I referendum
Augusto Barbera e Andrea Morrone
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La crisi di un sistema politico
I referendum
Quello che segue è il testo della relazione al Convegno su "La
Crisi di un sistema politico", Sessione II, "Problemi
istituzionali", nellambito dei Convegni di studio su
"LItalia repubblicana nella crisi degli anni Settanta"
- che si è tenuto a Roma il 6 e 7 dicembre
1. Referendum e Assemblea costituente
Di referendum in Assemblea costituente si discusse insieme a questioni
attinenti alla forma di governo parlamentare. La scelta per questultimo
modello di organizzazione del potere statale finì per condizionare
la prima: poiché il rapporto tra referendum e forma di governo parlamentare
era concepito in termini antagonistici, i Padri costituenti si preoccuparono
di ridurre al minimo la contrapposizione tra lelemento plebiscitario
insito nelle consultazioni popolari dirette e gli istituti della
democrazia rappresentativa.
Nella predisposizione degli istituti referendari, in particolare,
i Costituenti si attennero allimperativo di mantenere indenne
il circuito politico rappresentativo da qualsiasi forma di alterazione
o contaminazione proveniente dalla «variabile referendaria». Questa
posizione venne fortemente influenzata dagli esponenti di cultura
liberale presenti in Assemblea costituente, fermamente convinti
che lintroduzione di qualsiasi forma di "razionalizzazione"
del modello parlamentare avrebbe creato «delle incompatibilità logiche
tali da provocare contraddizioni insuperabili e riuscire in definitiva
ad una alterazione, addirittura, del funzionamento di quella forma
parlamentare i cui dati essenziali non si possono mutare senza comprometterne
lesistenza».

Tale posizione venne tuttavia favorita da quanti
temevano che il ricorso alle consultazioni dirette potesse mettere
in discussione la centralità dei partiti di massa. E questa
la ragione per cui accenti non distanti si potevano riconoscere
nelle posizioni espresse da Luigi Einaudi e da esponenti del partito
comunista. Nonostante il successo conseguito dalla Repubblica nel
referendum del 2 giugno 1946 permaneva quella diffidenza che fino
allultimo aveva reso incerti sullutilizzazione dello
strumento referendario (i partiti della sinistra avrebbero preferito
che la scelta repubblicana fosse demandata alla Assemblea costituente).
Loperazione di progressiva "potatura" subita dal
progetto Mortati - volto a moltiplicare i tipi di referendum praticabili
- nel passaggio dalla Sottocommissione allAssemblea fino al
testo dellart. 75 Cost. ne costituisce la conferma più evidente.
Nella stessa direzione spingono, altresì, lesclusione delle
«leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione
a ratificare trattati internazionali» che aveva nelle intenzioni
dei costituenti proprio il senso di sanzionare lindisponibilità
per via referendaria di (alcune) tipiche decisioni di indirizzo
politico da lasciare al circuito Parlamento-Governo. La Costituente,
in definitiva, si attestò su una soluzione «a più basso margine
di rischio», tesa a accentuare i profili di garanzia dello strumento
referendario: esso avrebbe dovuto rappresentare solo una estrema
forma di controllo a disposizione del corpo elettorale nel caso
in cui si fosse verificata una discrasia fra orientamenti del legislatore
e volontà popolare.
2. Referendum e legge di attuazione
Loblio che avvolse lattuazione delle parti più rilevanti
della Costituzione repubblicana negli anni del centrismo degasperiano
- il c.d. ostruzionismo di maggioranza - riguardò anche listituto
referendario. Quando, poi, prese le mosse il disgelo costituzionale
non per questo la nuova situazione politica si dimostrò più favorevole
che nel passato verso il referendum abrogativo. La legge attuativa
non fu messa nellagenda alla fine degli anni cinquanta al
momento del varo del CSM e della Corte costituzionale e venne approvata
solo nella stagione che inizia con gli anni settanta. Ma con una
particolare connotazione: se lapprovazione dello Statuto dei
lavoratori (legge n. 300 del 1970), lavvio dellordinamento
regionale (legge finanziaria n. 382 del 1970), il varo dei nuovi
regolamenti parlamentari del 1971 erano, tra l'altro, il preludio
della stagione del confronto tra maggioranza e opposizione
comunista e della stagione del c.d. "compromesso storico",
il referendum era invece considerato uno strumento di divisione
politica e sociale, che avrebbe vanificato proprio i momenti di
unità che si andavano raggiungendo in Parlamento.
