Cinema/Il colore della menzogna Paola Casella
Il colore della menzogna, di Claude Chabrol, con Sandrine Bonnaire,
Valeria Bruni Tedeschi, Jacques Gamblin, Antoine De Caunes
Il colore della menzogna e' un film di genere che non si vergogna di
essere tale, e nello stesso tempo riesce a diventare molto di piu'. Il genere e' il
giallo, anzi, il giallo di provincia, e la provincia e' quella francese, lungo le coste
della Bretagna: come richiede il genere, il paesaggio diventa uno dei protagonisti. E'
stato lo stesso per il Minnesota di Fargo -- il giallo della storia cinematografica
recente che Il colore della menzogna ricorda piu' da vicino -- ma anche, per fare un
esempio minimo, la Parma di Giallo Parma.
Nel colore della menzogna i canoni del genere vengono rigorosamente
rispettati: c'e' un delitto, anzi due, c'e' un piccolo gruppo di sospetti, c'e' una
poliziotta "forestiera" incaricata di fare luce sulla faccenda, ci sono le
macchiette locali -- l'aiuto del commissario, che pensa soprattutto a mangiare, la
vecchietta ficcanaso. E ci sono gli indizi, tanti, piccoli e grandi, disseminati lungo
tutto il percorso come i sassi di Pollicino. Alcuni sono importanti, altri fuorvianti,
come di prammatica. Ma la mano di Chabrol si vede nella distribuzione di dettagli inutili:
ad esempio il vasetto della marmellata, che compare in molte scene, come se dovesse avere
un significato, e invece non ne ha nessuno -- lo scopriremo quando, verso la fine, l'aiuto
commissario, senza porsi troppe domande, se lo mangia.

Perche', al contrario del giallo di routine, Il colore della menzogna
cerca un colpevole, ma non un senso al crimine, e nemmeno al concatenarsi delle vicende --
come dire, alla vita. E questo nonostante la falsariga delitto-caccia al
colpevole-soluzione venga seguita alla lettera, e nonostante la sceneggiatura sia un
perfetto gioco di incastri, di echi, di rimandi, in cui ogni evento e' legato ai
precedenti. Il rispetto formale delle regole non vale a spiegare il gioco, e infatti, a
ben guardare, il vero predecessore di Il colore della menzogna e' quella Regola del gioco
di Jean Renoir che riflette con la massima fedelta' la struttura caleidoscopica della
vita.
Cio' che interessa veramente Chabrol, come succedeva a Renoir, e' il
gioco di relazione fra i personaggi, in particolare il triangolo fra i protagonisti: Rene'
(Jacques Gamblin), Viviane (Sandrine Bonnaire) e Germain (Antoine De Caunes). Rene' e
Viviane, marito e moglie, sono la classica coppia infermo-infermiera: lui e' un pittore
che non espone piu' da quando e' stato ferito per essersi trovato "nel posto
sbagliato al momento sbagliato"; lei e' la buona samaritana che l'ha salvato e che
continua ad accudirlo con devozione ippocratica, malgrado siano trascorsi ormai piu' di
dieci anni dall'incidente.
Chabrol, pur rendendolo inequivocabile, non svilisce questo tipo di
legame, per arricchirlo invece di dettagli che lo fanno apparire valido invece che
tossico: ad esempio Rene', pur nella sua totale dipendenza da Viviane, non pecca
dell'egoismo tipico dei malati e, al momento buono, sa tirar fuori la forza interiore
necessaria a contrastare l'improvvisa debolezza della moglie. Lei, dal canto suo, e'
protettiva senza diventare ricattatoria, e ha abbastanza buon senso da assecondare i suoi
istinti vitali quando la dipendenza di Rene' sta per diventare insostenibile.
"Ce ne sono volute di coincidenze per incontrarci", dice
Viviane, ricordando i primi tempi della sua storia con Rene'. Ma, contrariamente al resto
del film, si ha l'impressione che il caso non abbia nulla a che vedere con la loro coppia,
solida nella sua complementarieta'. Chabrol e' talmente sottile da fornirci ulteriori
dettagli -- altri indizi rivelatori-- in proposito: lei non puo' avere figli, lui non ha
mai portato l'orologio.
Jacques Gamblin e' strepitoso nel tratteggiare il ritratto (e la
metafora pittorica e' particolarmente calzante) di un uomo psicologicamente fragile ma
dotato di un centro morale saldissimo, umorale ma concentrato sull'essenza delle cose,
dichiaratamente fallibile ma proprio per questo capace di comprensione delle debolezze
altrui. E soprattutto un artista condannato all'acuta consapevolezza di se stesso:
"Mi trovo in un tunnel senza luce e mi rendo conto di tutto".

Sandrine Bonnaire, dal canto suo, da' a Viviane una concretezza non
ottusa. Viviane e' positiva e pragmatica: se ha "bisogno di leggerezza" se la
procura, e poi, superata la fase di necessita', non esita a gettarsela alle spalle e a
riabbracciare la gravita' della vita, con lo stesso atteggiamento realista che adotta
quando pianta i fiori nel giardino, diversi a seconda della stagione e della possibilita'
di attecchire. Ma allo stesso tempo e' sensibile al talento del marito, e comprende a
fondo le sue angosce, anche se non le condivide.
