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Recensione/Terapia e pallottole

Paola Casella

 

Terapia e pallottole, di Harold Ramis, con Robert De Niro, Billy Crystal, Lisa Kudrow, Chazz Palminteri, Joe Viterelli

Terapia e pallottole e' la dimostrazione di come si possa mettere a frutto uno stereotipo cinematografico ben consolidato nella mente del pubblico per trasformarlo in uno spunto comico di sicuro effetto, tanto estremo nella sua dimensione parodistica da non risultare (quasi) nemmeno piu' offensivo. Lo stereotipo e' quello del mafioso italoamericano, del quale tutti abbiamo internalizzato le caratteristiche cinematografiche fin dai tempi di Scarface, passando per la saga del Padrino e approdando a film recentissimi come Fratelli di Abel Ferrara. Il mafioso, e in generale l'italoamericano del grande schermo yankee, e' rozzo e ignorante, pacchiano e malvestito, collerico e violento, emotivo e irrazionale, omofobico e sciovinista.

La caratterizzazione del mafioso in Terapia e pallottole e' particolarmente efficace perche' non e' inserita in un contesto universalmente parodistico -- come nel caso del recente Mafia! -- ma e' contrapposta a una caratterizzazione (quasi) "normale", nonostante anch'essa ben inquadrata nella sua dimensione etnica: quella dello psicanalista ebreo.

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Ecco la trama: il boss della mafia newyorkese Paul Vitti (Robert De Niro) entra in crisi depressiva e decide di chiedere aiuto al primo psicanalista in cui si imbatte, il dottor Ben Sobol (Billy Crystal). La premessa e' di per se umoristica: e' (cinematograficamente) noto infatti che gli italoamericani (non solo mafiosi) considerano la malattia mentale come una forma di debolezza caratteriale, per cui il fatto che un boss debba rivolgersi a uno strizzacervelli costituisce di per se' un paradosso irresistibile.

Il contrasto fra i due "caratteri" fa il resto: laddove Vitti e' "latinamente" determinato e irascibile Sobol e' "ebraicamente" mite e remissivo. Vitti "ingaggia" Sobol non gia' attraverso un cospicuo compenso ma attraverso l'intimidazione verbale e la minaccia fisica e l'approccio del boss alla terapia e' a dir poco conflittuale, non solo perche' l'autocoscienza non fa parte del suo personaggio, ma anche perche' Vitti teme di scoprire lati della sua personalita' irreconciliabili con il suo ruolo e la sua visione di se': "Io omosessuale, tu morto", sintetizza (nel suo modo di esprimersi "italianamente" primitivo e sgrammaticato).

La sceneggiatura e' tuttavia abbastanza scaltra da fare di Sobol il modello di identificazione per lo spettatore ma anche un personaggio pieno di umane debolezze, che riguardano soprattutto la sfera professionale: per uno psicanalista, e' imbarazzante avere un rapporto conflittuale con il padre e un dialogo inesistente col figlio, un ragazzino obeso che ha trovato in Internet un efficace spartiacque fra se' e il genitore. C'e' poi la fidanzata di Ben, Laura (Lisa Kudrow, quella del serial televisivo Friends), preoccupata dall legame virile che si instaura tra mafioso e analista: il sensitive male Sobol ammira infatti il macho Vitti, le cui defaillance sessuali (uno dei motivi principali del suo ricorso alla psicanalisi) sono l'eccezione, non la regola.

Questa stratificazione drammatica dei comprimari elude completamente i personaggi minori, in particolare i mafiosi di contorno. La guardia del corpo di Vitti, Jelly (Paul Viterelli), e' puro Hollywood Italian, fin dall'aspetto fisico: basso, tarchiato, con collo alla Pappalardo e abbondanti cicatrici facciali. Jelly e' una lista della spesa di cio' che fa mafioso al cinema, in primis la stupidita', in questo caso accompagnata da una disarmante rassegnazione: "Ma ti devo sempre spiegare tutto?", gli dice Vitti. "Risparmieresti tempo", risponde Jelly, che definisce lo psicanalista Sobol "lo psichico".

