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Un giorno qualsiasi in una qualsiasi città del Nordest



Andrea Borghesi



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Un giorno qualsiasi in una qualsiasi città del Nordest. Campeggia, ingiallito, un manifesto della Lega Nord “no clandestini no sanatoria no terroristi” con tanto di mitra in bell’evidenza. La semplificazione è massima, il messaggio è immediato e dal punto di vista della comunicazione pregevole, da quello politico vergognoso. Perché se due più due fa ancora quattro, allora clandestino è uguale a terrorista. Come se sulle carrette del mare, che quotidianamente attraversano il Mediterraneo, ci fossero, con i mercanti di carne umana, i terroristi di Al Quaeda e non persone in cerca di condizioni di vita decenti. Eppure, tutti sanno che Mohamed Atta e i suoi, gli autori dell’attentato alle Twin Towers di New York, erano perfettamente inseriti negli Stati Uniti con tanto di permesso di soggiorno, carte di credito e patenti di volo; non erano certo sbarcati in Florida con una barchetta.

Campeggia ingiallito, dicevamo, un manifesto della Lega.

Il bello è che il governo si sta apprestando a varare una nuova sanatoria; sì, perché, al di là di qualsiasi possibile distinguo caro al centrodestra (non sanatoria ma le-ga-liz-za-zio-ne), è il caso di chiamarla così. A volerla non è la sinistra o i pericolosi estensori della vecchia legge sull’immigrazione, Turco e Napolitano, i cui cognomi evocano forse lidi che al Bossi fanno correre i brividi per la schiena, ma gli industriali del nord, quelli degli occhiali, del tessile, del ferro. Tanto è vero che colui che più di tutti ha combattuto per farla passare, creando anche qualche imbarazzo nella coalizione, è un mantovano, il centrista Tabacci; l’uomo che ha evitato che ad essere regolarizzate fossero solo le collaboratrici familiari e non gli operai.

Campeggia ingiallito, dicevamo, un manifesto della Lega.

“D’ora in poi non entreranno più clandestini” dice uno, che chiameremo signor X, con la Padania d’ordinanza distrattamente davanti al naso. Si, certo, se saremo capaci di alzare muri alle nostre frontiere di terra e di mare, allora si, non entreranno più. La pressione sull’Occidente da parte di cittadini dei cosiddetti paesi in via di sviluppo è un fatto ineluttabile e le coste, pur militarizzate, sono un approdo piuttosto facile. E poi, il primo dovere degli uomini di mare è salvare le persone; questo i marinai lo sanno bene, come sanno che è praticamente impossibile abbordare un motoscafo che corre a 50 nodi.

X: “Beh, almeno gli prenderemo le impronte e non sarà più possibile imbrogliare le carte”.

Giusto. Per chi si presenta senza un documento di riconoscimento. Nessuna novità, però: era già previsto nella vecchia legge. Ma chi rinnova il permesso regolarmente, avendo già dimostrato la propria identità, perché dovrebbe sottoporsi a questa pratica? Un passaporto marocchino non basta più alle nostre autorità.

Allora per rimediare, per non discriminare, prendiamole a tutti, anche agli italiani. Il rimedio è peggio del danno. Viviamo già in una società nella quale ogni spostamento, ogni spesa, ogni telefonata è potenzialmente controllabile. Il problema, semmai, è quello contrario, garantire un’efficace protezione dagli abusi nell’utilizzo e nella conservazione dei dati.

Sarebbe bene riconoscere un diritto analogo a quello previsto nel diritto penale, la presunzione di non colpevolezza, inventandone un altro, la presunzione di identità: nessuno può essere considerato diverso da sé fino a prova contraria.

X:“Chi vuole lavorare, può entrare e restare, ma chi viene con altre intenzioni… via”.

