Dionisismo, coribantismo e
terapia
Georges Lapassade
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Quello che segue è l'estratto dell'intervento di Georges Lapassade,
Docente di Etnosociologia - Università Parigi 8 al simposioDioniso,
il dio dell'ebbrezza - dall'antropologia del bere alla cultura della
salute, che avrà luogo l'11 marzo 2002 al Teatro Litta di Milano.
I culti di possessione sono cerimonie pubbliche nel corso delle
quali alcuni adepti in transe sono considerati posseduti dai loro
"geni" che si manifestano attraverso gesti particolari,
passi di danza specifici, ecc. Le entità sovrannaturali che si
manifestano in questo modo sono, per così dire, convocati dai
musicisti che conoscono le loro "devises" musicali e
vocali. All'ascolto di queste devises gli adepti dell'entità
invocata entrano in transe e danzano.
Perché il sistema funzioni è necessario inoltre "che questi
stati di transe siano riconosciuti dal gruppo sociale come dovuti
alla possessione di questi individui da parte di una o più entità
spirituali" (Bourghignon 1968). Per gli osservatori che non
condividono le credenze locali queste danze sono viste come balli
liturgici che comportano supposte mimesi a rappresentazione di
taluni tratti che caratterizzerebbero le entità che si
manifesterebbero in quel momento. Gli spettatori partecipanti sono
convinti che gli dei invitati a manifestarsi sono presenti e
danzano.
Erika Bourghignon (op. cit.) asserisce che esistono due grandi
categorie di riti di possessione:
- quelli senza finalità terapeutiche, come il culto degli "orixas"
e quelli del "vodun" in Africa occidentale, come il Voudu
di Haiti; propongo di designare questa categoria A come
"possessione liturgica".
- I riti di possessione con finalità terapeutiche (categoria B),
tra i quali e tra gli altri, il coribantismo dei greci antichi, il
"zar" dell'Etiopia, il "bori" nigeriano, lo
ndöp wolof (Senegal), ai quali si può aggiungere lo "stambali"
tunisino, la "derdeba" marocchina, il tarantismo
del sud d'Italia.
Qui mi occuperò solo dei riti di possessione con finalità
terapeutiche.

1. Il coribantismo
Nell'antica Grecia si chiamavano "coribanti" allo stesso
tempo i geni associati alla Grande Madre dell'Asia (Cybele), i
sacerdoti di questa divinità ed i terapeuti uomini e donne, che
trattavano le "vittime" dei coribanti attraverso uno
specifico incantesimo rituale.
Questo incantesimo rituale comprendeva:
1. una diagnostica musicale;
2. un sacrificio offerto da ciascun paziente alla divinità con la
musica del quale aveva avuto una reazione ed una osservazione dei
presagi;
3. una danza cui partecipavano coloro che avevano patrocinato il
sacrificio, ed ai quali apparivano le divinità (figurate forse
comesacerdoti?) che si supponeva vi prendessero parte; (Doods 1965,
p. 102-3, nota 102);
Innanzitutto ed a proposito della diagnostica musicale, in Platone
("Ion", 536b) si trova la seguent precisazione:
"le genti dei coribanti (korobamtiontes) non reagiscono (saissent)
con prontezza che ad un'aria (melous), quella del dio che li
possiede (katechôntaï) e, per conformarvisi trovano senza
difficoltà gesti (schênaton) e parole senza interesse per le
altre".
L'essenziale è indicato qui in una sola frase: i coribanti
"possiedono" le loro vittime, che entrano in transe
all'ascolto di un'aria (melous) associata al loro genio, cosa che
permette d'identificarlo e d'ingaggiare con lui un processo di
riconciliazione e d'alleanza. Ma si manca di precisione sui disturbi
di coloro che facevano ricorso alla terapia coribantica.
La diagnostica musicale finalizzata ad identificare il coribante che
si suppone essere all'origine del disturbo, consiste nell'ascolto da
parte di questi posseduti di formule musicali che Rouget descrive in
termini di "devises" (divise), una nozione che designa la
combinazione di una breve
formula melodica con un ritmo e specifiche parole. All'ascolto di
una di queste devises il posseduto entra in transe trovando, in quel
preciso momento, "gesti e parole" - riprendo qui la
formula di Platone - corrispondenti al dio o al "genio"
che si manifesta così e che si può da questo momento identificare.
