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Alla ricerca di un’identità postcoloniale



Roberto Bertinetti



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“Viviamo nelle idee. Attraverso le idee, e le immagini che suscitano, tentiamo di comprendere il mondo e, talvolta, persino di soggiogare e dominare gli altri. Ma immaginare può anche essere un gesto di liberazione”, sostiene Salman Rushdie in un saggio apparso alla metà degli anni Novanta nel quale dà conto del cammino percorso dalla letteratura contemporanea di lingua inglese per rinnovare in maniera profonda il canone narrativo tradizionale grazie alla mescolanza di realtà e finzione, ironia e parodia, oltre alla contaminazione di generi un tempo separati.

Se, a giudizio di Rushdie, una delle principali funzioni del romanzo è quella di individuare angoli prospettici alternativi per scrutare il mondo, allora è ovvio che l'esperienza dell’attraversamento dei confini offre spunti preziosi. “L'emigrazione - spiega - ci offre una delle metafore più complete della nostra epoca. La stessa parola metafora, con la sua radice nella parola greca che indica il trasportare, propone una sorta di emigrazione, un'emigrazione delle idee in immagini. Gli emigrati, individui trasportati, sono esseri metaforici per natura; e noi ci troviamo circondati dall'emigrazione vista come metafora. Tutti noi attraversiamo frontiere, siamo tutti degli emigrati”.

A chiudere in Gran Bretagna l’epoca di un unico centro sotto il profilo culturale e a inaugurare l’era del “policentrismo” è l’incontro all’inizio degli anni Ottanta tra il realismo magico di matrice latino-americana e la narrativa post-coloniale, attenta all'uso di allegorie e metafore, decisa a impiegare uno stile compositivo quanto mai eclettico e ibrido, frutto di particolarissime dinamiche, di influssi e di contaminazioni. Sotto questo profilo l'innovazione più importante e significativa introdotta da Rusdhie e dai suoi compagni d'avventura risiede nella loro capacità di scardinare i criteri ormai logori della verosimiglianza, ponendo sullo stesso piano realtà e sogno, mentre i dati oggettivi si mescolano alle irruzioni del fantastico all'interno di un gioco che costringe il lettore ad accettare i diversi livelli di realtà senza poter (o dover) distinguere tra essi.

Alla base della scelta ci sono anche motivi di natura politici, così sintetizzati in un'intervista dal messicano Carlos Fuentes: "Dietro le apparenze della realtà quotidiana c'è un'altra realtà. Perché questo è il nostro problema: scoprire la realtà, aggiungendovi qualcosa di nuovo. Non riprodurre la realtà, ma aggiungervi qualcosa". Teorizza ancora Rushdie: "I romanzi sono pieni di bugie, di bugie che dicono la verità. La narrativa dice la verità in un'epoca in cui le persone cui è demandato di dire la verità inventano storie. Abbiamo i politici, i media o chi, altri, coloro che creano le opinioni che, in effetti, inventano storie. E allora diventa il dovere di uno scrittore cominciare a dire la verità".

Proprio con l'obiettivo di rivisitare in chiave fantastica il cammino percorso dall'India novecentesca Rushdie compone I figli della mezzanotte (1981), non una semplice controstoria alternativa all'insegna della verosimiglianza, una ricerca sul tempo passato e perduto, bensì uno studio in veste narrativa del modo in cui il passato viene esaminato e ricostruito per far fronte alle esigenze del presente, usando la memoria come strumento.

Facendo leva su una fertilissima vena fantastica, promuovendo la polifonia e il proliferare dei punti di vista, Rushdie propone al lettore l'intreccio di storia, biografia e autobiografia con l'intento di sovvertire ogni visione tradizionale o convenzionale della storia. Dice in proposito Saleem Sinai, voce narrante del romanzo: "Ci sono tante storie dentro da raccontare, troppe, un tale eccesso di linee eventi miracoli luoghi chiacchiere intrecciati, una così fitta mescolanza di improbabile e di mondano! Sono stato un inghiottitore di vite; e per conoscermi dovrete anche voi inghiottire tutto quanto. Enormi moltitudini fanno a gomitate e a spintoni dentro di me". Per raccontare le storie Saleem utilizza il ricordo, lo mescola all'illusione e lo ingigantisce nel mito, usando una lingua nella quale abbondano parole prese a prestito dallo hindi, dall'urdu o dal sanscrito in frasi che vedono Rusdhie ignorare i segni di interpunzione, spesso segnate dal ritmo del contenuto sonoro, piene di fuochi d'artificio verbali.

