Se fosse un uomo sarebbe nevrotico e inquieto, nostalgico e
malinconico, incerto sulla propria identita' e dilaniato dai contrasti interiori, represso
e frustrato -- per non dire passivo-aggressivo. Il Festival di Cannes, arrivato alla
52esima edizione, ha una personalita' ben definita che emerge dalla selezione dei film in
concorso, e di molti di quelli che partecipano nelle sezioni minori. E l'attenzione dei
registi (e di chi ha operato la selezione dei film) e' tutta volta all'interno, ripiegata
sui tormenti dell'intimo -- un'attenzione inversamente proporzionale a quella dedicata al
mondo esterno, e in particolare ai drammatici eventi dell'attualita'.

E' proprio un Festival, questo, da fine millennio, che invece di
prepararsi a dire addio al Novecento gli si aggrappa come un'agave -- la' fuori le bombe
nel Kosovo, sul grande schermo i viaggi a ritroso nella memoria e nell'inconscio, poiche'
di tutte le ideologie novecentesche quella freudiana sembra la piu' dura a morire: ben lo
sapeva Kubrick, che ha chiuso il millennio, e la carriera, con un film su due
psicanalisti. Basta guardare da vicino i due principali film italiani presenti sulla
Croisette -- La balia, diretto da Marco Bellocchio, unico italiano in concorso, e Harem
Suare, diretto dal turco-italiano Ferzan Ozpetek, che partecipa nella sezione Un certain
regard -- per veder spuntare i leit motifs di questa edizione del Festival.
La balia e' basato su un testo di Pirandello, ed e' ambientato
nella Roma dei primi del '900. Narra la storia di un triangolo erotico costituito da una
coppia borghese (Fabrizio Bentivoglio e Valeria Bruni Tedeschi) e dalla loro balia, una
creatura primitiva e spontanea interpretata dall'esordiente Maia Sana (nome di per se'
pirandelliano). Nel testo originale il marito era un politico socialista, nella versione
cinematografica e' uno psichiatra (!) con simpatie di sinistra -- alla maniera vaga e
ingenua dell'Alberto Bianchini deamicisiano. L'ambientazione e la trama ricordano il
Visconti de L'innocente: stessa epoca, stessa atmosfera decadente, e una simile relazione
"innaturale" fra un genitore e un neonato -- in La balia la madre borghese non
riesce infatti a costruire un rapporto affettivo con il proprio figlio, cosa che invece
riesce bene alla tata popolana, "istintivamente" materna.

Le scene di La balia si svolgono quasi tutte in interni, e parliamo di
locali domestici ma anche di dimensione intima dei personaggi. C'e' una Roma inquieta,
fuori dalle porte, percorsa da fremiti protorivoluzionari, ma il tramestio su cui il
regista punta la cinepresa rimane piu' quello interiore che quello politico, a differenza
di Pirandello, che alla parte politica del racconto aveva dato piu' spazio e piu'
corporeita'. Il caos minaccia l'universo ordinato del microcosmo borghese, ma lo
psichiatra si limita a intercettare nel mondo esterno -- i pazienti, i rivoluzionari --
frequenze sulle quali e' gia' internamente sintonizzato.
Harem Suare e' invece ambientato nella Instanbul di inizio
secolo, e piu' precisamente all'interno dell'harem dell'ultimo sultano della Turchia. La
protagonista della storia e' la favorita Safiye (l'attrice francese Marie Gillain), una
giovane donna ricca di cultura e di risorse personali mal arginabili all'interno del suo
ruolo. Safiye si innamora dell'eunuco di maggior potere all'interno dell'harem, Nadir
(Alex Descas, bellissimo viso da Numido): un'alleanza fra perdenti, ognuno privato in
partenza della possibilita' di estrinsecare le proprie potenzialita' (quale metafora
migliore della figura dell'eunuco?), ma solidali nella determinazione a non subire
completamente il proprio destino. A sconfiggerli non sara' la realta' dell'harem, che
hanno in qualche modo imparato a manipolare, ma il corso della storia, che li supera
lasciandoseli dietro come reperti arcaici di un mondo che non deve piu' esistere.

