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Cinema/Onorevoli detenuti

Paola Casella

 

Onorevoli detenuti, scritto e diretto da Giancarlo Planta, prodotto da Luigi Planta, interpretato da Massimo De Francovich, Gianni Cavina, Maddalena Crippa, Chiara Muti, Franco Castellano, Said Taghmaoui.

 

Chi spera di capire qualcosa di piu' di Tangentopoli dopo aver visto Onorevoli detenuti rimarra' deluso, anzi, disorientato. Ma e' proprio questo il pregio del film diretto dal giovane regista cagliaritano Giancarlo Planta, gia' presentato al Festival del Cinema di Venezia, e finalmente in uscita nelle sale, a due anni dal suo completamento: come Tangentopoli, "Onorevoli detenuti" rimane un caso aperto, nel quale la ripartizione delle colpe e la punizione dei colpevoli sono ancora tutte da decidere. Non uno dei personaggi di Onorevoli detenuti se ne esce con la coscienza pulita: non l'inquisito eccellente, non il magistrato che lo torchia, non la granitica avvocatessa che lo difende, neppure la moglie che lo abbandona al suo calvario, vendicandosi dei torti a sua volta subiti.

La storia e' semplice (si fa per dire), e viene dritta dritta dalle pagine dei quotidiani (i cui titoli sensazionalistici sono piu' volte mostrati nel corso del film, a denuncia del ruolo di istigatori assunto dai giornali nel corso della vicenda Tangentopoli): Massimo De Longhi (Massimo De Francovich), un politico di medio livello, viene prelevato da casa sua nel cuore della notte e trascinato in carcere, dove rimane per la durata (interminabile) delle indagini preliminari. Il pm Silvestri (Franco Castellano) lo interroga con metodi da questurino (ogni allusione a personaggi reali non e' puramente casuale, vedi lo sbandieramento di un titolo del Corriere: "Di Pietro mette d'accordo terroni e polentoni"), l'avvocato della difesa (Maddalena Crippa) si limita a ripetergli di non parlare, come se fosse facile resistere all'abbrutimento progressivo della galera.

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All'odissea di detenzione di De Longhi e' dedicata gran parte del film, soprattutto le sequenze iniziali, tanto violente e veloci da far pensare ai thriller d'azione americani, e da ricordarci che quello carcerario, e', negli Stati Uniti, un vero e proprio genere cinematografico. Con mano sicura, Planta ci butta dentro la vicenda, a cominciare dalla prima scena, quella dell'incursione in casa De Longhi, dove lo sguardo della cinepresa coincide con quello dei poliziotti: stucchi, orpelli, e maioliche che fanno gia' Marocco, ad indicare (come ribadira' piu' volte il regista nel corso del film) che l'Italia e' ancora a un passo dal Nordafrica, e che estrema richezza ed estrema disperazione possono mescolarsi nello spazio di una notte.

Infatti De Longhi si ritrova in cella proprio accanto ad un marocchino (Said Taghmaoui, una delle belle facce scure del film L'odio), ad un pappone scoppiato (Gianni Cavina), ad un polacco (lavavetri o spacciatore?) la cui identita' e' fornita interamente dalla sua penchant per scoparsi il materasso. L'inferno carcerario e' tutto li', in quella cella definita dai gendarmi "vivibile" perche' contiene "solo" sei letti e i detenuti mantengono "la massima igiene" (anche se bagno e cucina sono separati da una tendina, e sta ai detenuti pulire la tazza con il Cif).

Piu' che il degrado ambientale e' drammatico (nel senso di "rappresentato in forma di dramma" ) il vertiginoso processo di depersonalizzazione del detenuto, ridotto fin dalle prime scene a un rotolo di carta igienica e un bicchiere di plastica, apostrofato con il "tu" e identificato come "questo". "Non mi si puo' ridurre cosi'", protesta De Longhi, e il suo e' gia' il piagnucolio di chi ha capito che da quel momento in poi dovra' pietire anche il minimo indispensabile.

Le luci livide, le inquadrature claustrofobiche rendono bene lo stato emotivo di chi sperimenta l'incubo del carcere; le griglie visive (sbarre, transenne, spalliere dei lettini a castello) che dividono lo spazio in piccoli ritagli richiamano la dignita' dei detenuti, costretta in spazi sempre piu' ridotti (curioso il parallelo fra l'esperienza di De Longhi e l'argomento della testi di laurea della sua segretaria-amante, interpretata da Chiara Muti, sulla "mancanza di scelta" delle donne avviate alla clausura).

