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Quell'incomprensione tra Europa e Stati Uniti



Antonio Carioti




Sono giorni angosciosi per chiunque si riconosca nei valori della civiltà occidentale, ma conservi il dovuto rispetto per le altre culture di questo martoriato pianeta. Le difficoltà dell'avanzata angloamericana in Iraq, di fronte a un avversario feroce e tutt'altro che sprovveduto, fanno temere una guerra più lunga e cruenta del previsto, le cui conseguenze sul contesto mediorientale potrebbero essere assai gravi. Se Saddam Hussein venisse umiliato militarmente ed eliminato in poco tempo (io ancora lo spero, ma ci credo sempre meno) la sua disfatta servirebbe da monito e forse potrebbe moderare l'oltranzismo arabo, come progettano gli americani. Ma se il tiranno di Bagdad cadesse dopo aver lottato all'ultimo sangue, infliggendo gravi perdite agli invasori, entrerebbe nella leggenda come un martire. E il suo esempio avrebbe l'effetto opposto di galvanizzare i tanti fanatici della regione.

Probabilmente gli Stati Uniti si sono fidati troppo degli esuli iracheni occidentalizzati, ben poco rappresentativi del loro paese anche se presentabili davanti all'opinione pubblica mondiale, e hanno sottovalutato la diffidenza dell'opposizione più agguerrita, quella sciita vicina agli ayatollah iraniani, che detesta l'America e Israele quanto Saddam.

Questo peraltro è solo uno e forse non il più grave degli errori compiuti da George W. Bush e dai suoi collaboratori nella gestione della crisi successiva all'11 settembre, soprattutto dopo la discreta riuscita dell'operazione compiuta in Afghanistan contro al-Qaida e i talebani. Si resta sconcertati di fronte alla pochezza della coalizione cosiddetta "dei volenterosi", messa insieme da Usa e Gran Bretagna per l'attacco contro l'Iraq. A parte le potenze di un certo rilievo che si limitano a un appoggio puramente nominale - tra cui Spagna, Giappone e la nostra Italia - per fare numero sono stati arruolati Stati alla fame e reciprocamente ostili (Etiopia ed Eritrea, ma in fondo anche Albania e Macedonia), repubbliche ex sovietiche ansiose di ricevere aiuti, paesi latinoamericani reduci da guerre civili in cui gli alleati degli Usa non hanno brillato certo per rispetto dei diritti umani (Salvador e Nicaragua). Per non parlare della Colombia, che il terrorismo diffuso (migliaia di morti ogni anno) ce l'ha in casa e non si vede proprio perché dovrebbe occuparsi di combatterlo dall'altra parte del globo. Addirittura molti governi hanno aderito alla coalizione in incognito, quasi se ne vergognassero di fronte ai rispettivi popoli. E poi c'è la Turchia, unico paese musulmano del Medio Oriente dotato di istituzioni rappresentative, che proprio perché democratica ha bocciato con un libero voto parlamentare il transito delle truppe Usa sul suo territorio, mettendo in un bel pasticcio il generale Tommy Franks.

Il guaio più grosso, comunque, è la spaccatura all'interno della Nato e dell'Unione Europea. Sarebbe sciocco idealizzare le scelte del presidente francese Jacques Chirac, che fino a poco tempo fa la sinistra ecopaficista aborriva per via degli esperimenti nucleari compiuti nel Pacifico, ma l'atteggiamento di Parigi, per quanto discutibile, è stato indubbiamente legittimato dall'approccio unilaterale dell'amministrazione Bush, la cui dottrina della guerra preventiva consiste in sostanza nell'arrogarsi la facoltà di decidere quando usare la forza in base alla propria percezione soggettiva di una qualsiasi potenziale minaccia, con tanti saluti alle regole classiche del diritto internazionale e ad ogni considerazione del punto di vista altrui nella conduzione degli affari diplomatici. Il tutto in nome di una visione millenaristica a sfondo religioso, che vede l'America come nazione prediletta da Dio e dunque investita dallo stesso Padreterno della missione di civilizzare il mondo.

Viene da ridere pensando che in economia una certa destra americana si richiama a pensatori liberisti come Ludwig von Mises e Friedrich von Hayek, la cui lezione principale consiste nel mettere in guardia contro l'ambizione "costruttivista" dei governi di dettare regole vincolanti alla società, impastoiandone le forze spontanee, in nome di ideali astratti come la giustizia sociale. Dunque pensare di mettere le briglie al capitalismo attraverso la legislazione del Welfare, secondo i seguaci di queste dottrine, sarebbe un atto di folle presunzione, destinato a produrre conseguenze inaspettate e rovinose. Ma poi essi stessi, con un atto di arroganza costruttivista cento volte più grande, pretendono di riplasmare a loro piacimento il mondo arabo, senza alcun rispetto per la sua storia e le sue tradizioni, asserendo di poterlo convertire alla democrazia a suon di missili, bombe e magari anche con qualche aiuto umanitario. Non è un clamoroso paradosso?