La manifestazione di questo essere sovrannaturale - di questo
coribanto - implicava "gesti e parole":
- i gesti erano espressioni mimate che esprimevano il modo in cui i
coribanti avevano l'abitudine di comportarsi (c'è qui, in effetti,
una specie d'universale dei riti di possessione: le entità
sovrannaturali che possiedono gli umani sono coribantizzate ciascuna
da un colore, una divisa
musicale, un profumo particolare, certi tratti del carattere, ecc; -
quanto alle "parole", bisogna supporre, deboli di
precisazioni su questo punto, che il soggetto in transe era in
qualche modo "parlato dal dio".
Relativamente alla fase del sacrificio - la seconda parte del
dispositivo coribantico - non ho trovato in alcun luogo indicazioni
precise, ma, anche qui, si rilevano analogie con i riti di
possessione che d'altro canto conosciamo: questi sacrifici hanno per
finalità essenziale di placare il dio che tormenta il (o la)
posseduto, di patteggiare con lui e di ottenere
così la "guarigione".
La terza ed ultima fase del rito coribantico è quella di una danza
collettiva di possessione nel senso stretto e delimitato di questo
termine che ovunque designa, l’ho ricordato prima nell’introduzione,
una danza generalmente collettiva e pubblica effettuata in stato di
transe. I coribanti che danzano in questa ultima fase della terapia
ed esibiscono la capacità di padroneggiare e “rappresentare”
nel “teatro della possessione” i coribanti che li avevano
precedentemente tormentati.
Ciò implicava probabilmente momenti di mediumnismo, talvolta detto
anche di “profetismo”, durante i quali prendevano la parola i
coribanti. In un vecchio testo di Phrjgien Arriers, citato da
Oesterreich, si può leggere quanto segue:
“Sono furiosi, posseduti da Rhea e dai coribanti, ciò significa
che si dimenano alla maniera dei coribanti posseduti dal demonio.
Non appena il demone ha preso possesso di loro si precipitano,
proferiscono crisi, danzano ed annunciano l’avvenire, furiosi e
spinti da Dio” (Oesterreich 1927, p. 423).
Il processo coribantico funzionava così come una iniziazione che
conduceva alla padronanza ritualizzata di una possessione prima
subita nella sofferenza. È ciò che ho descritto altrove (Lapassade
1998) come il passaggio da una dissociazione subita ad una
dissociazione padroneggiata, gestita.
La cerimonia collettiva con danze e transe attraverso cui si
conclude il processo terapeutico di tipo coribantico può essere
vista come equivalente dei riti di possessione liturgica. La
differenza fondamentale consiste nel fatto che
- nei riti di possessione con finalità liturgica e senza esplicite
finalità terapeutiche, la danza collettiva comporta, si è visto,
da parte degli adepti in stato di transe, l’incarnazione di
divinità e può essere preceduta da un sacrificio. Ma questo
sacrificio e questa danza collettiva non funzionano come nei riti
terapeutici avendo solo una finalità liturgica di celebrazione;
- questa liturgia di celebrazione si ritrova così alla fine del
processo terapeutico di tipo coribantico ma questa volta soltanto a
titolo di conclusione di un processo di cui non è necessariamente
un momento essenziale (nello ndöp, per esempio, il momento
essenziale della terapia è quello del sacrificio e dell’erezione
di un altare);
- la persona che è stata sottomessa alla terapia di tipo
coribantico partecipa a aquesto rito collettivo terminale solo
allorquando sarà considerata come guarita - quando la sua
possessione iniziale selvaggia e tormentosa sarà stata rovesciata
in possessione gestibile, controllata e padroneggiata.
Un adorcismo
Contrariamente a ciò che si può leggere fin troppo spesso tra i
grecisti che si sono occupati della questione (soprattutto Doods
1965; Jeanmarie 1951) così come in Ernesto De Martino (1961) la
terapia coribantica non era un esorcismo; sfociava, al contrario ed
attraverso un capovolgimento della possessione iniziale che
implicava una riconciliazione, in un adorcismo (De Heusch 1971).
Ma dato che, se si esclude G. Rouget, coloro che si sono occupati di
coribantismo non disponevano di questo concetto, hanno, a proposito
del coribantismo, generalmente parlato di “esorcismo”.
Dunque, contrariamente a ciò che accade nell’esorcismo, la cui
finalità è l’espulsione dei demoni, nel coribantismo non si
pensa affatto ad espellere gli dei, si cerca al contraroi di
placarli, di allearsi con loro.
