A Venezia, però, questi diktat della critica hanno potuto
rispecchiarsi in esempi minori: non c'erano i Benigni, i Tornatore, i Salvatores, e
neppure i Luchetti, i Risi (Marco), i Tognazzi (Ricky), i Virzì (a lui più che a
Moretti, come pure si è detto, tende Autunno). Il film di Bertolucci, che non è
certo perbenista, è stato invece apprezzato secondo me solo per contrasto; fosse apparso
fuori da un contesto festivaliero, come il precedente e assai superiore Troppo sole,
sarebbe stato ignorato o stroncato.
E' più curioso che siano stati sottovalutati Ferrario e Castellitto i
quali, come Moretti, come Martone, come a volte Alessandro Benvenuti (naturalmente tutti
in maniera e con stili assai diversi), sembrerebbero rispondere a quelle esigenze di
conformità della critica. Essi cercano di pensare e lavorare "nel sistema"
coniugando comunicazione e soggettività; senza nascondere la difficoltà dell'impresa,
anzi - è il caso soprattutto di Ferrario - ponendola al centro della propria ricerca;
attirano lo spettatore (riflettendo sui generi, servendosi di attori di richiamo,
"parlando chiaro") per poi rivolgersi a lui non come a un anonimo membro del
pubblico o peggio dell'audience ma come a un individuo capace di pensare e di sentire per
dirgli col cinema, fraternamente, qualcosa di sé e del mondo.
Intendiamoci, non è che Ferrario e Castellitto si servano della
pornografia o del crime movie come specchietto per le allodole. Questi sono, nei loro
film, universi mentali e insieme realtà quotidiane, fanno parte della nostra fantasia
come delle nostre esperienze sociali. Lo sguardo particolare - il punto di vista
soggettivo - con cui pornografia e criminalità urbana sono mostrate investe realtà forti
che coinvolgono lo spettatore oggettivamente, anche al di fuori del cinema; donde il
rischio che entrambi hanno il coraggio di correre. Ad altri autori, più
"sperimentali", si potrebbe forse rimproverare di porsi troppo aprioristicamente
ai margini, di sussurrare cose che meritano di essere dichiarate con energia; non a
Ferrario o a Castellitto.
Guardami è a mia memoria il primo film, non solo italiano, a
iscrivere non isolatamente ma strutturalmente scene hard senza cadere nel porno di genere.
In questo senso segna anche una data nella lenta evoluzione del cinema, arte che ha sempre
avuto il corpo umano al proprio centro, almeno nella fiction, verso il disvelamento di
tale corpo; è il punto di arrivo di una appropriazione espressiva che ha i suoi
antecedenti recenti in opere come L'impero dei sensi di Nagisa Oshima e Romance
di Catherine Breillat, nonché fra gli italiani, più per il tipo di sguardo che per il
vero e proprio hard, Il corpo dell'anima di Piscicelli.
Se ciò dovrebbe assicurare al film un fuorviante succès de
scandale, consente anche allo spettatore di "guardare" confrontandosi
produttivamente con le proprie ipocrisie, i propri sensi di colpa, il proprio inconscio.
Lo sguardo di Ferrario è, se non freddo, distanziato, o meglio alla giusta distanza, né
voyeuristico né clinico, e tantomeno moralistico; ma morale sì. L'innesto di elementi di
un altro genere canonico, il melodramma, rivela, col contrasto che ne deriva, la tensione
che attraversa il film, alla quale lo spettatore può reagire o con un riso di rimozione
(è capitato ai più) o con una emozionante adesione.
Libero Burro scompone le convenzioni del film di genere a forza
di invenzione, spiazzando le attese del pubblico, lavorando, anche nella scelta degli
attori, sulle dissonanze, sulla sorpresa, sulla parodia; e ricompone un universo variegato
che supera il latente bozzettismo promuovendolo a catalogo, un po' folle, di caratteri.
Anche Bertolucci lavora sui generi, in questo caso esaltando il
sostrato psicoanalitico che alimenta le convenzioni del melodramma famigliare. Lo stile è
acceso, come è spesso ma non sempre sua consuetudine. Se dico che il film non è riuscito
è perché psicoanalisi e melodramma, visualizzazione espressionistica dell'inconscio e
accettazione passiva di dialoghi e situazioni banali, restano su piani separati, come due
strade che non convergono. E' vero che il melodramma autentico sa trasfigurare il cliché
in archetipo, ma qui il mistero e l'ambiguità che emergono fruttuosamente a momenti (la
scena con la vera madre, Rosalinda Celentano) vengono il più delle volte - per eccessiva
volontà di chiarezza? - annullati o congelati da spiegazioni ridondanti. L'enigma è
risolto e la poesia si dissolve. Resta un film travagliato, dissociato, sdoppiato (e
ossessionato anche stilisticamente dal motivo del doppio e dello specchio), e però
lontano dal "dolce" rumore della vita.