Ad essa si arrivò, in altre parole, per motivi contingenti, in virtù
di un compromesso che il segretario democristiano Amintore Fanfani
propose ai partiti favorevoli allintroduzione nel nostro ordinamento
del divorzio. La DC avrebbe ottenuto il consenso dei partiti laici
all'approvazione della legge sul referendum, in cambio della cessazione
dellostruzionismo scudocrociato sul progetto di legge in materia
di divorzio. L'avversione al divorzio degli ambienti più oltranzisti
del partito cattolico e del Vaticano avrebbe potuto disporre di
un'arma per contrastare una disciplina la cui approvazione parlamentare
sembrava ormai ineluttabile.
Il 25 maggio 1970 fu approvata la legge n. 352 del 1970, recante
Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa
legislativa del popolo e, sia pure dopo alterne vicende (reiterati
tentativi ostruzionistici della DC, incursioni della Curia, manifestazioni
di protesta del leader della LID, il radicale Marco Pannella), il
1° dicembre 1970 venne varata la c.d. legge "Fortuna-Baslini"
sul divorzio (legge n. 898 del 1970, Disciplina dei casi di scioglimento
del matrimonio).
3. Il referendum sul divorzio tra ostruzionismi e scioglimento
anticipato
Limmediata iniziativa referendaria attivata dal "Comitato
nazionale per il referendum sul divorzio" presieduto da Gabrio
Lombardi, superate con facilità le fasi del controllo svolte dall'Ufficio
centrale per il referendum e dalla Corte costituzionale, tuttavia,
fu immediatamente avvertita come primo atto di una temibile "guerra
di religione" che, stante la trasversalità della posta in gioco,
avrebbe finito per spaccare gli italiani. Ecco perché, salva l'eccezion
del MSI, del gruppo del Manifesto e ovviamente dei radicali di Pannella,
tutti gli altri partiti politici non vedevano di buon occhio una
consultazione referendaria su un tema così delicato.

Il PCI di Enrico Berlinguer era contrario al ricorso
allo strumento referendario, non solo perché esso rappresentava
una minaccia contro lunità dei lavoratori e lunità con
i cattolici, nel quadro dellimminente strategia del compromesso
storico, ma anche perché il referendum metteva in discussione il
ruolo di mediazione politica svolto dai gruppi parlamentari e dal
sistema dei partiti (come, del resto, lopposizione comunista
al referendum promosso da "Magistratura democratica" sui
c.d. "reati dopinione" aveva, poco tempo prima,
dimostrato).
La DC, che pure aveva voluto lapprovazione della legge sul
referendum, una volta divenuta concreta leventualità della
pronuncia popolare, si presentava lacerata al proprio interno. Dal
canto loro, gli stessi partiti laici erano incerti sulla posizione
da seguire.
Allinterno di questo quadro, possono comprendersi i ripetuti
tentativi che, per evitare il referendum, vennero intrapresi sia
dentro sia fuori le aule parlamentari.
Un primo versante dazione fu occupato dagli esperimenti di
mediazione per modificare la legge Fortuna-Baslini. Sono noti, a
questo proposito, sia lidea di Andreotti di distinguere matrimoni
civili e matrimoni concordatari, allo scopo di recuperare lindissolubilità
almeno nei confronti dei secondi; sia la proposta della senatrice
Tullia Carettoni (Sinistra indipendente), che raccolse consensi
sia nel PLI, sia nel PSIUP e nel PCI, sul c.d. "piccolo divorzio".
