L'opinione di due lettori
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L'opinione di due lettori
Da: Gabriele Zucchini <gabriele_zucchini@libero.it>
Risposta: <gabriele_zucchini@libero.it>
A: <caffeeuropa@caffeeuropa.it>
Data: Domenica, 14 aprile 2002 12:27
Oggetto: Israele Day, così non ha senso
Ho letto con interesse l’articolo di Antonio Carioti e ne
condivido in gran parte i contenuti. Alla fine dell’articolo ho
avuto tuttavia la sensazione che avesse frainteso quello che
dovrebbe essere lo spirito di un “Israele Day”: non lo
schierarsi unilateralmente per Israele, ma ricondurre l’attenzione
sulle ragioni degli uni e degli altri. Un modo per riportare un po’
di equilibrio nell’analisi di quel gravissimo problema che
colpisce tutti noi in un modo o nell’altro.

Credo che in questo momento ci sia purtroppo un
forte squilibrio, non voglio dire a favore dei palestinesi, ma
piuttosto contro Israele. Fermo restando che ci devono essere punti
di vista differenti, accade spesso che si confondano troppi piani
differenti: Israele, governo d’Israele, israeliani, ebrei, arabi,
palestinesi, musulmani, ecc. Questa ignoranza, frutto spesso di una
disinformazione intenzionale, è causa di terribili e pericolosi
equivoci. I risultati di questi equivoci sono purtroppo sotto gli
occhi di tutti, anche nel 2002.
Ringrazio Carioti per aver scritto su questo problema e gli chiedo
scusa se non ho colto correttamente il suo pensiero; spero che si
parli coscienziosamente sempre di più di questo problema, ma
soprattutto spero che si giunga presto a una soluzione equa e
durevole.
Un caro saluto a tutti voi.
Gabriele Zucchini
Risponde Antonio Carioti:
Sono io che ringrazio lei per la sua attenzione. Purtroppo la
manifestazione del 15 aprile, che pure si è svolta in forme
civilissime meritevoli di plauso, era apertamente unilaterale, tanto
che era stata battezzata inizialmente da Giuliano Ferrara "Sharon
Day". L'appello "Per Israele", che pure portava le
firme di molte persone che stimo, non solo non muoveva alcuna
critica agli attuali governanti dello Stato ebraico, ma non
menzionava neppure i palestinesi, come se i loro diritti e le loro
sofferenze non esistessero. Per questo, pur ritenendomi un amico di
Israele, ho criticato l'iniziativa del "Foglio".
Da: francesco <shamael82@hotmail.com>
A: <caffeeuropa@caffeeuropa.it>
Data: Mercoledì, 17 aprile 2002 13:33
Oggetto: a proposito di israele e palestina
"Per fare la pace noi dobbiamo capire che la sofferenza dei
palestinesi è un nostro problema, perchè genera il terrorismo e la
violenza. Loro debbono capire che la nostra paura è un problema
loro, perchè genera i governi come quello attuale. Siamo come due
pazienti dopo un intervento chirurgico. E i medici non sono
bravi."
Amos Oz, scrittore israeliano.
Tsahal travolge tutto. Una delle immagini che diverranno
emblematiche di questa guerra è quella di un tank israeliano che
schiaccia, col suo incedere inesorabile, un’automobile. Il
cingolato passa sopra il cofano, la forza è tale che l’auto si
ribalta fino ad accartocciarsi del tutto. Il tutto in due tre
secondi circa. E in silenzio. Nella città spettrale echeggia solo
il rumore del carro armato e dell’auto distrutta. La stessa cosa
accade con le emozioni, i ragionamenti, le speranze di chi osserva
questo spaventoso conflitto cercando di capirci qualcosa. Se per un
esercito travolgere, dividere, disorientare è un compito, per
Israele è purtroppo un destino. Israele è, a seconda dei punti di
vista, uno scandalo o una speranza, un diritto o un abuso, una prova
od un errore. Lo è fin dalla sua fondazione, e prima ancora lo è l’ideale
sul quale si basa, il sionismo.