Questo è il giardino è un tipico film "sussurrato",
altri diranno minimalista. Lo è anche tecnicamente: girato in video digitale e poi
gonfiato in un 35mm slavato; povero, quindi. Ma, appunto, la povertà è diventata per
molti autori esigenti non solo una costrizione economica ma anche una necessità etica, di
fronte ai miti del professionismo e del denaro. Forse bressoniano nelle intenzioni ma
olmiano (il primo Olmi) nei risultati, il film è tematicamente solo in apparenza
"piccolo". "Nella Bibbia ci sono quattro giardini, tutti riferiti all'amore
fra uomo e donna, ma con sfumature molto diverse: l'innocenza, la passione, la separazione
e il ricongiungimento
Sono le tappe essenziali della storia narrata in questo
film", dichiara Maderna. Il film, dice ancora, è "la rappresentazione di un
mondo interiore". Lo è a mio avviso nel senso che la rigorosa
"registrazione" di una realtà anche visivamente smorta, di personaggi senza
sostanza in un contesto senza ideali, è illuminata da una ostinata tensione dello
sguardo, da un senso della durata mai condizionato dai dettagli del racconto, come se
un'anima governasse quei pallidi corpi incoscienti, suggerendo l'imminenza di una grazia
che non riesce però ancora a manifestarsi.
Si percepisce un'aspirazione religiosa in questo film, che lo apparenta
ad altri film attratti da temi spirituali, come Piccoli orrori di De Bernardi, Voci
nel tempo di Piavoli, Pianese Nunzio 14 anni a maggio di Capuano, La ballata
dei lavavetri di Del Monte, Fuori dal mondo di Piccioni, per non parlare della
sacralità pasoliniana di Ciprì & Maresco: una tendenza sommersa del nostro cinema
recente.
Appassionate è il primo film di Tonino De Bernardi prodotto in
condizioni normali; non per questo il suo sperimentalismo risulta
"normalizzato". Si può solo dire che la fiducia della produttrice Donatella
Palermo, che si accompagna a quella mai smentita dei collaboratori-amici, ha consentito a
De Bernardi, sollecitandolo a un confronto anche economico con l'"esterno", di
superare le impasse che a volte minacciano altri suoi film recenti. Posso sforzarmi di
capire lo sconcerto che il suo modo originale di fare cinema ha prodotto nella maggior
parte dei critici, costretti dall'inserzione del film in concorso a confrontarsi con un
autore a loro pressoché ignoto, dato che non dico i suoi 8 e Super8mm degli anni '60, '70
e primi '80, ma nemmeno il 16mm televisivo Elettra (1987), il video lungo Viaggio
a Sodoma (1988), il 35mm Piccoli orrori (1994) - le opere che più amo - hanno
mai sollecitato in quei critici un minimo di curiosità, che invece pochi italiani e
alcuni festival stranieri hanno nel tempo saputo dimostrare.
Ciò non giustifica la prevenzione della stampa, manifestata ancor
prima che la mostra cominciasse, e puntualmente confermata dalle recensioni, con vertici
non tanto di ottusità quanto di volgarità, che purtroppo non mi sorprendono più.
Barbera ha fatto una scelta coraggiosa (come del resto i suoi predecessori: Laudadio con
Gaudino, Biraghi con Agosti o Chiarini con Bene); i quotidianisti che hanno stroncato il
film hanno confermato di non ammettere intrusi nel loro seminato, quello di un surrogato
pubblicitario dell'industria del cinema.
Appassionate parte dal cliché per raggiungere l'archetipo,
coglie nel quotidiano della strada le tracce del mito, attinge alla cultura popolare per
riscoprirvi le fonti di una cultura alta, che va dalla tragedia greca al barocco
meridionale. Quanto al cinema, il film rimanda anche senza volerlo a Rossellini, a
Pasolini, a Ferreri, a Bene, a Huillet-Straub, trova fratelli in Gaudino, Corsicato e
Ciprì & Maresco, e risponde da opposto versante al Resnais di Parole, parole,
parole. Si percepisce il travaglio creativo tipico degli sperimentalisti, ma ciò che
sorprende e entusiasma è la gioia, la vitalità, l'intensità emotiva che emerge da tale
travaglio.
Appassionate è un film che viene dopo l'avanguardia. La
frantumazione delle storie non è frantumazione dello sguardo; essa compone un polittico
armonico, "musicale" anche aldilà della musica, pure abbondante. Passando dai
"piccoli orrori" alle grandi passioni del repertorio napoletano, De Bernardi
fornisce anche una risposta in positivo a un cinema di incessanti domande, indica una via
a quel cinema italiano minorizzato e marginalizzato di cui fa parte, dove l'esigenza
morale di uno stile contro il rumore omologante del cinema medio si accompagna spesso allo
svelamento (inevitabile?) di una "malattia" dello stile: disagio di un'arte
sotto assedio, che reagisce investendo troppe energie per difendersi e resistere e troppo
poche per contrastare e proporre. Rossellini criticava un cinema del "lamento" e
un cinema dove il "come dire" prendeva il sopravvento sul "cosa dire".