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Il disgusto ha un suo perverso appeal estetico, e questo Planta lo sa bene, percio' indugia fino in fondo nel degrado fisico, prima ancora che psicologico, cui va incontro il politico inquisito (un degrado che la sua avvocatessa definisce "decomposizione"), cosi' insiste sui dettagli che testimonaino la schizofrenia cui ciascun detenuto si ritrova costretto: accanto alle latrine un prigioniero coltiva i suoi bonsai; ai conati di vomito del marocchino in crisi di astinenza si accompagna il ritornello del Maurizio Costanzo Show.

E' un calvario che Planta descrive come ingiustificabile, soprattutto per i poveracci che non hanno niente da rivelare. Ma non nega la sua efficacia per chi, come De Longhi, e' abituato a essere isolato dalla realta' dai privilegi, cosi' come non nega l'efficacia del terzo grado a cui il politico viene sottoposto dal mefistofelico Silvestri, che interpreta il suo ruolo con fervore messianico: "Dov'erano i giornalisti e i difensori della coscienza civile quando si marciva in carcere per il furto di un melone?", chiede Silvestri all'avvocatessa garantista. E giustifica la brutalita' dei suoi metodi come capacita' di facilitare il "travaglio della coscienza" del peccatore caduto sotto le sue grinfie.

Anche i suoi metodi sono da Inquisizione, anzi, da "macelleria giudiziaria": "Bisogna tirarla bene, la catena", dice Silvestri compiaciuto. Il passo verso la delegittimazione della figura del magistrato sadicamente calvinista sarebbe breve, se i suoi metodi alla fine non funzionassero a dovere: dopo mesi di detenzione De Longhi confessera' infatti il proprio reato -- a se stesso prima ancora che a Silvestri. E noi spettatori ci sorprenderemo di avergli accordato, fino a quel momento, il beneficio del dubbio.

"Pensavo fosse il mio lavoro", si difendera' il politico, "Pensavo fosse una cosa naturale". L'abilita' di Massimo De Francovich, interprete di consumata esperienza teatrale, sta proprio nel conservare fino all'ultimo la profonda ambiguita' morale del suo personaggio, la sua radicale inconsapevolezza. Ma anche nel comunicare il terrore e la vergogna dell'uomo travolto dagli eventi, nei primissimi piani che Planta ci propina senza tregua, infierendo su di noi spettatori come il carcere su De Longhi.

Nella sua indignazione civica, Planta ha infatti la mano pesante: Onorevoli detenuti e' lungo e faticoso, molto "costruito", costellato di battute spesso retoriche. Anche la recitazione, a parte quella del minimalista De Francovich, tende a sconfinare sopra le righe (imbarazzante la performance di Cavina, un attore strepitoso che tuttavia da anni si e' assestato sulle corde del patetico; imbarazzante anche la storia di amore impossibile fra la cameriera Aisha, interpretata da Aisha Cerami, e il marocchino, intesa come polarita' di estremi).

Quando non e' noioso o saccente, pero', Onorevoli detenuti e' un'efficace parabola di redenzione che, avendo luogo in Italia e avendo come protagonista un politico ("il camaleonte per eccellenza", come lo definisce Planta), non ha una conclusione catartica: "forse", solo forse, alla fine De Longhi prende coscienza di se stesso. Interessante anche il concetto secondo il quale la sua espiazione, come quella della classe politica italiana, o addirittura dell'italiano come membro della societa', non puo' essere portata a termine, perche' De Longhi ha anche la responsabilita' morale della morte della segretaria-amante, un "guaio" davvero irreparabile.

Onorevoli detenuti fara' parlare perche' solleva di nuovo le domande relative a Tangentopoli: se abbia senso paventare "l'ipotesi della buona fede", come dice il magistrato Silvestri, per chi ha rubato non per se ma per il partito, o per chi ha reputato la corruzione come endemica alla propria professione. Se sia giustificabile la "sete di castigo" di certi magistrati, la mancanza di controllo sul loro operato, il loro protagonismo. Se il fine giustifichi i mezzi, se il gioco valga la candela, se in quel gioco non siamo, in realta' coinvolti un po' tutti. In una situazione (e in un Paese) in cui nulla e' solo bianco o solo nero, come dice uno dei personaggi del film, la domanda ricorrente e': "E se il problema fosse piu' sottile?"

L'unica denuncia tout court, da parte di Planta, e' quella nei confronti di un sistema carcerario fondato sull'umiliazione. In questo senso il peccato originale e' "la distrazione della gente che sta fuori".

 

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