Si trasforma - l’ho già detto e lo ripeto - la sofferenza
iniziale in gestione e padronanza e la persona che ha acquisito
questa competenza può partecipare conclusivamente asl rito pubblico
di possessione dove incarnerà il dio o il genio ormai
addomesticato. Lo farà con i gesti appropriati ed anche, talvolta,
con le parole dette da questo dio attraverso il suo medium in transe.
La funzione della musica
Mi sembra utile offrire qui, con G. Rouget (op. cit.) qualche
precisazione sulla molteplicità delle funzioni terapeutiche della
musica nel coribantismo come negli altri rituali che possono
rientrare nella stessa categoria terapeutica :
- i greci del coribantismo utilizzavano soprattutto l’Aulos (che
secondo Rouget non era un flauto, ma uno strumento ad ance come il
clarinetto, l’oboe) ed anche i crotali ed i tamburelli a cornice .
- nella fase della diagnostica musicale la musica agiva, per dirla
ancora con Rouget, non attraverso effetti emozionali, ma in quanto
codice, in quanto devise .
- nel rito pubblico della possessione ritualizzata, con danza e
transe, la musica aveva una funzione complemantare che si può
ancora osservare altrove in altri riti : la musica introduceva nel
disordine della iniziale possessione selvaggia un ordine che
rappresentava secondo Platone l’ordine del cosmo e che per Rouget
è invece quello della società .
È nel corso di questa fase terminale - quella della danza della
possessione collettiva dei coribanti - che aveva probabilmente luogo
“intronizzazione” dell’implorante (alcuni autori autori
situano questa “intronizzazione” nella prima fase, ma
personalmente non ho trovato mai un’argomentazione rigorosamente
irrefutabile per condividere questa impostazione) .
Questa intronizzazione rappresentava probabilmente un rito d’accesso
della persona che aveva beneficiato della terapia nella “confraternita”
dei coribanti, iniziata e per conseguenza dunque ammessa a
partecipare alla danza collettiva di possessione .
Coribantismo e Menadismo
La maggioranza dei commentatori , comunque quelli che ho già
citato, ha spesso la tendenza a mettere sullo steso piano il
dionisismo ed il coribantismo integrandoli nella categoria più
generale dei “riti” di possessione .
Rouget sembra adeguarsi a questa tendenza ma vorrei tuttavia
rilevare dal suo libro un passaggio che fa riflettere .A proposito
delle compagne di Dioniso, le menadi (il termine è formato a
partire da mania, termine che designa insieme la follia, il
delirio, la transe) Rouget scrive (p.275)
“se Platone si astiene da ogni riferimento alle Menadi, è forse
perché non sono legate alla dimensione terapeutica della trance”.
Leggendo le Baccanti di Euripide (soprattutto nella versione
proposta da Festugere ) si constata in effetti che il coro delle
Menadi con cui si apre la tragedia - il Parodos - è
caratterizzato dalla sua dimensione di trance estatica che non è la
tranvce (delirante) di “possessione” delle Baccanti.
JeanMarie, nell’opera già citata, d’altronde utilizza delle
refernze etnografiche molto differenti a seconda che si tratti del
coribantismo o del menadismo (termine che si riferisce, in genere,
al culto di Dioniso):
- quando tratta del coribantismo fa riferimento al culto Bori ed a
quello Zar che sono, l’ho già detto, a finalità terapeutica.
- Ma quando parla del menadismo, stabilisce un parallelo con il rito
estatico degli Aissaua marocchini che, anche se comporta per effetto
di un sincretismo locale taluni aspetti della possessione
(soprattutto per gli animali che gli adepti imitano nel corso della
Hadra) è fondamentalmente una cerimonia di origine sufi.
E tuttavia se si vuol vedere a tutti i costi nel rito dionisiaco (
quale esattamente? Di quale epoca? Di quale luogo?) un rito di
possessione, è nella prima categoria di Bourghignon che bisognerà
classificarlo, poiché non c’è niente che inichi che la sua
finalità sarebbe stata (quando? Come?) terapeutica….