Ma la garanzia della sopravvivenza d’Israele è anche la garanzia
del popolo palestinese ad avere uno stato. Israele è il miglior
esempio del principio - per noi sacrosanto - secondo cui ad ogni
popolo spetta una patria. I suoi confini tracciati dall'Onu, violati
dalle guerre, modificati dai trattati sono la dimostrazione di
quanto questo principio sia un traguardo difficilissimo da
raggiungere. I terroristi contraddicono gli ideali che guidano la
loro sanguinaria battaglia, se pretendono di distruggere lo stato
ebraico per "liberare" la propria gente. Quest’inganno
ideologico tiene in ostaggio i consensi alla loro azione, che ancora
non riusciamo a quantificare, ma che possiamo mettere in relazione
con la politica della destra sionista, come ben illustrato nell’articolo
di Antonio Caroti (Caffè Europa n°175, 19 aprile 2002). Scatenare
l’inferno nei territori palestinesi potrà anche ridurre lo spazio
organizzativo della lotta terroristica, ma crea quello stato d’oppressione
che è il miglior bacino di raccolta per le idee estremistiche.
L’azione di governo di Sharon è sempre stata aggressiva: è
passata in poco più di un anno dalla provocazione all'intimidazione
all'attacco armato. Cominciò ancor prima di essere eletto con la
spensierata passeggiata sulla Spianata delle Moschee.
Giustificazioni per un atto del genere non ce ne sono: fu solo il
tentativo di provocare una reazione che potesse giustificare i
propri istinti bellici trasformati in programma elettorale. Un
programma in cui, spiegava Caroti, la pace è negata per principio:
l’ipotesi della costituzione dello Stato di Palestina non è mai
stata contemplata da Sharon. Che anzi propone l’equivalenza tra
Autorità nazionale palestinese e struttura terroristica senza mezzi
termini. “Distruggere le infrastrutture terroristiche” è una
delle espressioni più ricorrenti nei comunicati e nelle
dichiarazioni israeliane: ma non sarebbe stato compito innanzitutto
della polizia di Arafat? Non se Arafat diventa il principale
mandante dei kamikaze; il premier israeliano non si fa scrupoli a
dichiarare, in un intervista: “Avrei dovuto ucciderlo vent’anni
fa in Libano”.
Una simile visione del problema dovrebbe aprire una frattura tra
Israele e l’Europa. Sì, perché gran parte delle strutture dell’Anp
sono costruite con finanziamenti europei. Inoltre, l’accademia di
Svezia insignì a suo tempo (1993) Arafat del Nobel per la pace,
insieme a Rabin e Peres, proprio per i meriti avuti nel processo di
pace. Sarebbe difficile, per la cultura e la politica europea,
accettare l’idea di aver dato tanto credito e prestigio morale ad
un terrorista. E’ innegabile che su Arafat gravano ambiguità ed
errori notevolissimi; ma non sorge a nessuno il sospetto che, come
denunciato dal leader dell’opposizione moderata israeliana, l’azione
militare abbia travolto anche l’ala moderata palestinese? Eppure l’Europa
tace. Si limita a deboli, dichiarazioni di principio, che non
riescono a costituire una politica estera coerente. Invia
delegazioni diplomatiche a Tel Aviv, ma Sharon gli sbatte la porta
in faccia. L’Unione si sta dimostrando un nano politico: le
istituzioni comunitarie sono ancora troppo fragili per far valere i
propri interessi. Gli attori principali sulla scena internazionale
sono quelli di sempre: gli Stati Uniti. Che questa volta si trovano
ad agire con estrema cautela, senza alcuna garanzia di successo,
anche perchè trattato, prima di questa crisi, in maniera distratta
e sbrigativa. E nel frattempo, l’unica reale proposta di pace
rimane quella della Lega Araba, cui tutti per il momento, sembrano
guardare con occhio benevolo.

Dunque i paesi arabi assumono un ruolo chiave, in
una luce finalmente positiva. Peccato però che abbiano preferito
sempre attaccare Israele invece di adoperarsi per la costruzione di
uno Stato Palestinese, preferendo l’inumana soluzione, eternamente
provvisoria, dei campi profughi. Peccato che abbiano completamente
lasciato da solo Arafat, negandogli ogni effettivo appoggio
politico. Peccato che molti di loro siano i maggiori finanziatori
del terrorismo islamico. Peccato che siano quasi tutti regimi
autoritari e non democratici, fatti di, ricchezza delle risorse,
corruzione delle classi dirigenti e povertà delle masse. Figure
come Abdallah di Giordania spiccano per moderazione in un contesto
tutt’altro che limpido, composto di violazioni dei diritti umani e
uso propagandistico dell’antisemitismo. Ma l’ipocrisia è una
categoria non applicabile alla politica. Uno dei primi a garantire l’appoggio
al piano arabo è stato proprio il nostro premier, Berlusconi, che
ha forse preferito seguire la direzione dei suoi interessi - che a
differenza dei popoli mediorientali non sono per nulla in conflitto,
anzi! -, i quali portano direttamente al suo socio, principe Al
Waleed, della casa regnante saudita.
