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Schierarsi è bene, raccontare è meglio Alberto Papuzzi
"Molti giornalisti continuano a respingere l'idea che c'è, o dovrebbe esserci, un ruolo più ampio di quello che abbiamo giocato", scrive Davis Buzz Merritt in Public Journalism ad Public Life, apparso nel 1997, con il significativo sottotitolo "Why Telling the News in Not Enough". Con il public journalism, ultima corrente di un giornalismo vitale perché abituato ad interrogarsi su se stesso, questo giornalista ha proposto una tesi che ha scosso il mondo dei media americani, perché scavalca la tradizione del giornalismo obiettivo e distaccato, prevalente negli Stati Uniti, almeno nei quality papers. L'idea è che il giornalista non solo possa ma debba schierarsi. Limitarsi a raccontare le notizie mantenendo "una studiata indifferenza" per i loro esiti, può anche non consentire di conoscere a fondo i problemi d'una società complessa. Bisogna avere il coraggio di compromettersi, in senso nobile: sposare una causa, partecipare politicamente, per andare oltre il confine formale della notizia e accedere alla realtà invisibile che i fatti riverberano. "L'esistenza stessa della nostra professione - osserva Merritt - dipende dall'attualità di una vita pubblica": senza vita pubblica, senza battaglia politica, il giornalismo non ha senso. Di conseguenza si potrebbe arrivare a sostenere che abbia più senso quanto meno è distaccato. Questa ipotesi, se sviluppata, segnerebbe un formidabile cambiamento nella cultura professionale dei giornalisti americani, perché rappresenta una divaricazione rispetto alla tradizione del watchdog, chiave di volta del rapporto che la stampa americana si è sforzata di intrattenere con il potere, dal remoto tempo in cui delineò la figura del cosiddetto muck-raker, letteralmente colui che rimesta nel letame, secondo una definizione di Theodore Roosvelt. Tuttavia l'ipotesi non è spuntata dal nulla, poiché già negli anni ottanta Theodore L. Glasser, in Obiectivity Precludes Responsibility, aveva messo in luce come il criterio dell'astensione e della neutralità spingesse i giornalisti ad abdicare al ruolo di interpreti della realtà, per appiattirsi sulle fonti istituzionalmente accreditate, finendo per abdicare di fatto, se non nelle intenzioni, al preteso ruolo di cane da guardia. D'altra parte Edmund B. Lambeth, in un incisivo saggio che risale al 1992, The Committed Journalism, ha negato che la fairness, il principio cardine dell'equidistanza richiamato da tutti i codici americani di giornalismo, possa consistere in un "calcolato alloggiamento di paragrafi favorevoli e sfavorevoli ad effetto". L'interpretazione autentica, o objective interpretation, riguarda il senso di responsabilità d'un giornalista rispetto ai fatti notiziabili. Pagina 1, 2 |