Ma l’elucidazione di questo punto non è indispensabile allo
studio del coribantiusmo e che ci teneva ad indicare semplicemente
il fatto che mettere assieme, in uno stesso sviluppo, come
troppospesso fanno i commentatori, il dionisismo (o menadismo) ed il
coribantismo, srischia di introdurre inutilmente confusione laddove
e particolarmente richiesto uno sforzo di chiarificazione e
differenziazione.
2. Il dispositivo terapeutico bilalialo, stambali e derdeba
I riti maghrebini dello stambali a Tunisi, dlele derdeba in Marocco
e del Diwan di Sidi Bilal ad Algeri sono dei riti di possessione a
finalità terapeutica.
Per designare l’insieme di questi rituali che presentano numerosi
tratti comuni, riprendo qui la nozione di “bilalismo” che
altrove prende altri significati e che fa riferimento a Bilal, il
nero abissino converito all’Islam, diventato poi il muezin del
Profeta.
Per presentare nel suo schema terapeutico essenziale questo
bilalismo, utilizzerò due ricerche fondamentali: quella di Ahmed
Rahall (2000) sullo stambali tunisino e quella di Abdellatif Chligeh
(1999) sugli Gnaoua marocchini così come utilizzerò qualche mia
personale osservazione di campo.
Lo stambali
In senso stretto lo stambali è un rito di possessione collettivo e
pubblico. Costituisce, in realtà secondo Rahall, l’ultima tappa
di un processo terapeutico che passa attraverso diverse fasi:
1. la consultazione, che è la rpima tappa del processo terapeutico,
“consiste nell’identificare prima di tutto l’origine
soprannaturale del disturbo”. Questo è il lavoro specifico della
veggente. Quest’ultima può così procedere con una diagnostica
olfattiva, ma ciò è meno sistematico se si fa eccezione per il
culto sudanese dello zar. La veggente brucia dunque gli incensi dei
geni fino al momento in cui si produce la trance rilevando così
più l’origine soprannaturale del dsturbo, il suo responsabile.
2. In seguito “la paziente è orientata verso un altro officiante,
il Maallem il cui ruolo è quello di identificare o di “nominare”
il genio che tormenta la consultante”. È la diagnostica musicale:
allorchè il o la consultante entra in trance all’ascolto della
divisa di un santo o di un genio, questo è identificato
3. allorchè sono stabilite origine e natura del malessere si fa un
accordo col maallem per la celebrazione di un rito di
accompagnamento verso lo spirito patogeno. La famiglia committente
negozia, l’ammontare della retribuzione del gruppo e una caparra
per il maallem.
4. “il sacrifico rappresenta un elemento essenziale o sistematico
del dispositivo di terapia iniziatica ……l’animale sacrificato
serve alla preparazione del passo liturgico comune che divideranno
gli invitati, nel corso della cerimonia notturna ed in omaggio alle
entità sovrannaturali.
Il Maallem accompagmato dalla sua orchestrina raggiunge il
luogo del sacrificio per suonare l’incantesimo dello spirito del
nuovo eletto. Poi brucia i profumi che lo attraggono … . Egli
procede in seguito all’immolazione … che costituisce il
principio stesso dell’offerta. E’ il supporto sul quale si
stabilisce il legame di comunione e di conciliazione con lo spirito.
5. Il processo terapeutico ed iniziatico si sviluppa attraverso una
liturgia musicale celebrata in omaggio agli spiriti alleati … . La
celebrazione ritale dell’alleanza segue la fine del dispositivo
terapeutico. Ma questa nuova alleanza contrattata con lo spirito
patogeno, diventato alleato e protettore, esige la perpetuazione,
sotto forma d’obbligazione, di celebrazioni e di offerte
sacrificali che il nuovo adepto sarà tenuto ad onorare … . La
cerimonia rituale, ultima tappa del dispositivo, costituisce con
ogni evidenza una entrata nella pratica liturgica della
confraternita … . La terapia non si realizza che attraverso la
liturgia collettiva che mette fine alla procedura … . Ed,
inversamente, la celebrazione che la paziente organizza in omaggio
al suo spirito patogeno comporta una dimensione terapeutica.
La derdeba
Le tappe del processo terapeutico tunisino si ritrovano, a dispetto
delle differenze legate al contesto culturale, nel processo
terapeutico dei Gnawa marochini così come è descritto da A Chlyah
soprattutto a proposito del “moussem” (?) della veggente
(A.Chlyah, 1999, cap. VII).