Il regista di Harem Suare, Ferzan Ozpetek, ha descritto l'ambientazione
del suo film come "a scatole cinesi", perche' anche qui, all'interno degli spazi
dell'harem (gia' di per se' delimitati), sono incastonate le interiorita' dei personaggi.
La ricchezza dei costumi e delle scenografie, la sensualita' dell'insieme fanno pensare
ancora a Visconti, in questo caso quello di Morte a Venezia: le donne dell'harem vestono,
oltre ai costumi mediorientali, abiti sontuosi simili a quelli della Mangano al Des Bains,
e la mollezza languida delle cortigiane ricorda quella che saturava l'aria del Lido di
Venezia. Ozpetek punta l'obbiettivo sul contrasto fra le due culture, mitteleuropea e
orientale, come gia' aveva fatto nel suo film d'esordio, il bellissimo Il bagno turco.
Anche in Harem Suare la politica resta (fino all'ultimo) all'esterno, e le lotte sono
quelle intestine (non meno cruente) fra le donne del sultano. La vera battaglia pero' si
consuma all'interno dei singoli personaggi, con conseguente corredo di gusto del proibito
e frustrazione.
Sia ne La balia che in Harem Suare dominano le ambientazioni
claustrofobiche e il tema della repressione, l'impossibilita', o il rifiuto, di
confrontarsi con la realta', la sensazione di non appartenere alla storia, la cecita'
ostinata nei confronti del mondo esterno, la resistenza al cambiamento, la paura del caos,
la nostalgia per il passato, anche quello ingiusto e classista, una nostalgia
"viscontiana" e crepuscolare.
Simili scelte tematiche e artistiche si ripetono in quasi tutti i film
presenti a Cannes: il francese Le temps retrouve' e' un adattamento della Recherche
proustiana (proprio quella che Visconti sognava di portare sul grande schermo); l'inglese 8
1/2 women di Peter Greenaway accosta un uomo d'affari svizzero ad un "harem"
di prostitute orientali; lo spagnolo Todo sobre mi madre di Pedro Almodovar
racconta l'alleanza di sottoposte fra un gruppo di donne. Dichiaratamente intimisti anche
i francesi Pola X e Nos vies hereuses, il belga Rosetta, l'inglese Wonderland,
l'iraniano Ghesse Haye Kish, il canadese Felicia's Journey di Atom Egoyan
(il superfavorito del Festival) e persino l'americano The straight story, che pure
porta la firma del "critico sociale" David Lynch.

I pochi film potenzialmente "politici" in gara sulla
Croisette sono ambientati in epoche lontane, da Ch'in di Chen Kaige a Il
barbiere di Siberia di Nikita Mikhalkov, gia' definito "la risposta al Dottor
Zhivago" perche' ai grandi rivolgimenti della societa' russa (Il barbiere e'
ambientato all'epoca dello zar Alessandro III) antepone il romanzo d'amore fra i due
protagonisti. L'altro film russo in concorso, Moloch, si concentra sulla relazione
fra due figure viste piu' nella dimensione privata che in quella storica: nientemeno che
Hitler ed Eva Braun, qui ritratti durante una vacanza sulle Alpi bavaresi, lontani da quel
mondo nel quale si consuma (proprio per mano del Fuhrer) l'Apocalisse. La determinazione a
non interagire con la realta' contemporanea e' poi il tema dominante del messicano El
coronel no tiene quien le escriba, in cui un vecchio colonnello aspetta (alla Godot)
l'arrivo della pensione, nonche' degli americani Ghost dog (diretto da Jim
Jarmusch), il cui protagonista e' un uomo che vive secondo le regole degli antichi
samurai, e Limbo di John Sayles, che narra la storia di un pescatore ossessionato
dai ricordi.
"Piu' posto ai sentimenti e meno alla violenza", aveva
proclamato Gilles Jacob, il delegato generale del Festival, commentando la selezione della
52esima edizione come se fosse il frutto di una posizione ideologica precisa. Ma ha anche
confessato che "dei mille film che abbiamo visionato nessuno parlava di guerra":
quindi la scelta del Festival riflette una tendenza artistica ben definita. Fra i film che
sono entrati a far parte della kermesse il confronto con l'attualita' rimane indiretto, la
distanza temporale consente di mantenere uno sguardo distaccato sugli eventi: niente a che
vedere con quel La polveriera del serbo Goran Paskaljevic, che a suo tempo diede la scossa
ai giurati del Festival del cinema di Venezia. Alla sontuosita' delle ambientazioni, alla
spettacolarita' degli scenari dei film presenti a Cannes non si accompagnano un respiro
epico o una grande visione storico-politica ma una sorta di minimalismo emotivo, un
intimismo ossessionato dalle profondita' del proprio ombelico. Come se guardarsi intorno
facesse troppa paura, come se all'esplosivita' della situazione esterna si volesse
contrapporre l'implosivita' di certi tormenti tutti interiori, e rassicurantemente fin de
siecle.
Dietro tanto onanismo cinematografico -- almeno a livello di selezione
festivaliera -- probabilmente si nascondono le paure di fine millennio: non solo quella
della guerra (ricordiamo che il giorno dell'inaugurazione e' stato trovato un ordigno
esplosivo non lontano dalla Croisette) ma anche, ad esempio, quella dell'immigrazione come
destabilizzatore dell'identita' occidentale, o quella della tecnologia come incalzante
minaccia al passato umanista che metteva ancora l'uomo -- e il suo ego -- al centro
dell'universo.