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Altrettanto ignorante, nonostante non sia un tirapiedi, e' il boss rivale Primo (Chazz Palminteri, nell'ennesima caricatura della propria italianita'), il quale, dopo una conversazione con Vitti a proposito della sua terapia analitica, intima a un sottoposto: "Piglia subito un dizionario e scopri cosa vuol dire transfert". "Io ho a che fare con gli animali", osservera' Vitti a proposito dei suoi compari. "Sembrano tonti, ma hanno un istinto". Malgrado Jelly, con la saggezza del vecchio guerriero, osservi a proposito della mafia che "qua sta cambiando tutto e noi dobbiamo cambiare coi tempi", i mafiosi di Hollywood non cambiano mai e, di film in film, rafforzano la loro immagine stereotipata.

E' al momento di menar le mani che tanto Jelly quanto Primo incontrano in pieno le aspettative del pubblico: violenti oltre il necessario, belluini nella loro collera sanguinaria, ansiosi di sporcarsi le mani. In questa circostanza, i mafiosi del grande schermo, persino nel contesto della parodia, passano istantanemante dal ridicolo all'ammirevole agli occhi degli spettatori americani, tradizionalmente estimatore della violenza cinematografica. E' sintomatico quindi che il primo segno "pubblico" di cedimento psicologico di Vitti sia la sua improvvisa incapacita' di applicare violenza diretta sui nemici.

Gli ambienti e i contesti classici tipicamente legati alla mafia non fanno che rafforzare la premessa iconografica del film: il ristorante di Little Italy (la scena della sparatoria ricalca esattamente quella di Scarface al Club Columbus), la villa del boss nei sobborghi (dove stanno rintanati la moglie e i figli di Vitti), il funerale di mafia (dove tutti si baciano ripetutamente), il matrimonio (in realta' quello fra lo psicanalista e la sua fidanzata: ma Vitti dara' il suo tocco di "italianita'" regalando alla coppia una gigantesca e orribile fontana di marmo "da mettere in giardino". Non a caso Laura intima a Ben: "Niente invitati dal collo taurino!").

Terapia e pallottole funziona benissimo come commedia proprio perche' rispetta la regola numero uno del cinema americano: articolare il copione secondo lo schema del set up e del pay off, cioe' prima alzando la palla (ovvero preparando la premessa comica, detta set up) e poi assestare la schiacciata (pay off, perche' e' la schiacciata che cinematograficamente "paga") . Tuttavia, poiche' gli stereotipi italoamericani che costituiscono il set up (e occupano quasi tutto il primo tempo del film) sono gia' ampiamente internalizzati dal pubblico, il pay off diventa in qualche modo ridondante. Cosi' il secondo tempo del film appare superfluo e scontato, perche' cerca di trasformare in narrazione quella che invece e' una semplice collezione di gag visive basate sulla memoria cinematografica degli spettatori riguardo a un gruppo etnico ben definito (alla faccia della politica correctness).

A ben guardare, il secondo tempo conterrebbe invece un sottotesto interessante: la crisi di Vitti trova le sue radici nell'eredita' socioculturale tramandata dal padre, il quale lo nutre con "latte nero". Per spezzare la catena di violenza (ma anche per disfarsi del retaggio paterno, che e' anche etnico) Vitti deve rivolgersi a qualcuno estraneo al suo ambiente (la moglie italoamericana del boss, ad esempio, sembra non avere nulla in contrario alla professione del marito).

E' uno schema identico a quello di un'altra parodia sulla mafia italoamericana, quel Cadaveri e compari firmato da Brian De Palma che vedeva protagonisti due amici, uno italoamericano e l'altro ebreo, disposti per affetto reciproco a superare il vincolo della lealta' alla Famiglia per entrare a far parte della famiglia umana. Anche la redenzione di Paul Vitti in Terapia e pallottole passa attraverso il legame di amicizia con Ben Sobol: "Io non ti ho tradito", dira' infatti l'ebreo all'italoamericano, nella scena clou del film.

Ma questa e' sociologia da salotto. Sarebbe stato meglio se Terapia e pallottole si fosse limitato a farci ridere, perche', almeno durante il primo tempo, lo fa benissimo.

 

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