Dove va l’Unione europea
Silvia Di Bartolomei
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Quo vadis Europa? L’insediamento della Convenzione europea,
lo scorso 28 febbraio a Bruxelles, giustifica un interrogativo tanto
solenne, in linea con il fastoso cerimoniale di apertura dei lavori
e l’ufficialità dei discorsi d’ingresso - Valéry Giscard d’Estaing
ha celebrato il suo insediamento al vertice dell’assemblea con un
altisonante "Vive l’Europe!" - ma soprattutto in linea
con l’alta sfida che la Convenzione si accinge ad affrontare.
"Vi sono momenti - ha detto il presidente della Commissione,
Romano Prodi - nei quali i popoli sono chiamati ad affermare e a
definire le ragioni del loro stare insieme"; e Pat Cox,
presidente del Parlamento europeo, ha parlato della Convenzione come
di "una tappa decisiva e rivoluzionaria per la democrazia in
Europa".
Dunque: dove va l’Unione europea dei Quindici, che sarà presto
dei Venticinque e forse dei Trenta?
La costituzione di un organismo formato dai rappresentanti delle
istituzioni comunitarie, dei parlamenti e governi nazionali,
compresi quelli dei Paesi che saranno integrati nei prossimi anni,
è un tentativo di dare risposte ai troppi dubbi sulla natura e le
finalità dell’Ue, innanzitutto attraverso la redistribuzione
delle competenze e dei procedimenti decisionali. In un cinquantennio
di vita comunitaria, infatti, sono stati accumulati atti, norme,
decisioni, sentenze, tutto quanto viene tecnicamente definito l’aquis
communautaire, senza approdare ad un testo unico della
legislazione comunitaria.
La Convenzione è incaricata di preparare una complessiva proposta
sulla riforma dei trattati dell’Unione che tuttavia non avrà
valore legislativo, perché tale potere appartiene soltanto al
Consiglio europeo, quindi agli Stati nazionali. Ognuno di essi
potrà esercitare il suo diritto di veto nella Conferenza
intergovernativa, prevista a Roma per la fine del 2003, che
esaminerà il lavoro della Convenzione.
Ma, ancora prima del voto finale della Conferenza intergovernativa,
quali orientamenti perverranno dagli Stati nazionali alla
Convenzione? La materia ad essa affidata è infatti densa di
suggestioni che derivano dalle polemiche, oggi più vive che mai,
tra gli euroscettici e gli europeisti. Tra quanti cioè, non solo in
Italia, diffidano di un processo costituente che porterebbe ad un
rafforzamento delle istituzioni europee e quanti auspicano,
attraverso questo stesso processo, la realizzazione di un’Europa
finalmente integrata anche a livello politico.

Sul piano formale, la dichiarazione di Laeken, con
la quale lo scorso dicembre è stata ufficialmente convocata la
Convenzione, non lascerebbe dubbi sulla volontà di tutti gli Stati
di costruire un’Europa forte, più integrata, più democratica. Il
testo firmato a Laeken, infatti, dopo aver elencato i successi dell’integrazione,
dal primo trattato per una Comunità del carbone e dell’acciaio
alla Comunità economica e all’avvio dell’Unione politica,
elenca le trasformazioni in atto nel mondo. Le minacce alla pace, i
nuovi conflitti territoriali ed etnici, la violenza e l’intolleranza
montanti, il fenomeno nuovo della globalizzazione, le esigenze di
modernizzazione delle strutture economiche e di controllo
democratico sul potere tecnologico e burocratico.
Dalla complessità del quadro mondiale deriva, dunque, la sfida per
l’Europa: "L’Unione - si legge nella dichiarazione - deve
diventare più democratica, più trasparente, più efficiente. Essa
deve inoltre dare una risposta alle tre sfide fondamentali: come
avvicinare i cittadini - in primo luogo i giovani - al progetto e
alle istituzioni europei; come strutturare la vita e lo spazio
politico europei in un un’Unione allargata; come trasformare l’Unione
in un fattore di stabilità e in un punto di riferimento in un mondo
nuovo multipolare". Seguono cinquantasei domande
"mirate", che il Consiglio pone alla Convenzione per l’identificazione
dei caratteri di una nuova Europa.
Si tratta di un forte appello alla responsabilità e un richiamo ai
valori fondanti di una possibile federazione europea, consapevole
della sua storia, delle sue possibilità e responsabilità attuali.
