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In the mood for love



Paola Casella



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In the mood for love, scritto e diretto da Wong Kar-Wai, con Tony Leung, Maggie Cheung, Rebecca Pan, Lai Chin

E' difficile parlare di un film che lavora - e funziona - su così tanti livelli. In the mood for love, il dramma scritto, diretto e prodotto dal regista hongkongiano Wong Kar-Wai (quello di Happy Together), e che rappresenta Hong Kong nella lotta per l'Oscar come miglior film straniero, è terribilmente ricco (userei il termine saturo, spesso associato al colore, perché in questo film il colore e la sua densità sono importantissimi): di spunti, di suggestioni, di stimoli sensoriali. Ogni inquadratura è piena fino a scoppiare (ma non scoppia mai, e questo è il punto), affollata di segni e simboli, di echi e rimandi, di suoni, consistenze, aromi, e più concretamente di mobili, suppellettili, indumenti, pietanze.

Le uniche cose di cui è quasi privo sono gli avvenimenti: in un paio d'ore di racconto, non succede quasi niente, tutto è sottinteso, inferto, dedotto. Se visivamente In the mood for love funziona per accumulo (anzi, per affastellamento), narrativamente funziona invece per sottrazione.

La storia: la signora Chen (Maggie Cheung), una bellissima e giovane donna cinese sposata a un uomo in perenne viaggio d'affari, si trasferisce in una delle camere d'affitto di un angusto edificio di Hong Kong. Nella camera accanto si installano il signor Chow (Tony Leung) e sua moglie, anche lei quasi sempre assente. Sul traffico domestico, che si svolge interamente in spazi delimitati (e delimitanti) veglia l'affittacamere, la signora Suen (Rebecca Pan), che segue le vicende delle due giovani coppie con eguale invadenza e partecipazione. Straordinaria, a questo proposito, la cinematografia di Christopher Doyle, che piazza la cinepresa in punti strategici, come se fosse un altro inquilino della già sovraffollata abitazione.


In realtà, è difficile definire "coppie" i Chen e i Chow: il marito di lei e la moglie di lui, infatti, anche quando ci sono non si vedono, perché il regista li inquadra solo di spalle, o li confina addirittura fuori camera, come interlocutori occulti dei rispettivi coniugi, che sono i veri protagonisti della storia. La signora Chen e il signor Chow scopriranno infatti, attraverso un paio di indizi rivelatori (non per eccesso di indiscrezione, dunque, ma per difetto di scrupolo - l'intero film procede per indizi, piuttosto che per rivelazioni), che i rispettivi partner fanno coppia fra di loro, naturalmente fuori vista, addirittura nel lontano Giappone, dove l'invisibile signor Chen lavora per una compagnia di import-export (un modo per il regista di collocare la vicenda non solo in un particolare periodo cronologico - i primi anni Sessanta - ma anche in un momento di transizione importantissimo per l'evoluzione del suo paese: proprio allora Hong Kong si apriva all'influenza esterna, non tanto quella giapponese quanto quella occidentale).

Se la coppia di fedifraghi è una coppia di ombre, anche le due vittime del tradimento ci appaiono come silhouette, forme stagliate contro sfondi geometrici, che, più che muoversi, serpeggiano su per infinite scalinate, strisciano lungo i vicoli della città, si spostano come gechi appiccicati alle pareti della casa, dove del resto spostarsi è quasi impossibile se non rasentando i muri, ed evitando le porte che si aprono (o meglio, che potrebbero aprirsi - in questo film, tutto è potenziale). Le due figure umane appaiono sempre incastonate all'interno delle inquadrature, delimitate da infissi, spigoli e cornici. In questo senso, In the mood for love ricorda da vicino La lettera di Manoel de Oliveira, storia di una passione confinata dalle circostanze sociali (e da una ferrea volontà femminile) e raccontata per quadri angusti e oppressivi (anche se esteticamente ineccepibili).

