Quotidiani: giganti in salute, piccoli in estinzione

Stefano Caviglia

 

Se siete convinti che i giornali siano entrati in una crisi epocale e irreversibile, che la televisione e Internet li stringeranno in un assedio mortale, strappandogli quel che resta loro della torta pubblicitaria, se vi aspettate l'avvento di repubbliche elettroniche in cui il quotidiano di carta sarà attuale più o meno quanto lo è oggi il grammofono a manovella e altre sciagure del genere, potete calmarvi. Niente di tutto questo succederà, almeno per un bel po' di tempo. Chi lo dice? La fonte più autorevole, in questo come in qualunque altro settore economico: i conti, i bilanci delle imprese. E questi raccontano in primo luogo che i giornali (soprattutto all'estero, un po' meno in Italia) guadagnano e anche bene. L'industria dei quotidiani ha realizzato in questi ultimi anni ottimi profitti, in molti casi superiori alla media dell'industria manifatturiera e non c'è alcun motivo di ritenere che le cose cambieranno in futuro.

Se i conti globali della carta stampata italiana sono oggi così poco esaltanti non dipende dunque dalla crisi del giornale come strumento di comunicazione, ma dalle difficoltà in cui versa un singolo settore dei nostri quotidiani: quello delle testate a minor diffusione. Una tesi semplice, piana, e tutto sommato convincente, quella che l'economista Franco Mosconi (consigliere dell'ex presidente del Consiglio Romano Prodi) espone in modo sobrio e senza particolare enfasi nel suo libro appena uscito Economia dei quotidiani, (Il Mulino, 262 pp. £ 35.000). A partire da alcuni dati di fatto:


1) I quotidiani statunitensi, con il 20,6 per cento della spesa complessiva di consumatori e inserzionisti pubblicitari, rappresentano il segmento più grande dell'industria della comunicazione.

2) Quasi tutte le più importanti aziende di comunicazione del mondo (come la Walt Disney) hanno posizioni di importanza strategica nel controllo di quotidiani.

3) Il livello dei profitti è considerato soddisfacente sia negli Stati Uniti che in Europa e così pure l'andamento dei titoli azionari. Negli Usa questi sono saliti, nel 1997, più dell'indice di Wall Street.

Insomma, una previsione di lunga vita per i giornali che non si basa tanto sul loro ruolo sociale e culturale, quanto piuttosto sulla logica dei loro conti economici. I giornali si salveranno, anzi si stanno salvando - questa una delle conclusioni cui si può giungere leggendo il libro - perché il pubblico continua ad avere bisogno di loro e perché gli inserzionisti continuano a considerarli un ottimo mezzo, forse il migliore, per fare pubblicità. E questo vale, tutto sommato, anche per l'Italia. Non per niente l'impostazione di Mosconi è pienamente condivisa anche all'interno di quei quotidiani che stanno cercando faticosamente la ricetta per riportare i conti in attivo. "Vogliamo individuare con più precisione - spiega l'amministratore delegato dell'Unità Italo Prario - il nostro segmento di mercato con un salto di qualità. Dal 19 settembre scorso abbiamo lanciato la riforma del giornale, cercando di uscire, per la prima volta, dalla tradizione del quotidiano generalista. La nuova Unità vuole essere un giornale specializzato in politica, economia e cultura". Quali sono i tempi per vedere se l'operazione funziona? "Sta già funzionando – risponde Prario – perché abbiamo visto fin dal primo mese un incremento delle copie vendute in edicola. Non nego che un cambiamento del genere sia difficile e rischioso. Ma anche conservare e aumentare le nostre 70mila copie lo è".

Se la risposta alla crisi è così semplice e chiara, allora come spiegare l'umore depresso che regna da anni nelle redazioni dei quotidiani? E come si spiegano i molti casi di testate giovani o giovanissime che hanno chiuso nel disinteresse generale (basti ricordare L'Indipendente, La Voce, L'Informazione, il Telegiornale)? Per non parlare delle grida d'allarme periodiche sulla possibilità di pagare la pensione ai giornalisti, degli smottamenti improvvisi degli assetti proprietari, delle denunce sulla qualità calante di ciò che viene pubblicato sulla carta stampata e quant'altro.

Poiché questi motivi di inquietudine e di apprensione non sono affatto campati in aria, ma d'altra parte i fatti e i numeri di cui si diceva all'inizio non si possono ignorare, vale la pena di entrare più a fondo nella ricerca di Mosconi e nella realtà economica dei quotidiani per chiarirsi le idee. E qui si scopre un altro fatto interessante e carico di conseguenze. Se è vero che i conti dei quotidiani sono complessivamente in buona salute, è anche vero che la loro proprietà è sempre più concentrata, che un numero sempre minore di mani controlla un numero sempre maggiore di testate, con barriere ogni giorno più difficili da superare per riuscire a entrare nel mercato. Anche qui i numeri parlano chiaro. Se nel 1981 la maggior parte del mercato dei media negli Stati Uniti (è questo il paese dove sono state fatte più ricerche di questo tipo) era controllata da 46 società, nel '93 si era passati a 23. Stessa riduzione drastica per il settore dei quotidiani: da 27 a 14 imprese. Lo stesso tipo di movimento si registra in Italia e in Europa.

Il punto cruciale, dunque, è che questa industria diventa sempre più oligopolistica. E ciò avviene contro una delle più generali regole dell'economia (quella secondo cui quanto più un mercato è ampio, tanto è minore la sua concentrazione, perché c'è più possibilità che i nuovi arrivati realizzino profitti). La novità vera, anzi, che costituisce l'originalità più interessante della ricerca di Mosconi, è proprio la scoperta che questa regola non funziona più per i giornali, così come non vale più per alcuni altri settori industriali. L'economia dei quotidiani è diventata, da questo punto di vista, simile a quella del settore alimentare, il primo ad aver spezzato il rapporto (in passato sempre inversamente proporzionale) fra ampiezza del mercato e concentrazione, a causa dei forti investimenti necessari in pubblicità. In entrambi i settori è accaduto che i costi indispensabili per affermare e far conoscere la qualità del marchio (i cosiddetti sunk cost, i costi "inaffondabili") sono divenuti così alti a causa della competitività del mercato, che per i giornali significa alta qualità dei prodotti, che ben pochi ce la fanno a sostenerli. Quindi possiamo scordarci che la riduzione delle spese per i macchinari, resa possibile dalla rivoluzione tecnologica, porti alla proliferazione delle imprese editoriali. Accadrà invece il contrario.

Ma questo non significa affatto che i quotidiani siano minacciati nella loro funzione. Mosconi, che si è specializzato alla London School of Economics e li esamina con la freddezza del ricercatore economico, non ritiene che questo fenomeno della concentrazione crescente debba preoccupare più di tanto e comunque non ha il minimo dubbio sul ruolo futuro della carta stampata. Quando parla al telefono del suo libro, si mostra soddisfatto di poter dare a tutti una buona notizia, che per altro considera largamente scontata. "Il giornale - è la sua conclusione - è l'equivalente di una fabbrica straordinaria, che unisce un ventaglio così ampio di abilità diverse da garantirsi l'insostituibilità per moltissimo tempo". Ora non resta che spiegarlo ai giornalisti.

Copertina | Schierarsi è bene, raccontare è meglio | Quotidiani giganti in salute, piccoli in estinzione | Media 2000: il trionfo del bla-bla planetario | Tabloid: eppure è una cosa seria | Soffre solo chi sbaglia |