Neppure sullaltra sponda del Tevere, tuttavia, si rimase alla
finestra: i contrasti sul referendum esistenti nellepiscopato
italiano, indussero, in momenti e sedi diverse, a compiere una serie
di iniziative che, agevolando o rendendo più convenienti le dichiarazioni
di nullità del matrimonio pronunciate dalla Sacra Rota, erano dirette
a depotenziare la disciplina statale del divorzio.
Su altro versante, particolarmente significative furono due iniziative
parlamentari di modifica, in senso limitativo, della disciplina
attuativa del referendum abrogativo. Il progetto di legge Ballardini
e altri prevedeva una limitata modifica dellart. 31 della
legge n. 352 del 1970 volta a introdurre un periodo bianco di tre
anni, decorrenti dalla pubblicazione in Gazzetta ufficiale, durante
i quali nessuna nuova legge avrebbe potuto essere sottoposta a abrogazione
popolare. Più organica e restrittiva era la proposta legislativa
di cui primo firmatario fu il deputato Eugenio Scalfari: il progetto
di legge ordinaria aveva lo scopo di integrare per via interpretativa
la Costituzione, escludendo «le leggi che garantiscono lesercizio
dei diritti di libertà, che tutelano minoranze religiose o linguistiche,
che stabiliscono le condizioni per lo scioglimento del matrimonio,
e che comunque promuovono lapplicazione degli articoli 2,
3, 6, 8, 13, 14, 15, 19, 20, 21, 22, 24, 33, 34, 37 della Costituzione»
dalla sottoponibilità a referendum abrogativo, deferendone laccertamento
in concreto alla Corte costituzionale.

La soluzione al problema, ciononostante, venne trovata
altrimenti, nella decisione voluta dalla DC e accolta dagli altri
partiti di chiudere anticipatamente la legislatura. Tale possibilità
aveva immediate ricadute sul referendum, in quanto la legge n. 352
del 1970, stabilisce che "nel caso di scioglimento anticipato
delle Camere
il referendum già indetto si intende automaticamente
sospeso allatto della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale
del decreto del Presidente della repubblica di indizione dei comizi
elettorali per lelezione delle nuove Camere
", con
la conseguenza che i "termini del procedimento per il referendum
riprendono a decorrere a datare dal 365° giorno successivo alla
data della elezione" (art. 34, commi 2 e 3, legge n. 352 del
1970).
Mediante lo scioglimento anticipato e le successive elezioni politiche,
però, non solo si allontanava il pericolo dellimminente confronto
referendario, ma, soprattutto, si consentiva al partito democristiano
di uscire da una situazione critica, recuperando la centralità del
sistema politico, al fine di sperimentare, da quella posizione,
nuove formule politiche: per alcuni verso sinistra, dove spingevano
i socialisti, o per la parte maggioritaria del partito , verso destra,
dove sembravano portare i risultati delle elezioni amministrative
in Sicilia, a Roma e in altri luoghi del 13 giugno 1971, e come
confermava lelezione del sesto Presidente della Repubblica
Giovanni Leone, il 24 dicembre 1971.
Loperazione fu condotta da Giulio Andreotti, che dopo le dimissioni
del governo Colombo, si presentò alle Camere con un governo monocolore,
che il 26 febbraio 1972 venne sconfitto al Senato, aprendo di fatto
la via delle elezioni anticipate. Così per far scattare lautomatismo
normativo che collega lo scioglimento ad un referendum "già
indetto", il 27 febbraio 1972 il Presidente Leone, su proposta
dello stesso governo Andreotti, emanò il decreto di indizione del
referendum abrogativo per l11 giugno 1972, e, il giorno successivo,
dispose il primo scioglimento politico delle Camere convocando i
comizi elettorali per il 7 e l8 maggio 1972.
4. Dalle elezioni del 1972 alla vittoria del "NO"
nel 1974
Dalle urne uscì il secondo dicastero Andreotti, un governo con i
liberali (Malagodi fu vice premier) e i socialdemocratici e lappoggio
esterno del PRI.