La realtà del signor Chow e della signora Chen è suddivisa geometricamente (o frammentata) anche in senso visivo: i parquet a riquadri, le decorazioni delle pareti a spicchi, i vetri delle finestre a sezioni stile Mondrian. Anche il tempo, rappresentato da un anonimo orologio tondo da muro, è diviso a fettine, come una torta, come un grafico aziendale: scatta al ritmo di una lancetta meccanica, invece di fluire, costantemente scisso da un inesorabile processo di suddivisione (o di progressiva sottrazione) che ne annulla l'essenza, e lo rende allo stesso tempo interminabile (come certe attese) e già scaduto (o perduto, come in Proust).

Persino gli abiti della signora Chen sono geometrici: tradizionali chipao cinesi decorati però da motivi occidentali che rendono ripetitivo e prevedibile ciò che la tradizione orientale lasciava invece fluttuare nello spazio. A dominare, è il concetto di riproduzione meccanica del segno grafico: non è un caso che i muri della Hong Kong di Wong Kar-Wai siano foderati di pagine di giornale e che il signor Chow, di professione giornalista, nella prima scena che ce lo mostra al lavoro stia in realtà facendo da tipografo.

Dire che il signor Chow e la signora Chen si innamorano, secondo me, andrebbe oltre le intenzioni narrative del regista. Ad avvicinarli è più che altro la scoperta (o meglio, la specularità) del tradimento dei reciproci coniugi, la simmetrica solitudine, il vuoto che ognuno di loro vede rispecchiato nell'altro. Il regista-autore insiste infatti - fino alla ridondanza - sul tema dello specchio: innumerevoli le superfici riflettenti che compaiono nelle inquadrature, innumerevoli le immagini riflesse, spesso presentate come reali, per rivelarsi poi illusioni ottiche. Kar-Wai insiste anche sul tema del doppio in generale, preannunciato fin da una delle prime scene, nella quale scopriamo che il capo-ufficio della signora Chen, che tradisce la moglie, compra regali in due esemplari: uno per la consorte, l'altro per l'amante.

Il fatto che, nonostante le fornicazioni (uso un termine volutamente greve parlando di un film delicatissimo), tutti continuino a chiamarsi "signora", "signore", "signorina" (al punto che dei due protagonisti non sappiamo neppure il nome proprio) sottolinea l'estrema formalità della situazione, che è innautrale in ogni suo dettaglio, sia perché la situazione sentimentale fra i due protagonisti è artificiosa fino all'inverosimile, che perché il film (in una perfetta corrispondenza fra forma e contenuto narrativo) è costruito fin nei minimi particolari.


In the mood for love racconta, fra le altre cose, il potere di costrizione di una vita (e una società) basata sulle apparenze creando un universo esteriore di estrema accuratezza e precisione. In questo mondo ipercodificato, la principale preoccupazione dei protagonisti è quella di essere scoperti dalla padrona di casa e dagli altri inquilini, al punto che la scena più claustrofobica di un film claustrofobico per antonomasia è quella in cui la signora Chen e il signor Chow si ritrovano confinati nella stanza di lui senza poter uscire per non essere intercettati dagli altri frequentatori dell'abitazione.

Non vi diciamo se i due arriveranno mai a "consumare" (di nuovo, sono volutamente prosaica), ma possiamo rivelare che la tensione erotica fra loro sta soprattutto nel diniego che caratterizza ogni azione o pensiero di entrambi, con una determinazione che poco ha a che fare con la moralità profonda: le preoccupazioni dei due sono legate al decoro formale (e neoborghese) e a una certa superbia ("non dobbiamo essere come loro", ripetono, alludendo ai rispettivi coniugi, colpevoli, più che di tradimento, di un materialismo che appare come una caduta di gusto e di stile a due esteti come il signor Chow e la signora Chen).

