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Schierarsi è bene, raccontare è meglio

Alberto Papuzzi

 

Il giornalismo italiano non ha le spalle protette da una simile tradizione, non essendoci distacco nei confronti del potere, bensì contiguità. Ciò non significa di per sé che risulti meno libero, o addirittura asservito. Il punto è un altro: nell'informazione italiana, un comportamento schierato non rappresenta una forzatura dei limiti del giornalismo, non costituisce un tentativo di andare oltre le formule tradizionali con cui la categoria confligge con la società. L'atteggiamento schierato appare coessenziale, molto al di là delle intenzioni politiche, con le basi tecniche di un'esperienza giornalistica che non ha modelli capisaldi a cui ancorare il prestigio della professione e la credibilità del sistema. Salvo casi che restano eccezionali, o come minimo minoritari rispetto alla prassi dominante, ci si schiera perché questo è il modo di concepire la professione, da quando i nostri quotidiani si interpretano come espressione di gruppi intellettuali, assai prima che come libere imprese editoriali. Direttori e redattori, ci si schiera perché non si nutre l'ambizione, in primo luogo, di un'informazione organizzata su specifiche e inalienabili competenze tecniche, dalla correttezza delle fonti alla completezza della comunicazione, e di un conseguente prodotto editoriale di qualità. Gira e volta, è poi in gioco in primis uno spazio politico, alla cui luce si giustificano le intemperanze delle interpretazioni forzate, delle virgolette fasulle, del pettegolezzo eletto a informazione, dell'intervista compiacente e compiaciuta, avvertendo invece come un morso le norme che richiamino a procedure professionali e come un'invadenza i progetti per una formazione universitaria della categoria.

La radicale differenza, in questi termini, fra il modello americano e quello italiano è una metafora della crisi del giornalismo italiano ai nostri giorni. Quanto restava di giornalismo classico, che fonda l'interpretazione sull'aderenza ai fatti, appare confinato in un cimitero dei dinosauri. Dietro gli emergenti - bravi, bravissimi, meno bravi, mediocri, pessimi, secondo giudizi sovente mutevoli - si estendono le sabbie mobili d'un giornalismo che sembra privo di consistenza procedurale, nel senso tecnico di questo si fa, questo non si fa, questo è informazione, questo invece non lo è, concedendo spazi sempre più ampi alla deriva del commento, che soffoca la cronaca, e il più delle volte vi si mescola, con colpevoli saccheggi degli eventi, in cui, come dice un noto aforisma sul giornalismo di guerra, la prima vittima è la verità. In particolare i quotidiani hanno esasperato la cosiddetta settimanalizzazione, da un lato spezzettando in una pervasiva frammentarietà l'univocità dei fatti, dall'altro inanellando una narcisistica spirale di commenti, opinioni, corsivi, divagazioni, sbeffeggi, eccetera. Le nuove tendenze, sviluppate soprattutto in una ansiosa rincorsa ai modelli televisivi ed elaborate in funzione di un sensazionalismo affidato vuoi alla scrittura vuoi all'autoreferenzialità, allargano orizzontalmente la superficie del notiziabile, con stratagemmi di cui i lettori sembrano avvertire l'artificiosità, invece di accentuare la capacità di discernere. E quasi suo malgrado la stampa italiana ha finito, in questa enfasi, per forgiare uno stile di rappresentazione del reale, alle cui convenzioni spesso i fatti sono riportati, a prescindere dai contenuti.


Perciò nell'evidenza della cronaca, sembra sovente normale titolare un fatto prima di conoscerlo dal giornalista che dovrebbe andare a vedere, per poi raccontare, secondo i dettami dell'immagine romantica; ci si attende la conferma d'una verità che si è confezionata a priori nelle redazioni, secondo i presupposti d'una idea politica ma anche secondo un marketing della notiziabilità, che àncora il ruolo del giornalista al problema della fidelizzazione dei lettori.

In questo quadro vanno esaminati i problemi attuali dell'organizzazione dei giornali, della competizione fra i media, delle forme di linguaggio e delle regole deontologiche, per capire come il giornalista possa adempiere ad uno specifico ruolo sociale, ricavando uno spazio fra il fine etico del giornale e la sua natura commerciale. Contraddizione denunciata da Walter Lippmann, nel capitolo i giornali del suo saggio L'opinione pubblica, nel 1921, 77 anni fa.

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