Un sistema regolato d’ingressi è necessario. Per funzionare, però, ha bisogno di tempi certi, di un’amministrazione efficiente e di diritti certi. L’introduzione del contratto di soggiorno (legare, in altre parole, la permanenza al periodo di lavoro) non risolve i problemi. Già la vecchia normativa prevedeva una durata diversa dei permessi legata alla tipologia di lavoro, a tempo determinato o indeterminato. Ridurre, però, il periodo massimo di disoccupazione da un anno a sei mesi dopo i quali è prevista l’espulsione, non produrrà il risultato sperato, stimolare, cioè, attraverso il lavoro l’autosufficienza degli immigrati e un’occupazione regolare, ma il contrario, precarietà e illegalità.

X: “Bisogna essere flessibili.”

Sí, ma il nostro è un mercato del lavoro non dinamico, risultato di un sistema produttivo di bassa qualità; ciò è dimostrato dalla carenza di produzioni ad alto valore aggiunto.

La flessibilità è spesso, in questo quadro, sinonimo di precarietà e non di opportunità. Non esiste neppure una rete di protezione sociale adeguata a compensare adeguatamente periodi di non lavoro con indennità economiche e percorsi formativi. Essendo, generalmente, gli immigrati occupati in settori dove il lavoro è molto flessibile, il rischio è che s’ingrossino le file degli irregolari. Salvo pensare che una persona che ha perso il permesso di soggiorno perché scadutogli dopo sei mesi di disoccupazione non lasci spontaneamente il territorio italiano, avendo magari anche una famiglia a carico. Ammesso che ciò succedesse, immaginiamo solo per un momento che cosa significherebbe per la nostra già ingolfata amministrazione, per le ambasciate, per le imprese, per i lavoratori ripetere l’iter burocratico di ingressi ed uscite continue dal nostro paese. Un’allucinante bagarre.

X: “Ma questa gente vuole tutto: lavoro, casa, diritti. Noi abbiamo faticato decenni per conquistarli.”

È vero, ma una società democratica non può permettersi troppe eccezioni, troppi esclusi dal suo sistema di diritti. Il rischio, infatti, è la creazione di un numero eccessivo di persone non rappresentate. Già oggi circa due milioni di persone, gli immigrati presenti, vivono e lavorano nel nostro paese ma sono escluse dalla rappresentanza; se le sommiamo a coloro che si astengono dal voto avremo una massa imponente di residenti fuori dal circuito democratico. Per quanto tempo le democrazie possono permettersi una situazione del genere? È urgente rivedere la legge sul diritto di voto alle elezioni amministrative, estendendolo anche ai lavoratori immigrati, oppure quella sulla cittadinanza, che prevede, per acquistarla, la residenza da almeno 10 anni. Si raggiungeranno così due obiettivi: il consolidamento del legame con il paese di permanenza e la riduzione della massa degli esclusi dal sistema della rappresentanza.

X:"E poi non diventeranno mai italiani, continueranno a comportarsi secondo le loro - spesso brutte - abitudini"”

La possibilità di spostamento sono enormemente aumentate negli ultimi anni. Ciò ha prodotto evidenti modificazioni nelle modalità, nella durata, nella frequenza dei viaggi. Ha modificato sostanzialmente anche le migrazioni. Coloro che si spostano per motivi economici da uno Stato all’altro, da un continente all’altro, non lo fanno più con la prospettiva di un definitivo allontanamento dal proprio paese d’origine, ma sempre più spesso mantengono con esso legami, contatti che si rinnovano stagionalmente. Il nuovo immigrato, in particolare quello proveniente dall’est europeo, mantiene, quindi, una doppia appartenenza; solo favorendo i ricongiungimenti familiari si determinerà una stabilità tale da facilitare la condivisione se non dell’ambito culturale, almeno dell’ambito giuridico di una nazione.

Il nostro interlocutore, il signor X, va via con le idee più confuse di prima convinto solo, forse, che le ricette semplici per un problema così complesso non funzionano. Slogan e scorciatoie avvicinano un consenso immediato ma alla lunga non reggono. Men che meno se si è al governo.

 

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