Caffe' Europa
Attualita'



Cinema/La prima volta

Paola Casella

 

La prima volta, diretto da Massimo Martella, scritto da Sergio Consani e Luca De Bei su un soggetto di Antonio Avati e Fiorenzo Senese. Con Alessia Fugardi, Max Malatesta, Federico Zonetti, Claudia Botticelli

 

Avrebbe potuto rivelarsi un noioso esperimento accademico, o un documentario pedagogico di stampo televisivo. L'idea di base era infatti degna di Format: Fiorenzo Senese e Antonio Avati (che insieme a Pupi "presenta" il film), sono andati in giro per la periferia di Roma, registratore alla mano, fermando per strada decine di ragazzi sotto i vent'anni e facendosi raccontare la loro "prima volta". L'intento era quello di "trasporre sullo schermo sentimenti, emozioni e disavventure di fronte alla prima esperienza sessuale di adolescenti nati e cresciuti nella periferia della capitale", per dirla con le note di produzione del film. Un progetto, quindi, anzi, un "proggetto" con due g, di quelli "sociologgici" anni Settanta, nella misura in cui, cioe', al limite.

Invece La prima volta e' un ritratto acuto e commovente dei giovani anni Novanta, uno spaccato di vita rivelatore e "fresco", per usare un altro termine passato di moda (per mancanza di riscontri, piu' che per decadimento di efficacia linguistica). Soprattutto, La prima volta e' cinematograficamente riuscito, un prodotto di entertainment visivamente attraente e narrativamente scorrevole, malgrado (o forse proprio per) le ingenuita' registiche, l'artigianalita' dei mezzi, la laconicita' dei dialoghi. Un affresco a colori primari come quelli dei murales, fatto di immagini appena abbozzate come i graffiti metropolitani (infatti il poster del film raffigura due silhouette indistinte di ragazzi contro lo sfondo ben visibile di una carrozza del metro' coperta di graffiti).

La prima volta e' suddiviso (anzi, frammentato, come la realta' urbana) in sei episodi, ognuno interpretato da attori alla prima esperienza (tranne l'Alessia Fugardi del Grande cocomero e il Max Malatesta di Vuoti a perdere), alcuni dei quali sono in realta' i veri protagonisti della storia che interpretano, e che hanno raccontato a suo tempo ad Avati e Senese. Ogni episodio e' la storia di una prima volta, ma non si tratta sempre e solo della prima esperienza sessuale: ci sono anche la prima sniffata di coca, il primo lavoro, la prima fuga dalla quotidianita'.

Film01.jpg (29120 byte)

 Tutti gli episodi sono per certi versi interessanti, grazie alla primitivita' della recitazione, alla linearita' della trama, alla estrema semplicita' degli ambienti (da non confondersi con il minimalismo da tinello tanto caro ai nostri registi intellettuali -- quello della Prima Volta e' il tinello vero, si sente il rumore dei passi sul linoleum). I dialoghi sono poveri perche' il vocabolario giovanile e' obbiettivamente ridotto, ma non per questo sono privi di spunti; le espressioni romanesche suonano credibili, senza dare l'impressione di una ricostruzione artefatta del giovanilese, o peggio ancora della creazione ad hoc di un lingo (alla Gallo cedrone). Il montaggio e' veloce e, di nuovo, frammentario, a meta' fra il videoclip e l'home movie, con richiami al Johnatan Demme prima maniera (altro fan dei murales urbani), o al Kevin Smith di Clerks (cui gia' si ispirava Cresceranno i carciofi a Mimongo, il piccolo "caso" cinematografico romano di qualche stagione fa, che Avati & Company forse sperano di bissare) .

Alcuni episodi sono meno riusciti di altri. Il peggiore (troppo melodrammatico) e' quello dedicato a Norma, la ragazza senza genitori che finisce nell'inferno della droga: la bellezza della protagonista (Micaela Ramazzotti), a meta' fra Kim Basinger e Tuesday Weld, non basta a sollevare dalla banalita' una storia tante volte ripetuta sullo schermo. Gia' visto anche il triangolo fra fratelli dell'episodio dedicato a Federico, salvato in corner dalla (di nuovo) freschezza degli interpreti, soprattutto lo spassoso Costantino Meloni nei panni di Massimo, il fratello coatto (e qui il richiamo e' al Renato Salvatori dei poveri ma belli, perfettamente innocente nella sua rozzaggine proletaria), e Fulvia Lorenzetti in quelli di Simona, la ragazza divisa fra i due, il cui unico controllo sulle proprie circostanze passa attraverso una seduzione istintuale.

Altri episodi invece spezzano il cuore: il primo, ad esempio, che inizia con il monologo di una punk dai capelli gialli piu' simile ad un cyborg che a un'adolescente. La storia accennata dal suo voiceover vede protagonista Elena (l'intensa Alessia Fugardi), una specie di Cleopatra di periferia, che si sforza di conservare principi d'altri tempi e una pulizia anche esteriore a dispetto del degrado del suo habitat. Elena lavora in una jeanseria, riuscendo a rapportarsi tanto alla clientela sua coetanea, quanto al suo datore di lavoro, un adulto che la guarda con ostentato rispetto -- oltre che con libidine repressa. In questo specchio (benche' opaco) Elena vede riflessa un'immagine di se' piu' lusinghiera, una possibilita' di futuro. Ma la seduzione fra i due sara' portata a termine nel modo piu' riduttivo -- e ricattatorio -- dall'adulto, e lo shock trasformera' Cleopatra nel cyborg di cui sopra: una trasformazione agghiacciante, altro che il taglio di capelli di Jodie Foster in Sotto accusa, anche perche' presentata senza sottolineature drammatiche, come un dato di fatto, una partita chiusa.