Non si troverà qui il momento della consultazione e diagnostica,
poiché la veggente che organizza qiesto moussem, il suo moussem
nel proprio domicilio, per se stessa e per la clientela già
conosciuta, è lo stesso fondamento della sua professione, l’identità
dello spirito che un tempo l’aveva tormentata per farle sapere che
aveva deciso di farne la sua sacerdotessa.
Ma a prescindere da ciò, si trovano qui, in questo moussem,
le grandi fasi del dispositivo coribantico:
a) una diagnostica musicale può aver luogo così all’interno del
rito collettivo di possessione, durante il moussem,
allorquando qualcuno inaspettatamente parla () e più esattamente è
parlato, facendo ascoltare la vose del suo melk (il suo
spirito possessore);
b) il sacrificio è lungamente descritto da Chlyeh (pp. 94-96);
c) il rito notturno di possessione (la lila di derdeba)
è annunciata da un maestro-musicista, la sua troupe ed il suo
assistente (Zoukay) e soprattutto dalla veggente-terapeuta
aiutata dall’arifa e dalla servitù. Egli riunisce gli
adepti, i pazienti della veggente ed i suoi invitati occasionali (Chlyeh,
op. cit., p. 96 e passim).
E’ il culto pubblico e danzante della possessione ritualizzata.
Come per lo stambali questa cerimonia è lontana dal
costituire l’insieme del dispositivo terapeutico dei Gnawa
marocchini: ne rappresenta solo la conclusione. Ma essendo pubblica,
aperta e spettacolare, si può essere tentati di vedervi l’insieme
del processo e questa percezione inoltra rischia d’essere
rinforzata oggi dalla mediatizzazione della musica bilaliana, dalla
sua inscrizione nell’attuale moda delle musiche etniche.
Mettendo in primo piano il ruolo dei musicisti bilaliani, quando
invece il loro ruolo tradizionale è quello d’essere assistenti
della veggente-terapeuta, questa moda contribuisce a produrre una
distorsione nella percezione del rito terapeutico di Bilal.
3 Il Tarantismo ieri e oggi.
Nel Salento la danza detta del ragno, volta a trattare e
èpossibilmente a guarire il male provocato, si dice, dal morso,
reale o supposto, di una tarantola, ha per supporto musicale una
variante locale della tarantella, chiamata pizzica tarantata.
E’ stato provato che l’effetto di questo morso è generalmente
immaginario. Ma per la credenza popolare, il veleno della tarantola
produce alla vittima uno stato patologico accompagnato, si dice, da
un bisogno irresistibile di danzare. Si dice anche che la funzione
di questa danza terapeutica è quella di espellere il veleno
attraverso il sudore (De Raho 1908).
E. De Martino, nell’opera che consacra al tarantismo pugliese,
mette in guardia contro “la tentazione di considerare il
tarantismo come una reliquia o una sopravvivenza di
elementi corrispondenti le cui tracce risalirebbero al mondo
classico o più generalmente alla civilizzazione del mondo antico”.
Se si deve rinunciare, con E. de Martino, all’ipotesi della “sopravvivenza”
(ipotesi genealogica) secondo la quale il tarantismo
rappresenterebbe un coribantismo degenerato, si può sottolineare,
con l’autore de La Terra del rimorso ( si veda il capitolo
4 soprattutto la terza parte), l’analogia tra i due rituali.
Si ritrovano in effetti nel dispositivo del tarantismo due momenti
essenziali del coribantismo: la diagnostica musicale e la danza
pubblica di possessione. Ma:
- qui non c’è sacrificio;
- il momento della diagnostica musicale non è separato - almeno nel
momento in cui De Martino conduce l’inchiesta sul tarantismo -
dalla danza pubblica della tarantata (o del tarantato) in stato di
transe.
- All’avvio di questa danza rituale che ha luogo nel domicilio
della tarantata con il sostegno di una piccola orchestra (organetto
diatonico, violino, chitarra, tamburello …), si suonano arie
differenti di pizzica fino al momento in cui il (o la)
tarantato(a) esce dalla sua letargia e comincia a … ad agitarsi.