Più che una storia d'amore, il loro è un tentativo di colmare l'assenza che, a giudicare dalla tristezza che appare sui visi di entrambi fin dalla prima volta che li vediamo (cioé ben prima della scoperta del tradimento dei rispettivi partner), è una condizione esistenziale che precede la situazione contingente. E' come se assistessimo all'incontro fra due superfici concave, che non potendo completarsi a vicenda, scavano dentro se stesse sempre più a fondo, aprendo immense voragini interiori. Ciò non significa che il loro legame sia meno potente, anzi: l'incolmabilità reciproca lo rende un esercizio di frustrazione, di quelli che uniscono due partner assai più tenacemente dell'amore.

Questa unione sterile ci viene raccontata per contrasto: geniale a questo proposito l'idea di Kar-Wai di farci ascoltare in sottofondo (anzi, in sovrimpressione) la voce calda di Nat King Cole che canta in spagnolo (lingua caliente per eccellenza) bollenti melodie di passione (anche se combattuta dall'esitazione - vedi Quizas, quizas, quizas, cioé Chissà, chissà, chissà), un contrasto che a tratti è addirittura comico. Una nota a parte merita la bellissima colonna sonora scritta appositamente per il film da Michael Galasso (e ascoltabile al sito ufficiale http://www.wkw-inthemoodforlove.com, vedi articoli collegati), romantico contrappunto alla storia.

Importantissima la presenza del cibo: le numerose cene "da asporto" che la signora Chen porta a casa in una malinconica (e molto occidentale) "gavetta" per uno; i gustosi pranzi che lei e il signor Chow consumano insieme (e uso scientemente il termine "consumano"), con un'intimità assai superiore a quella che caratterizza altri aspetti della loro relazione, come se quella relazione fosse pienamente esplicata nello stadio orale (quello che la psicanalisi ci insegna essere caratteristico della prima infanzia, cioé "immaturo"). Nel contrasto è insito (anzi, condensato) il senso di impotenza dell'intero film, il dramma interiore del protagonista maschile (che ha scelto il suo perfetto carnefice) e persino lo choc culturale fra oriente-occidente.

Maggie Cheung, action-eroina della saga dei Police Story, è qui un'icona di grazia e seduzione, una bambola di porcellana che nasconde una passionalità repressa incandescente: praticamente il corrispettivo cinese delle eroine bionde e glaciali dei film di Hitchcock. La sua eleganza naturale, abbinata all'eleganza formale dei suoi completini, la rende perfetta per questo ruolo trattenuto, in cui solo agli occhi è concesso esprimere la volontà di rompere la corazza esteriore. Una parola va spesa per i suoi abiti di scena (a proposito dei quali l'attrice ha dichiarato: "Appena li ho indossati, ho capito il mio personaggio"), vere e proprie armature a riparo della vulnerabilità interiore della signora Chen, che strizzano e comprimono la carne (e la carnalità) della giovane donna, contemporaneamente esaltandola e avvilendola. La seta, tessuto carezzevole per definizione, appare qui inamidata fino alla consistenza del cartone, anzi, del carton-gesso, in grado quindi di "ingessare" anche la più prorompente della passioni.

Tony Leung, che per questa interpretazione ha vinto il premio come miglior attore al Festival di Cannes, è più "morbido", in quanto parte "accessibile" della coppia. Il suo struggimento nel non poter esplicare la sua componente più “umana” è tangibile, palpabile come l'atmosfera densa di Hong Kong.

Meritatissmi il Gran Premio del Festival di Cannes al costumista, scenografo e montatore William Chang Suk, collaboratore storico di Kar-Wai e artefice dell'incantevole (anche nel senso di ipnotico) look di In the mood for love, nonché ai direttori della fotografia Christopher Doyle e Mark Lee Pin-Bing. Su tutto infatti - personaggi, storia, sentimenti - domina l'estetica delle immagini, contemporaneamente sovraccariche di stimoli e rarefatte come haiku, in bilico fra la lussuria visiva delle immagini e l'anoressia emotiva della storia. E la scena in cui signor Chow infila la bocca nella fessura di un tempio buddista - primo vero incontro fra concavo e convesso - è di una poesia assoluta, e straziante, come il personaggio che riassume.

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