Tuttavia non basta criticare questi ideologi inquietanti. Bisogna anche capire perché hanno preso il sopravvento nell'amministrazione americana. E in questo il pacifismo europeo dimostra tutti i suoi enormi limiti culturali, che poi sono gli stessi del movimento no-global, di cui purtroppo il centrosinistra italiano si sta mostrando succube. Il no alla guerra senza se e senza ma (per non parlare delle gesta teppistiche, degne di ultras da stadio, degli esaltati che affrontano l'imperialismo danneggiando la pompa dell'innocuo benzinaio all'angolo e poi magari vengono accolti come eroi da cortei cui aderisce anche la Cgil) è l'espressione di un atteggiamento sostanzialmente puerile, che rifiuta la realtà, fatta purtroppo anche di conflitti brutali, per chiudersi nella torre d'avorio di un facile moralismo, da cui sputare sentenze saccenti sul mondo intero, sotto l'ala protettrice di personaggi come Gino Strada e padre Alex Zanotelli, tanto encomiabili nel loro impegno assistenziale quanto inadatti a fungere da leader. Filantropia e politica sono universi molto distanti: per capirlo basterebbe aver letto il vecchio Karl Marx.

Se tendenze simili sono riuscite a conquistare una posizione egemonica, influenzando in modo particolare i giovani, è senza dubbio perché in Occidente, e soprattutto in Europa, si è progressivamente imposta, come notava Elisabetta Ambrosi sullo scorso numero di Caffè Europa, un'etica umanistica che inorridisce di fronte all'uso della violenza sulle persone e nega alla collettività la facoltà di infliggere la morte, o anche sofferenze insopportabili, agli individui. Che altro è la guerra, se non l'applicazione della pena capitale e della tortura (si pensi alla popolazione di Bassora rimasta a crepare di caldo senz'acqua) su scala massiccia?

Tuttavia la ripulsa assoluta verso tali atrocità non è un'acquisizione recente. La stessa Ambrosi cita la ferocia incredibile dei supplizi cui venivano sottoposti i condannati sotto l'Ancien Régime, ma si possono portare anche esempi più recenti. Oggi lo spettacolo di Mussolini e della Petacci appesi a piazzale Loreto ci appare raccapricciante, ma all'epoca fu solo un dettaglio nel quadro di una guerra in cui innumerevoli vite molto più innocenti erano state stroncate.

Il problema drammatico è che la parte largamente maggioritaria del mondo attuale vive ancora in una condizione simile a quella conosciuta dall'Europa nel passato, in cui la violenza anche efferata fa un'impressione assai minore. In particolare nei paesi musulmani la cultura illuminista non ha mai attecchito. E laddove sono in corso conflitti cruenti, infierire sul nemico è considerato quasi un diritto. Basta ricordare l'episodio del linciaggio di soldati israeliani, nel primo periodo della nuova Intifada, con la scena terribile di un palestinese che ostentava orgoglioso le mani rosse del sangue di una delle vittime. Naturalmente poi l'assuefazione alla violenza diventa contagiosa. Casi come la recente uccisione di una pacifista americana, schiacciata da un bulldozer israeliano nella striscia di Gaza, dimostrano quanta strada abbia compiuto lo Stato ebraico, che pure sul piano interno resta una democrazia esemplare, lungo la deriva dell'imbarbarimento.

Agli Stati Uniti con l'11 settembre è successo qualcosa di analogo. Il trauma di un attacco proditorio, portato con la deliberata intenzione di colpire civili innocenti e ucciderne il maggior numero possibile, ha inevitabilmente abbassato la soglia di sensibilità verso l'uso di metodi brutali: basta pensare al trattamento riservato ai militanti di al-Qaida rinchiusi nella base di Guantanamo, ai quali non viene riconosciuto lo status di prigionieri di guerra, ma neppure quello di delinquenti comuni. In un clima del genere, sotto l'incubo di un possibile nuovo attentato terroristico con l'uso di armi chimiche, batteriologiche o addirittura nucleari, la dottrina della guerra preventiva ha trovato terreno fertile. E l'appello della destra israeliana attualmente al governo, con l'assai discutibile equiparazione tra Yasser Arafat e Osama bin Laden, è riuscito a fare breccia in molti americani.

Nella differente percezione del pericolo risiede la causa della vistosa divergenza tra le opinioni pubbliche di Europa e Stati Uniti. La guerra in corso non nasce da interessi petroliferi, che si potrebbero benissimo tutelare in modo assai meno oneroso, ma dal bisogno ossessivo di sicurezza che assilla l'America e che noi europei dobbiamo sforzarci di comprendere, senza per questo avallare la condotta dell'amministrazione Bush, il cui oltranzismo rischia di avvicinarci allo "scontro di civiltà", fra Islam e Occidente, delineato negli studi di Samuel Huntington e perseguito con notevole abilità e altrettanta ferocia da bin Laden. Sono quindi d'accordo con Federigo Argentieri quando elogia il generoso impegno di Tony Blair per evitare l'allargamento del solco tra le due sponde dell'Atlantico, mitigando il contrasto fra Usa e Unione Europea e cercando di pungolare Washington verso l'adozione di una linea diplomatica più moderata e aperta al multilateralismo. Il premier britannico combatte in queste ore una battaglia politica difficile e meritoria. Auguriamoci che non sia vana.

 


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