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Cinema/L'anniversario

Paola Casella

 

L'anniversario, di Mario Orfini, con Laura Morante, Luca Zingaretti ed Elena Fresco

 

L'anniversario e' l'equivalente di un mutante cinematografico: una creatura che per meta' appartiene totalmente al passato e per meta' e' gia' proiettata nel futuro. Ma andiamo con ordine.

 

Innanzitutto l'autore del film, Mario Orfini, e' una vecchia conoscenza del cinema italiano. Come produttore ha assistito agli esordi cinematografici di Benigni (c'era lui dietro il Pap'occhio) e ha sostenuto gli sforzi di registi come Fabio Carpi e Roberto Faenza, ma anche di giovani come il Luchetti del Portaborse. Come regista ha firmato una manciata di film minori -- Noccioline a colazione, Mamba, Jackpot -- senza mai emergere dalla serie B.

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Tuttavia, muovendosi da anni nell'ambiente, Orfini conosce i meccanismi del cinema sovvenzionato dallo stato e L'anniversario, che e' identificato nei titoli di testa come "di interesse culturale nazionale", sembra studiato a tavolino per ottenere il finanziamento governativo. E' impegnato, cerebrale, "importante"; piu' intimista che politico; teatrale nella struttura drammatica; tanto costruito da risultare quasi "di maniera". Un compito a casa, eseguito con estrema diligenza e professionalita', e interpretato da attori abbastanza noti al pubblico da fornire un minimo di richiamo al botteghino, ma anche abbastanza elitari da richiamare in sala soprattutto quell'intellighentia che sanziona il valore culturale del prodotto cinema italiano.

La trama di L'anniversario appartiene al cinema tradizionale: una serie di scene da un matrimonio, quello fra Anita (Laura Morante) e Michele (Luca Zingaretti), consumate far le quattro pareti domestiche, all'insegna dell'incomunicabilita' piu' totale. C'e' il fantasma di Bergman, ma ancora piu' quello di Antonioni, che aleggia su tutta la confezione, anche esteticamente, nei tempi dilatati, in certi primi piani alternati ai campi lunghi, nella recitazione della Morante che striscia contro i muri della sua casa come una Vitti prima maniera. Il tutto molto algido e concettuale, un po' pretenzioso, quasi insopportabilmente lento, e molto gia' visto.

 

Questa e' la parte del mutante ancorata al passato, quella vecchia, noiosa, drammaticamente prossima a diventare obsoleta. C'e' poi la parte nuova, che e' quasi subliminale, ma che ha la forza simbolica di un vettore puntato verso il futuro. Innanzitutto la struttura drammatica: la storia infatti non viene raccontata in progressione temporale, ma attraverso continui avanti e indietro che ne spezzano la continuita' e disorientano anche lo spettatore piu' attento. Nella prima scena Anita trova per la casa una serie di cocci, che sono quelli del suo matrimonio, ma anche quelli della trama, una trama che va ricomposta visivamente e narrativamente. Ecco il primo segnale di post-modernita': la frammentarieta' dell'esperienza quotidiana che riesce a disintegrare progressivamente l'identita' degli individui e la coesione delle coppie.

Scopriamo gradatamente (ma sarebbe meglio dire "a singhiozzo") che il matrimonio (apparentemente) perfetto di Anita e Michele, due affermati architetti con casetta nei sobborghi abbienti di Roma (l'Olgiata?), e' in realta' dilaniato internamente da profonde insoddisfazioni, desideri inespressi e scheletri nell'armadio, quello stesso armadio in cui finira' Michele perche' ce l'ha cacciato la (apparentemente) inoffensiva Anita -- a furia di botte.

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La scheggia impazzita (un'altro frammento) che innesca la distruttiva reazione a catena all'interno del matrimonio e' la comparsa di una vicina, Daniela (Elena Fresco) che scappa dal paradiso (apparente) della villetta di fronte per presentarsi con il suo bambino sulla soglia della casa di Anita. Il riconoscimento fra le due infelicita' femminili e' istantaneo, e passa proprio attraverso l'esperienza della maternita': sofferta, come nel caso di Daniela, che deve proteggere il proprio figlio da un marito violento, o negata, come nel caso di Anita, che scopriremo aver abortito ad insaputa di Michele.

 

Ecco l'altro elemento post-moderno del film: quella profonda inquietudine che caratterizza le donne di fine secolo nel momento in cui si confrontano con la scelta della maternita', un'inquietudine che il cinema italiano sta cominciando solo adesso a raccontare (e siamo nel paese dove la natalita' e' a tasso zero), un disagio esistenziale tutto femminile che si manifesta spesso in maniera estrema e in forma di rinuncia. Il simbolo per eccellenza all'interno di L'anniversario, che e' stracolmo di iconografia da psicanalisi, e' quello della matrioska di legno -- l'identita' femminile concepita a scatola cinese, e irrigidita proprio dalla possibilita' del concepimento di un'altra piu' piccola vita al suo interno -- che, naturalmente, e' destinata ad andare in pezzi (non a caso il primo coccio ritrovato da Anita viene proprio dalla matrioska che Michele, uomo di fine millennio senza la piu' pallida idea di cio' che passa per la mente delle donne, ha regalato alla moglie per festeggiare il loro decimo anniversario e la notizia della gravidanza).

L'infelicita' di Anita diventa sempre piu' tangibile e distruttiva: si taglia e ferisce il marito, si perde all'interno della sua stessa casa e non trova piu' il suo compagno (ma l'impressione e' che sia lei a non voler piu' farsi trovare). Le costrizioni del suo ruolo e del suo status sociale ("Noi non andiamo mai oltre un certo limite: e' una questione di sensibilita' e di cultura") si fanno sempre piu' intollerabili, e lei reagisce frantumando la sua realta' quotidiana, gia' di per se' composta di gesti e oggetti fra loro isolati.

Sono inquietudini novecentesche gia' viste e cinematograficamente gia' sondate, come gia' detto. Ma L'anniversario ha un tono apocalittico che ricorda quello di Tempesta di ghiaccio, dove l'incomunicabilita' di coppia veniva collegata ad un contesto spaziotemporale -- la provincia americana degli anni Settanta -- ma il pathos era da fine millennio. La vera tragedia e' che, ne L'anniversario come in Tempesta di ghiaccio, dopo la tempesta tutto torna come prima (nella scena finale del film di Orfini il metereologo televisivo segnala "sereno variabile"). La rivoluzione vera non avviene, lo schema si ricompone, l'ipocrisia domestica prende -- forse solo temporaneamente -- il sopravvento.

Non e' un caso che L'anniversario si sintonizzi su alcune delle angosce di fine secolo proprio come molti dei film in passerella al Festival di Cannes: ed e' sintomatico che anche i due principali film italiani presenti sulla Croisette, La balia e Harem Suare, vedano come centrale una figura di madre privata del proprio figlio, cioe' della propria volonta' di perpetuarsi, di proiettarsi nel futuro.

 

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