Lo scioglimento anticipato del 1972, tuttavia, non aveva risolto
la questione del referendum sul divorzio. Dopo le elezioni ripresero
le iniziative volte a ritardare ulteriormente il confronto popolare
e a trovare una soluzione alternativa.
La questione che ebbe immediato risalto, suscitando un vivace dibattito,
anche tra i costituzionalisti, riguardò la data della consultazione
referendaria dopo lo slittamento causato dallo scioglimento anticipato.
La legge, infatti, precisato che la data di convocazione degli elettori
deve avvenire "in una domenica compresa tra il 15 aprile e
il 15 giugno", si limita a stabilire, con formula non chiarissima,
che in caso di fine anticipata della legislatura, i "termini
del procedimento per il referendum riprendono a decorrere a datare
dal 365° giorno successivo alla data dalla elezione". La soluzione
interpretativa non era priva di conseguenze, in quanto da essa dipendeva
lo svolgimento del referendum nella primavera del 1973 o in quella
del 1974.
Lincertezza istituzionale intorno a chi avrebbe dovuto sciogliere
questo nodo, venne superata dal Governo. La necessità di trovare
una soluzione ad un problema che aveva immediate ricadute politiche
ma che era essenzialmente tecnico, spinse il presidente del Consiglio
Andreotti a richiedere (11 gennaio 1973) al Consiglio di Stato un
parere giuridico. La decisione del Consiglio di Stato (24 febbraio
1973), facendo proprie le tesi di Leopoldo Elia, fu favorevole allo
slittamento della consultazione referendaria dopo oltre due anni
dalle elezioni del 7-8 maggio 1972.
Lindizione del referendum sul divorzio per il 13 maggio
1974, tuttavia, non placò il lavorio del fronte antidivorzista.
Dopo le elezioni politiche del 1972, crebbero le pressioni del Vaticano
sul Governo italiano, dirette a far passare la tesi dellirrimediabile
contrasto tra la legge sul divorzio e le norme del Concordato. Ciò
che parve concretizzarsi il 12 luglio 1972, quando la Corte di cassazione
sollevò una questione di legittimità costituzionale sullart.
2 della legge n. 898 del 1970 ritenuto in contrasto con lart
7 della Costituzione.
Nelle more del giudizio, corse voce che lo stesso Paolo VI avesse
tentato di influenzare il Presidente Leone, in vista dellimminente
nomina presidenziale di taluni giudici costituzionali in sostituzione
di quelli scaduti (Branca, Fragali e, poi, Mortati), notoriamente
favorevoli al divorzio. La scelta del Presidente della Repubblica,
infatti, avrebbe potuto alterare gli orientamenti interni al collegio
di Palazzo della Consulta, favorendo indirettamente una decisione
che, nel colpire la legge sul divorzio, avrebbe finito per spuntare
larma del referendum.
La Corte costituzionale, tuttavia, deluse le speranze del fronte
antidivorzista, rigettando la questione di legittimità costituzionale.
Prima del voto referendario, peraltro, un tentativo estremo venne
compiuto da uniniziativa a distanza di Fanfani e Berlinguer,
i quali cercarono di raccogliere consensi intorno ad una modifica
della legge sul divorzio, per ottenere la "cessazione delle
operazioni referendarie", secondo quanto stabilito dallart.
39 della legge n. 352 del 1970.
La proposta riguardava un "regime differenziato" dei casi
di scioglimento del matrimonio, con maggiori garanzie anche per
i matrimoni civili. Parallelamente una emenda legislativa della
disciplina del referendum era stata avanzata in extremis
da Natta e altri il 24 gennaio 1974 con procedura istruttoria durgenza:
essa voleva ricomprendere tra i voti validamente espressi (c.d.
quorum funzionale) anche le schede bianche, allo scopo di rendere
più difficile labrogazione della legge oggetto di richiesta
referendaria.
