Recensione/Fuori dal mondo Paola Casella
Fuori dal mondo, diretto da Giuseppe Piccioni, con Margherita Buy, Silvio Orlando,
Giuliana Lojodice
Meno male che Fuori dal mondo è ritornato nelle sale cinematografiche,
sull'onda del successo ottenuto alla cerimonia dei David di Donatello, dove ha conquistato
cinque premi, fra i quali miglior film, migliore interprete femminile (Margherita Buy) e
miglior sceneggiatura (Gualtiero Rosella e Lucia Zei, oltre al regista, Giuseppe
Piccioni). In questo modo i tanti che si erano persi questo piccolo, delicatissimo film
tutto italiano possono andarselo a ripescare, in un momento in cui l'offerta
cinematografica è assai scarsa e la sindrome da saracinesca selvaggia colpisce anche i
circuiti cinematografici.
Fuori dal mondo è il classico film che in America non vedrebbe mai la
luce (anche se il produttore, Lionello Cerri -- altro David -- sta già trattando con le
case di distribuzione statunitensi per un'eventuale uscita oltreoceano). E' troppo
sottotono (understated, direbbero in America), troppo artigianale, troppo
programmaticamente contrario a sfornare immagini patinate, di impatto immediato e di
grande effetto. Eppure, cosa rara per un film italiano contempoaneo, understatement non
significa minimalismo riduttivo, l'artigianalità non è una scusa per mascherare carenze
professionali, e la scelta di narrare la vicenda in modo graduale, penetrando sottopelle
invece che a livello cornea, è, appunto, una scelta stilistica ben precisa, motivata
dalla natura stessa della storia e funzionale alla composizione psicologica dei
personaggi.
La trama è nota: una novizia, Caterina (Margherita Buy), trova un
neonato abbandonato nel parco e se ne fa carico, al punto da iniziare personalmente la
ricerca della madre del bambino. Lungo il percorso si imbatte in Ernesto (Silvio Orlando),
il proprietario di una lavanderia, altrettanto fuori dal mondo di lei, in quanto
altrettanto marginale rispetto all'altrui esistenza. Fra i due si instaura un rapporto
fatto di complicità e di mutua dipendenza, basato soprattutto sulla comune percezione di
"non c'entrare" nella vicenda che li ha coinvolti loro malgrado, per non dire
nella propria vita.

Fuori dal mondo narra la storia di due solitudini urbane che si
incontrano, e per certi versi ricorda altri due recenti film che hanno espresso il bisogno
di raccontare la realtà italiana in modo attuale -- lontano cioè dagli archetipi del
dopoguerra, dei bambini, delle biciclette, o, peggio, dei carretti siciliani, la femmina
mediterranea e il giullare etnico: L'aria serena dell'Ovest di Silvio Soldini nelle
atmosfere mitteleuropee di una Milano piena di stranieri e vuota di contatti umani, e
Ovosodo di Paolo Virzì nella struttura circolare della vicenda, un giro di valzer di
destini ineluttabili messo in scena non con drammatico fatalismo "napoletano" ma
con amaro realismo "nordico".
A ben guardare, la preoccupazione principale dei due protagonisti di
Fuori dal mondo, e dei molti personaggi di contorno, è quella dell'invisibilità, più
ancora che quella della solitudine: non essere nessuno per nessuno, perchè siamo qualcuno
solo in quanto "abbiamo qualcuno che ci aspetta" -- cioè che ci riconosce. Non
a caso le prime parole del film, in voiceover, un monito della madre superiore di Caterina
a "non essere appariscente", suonano invece come un invito a scomparire.
Grande importanza ricoprono perciò nel film le divise di cui ognuno si
dota -- l'abito da suora, il completo inamidato del proprietario di lavanderia, l'uniforme
del poliziotto Ma Caterina è troppo orgogliosa per accontentarsi di essere una divisa
senza nome (infatti si fa subito portavoce della protesta delle dipendenti della
lavanderia, che lamentano che Ernesto "non sa nemmeno come si chiamano"), un
"chiunque" cui non si sa come rivolgersi ("madre"?
"sorella"?). Ed Ernesto trasforma il proprio senso di invisibilità esistenziale
in malattie che attirano l'attenzione degli altri: ipocondria, ipertensione, attacchi di
panico ("ma nessuno si accorge che sto male?")

Grande importanza ha anche la condizione in cui vengono tenute le
divise -- "trascurata" piuttosto che azzimata -- e il rapporto fra sporcizia e
pulizia, anche nel look del film: i protagonisti, apparentemente candidi, si muovono in un
contesto "fangoso" che prefigura il pantano morale nel quale si dibattono
(ottima la fotografia "sudicia" di Luca Bigazzi, uno dei grandi tecnici del
cinema italiano). L'ostinazione con la quale entrambi i personaggi si ostinano a
"fare le cose con cura" è inversamente proporzionale all'effettiva misura di
controllo che esercitano sulle proprie vite.
La sceneggiatura è una costruzione apparentemente evanescente e invece
densa, ben congegnata, convincente. Alcune battute contengono da sole un'intera
caratterizzazione. Un esempio? Caterina alla madre: "Ho scelto di stare vicina a
Dio" La madre (una strepitosa Giuliana Lojodice): "C'è sempre stato qualcheduno
più importante di tua madre" A metà strada ti accorgi che questa storia di suore e
travet ti ha preso come un thriller di cassetta, e non sai bene perchè, visto che i
protagonisti continuano ad essere poco attraenti (perchè privi di trucco e volutamente
male illuminati), i colpi di scena inesistenti, i tempi dilatati, la narrazione laconica.
Fuori dal mondo è il film migliore di Giuseppe Piccioni perchè prende
tutte le caratteristiche -- compresi i difetti -- del regista e le eleva a un rango
superiore. Si sente ancora la mano che stava dietro a Il Grande Blek, Chiedi la luna e
Cuori al verde -- piccoli film senza ambizioni, gradevoli parabole senza mordente -- ma
adesso è una mano sicura, senza incertezze stilistihe e narrative, con il coraggio delle
sue convinzioni (e ambizioni, artistiche e professionali). Così Fuori dal mondo raggiunge
profondità inaspettate e alchimie artistiche che coinvolgono senza soluzione di
continuità recitazione, fotografia, sceneggiatura, musica. Persino ciò che potrebbe
apparire esageratamente naif -- le foto di gruppo, che ricompongono le diverse solitudini
-- si rivela indispensabile alla trama, quando i cerchio si chiude.
In Fuori dal mondo finalmente Piccioni osa, con la sicurezza di
un'acquisita maturità professionale (da buon artigiano) e artistica, arrivando a
realizzare per se stesso il suo credo (o leit motif) cinematografico secondo il quale la
cioccolata va mangiata per prima, perchè ci piace, e perchè non è affatto detto che
debba farci male.
Vi e' piaciuto questo articolo?
Avete dei commenti da fare? Scriveteci il vostro punto di vista cliccando qui
Archivio Cinema
|