Il terzo elemento del triangolo e' Germain, il giornalista e autore di
best seller superficiale e arrogante che si incunea all'interno della coppia in crisi --
per eccesso di "gravita'", appunto -- dicendo a Viviane, da vero esperto della
comunicazione, esattamente cio' che lei vuole sentirsi dire. In qualche modo, Germain
seduce anche a noi, non tanto perche' e' elegante e ben vestito, ma perche' avvertiamo in
lui la consapevolezza latente della propria tragedia: essere "fatto a immagine del
mondo", come afferma lui stesso.
Il confronto fra Rene e Germain e' diretto e inevitabile: malgrado
Viviane osservi che appartengono "allo stesso segno", intendendo quello
zodiacale, i due sono in realta' di segno diametralmente opposto. Il primo e' intenso,
profondo, uno che "non ha mai tradito nessuno" e che e' costituzionalmente
incapace di sottrarsi a se stesso; il secondo e' dispersivo, vacuo, inconsistente,
fisicamente incapace di "arrivare fino in fondo" e impegnato da una vita ad
evitare le proprie responsablita' (a cominciare da quella verso un figlio che non vede
mai).
Nonostante Germain sia l'uomo di successo -- nel lavoro e con le donne
-- Rene' non puo' invidiarlo perche' "ci vuole ammirazione per essere gelosi di
qualcuno". Come un cecchino della menzogna, Rene' coglie invece immancabilmente i
bluff di Germain, soprattutto quelli culturali. Laddove Germain ha un'opinione
preconfezionata su tutto, Rene' davanti alla semplice domanda "Ti piace?"
riflette a lungo e poi risponde: "Non saprei".
Chabrol tratteggia con mano sapiente (per conoscenza diretta?) la
figura del giornalista privo di una vera cultura e di una qualsiasi idea originale, ma
abilissimo nel rimbalzare informazioni e nel citare massime (o sputare sentenze).
Scopriremo pero' che l'apparentemente invulnerabile Germain e' in
realta' debole di cuore, e che, al contrario di Rene, che "cerca il vuoto"
perche' non ha paura di ritrovare il bandolo della sua matassa, Germain attutisce la
percezione di se stesso con il Prozac. Se lo sforzo di continua ricerca di Rene' e' un
istinto di sopravvivenza, quello di dissimulazione di Germain (per cui "la maschera
e' molto piu' rivelatrice del volto") e' autodistruttivo. Di qui il dialogo che
mostra anche il diverso approccio dei due personaggi all'arte -- Rene' da protagonista (in
grado di sovvertire qualunque banalita' in nome della verita' espressiva), Germain da mero
osservatore:
Germain: "Sa cosa diceva Pablo Picasso? Io non cerco, io
trovo"
Rene': "Per questo e' morto"
Dal confronto fra i due esce vincente Rene', anche se regista e
interprete non ci nascondono nessuno di quei tratti caratteriali che spingono Viviane tra
le braccia di Germain. "Come uno sta male tu ti identifichi", osserva Viviane,
che pure ha scelto di fare l'infermiera, commentando la compulsiva empatia di Rene', il
quale si accolla il peso del dolore del mondo costringendo chiunque gli stia vicino a
condividere il suo sforzo titanico.
Diventa quindi immediatamente comprensibile la diffidenza della
comunita' balneare nei confronti di un suo componente cosi' insopportabilmente intenso,
perche' un certo livello di onesta' profonda e' intollerabile quasi quanto la verita',
quella verita' la cui ricerca diventa l'ossessione della commissaria di polizia (Valeria
Bruni Tedeschi) troppo impegnata a restaurare l'ordine delle cose -- cioe' a "fare
solo il suo lavoro" -- per accorgersi che il suo primo sospetto e' in realta' fornito
del profilo psicologico meno riconducibile alla personalita' di un assassino.
A fronte di tutto questo testo e sottotesto, Il colore della menzogna
non dimentica di essere prima di tutto un prodotto di intrattenimento: per questo e'
esteticamente bellissimo, come un quadro impressionista en plein air (numerosi i paralleli
fra la vicenda e l'arte del protagonista, specializzato in trompe-l'oeil; bellissima la
scena in cui Rene dipinge e noi vediamo la sua faccia come un autoritratto di Van Gogh,
con gli occhi spiritati di chi e' sconvolto tanto dall'ispirazione quanto dalla propria
natura tormentata); e' referenziale all'interno del suo genere (la scena in barca, nella
nebbia, gioca sulla memoria cinematografica di Un posto al sole); la recitazione (di
tutti) e' impeccabile; la scenografia (che non e' solo arredamento) e' ricca di dettagli
che rispecchiano i personaggi e alimentano la trama; i costumi (perche' di costumi si
tratta, non semplicemente di vestiti) sono macchie di colore (vedi il rosa
"bambola" dei golfini della commissaria) all'interno di un film che fa del
colore (a cominciare dal titolo) un importante elemento narrativo.
Una sola preghiera a Chabrol: elimini l'ultimissima scena e,
soprattutto, l'ultimissima frase, un tonfo di retorica in un film che della retorica e'
l'antitesi.
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