Era ormai chiaro a tutti, però, che non vi era più tempo né spazio
per qualsivoglia soluzione alternativa al referendum, tanto che,
in vista della consultazione del 13 maggio 1974, il segretario democristiano
Fanfani cambiò completamente strategia e, nonostante la spaccatura
interna al suo stesso partito, colorò politicamente il confronto
referendario come uno scontro tra DC e PCI, chiamando gli elettori
a un nuovo "18 aprile", con lo scopo ormai evidente di
spostare a destra la maggioranza di governo a guida democristiana
e comunque di ottenere una personale legittimazione elettorale.
Il 12-13 maggio, tuttavia, gli italiani a larga maggioranza confermarono
la scelta divorzista: parteciparono al voto l87,7 % degli
aventi diritto, votarono "NO" il 59,3, mentre i "SI"
furono il 40,3 % dei voti. Nella campagna referendaria lelettorato
cattolico si divise (importante fu, comè noto, lapporto
alla campagna elettorale dei "cattolici del NO", un raggruppamento
di prestigiosi intellettuali cattolici guidati da Luigi Pedrazzi
e Pietro Scoppola) ma non si ebbero conseguenze laceranti sul tessuto
sociale e sulla pace religiosa: il Paese dimostrò così chiaramente
di essere su posizioni ben più avanzate di quelle della classe politica
italiana.
5. Dal divorzio alla strategia referendaria radicale contro
il "compromesso storico" e la "centralità del Parlamento"
La vittoria del "No" nel referendum del 12-13 maggio 1974
segnò profondamente il sistema politico (e la stessa cultura politica:
è significativo che in quei mesi si affermi lo slogan "il personale
è politico"). Laffermazione di una maggioranza progressista
e la sconfitta della linea impressa alla DC da Fanfani, infatti,
rendevano possibili due scenari politici: lavvio di processi
di alternanza oppure il consolidarsi dei tentativi di compromesso
storico.
Dopo la crisi del quinto governo Rumor e la formazione del governo
Moro (un bicolore DC-PRI con lappoggio dei socialisti e dei
socialdemocratici, particolarmente impegnato sul fronte del terrorismo
: fermo di polizia e legge Reale), leredità del voto referendario
si manifestò , dapprima, nelle elezioni amministrative del 15-16
giugno del 1975 e, poi, in quelle politiche del 20-21 giugno del
1976.
Nelle elezioni regionali, provinciali e comunali, in cui per la
prima volta votarono anche i giovani che avevano compiuto diciotto
anni, si registrò una secca sconfitta della DC che scese al 35,3%,
un considerevole aumento del PCI che arrivò al 33,4%, mentre il
PSI ottenne il 12% dei suffragi, risultando però indebolito, sia
rispetto allavanzata dei comunisti, sia perché la sconfitta
della DC aveva ricadute anche sui partiti dellarea di governo.
In questa situazione, il segretario socialista De Martino, per far
uscire il PSI dallisolamento e per rilanciare la formula degli
"equilibri più avanzati" con lipotesi di un governo
con il PCI, il 7 gennaio 1976 ritirò lappoggio al governo,
di fatto mettendo termine alla legislatura.
Le elezioni del 20 giugno 1976, tuttavia, si svolsero allinsegna
della questione del "sorpasso" del PCI sulla DC. Ciò influenzò
lesito elettorale, in quanto gli elettori si divisero tra
i due maggiori partiti di massa: il PCI continuò la propria avanzata
raggiungendo il massimo storico del 34,4%, mentre la DC recuperò
i voti persi nelle amministrative del 1975, raggiungendo quota 38,7%,
a danno, però, dei partiti laici e del MSI.
In questa situazione, nonostante il mancato "sorpasso"
dei comunisti, questi ultimi risultavano i veri vincitori della
competizione elettorale, perché la DC pur recuperando i voti persi
nel 1975, risultava politicamente isolata (celebre la frase di Fanfani:
"abbiamo fatto come il Conte Ugolino, ci siamo mangiati i nostri
figli"), e perché la linea del PSI di De Martino era stata
del tutto annientata (altrettanto celebre il fondo di Alberto Asor
Rosa su La Repubblica: "La morte del PSI"). Le
conseguenze immediate furono, da un lato, il rovesciamento della
segreteria demartiniana con la rivolta dei quarantenni al "MIDAS"
che nominò segretario Bettino Craxi; e, dallaltro, lingresso
del PCI nella maggioranza di governo in linea con la strategia berlingueriana
del compromesso storico.