Forse Appassionate (ma anche Guardami) è il segnale di un possibile
superamento della "faticosa esperienza della scrittura", di un'apertura a un
cinema di risposte.
Sul fronte della nonfiction - genere da noi eminentemente minorizzato -
sono positivi gli esiti sia di una produzione indipendente come Enzo, domani a Palermo
di Ciprì & Maresco, sia di una produzione RAI come Conversazione italiana di
Fiorella Infascelli. Il primo è un esilarante video su Enzo Umberto Castagna, popolare
capocomparse e organizzatore cinematografico palermitano, ripreso sia prima che durante la
sua condanna agli arresti domiciliari per questioni di mafia. Non vi si ritrovano gli
inconfondibili stilemi dei due autori, sostituiti da un'agile e tonificante parodia del
film-inchiesta, che diventa autoparodia quando Maresco dal fuori campo intervista
Castagna, "con la sua parlata alla Totò (
) uno sceneggiatore nato, il più
originale e divertente dei cinefili, uno che racconta fatti e persone come pochi: insomma
(
) per noi, uno Zavattini siciliano!"
Il video della Infascelli fa parte della serie "Risvegli"
che, come la precedente "Alfabeto italiano" (presentata a Venezia l'anno scorso
e alla quale aveva contribuito col bel Italiani), propone a registi di cinema di
assemblare a tema il materiale di repertorio della RAI. Della stessa serie si è potuto
vedere anche Il denaro di Olmi & Co., ma in una copia lavoro della sola seconda
parte, che comunque fa ben sperare. E' il genere che gli anglofoni chiamano compilation
film, ovvero "film di montaggio", e che da noi abbonda in tv, di solito
mortificato da una voce fuori campo radiofonica che annulla il valore delle immagini e dei
suoni originali.
La Infascelli (che credo prenda a modello lo splendido In cerca
della poesia di Giuseppe Bertolucci, della serie "Alfabeto italiano") ci
riporta con sensibilità all'epoca, gli anni '50 e '60, quando la comunità degli
scrittori - si va da Calvino a Moravia, dalla Morante a Gadda, da Saba a Pasolini, da
Ungaretti a Montale - era davvero una comunità di fratelli, che conversava, anche se
ripresa dalla tv, come si fa tra amici, senza essere ossessionata dall'esibizione
mediatica. Le aggiunte su romanzieri e poeti di oggi, girate ex novo a colori, cercano di
ritrovare quel modo semplice e diretto di porgere la parola, di passeggiare, a cui
purtroppo non siamo più abituati.
Per concludere questo bilancio sul cinema italiano, si esce da Venezia
ottimisti per gli autori e le opere, pessimisti per la critica e i media che dovrebbero
sostenerli. Il problema è che la creatività si manifesta spesso nel "piccolo"
cinema, emarginato a priori dall'ideologia pubblicitaria e filoindustriale della critica;
e quando la creatività incontra lo spettatore, ecco la critica pronta a invocare i
diritti del pubblico medio, a denunciare gli "eccessi", a esigere il ritorno
all'ordine.
Il cinema italiano è vivo. Lo confermano diversi film della passata
stagione: Giro di lune tra terra e mare di Gaudino (fatto uscire un anno dopo il
suo esordio a Venezia '97 amputato dal distributore di quasi mezz'ora), Così ridevano
di Amelio, Del perduto amore di Placido, L'odore della notte di Caligari, La
ballata dei lavavetri di Del Monte, Il corpo dell'anima di Piscicelli, Fuori
dal mondo di Piccioni (l'unico non mortificato dal box office); e anche, fra quelli
non ancora usciti nelle sale, la bizzarra commedia Rose e pistole di Carla Apuzzo, I
lupi dentro, straordinario saggio documentario di tre ore sui pittori naïf della
bassa padana, ma anche sul conflitto fra primitivo e moderno, del veterano
cortometraggista Raffaele Andreassi, il compilation film creativo Su tutte le
vette è pace di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, presentato alla
Cinémathèque Française che ha reso omaggio alla loro opera, nonché uno dei capolavori
degli "italianizzati" Danièle Huillet e Jean-Marie Straub, Sicilia (da Conversazione
in Sicilia di Vittorini), che solo la nostra critica ignora (il film era a Cannes), e
che a Venezia era indirettamente presente col "making of" in video La musica
siete voi, amici! del tedesco Andreas Teuchert.
In tutti questi film si percepisce produttivamente la ventata di
novità delle nouvelle vague degli anni '60 e dei loro prolungamenti odierni. Ma la
critica non vuole questo cinema, rema contro, vagheggia l'esperanto europeo-televisivo
quando non i miti presenti dell'efficienza hollywoodiana o quelli passati della commedia
all'italiana. In ogni caso: miseria.
Per il panorama del cinema internazionale a Venezia '99,
appuntamento al prossimo numero di "Caffè Europa"!
Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti da fare? Scriveteci il
vostro punto di vista cliccando qui
Archivio Cinema
|