Un altro terribile effetto dell’aggravarsi della situazione
mediorientale è l’ondata d’antisemitismo che dilaga un po’ in
tutta Europa, e con particolare intensità in Francia. L’aumentare
delle aggressioni a sinagoghe e altri simboli ebraici è innegabile,
ma la notizia si è anche prestata alle facili strumentalizzazioni
della stampa di destra, che scambia la causa con l’effetto
(attenzione, questa è una semplificazione: non c’è un rapporto
diretto di questo tipo tra guerra in MO e violenza antisemita), e
ritiene che questa guerra sia legittimabile proprio in virtù di
quanto stanno subendo gli ebrei europei. Così, chi non approva l’agire
del governo Sharon diventa facilmente antisemita: l’articolo di
Paolo Guzzanti sul Giornale del 16 aprile s’intitola “l’ipocrisia
di chi sta sempre coi palestinesi mai con gli ebrei” (pag.5),
annullando la fondamentale distinzione tra antisemitismo e
antisionismo, sentimento quest’ultimo molto diffuso tra gli stessi
ebrei. La stessa forzatura denunciata da Carioti a proposito del
proclama del Foglio. Errore piuttosto grave, sicuramente ben
calcolato, per il quale è facile prevedere che nessuno chiederà
scusa.
Così, di fronte ad una vicenda intricata e sanguinosa come quella
mediorientale, vaste zone dell’opinione pubblica europea, sia a
destra sia a sinistra, preferiscono arroccarsi in posizioni
settarie, e demagogiche. Si rimane sconcertati per il ritardo
colpevole della nostra cultura politica, che ancora comprende
analisi gonfie di manicheismo, al limite dell’acritico. Sono
arrivati in ritardo anche i pacifisti. Dovevano prendere un
biglietto per Tel Aviv almeno sei mesi fa. Andare nel giorno dello
Shabbat in un pub del centro della città. E prendere la birra più
calda della loro vita. Mettendosi nei panni di un popolo sotto
assedio, sotto l'assedio più feroce e raffinato: l'assedio
terroristico, appunto, che fa un numero relativamente
"esiguo" di vittime fisiche (se pure il conteggio dei
morti può includere la categoria dell'esiguo: a mio parere no) ma
tiene sotto scacco un popolo intero. La storia del padre che manda a
scuola i figli su due autobus diversi sperando che almeno uno torni
a casa non è stata inventata per suscitare pietà. E' vita vissuta.
Vissuta piuttosto male. E Casarini, allora, dov'era? Che pensava
quando vedeva in tv le immagini dei locali devastati dalle
esplosioni kamikaze? Davvero una parte dei no-global - ma non solo
di loro - pensa che questa sia semplicemente una guerra dei ricchi
contro i poveri, dei forti contro i deboli? Ma allora non si sarebbe
già dovuta concludere da tempo? E le vittime, le vittime di questa
terra dove il poco diventa tanto e il piccolo grande, sono solo il
frutto di compiaciuta crudeltà? Perché ci si rifiuta di affrontare
il problema nella sua complessità? Tutti pronti a banalizzare una
realtà la cui inaudita violenza dovrebbe invece caricarci di
dubbio, la condizione dell’umano ragionare. Perché se anche
errare è umano, perseverare nel pregiudizio è invece profondamente
diabolico.
Francesco Riccardi
P.S. Mi scuso per la forma grezza, la lunghezza e anche per la
vaghezza di certe argomentazioni, ma circostanze particolari mi
hanno costretto in una situazione senza fonti da poter consultare
direttamente, e mi sono dovuto aiutare con la sola memoria di quanto
letto in precedenza. Tuttavia l'urgenza dell'argomento mi ha indotto
a spedirvi lo stesso queste note, mi sembra di non aver detto tutto
ciò che volevo...).
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