Si pensa allora di aver identificato la tarantola il cui morso è
all’origine dei disturbi poiché, nel mordere la sua vittima le ha
comunicato la sua divisa musicale (si sosteneva … un tempo che all’ascolto
di talune tarantelle, le tarantole danzavano …);
- La vittima della taranta danza sola (sempre al tempo dell’inchiesta
di de Martino), ma si deve dire che in altre occasioni danzassero
anche membri della sua famiglia o del suo entourage senza alcun
dubbio per aiutarla ad effettuare questa danza che durava
generalmente più giorni …;
- a ciò fa seguito un pellegrinaggio alla cappella di S. Paolo a
Galatina (o verso altri santuari) cosa che ci permette di fare degli
accostamenti al bilalismo maghrebino dove allo stesso modo la
terapia domiciliare dei Gnawa (per il Marocco) si accompagna, in
genere, a visita a taluni santuari (marabout).
Altre analogie tra tarantismo e coribantismo:
nei due casi il sistema implica l’esistenza d’un insieme di
entità sopranaturali (poiché le tarantole sono in realtà delle
entità mitiche) con le loro specifiche caratteristiche.
Le tarantole del tarantismo sono caratterizzate, come i
geni-coribanti, da un colore, una divisa musicale.
Ognuna ha il suo carattere: una tarantola è libertina, tal altra è
guerriera, un’altra ancora è vedova oppure orfanella … .
Possessione sonnambulica o possessione lucida?
Rispetto alla transe della tarantata, De Raho (1908) offre una
precisazione molto utile:
“Interrogate dopo aver concluso la loro danza … è il veleno
che le ha obbligate …” (p.33).
Secondo E. De Martino invece dopo più giorni di danza terapeutica,
le tarantate dimenticano tutto … .
Riprendendo le categorie di Oesterreich, si potrebbe dire qui, che
secondo quanto osservato De Raho, la possessione delle tarantate
sarebbe di tipo “lucido” (colui che ha danzato in stato di
transe osserva il proprio stato durante la transe, ma senza poterlo
modificare), mentre invece, sulla base delle osservazini di E De
Martino, si tratterebbe di una possessione di tipo sonnambulica
(nella quale colui che ha danzato in stato di transe di possessione
dimentica tutto “al risveglio”).
Esorcismo o adorcismo?
De Martino definisce il tarantismo come un “esorcismo
cromatico-musicale”. Gilbert Rouget (1980) contesta questa lettura
e, sulla base della descrizione del fenomeno di E De Martino e di D.
Carpitella, lo prsenta al contrario come una sorta d’adorcismo,
sottolineando il fatto che la tarantole allorquando striscia sul
suolo, s’identifica con l’insetto, diventa l’insetto, cosa che
rappresenta un tratto essenziale di tutti i riti di possessione. Vi
era uguale identificazione al ragno allorquando la tarantolata, in
una seconda fase di questa coreografia, si sospendeva a delle corde
legate al soffitto: De Raho (1908) pubblicò delle foto in cui si
vedono le tarantate danzare così.
Mediummismo?
Nel 1602 il dott. Vincenzo Bruno di Melfi pubblicò un dialogo -
immaginario - di due filosofi sul tarantismo (parzialmene riprodotto
in G. Di Lecce 1994). Uno di loro, Pico, descrive per Opaco i
prodigi che gli è accaduto, asserisce, d’osservare. Una dama,
essendo stata morsa da una tarantola al piede destro, si mise a
comporre poemi ed a fare predizioni. Un’altra anch’essa vittima
di una tarantola:
“leggeva il vangelo secondo San Giovanni, recitava l’introduzione
alla messa, l’Ave Maria, il Pater Nostro ed il Credo e le litanie,
poi faceva una riverenza e così rientrava in se stessa, si riposava
e danzava così per qualche giorno, cantava e praticava anche la
divinazione!”.
Teatralità del tarantismo.
La coreografia della tarantola presenta i tratti essenziali della
danza di possessione:
- questa danza si presenta come un teatro nel quale si manifesta una
entità soprannaturale, cosa che noi abbiamo tradotto in termini di
mimo, ma che per gli adepti presenti e per i danzatori è un’incarnazione
e non un’imitazione;
- c’è un simbolismo dell’abbigliamento ridotto nel tarantismo
all’utilizzazione di nastri di diversi colori;
- - la danza-mimo comporta una gestualità che cambia a seconda
delle entità implicate: c’è la tarantola erotica che si
manifesta nei danzatori in transe tramite una gestualità lasciva;
esiste o è esistita una tarantola guerriera la cui danza è,
appunto, guerriera … ;
- le forme musicali e le parole che le accompagnano sono divise
differenti associate alle divinità invocate.
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