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Cinema/Festen: la vergogna secondo Thomas Vinterberg

Paola Casella

 

 

Una famiglia dell'alta borghesia danese si riunisce nella villa patrizia del patriarca, che in occasione del suo sessantesimo compleanno ha voluto intorno a se parenti e amici. Fin dalle scene iniziali e' tuttavia evidente che dietro l'apparenza dell'occasione conviviale si celano i segreti e le bugie di un nucleo familiare a dir poco disfunzionale.

Sui festeggiamenti -- Festen e' il titolo del film di Thomas Vinterberg, che con l'altro regista danese Lars Von Trier ha firmato la carta d'intenti Dogma '95 -- aleggia infatti il fantasma di una delle figlie del patriarca, Elsa, morta suicida in circostanze misteriose. A rivelare cio' che ha spinto Elsa alla morte sara' suo fratello gemello Christian, trentenne insicuro e tormentato, un Amleto contemporaneo (persino come aspetto fisico): e dopo aver assistito all'onanistico drammone di Vinterberg si capisce come mai Shakespeare abbia scelto proprio la Danimarca per ambientare la storia del suo dolce principe.


Davanti alla tavolata degli ospiti, Christian annuncia di essere stato vittima, insieme alla sorella, delle perversioni sessuali del padre per tutto il corso dell'infanzia e adolescenza. Il grande segreto, dunque, e' l'incesto, consumato fra le pareti di quella stessa villa in cui si svolgono i festeggiamenti. O almeno, cosi' sembrerebbe. In realta' Festen, forse per la prima volta nella storia del cinema, non affronta il terma dell'incesto valutandone le molteplici valenze drammatiche, ma si limita ad utilizzarlo come mero stratagemma narrativo.

Festen non e' la storia di un incesto, ma quella di un parricidio, del quale l'incesto diventa pretesto e giustificazione. E cio' che piu' colpisce e' che questo parricidio venga portato a compimento avvalendosi dell'arma piu' crudele: la pubblica vergogna.

Christian e' un disadattato incapace di instaurare qualsiasi rapporto umano e sessuale, e gli altri figli del patriarca (e della matriarca, complice silente delle perversioni del padre) hanno analoghi problemi: Michael, fallito cronico, scarica sulla moglie le frustrazioni di una vita, Helene, sbandata senza direzione, si abbandona a trasgressioni minori, dallo spinello ai boyfriend di colore.

Vinterberg ascrive i loro comportamenti improduttivi al deplorevole crimine perpetrato dal padre. Se pero' osserviamo i tre fratelli da una piattaforma storica, possiamo osservare che appartengono ad una generazione di per se' inconcludente e aprioristicamente ansiosa di addossare ad altri (soprattutto i loro predecessori) le colpe del proprio insuccesso. Tutti e tre, come ogni figlio in fase adolescenziale (o come molti adulti rimasti cocciutamente adolescenti), muoiono dalla voglia di gridare quel "Mamma, papa', fate schifo" (simile, come ha ricordato Goffredi Fofi, a quel "famiglia vi odio" che e' riecheggiato dalla fine dell'800 al '68) che, alla fine, Christian sbotta di fronte all'audience ideale per un simile expose freudiano: l'intero milieu familiare e sociale dei genitori.

Ma per quello sfogo generazionale occorre una ragione narrativa ufficiale: e quale piu' indicata della pedofilia, il crimine du jour? Che poi tale utilizzo pretestuoso equivalga a strumentalizzare un orrore reale, gia' tanto spesso tacciato di scarsa attendibilita' da alcuni analisti e molti pedofili, poco importa a Vinterberg.

La "scusa" dell'incesto garantisce ai giovani Amleto di Festen licenza di uccidere e impunibilita'. E poiche' il parricidio dev'essere esemplare e catartico, il patriarca di Festen viene messo alla gogna con sistematica e compiaciuta metodicita'. Ogni tintinnio del bicchiere di Christian annuncia un nuovo strale, precede un altro chiodo nella bara.

Il rituale funziona anche meglio per il fatto di essere consumato all'interno di un paese dove -- almeno nell'immaginario collettivo -- il
pudore dei sentimenti rasenta l'autismo emotivo, e dove il concetto di rispettabilita' coincide con il mantenimento a oltranza della maschera sociale.

Piu' che il resoconto di una cena delle beffe, Festen diventa dunque la cronaca di una mattanza, quella del padre, che infatti alla fine e' molto piu' che sconfitto -- e' annientato, annullato come figura di autorita' ma anche come essere umano, non gia' dalle botte del figlio Michael (che pure, legittimato dall'outing per conto terzi del fratello, gliene assesta una caterva), ma dalla pubblica berlina, la messa a nudo spietata e implacabile operata da Christian.

Paradossalmente ala fine il pubblico prova alla fine una sorta di identificazione con il padre-mostro, avrebbe voglia di invocare pieta' (o pietas) per quel relitto umano, o per lo meno di distogliere lo sguardo, come davanti a un brutto incidente d'auto.

Invece Vinterberg ci invita a godere della vergogna altrui, a cantare in coro gran festa, gran festa/ che bello, che bello/ chiamate gli amici/ uccidete un vitello/sappiate che tutto e' tornato normale/che tutto e' tornato legale. E se la canzone si schierava dalla parte della peccatrice, un'adultera ripudiata dall'amante sposato, a noi non e' concesso provare alcuna empatia per un uomo il cui peccato originale e' forse quello di essere un idolo da infrangere.



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