I figli della mezzanotte è, dunque, un romanzo caratterizzato da una struttura aperta, con una trama che si ramifica nel tempo e nello spazio, dove l'unità della forma è garantita - al pari di quanto avviene in Cent'anni di solitudine - da una perenne capacità di riaprire la sfida tra l'universo della narrativa lineare, del "ciò-che-accade-dopo" (come viene definito con una punta di ironia dallo stesso Rusdhie) e l'oralità scritta di Saleem, regista di un'affabulazione corale e plurima, in cui ogni episodio si dilata, si ramifica, allo scopo, aggiunge l' autore, di "echeggiare il talento indiano di autorigenerazione infinita". E sono proprio i mille e uno bambini nati dopo la mezzanotte del 15 agosto 1947 a simboleggiare le contraddizioni, le speranze, le delusioni dell'intero subcontinente. "I bambini - commenta Saleem - possono essere molte cose a seconda del vostro punto di vista: si può considerarli l'ultimo sprazzo di ciò che c'era di antiquato e di retrogrado nella nostra nazione infestata di miti, e di ritenere la loro disfatta totalmente auspicabile nel contesto di una modernizzata economia novecentesca; oppure la vera speranza di libertà, ora definitivamente spenta".

Se l'India è, agli occhi di Rudshie, "una finzione collettiva in cui tutto è possibile", la narrazione prende la forma di un viaggio che ha per meta la destrutturazione e ricomposizione dei vari brandelli di significato compiuto sia dall'autore-narratore che dal lettore all'interno di un percorso labirintico messo a punto per svelare la natura fictional del racconto e, nello stesso tempo, per esaltarne la natura fantastica visto che, precisa Saleem chiudendo il suo fluviale racconto, "l'arte consiste nel cambiare il grado di sapore, non la sua natura e, soprattutto, nell'offrire una forma, vale a dire un senso".

Una strategia diversa rispetto a quella scelta di Salman Rushdie nella comune ricerca di un'identità in un mondo conflittuale e multietnico è proposta da Vi­diadhur Surajprasad Naipaul, nato a Trinidad nel 1934, discendente dagli indiani che si spostarono nei Caraibi durante il secolo scorso dopo l'abolizione della schiavitù, trasferitosi in Gran Bretagna nel 1950, recente vincitore del Nobel per la letteratura. Dalla sua storia privata, da questo processo di triplice "traduzione", Naipaul ricava la certezza che lo status di deraciné rappresenta la condizione comune dell'uomo contemporaneo e la ripropone nei romanzi o nei saggi usando un linguaggio opposto rispetto a Rushdie, privilegiando, spiega lui stesso "frasi semplici e concrete, che aggiungano significato a significato, per semplici stadi successivi".

All'interno dell'opera di Naipaul il dolore per la perdita di una madrepatria rappresenta il perno intorno al quale far ruotare un'indagine complessa e raffi­natissima sotto il profilo culturale e stilistico. Non può ambire al ruolo di patria l'India dei suoi antenati (un paese che gli trasmette un senso di insicurezza), non lo è più Trinidad, poiché quella colorita e miserabile della sua infanzia non esiste più e quella uscita dall'infanzia del colonialismo ha scelto di omologarsi al modello occidentale, mentre l'Inghilterra è una madre-matrigna che lo attrae ma di cui diffida. Pur rivendicando l'importanza e lo spessore delle diverse caratteristiche "locali", lo scrittore non si rifugia nel "localismo" e propone vicende con sfondi geografici diversi, venate dall'ironia, dall'amarezza, dalla satira a volte beffarda e, spesso, dalla pietà per individui senza qualità schiacciati dal peso della storia.

Per quanto riguarda il rapporto tra Naipaul e l'Inghilterra, la madre-matrigna, il testo più significativo è L’enigma dell’arrivo, romanzo del 1987 con un titolo ripreso da quello di un quadro di Giorgio De Chirico che ha al centro proprio il problema della "traduzione", segnato ad un evidente autobiografismo, un testo a metà strada tra il "conte philosophique" di matrice settecentesca e il diario, sia pure filtrato attraverso l'immaginazione. A far da sfondo c'è una Gran Bretagna rurale, un angolo di campagna che ricorda i paesaggi prediletti da Thomas Hardy, mentre in primo piano c'è una voce narrante alle prese con un doppio problema: recuperare le lontane radici caraibiche, spezzate da un lungo soggiorno europeo, e nello stesso tempo comprendere i motivi del degrado sociale e culturale di un paese (l'Inghilterra, appunto) deciso a diventare "moderno" ad ogni costo, pronto a tagliare qualsiasi legame con il suo glorioso passato.

Gli avvenimenti esteriori sono ridotti al minimo indispensabile: la vita quotidiana in una grandiosa casa edoardiana, gli operai al lavoro nei campi, un anziano giardiniere che tenta di svolgere da solo i compiti una volta affidata a sedici uomini, le stagioni che si accavallano, sempre uguali e sempre diverse. Progressivamente la realtà esterna perde peso nell'indagine di Naipaul, preso dalla contemplazione dello scorrere del tempo, dall'inquietudine per la scoperta che tutto cambia e che ogni cosa ha nella sua origine la genesi della sua fine: "Vedevo il tamburo della creazione nella mano destra di dio e la fiamma della distruzione nella sinistra", osserva. E poi riassume sulla pagina il labirintico intrecciarsi dei pensieri, partendo dal ricordo che "sin da bambino vivevo con l'idea di essere capitato in un mondo che aveva superato il suo momento migliore".

