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Tabloid: eppure è una cosa seria

Daniela Di Pietro

 

I tabloids, bistrattati da sempre dalla critica più raffinata, sono esplosi nei paesi "più civilizzati", come fenomeno a tutto tondo – sociale, culturale ed ovviamente anche economico. E non certo da poco tempo. Si tratta di una contraddizione in termini? Sì, ma solo apparentemente. Nell'immaginario di molti, tabloid equivale a trash, a disinformazione, a negazione di "cultura"; utile solo come termine antitetico per designare quella stampa di qualità difesa fieramente, ma sempre più a fatica, dai tradizionali produttori della cosiddetta "cultura alta".
In realtà gli schemi logici dell'antica diatriba intellettuale tra "cultura alta" e "cultura bassa" si ripresentano con vesti lievemente aggiornate nell'ambito del match, quanto mai attuale, tra i tanti supporters della stampa detta "seria" – della qualità e dell'informazione – e chi si schiera dalla parte della sua antagonistica "sorellastra" (nessuno fra i primi avallerebbe un ipotetico vincolo di sangue fra le due), i cui figli prediletti si chiamano tabloids.

La stampa popolare non ha mai goduto, e non gode tuttora, di una legittimazione critica e di una collocazione culturale ben determinata; sembra invece quasi essere condannata dalla sua stessa definizione, sentenza inappellabile contro il suo presunto non-valore.

Lo scarso interesse da parte della mass communication research nei suoi confronti, ha fatto sì che pochi conoscano le origini - a guardar bene anche prestigiose - e gli attuali sviluppi di questo giornalismo. In questo modo ha finito per diffondersi una generale indifferenza o un deciso disprezzo per tutte quelle pubblicazioni comunemente dette "del popolo" o "del popolino". Ma come si può liquidare con poche, sprezzanti parole qualcosa che, al di là del suo valore intrinseco, viene acquistato e soprattutto letto da milioni di persone ogni giorno?

 

Le cifre delle vendite parlano chiaro e sono ben note a tutti, editori di testate "rispettabili" compresi. In Inghilterra, patria del tabloid più puro e più tipicamente riconoscibile, i quotidiani popolari sfondano la soglia dei tre milioni e mezzo di copie giornaliere. A chi vendono, come fanno, quali sono le strategie, di marketing e di comunicazione, che utilizzano con tale successo i direttori del "Sun", del "Mirror", del "Today"?

Questi giornali comunicano, innanzi tutto, in un idioma ben riconoscibile dalle masse, utilizzano una miscellanea di giochi linguistici audaci, irriverentemente paragonabile a quelle lettere minatorie composte di ritagli di varie pubblicazioni. Lo stile tabloid si nutre attingendo ad innumerevoli fonti: show televisivi, titoli cinematografici, slogan pubblicitari, gerghi legati a vari sport, canzoni e canzonette, politichese, clichés (inclusi quelli fabbricati in proprio) e quel vasto repertorio di citazioni, rime e motti popolari che crea un efficace e collaudato collage di allusioni, doppisensi e metafore.

Solo un nativo, o meglio un nativo membro di certi gruppi sociali può carpire la pregnanza semantica di un linguaggio del genere, artefatto e così poco trasparente, pieno di rimandi e di trappole nascoste. Si tratta dell'uomo della strada, del cittadino medio, non certo del fedelissimo lettore del "Financial Times". Si tratta della massa, con tutte le contraddizioni che storicamente contiene.

Nel nostro paese la massa s'identifica con l'audience di una televisione essenzialmente generalista; non si può usare tale termine nel caso del pubblico dei quotidiani: ciò la dice fin troppo lunga sull'assenza di un foglio nazionale schiettamente popolare. I motivi, però, non si possono ricondurre esclusivamente né al versante della domanda né a quello dell'offerta: più semplicemente, bisogna ammettere che in Italia non possiamo vantare una tradizione giornalistica come quella inglese e una simile identità popolare.

Tra Italia e Regno Unito quantitativamente le differenze sono abissali: dall'alfabetizzazione alle potenzialità dei sistemi produttivi e distributivi di tutta la pubblicistica, dalla ricettività di un mercato dai larghi confini alla mole finanziaria investita nell'impresa-giornale. Si tratta di una storia diversa, le cui diverse variabili si legano in un complicato gioco di fili. Proviamo a trovare il capo di almeno uno di questi.

Il progenitore del tabloid londinese è il "Sunday Paper", il periodico storicamente votato all'intrattenimento e all'informazione della classe operaia. Nato come frutto di una contaminazione reciproca tra stampa radicale e stampa più esplicitamente commerciale negli anni a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo, il Giornale della Domenica ebbe immediatamente una circolazione ben più alta di quella dei quotidiani; i lettori erano più numerosi, non solo nei clubs e nelle coffee-houses, ma anche in luoghi impensati come, per esempio, il negozio del barbiere. Per l'operaio, la visita domenicale dal barbiere poteva rappresentare l'unica occasione di leggere un giornale oppure di sentirlo leggere.

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