Altrettanto struggente nella sua asciutta essenzialita' e' la storia d'amore impossibile fra l'aristocratica Lorena (Pilar Abella) e il punk Christian (Federico Zonetti, strepitoso per disarmante naturalezza), entrambi stranieri in patria, lei perche' sudamericana, lui perche' emarginato dal suo ambiente. La figura di Christian (chi sara' stato l'ispiratore del suo nome: De Sica, il cantante del Papa o un personaggio di Beautiful?) riassume in se' alcuni devastanti tratti della gioventu' periferica di oggi: ad esempio l'incapacita' di progettare (perche' e' inutile) o l'etica pragmatica che si accontenta di scegliere il minore dei mali (Christian ruba oggetti da una casa vuota, perche' "tanto non si accorgeranno della loro mancanza"), ma che non esclude un codice d'onore personale (non accetta regali dalla fidanzata ricca, a maggior ragione se sono tentativi di "dirozzarlo").

 

Quando, dopo la fuga d'amore, i genitori di Lorena verranno a riprendersi la figlia e faranno arrestare Christian, il ragazzo, invece di inveire o ribellarsi, osservera' pacatamente: "Ce semo", con un realismo prosaico che non e' nemmeno rassegnazione, ma accettazione profonda di un destino inevitabile, decretato prima di tutto dalle proprie circostanze. Nella memoria cinematografica, ricordo un solo esempio di dialogo cosi' sinteticamente efficace: in un film con Clint Eastwood, alla domanda "Come e' stata la tua giovinezza?", il cavaliere pallido rispondeva semplicemente: "Breve".

I protagonisti de La prima volta non hanno nessuna certezza e pochissime prospettive, e sono perfettamente coscienti dei limiti loro imposti dall'esterno. Eppure non si danno del tutto per vinti: la giovane coppia composta da Davide e Giovanna (Mauro Meconi e Silvia Barone), lui figlio di un alcolizzato, lei di una famiglia disfunzionale, sceglie comunque di sposarsi in modo tradizionale e addirittura di aspettare la notte di nozze per la prima volta; Sara (Claudia Botticelli), la ragazza imbranata innamorata del bello del quartiere (Manuel Scorcia), rifiuta di rimanere all'ombra dell'amica siliconata (Francesca Chiarantano) e fa leva sul proprio onesto fascino adolescenziale.

Per questa generazione, soprattutto al livello di piccolissima borghesia urbana (e i casermoni dei quartieri dormitorio, desolatamente fotografati da Pasquale Rachini, fanno pensare agli avvertimenti di Pasolini circa i pericoli dell'urbanizzazione selvaggia), non c'e' lavoro che non sia "in prova" (laddove "in prova", nel senso di "intercambiabili", sono i ragazzi), non c'e' famiglia che possa funzionare da punto di riferimento ("Papa', me stai a fa' vergona'"), la cultura e' fai da te ("Lo sai che sto a impara' un sacco di cose?"), l'inquietudine e' dilagante ma inesprimibile ("Me sento una cifra nervosa").

Ma anche se il refrain e' "mica voglio finire come mi madre", anche per i genitori piu' fallimentari c'e', da parte dei figli, un'empatia frutto dell'accettazione realistica della vita per come e', non per come potrebbe -- dovrebbe -- essere. "Un'immediatezza e una concretezza lontana anni luce dalle esitazioni, i sofismi e le piccole ipocrisie della gioventu' benestante", ha detto il regista Massimo Martella. O forse solo piu' evidente fra chi ha necessita' pratiche impellenti.

Martella mostra grande rispetto verso i suoi soggetti, che avrebbe potuto benissimo vedere come "cavie", senza quel distacco antropologico che la formula del film avrebbe potuto ingenerare, forse anche perche' il regista, a 38 anni, sta cronologicamente a meta' fra i ragazzi che racconta e gli adulti che potrebbero andare a vedere il suo film. Proprio a quegli adulti che si sono trovati seduti in metropolitana davanti a un diciottenne con il piercing nel naso o a una quindicenne in zatteroni, e si sono chiesti da quale pianeta provenisse questa generazione di alieni, raccomando La prima volta, perche' aiuta a capire che dietro alla mascherata urbana ci sono individui piu' adulti di come eravamo noi alla loro eta', alle prese con una realta' sempre piu' claustrofobica che mette quotidinamente alla prova la loro dignita'.

 

Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti da fare? Scriveteci il vostro punto di vista cliccando qui

Archivio Cinema



homearchivio sezionearchivio
Copyright © Caffe' Europa 1999

Home | Rassegna italiana | Rassegna estera | Editoriale | Attualita' | Dossier | Reset Online | Libri | Cinema | Costume | Posta del cuore | Immagini | Nuovi media | Archivi | A domicilio | Scriveteci | Chi siamo