Rammenta così i viaggi per i vari continenti, il dolore per "l'assenza di radici e il desiderio di pienezza della mente" e arriva a concludere che l'unica possibilità di sintesi è offerta dalla scrittura, che permette "di prendere atto della morte e di affrontarla". Rispetto a Rushdie la differenza è sostanziale. In un caso, infatti, il processo di "traduzione" si realizza attraverso sintesi di percorsi diversi ma non alternativi, mentre la ricerca dell'identità in Naipaul approda al pessimismo, confermato dalla sottolineatura dell'inarrestabile processo di decadenza che accomuna l'Inghilterra e Trinidad.

Il mondo degli emigrati asiatici nel Regno Unito è invece al centro dell’opera di Hanif Kureishi, già sceneggiatore per il regista Stephen Frears (My Beautiful Laundrette, Sammy and Rosie vanno a letto). I suoi romanzi e i suoi racconti hanno fatto nascere laceranti controversie tra gli asiatici d’Inghilterra che rimproverano allo scrittore di aver offerto un’ immagine degli indiani e dei pakistani non rispondente al vero. Aver dipinto la cultura asiatica allo stesso modo caricaturale di quella bianca è, tuttavia, il merito più evidente dell’opera di Kureishi che, a giudizio di Salman Rushdie, rappresenta uno dei tentativi meglio riusciti di provare a comprendere la Gran Bretagna contemporanea con tutto il suo carico di isteria, disperazione e fanatismo razzista.

Fustigatore dell’egoismo di matrice thatcheriana, Kureishi denuncia il caos dei rapporti personali tra gli adolescenti e gli adulti di borgata in un paese che, sottolinea uno dei suoi pakistani trapiantati a Londra, “ci ha fregati vendendoci un paradiso che non esiste”. A soffrirne sono in modo particolare i giovani quando si accorgono che “il sogno occidentale non si è realizzato”, chiudendoli dentro un labirinto. Se il presente è colorato di nero, c’è comunque la possibilità di un futuro migliore da costruire seguendo i precetti religiosi. Ne è convinto il protagonista del racconto Mio figlio il fanatico - diventato un film nel 1997 per la regia di Udayan Prasad - quando accusa il padre di essere “servile” verso i bianchi, e quindi aggiunge: “Le cose cambieranno quando smetteremo di sentirci inferiori. Nel mondo non c’è solo l’Occidente, anche se l’Occidente è convinto di rappresentare il massimo”.

Sotto il profilo politico Kureishi si dice certo che “così come gli individui ripensano alle loro identità, altrettanto devono fare le nazioni”. Un processo certo non semplice in un paese che nel 1981 approva una legge voluta da Margaret Thatcher con la quale viene revocato il diritto automatico alla cittadinanza britannica per tutti i figli di immigrati, ad eccezione dei casi in cui uno dei genitori sia britannico per nascita. Si tratta comunque, aggiunge Kureishi, di una strada senza alternative. “E’ necessario - ha scritto - che gli inglesi accettino il fatto che indiani e pakistani vivono in Inghilterra e che sono parte non secondaria della vita di questo paese. E’ la definizione di ciò che significa essere inglese a dover cambiare in fretta”.

Il segnale simbolico che la Gran Bretagna contemporanea ha comunque in­tenzione di affrontare in maniera innovativa il tema dell’identità nazionale viene da un documento elaborato nell’ottobre dello scorso anno da una commissione governativa in­caricata di riflettere sul futuro del paese. Nel quale si propone, tra l’altro, di abolire l’aggettivo British perché pieno di “pericolose connotazioni razziali”. Per la prima volta in Occidente si chiede in maniera ufficiale a una nazione di “dichiararsi formalmente una società multiculturale”, di trarne le conseguenze sul piano legislativo, di istituire una commissione permanente sui diritti umani e persino di cambiare la sua bandiera “perché nell'Union Jack il nero non c'è ma campeggiano solo le insegne crociate di una conquista militare”.

Difficile credere che i suggerimenti della commissione possano venir accolti in tempi brevi. Ma i problemi che solleva sono ormai evidenti a tutti e il futuro appar­terrà a chi saprà indicare le soluzioni meno traumatiche per costruire l'identità di un paese che, diceva George Orwell, “assomiglia a un animale che si allunga dal passato al futuro, dotato, come ogni essere vivente, del potere di cambiare rimanendo se stesso”. Forse il punto di partenza per il nuovo secolo e il nuovo millennio può essere quello suggerito da Salman Rushdie, quando sostiene in un saggio: “L’arte è una passione della mente, e l'immaginazione si muove meglio quando è libera”. Una sintesi intelligente per chiarire che, in Gran Bretagna come altrove, si prova a fare i conti con un mondo ormai privo di cen­tri, in cui le tante periferie sono chiamate a rapportarsi tra loro.

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