Tuttavia, non è ancora dato di sapere se i buoni propositi e l’appello
ai valori comuni riusciranno a scardinare le resistenze degli Stati
nazionali a cedere una parte maggiore della loro sovranità alle
istituzioni sovranazionali. In questo senso non sono rassicuranti,
limitando lo sguardo all’Italia, né le esternazioni di Umberto
Bossi contro la "Forcolandia europea", né il freno posto
dal ministro della Giustizia Roberto Castelli alle prime misure per
la creazione di uno spazio giuridico europeo, né l’auspicio del
ministro del Tesoro, Giulio Tremonti, che non si vada oltre la
realizzazione di un’"Unione europea di Stati sovrani".
Il tema del pregiudizio dettato dagli interessi e dagli orgogli
nazionali della vecchia Europa è ripercorso in un recente excursus
storico di Jaques Le Goff, comparso sul Corriere della Sera,
intitolato: “Europa non guardare indietro”. Il maestro della
moderna storiografia francese ed europea afferma: "Poiché
certi Stati e certi ambienti sono refrattari o reticenti all’idea
di una Costituzione (la Gran Bretagna non ha mai voluto una
costituzione scritta) Giscard d’Estaing ha proposto l’abile
espressione di “trattato costitutivo”. Ma è chiaro che si
tratterebbe di un passo decisivo per la creazione di Stati Uniti d’Europa
di tipo federativo, termine anch’esso evitato perché spaventa
coloro che abbandonano con rimpianto la sovranità legata alla
nozione dello Stato come si è costituito in Europa dalla fine del
Medio Evo alla Rivoluzione francese. Viene allora utilizzata, per
esempio dall’ex presidente della Commissione Jacques Delors, un’espressione
di compromesso e di sintesi: Federazione di Stati-nazione".

Aggettivazioni e semantica a parte, è difficile
oggi prevedere quali saranno gli esiti della Convenzione, anche
perché, come ha notato Jean Paul Fitoussi, economista francese di
fama ed europeista convinto, il mandato ad essa attribuito è forse
"molto largo e poco chiaro".
Tracciando una diagonale tra le numerose richieste del Consiglio di
Laeken, i delegati dovrebbero trovare il punto di equilibrio tra i
poteri federali e i poteri nazionali, il metodo comunitario e quello
intergovernativo, tra democrazia diretta e delegata, tra
semplificazione dei meccanismi istituzionali e considerazione della
complessità insita nella ricerca del compromesso tra esigenze di
diversi Paesi. In breve, tra la costituzionalizzazione dei trattati
e la salvaguardia delle costituzioni nazionali.
Sono obiettivi già elusi in passato, basti pensare alla sorte della
proposta di Costituzione europea ispirata da Altiero Spinelli,
adottata e votata dal Parlamento europeo nel 1984-85, ma bocciata
dal Consiglio europeo. Obiettivi che potrebbero essere nuovamente
archiviati se nei governi europei, e nell’assemblea della
Convenzione, dovessero guadagnare terreno dubbi e paure insinuate da
forze nazionaliste e xenofobe in ascesa. L’imprevisto successo di
Le Pen in Francia dovrebbe risuonare per tutti come un campanello di
allarme. Resterebbe così aperto il problema del vuoto di potere
politico che oggi penalizza l’Unione europea sulla scena
internazionale, e rimarrebbe inascoltata la richiesta di maggiore
democrazia nei processi decisionali, avanzata dalla società civile.
L’Unione europea non può affrontare il previsto allargamento ad
Est - un processo inevitabile e opportuno fin dalla caduta del muro
di Berlino - senza fissare, una volta per tutte, il confine tra le
competenze comunitarie e quelle delle istituzioni nazionali. E senza
dotarsi di una struttura forte e di poteri reali, che le permettano
di essere parte attiva nei mercati della globalizzazione e
propositiva nelle ricorrenti e drammatiche crisi internazionali. Nei
giorni scorsi a Ginevra, alla Commissione dei diritti umani dell’Onu,
i Quindici dell’Unione si sono spaccati in tre tronconi su una
mozione riguardante i fatti del Medio Oriente. Il giorno precedente
i ministri degli Esteri dell’Ue, riuniti a Lussemburgo, avevano
deciso di non decidere sulla costituzione di una forza di
interposizione internazionale in Palestina e di non esaminare il
piano di pace del ministro tedesco Joska Fischer. Il quale ha poi
rivelato di essere stato bloccato da pregiudizi di prestigio
nazionale.
Si può essere certi che nei mesi che ci separano dalla Conferenza
intergovernativa del 2003, il dibattito sul futuro dell’Europa
sarà molto acceso. La Convenzione, comunque, ha preso il largo.
Speriamo che la tempesta antieuropeista degli opposti estremismi non
la faccia naufragare.
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