Linserimento del partito comunista nellara di governo
avvenne, dapprima, con il terzo gabinetto Andreotti, il c.d. governo
della «non sfiducia» (31 luglio 1976) e, poi, con il quarto gabinetto
Andreotti, il c.d. governo di «solidarietà nazionale», che ottenne
il voto di DC, PSI, PRI, PSDI, PCI, lindomani del rapimento
dellon. Moro da parte della BR (16 marzo 1978).
E in questo contesto che prende forma la nuova stagione del
referendum abrogativo. Esso, in particolare, diventa lo strumento
che il gruppo dei radicali utilizza per dar corpo alla propria strategia
politica di avversione al sistema politico allora vigente, definito
"un regime". Il rimedio del referendum abrogativo, dopo
lingresso del PR in Parlamento nella VII legislatura, affiancò
luso generalizzato delle tecniche dellostruzionismo
parlamentare, completando larmamentario radicale contro la
"centralità del Parlamento" - vale a dire del sistema
dei partiti del c.d. arco costituzionale - e contro la convergenza
politica tra DC e PCI nei governi della solidarietà nazionale.

Liniziativa referendaria radicale si tradusse
nel progetto "Otto referendum contro il regime" fin dallestate
del 1974, riguardante temi disomogenei, ma sostanzialmente improntati
ai temi delle libertà e dei diritti civili. Delle differenti richieste,
però, solo il quesito per labrogazione di alcune disposizioni
del Codice Rocco che prevedevano laborto come reato, riuscì
a raggiungere il numero di firme richiesto dalla Costituzione. Superata
agevolmente la fase del controllo di legittimità e quella successiva
del giudizio di ammissibilità, la richiesta volta alla depenalizzazione
dei reati di aborto determinò immediatamente una forte reazione
da parte del sistema politico. Lo scioglimento anticipato del 1976,
sia pure causato da ragioni politiche diverse, consentì come già
nel 1972 di rinviare il confronto popolare.
Durante il 1977 i radicali poterono completare la raccolta di firme
necessarie anche per gli altri referendum: "legge Reale"
sullordine pubblico (legge n. 152 del 1975), finanziamento
pubblico dei partiti politici (legge n. 195 del 1974), disciplina
dei manicomi e degli alienati (legge n. 36 del 1904), norme sui
procedimenti e sui giudizi daccusa (legge n. 20 del 1962),
97 articoli del codice penale, Concordato (art. 1 legge n. 810 del
1929), codice penale militare (art. 1 r.d. n. 303 del 1941), tribunali
militari (r.d. 1022 del 1941).
Il rischio del confronto referendario venne affrontato in modi diversi:
da un lato, attraverso tentativi di modificare le leggi sottoposte
a richiesta referendaria, nonostante la tesi, fortemente sostenuta
dai radicali, del divieto per il Parlamento di intervenire in pendenza
di procedimenti referendari; dallaltro mediante nuove iniziative
parlamentari volte a restringere le maglie della disciplina del
referendum abrogativo.
A completare il quadro, si aggiunse anche la giurisprudenza della
Corte costituzionale che, nel decidere sul "pacchetto"
delle richieste radicali dopo il via libera dellUCR, con la
sent. n. 16 del 1978, su cui torneremo più avanti , mutò completamente
indirizzo rispetto alle decisioni su divorzio e aborto, restringendo
le maglie del giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo.
6. Il referendum abrogativo "accerchiato"
Dopo la vittoria del "NO" nel referendum sul divorzio
e la minaccia degli otto referendum radicali, fu proprio Berlinguer
a rilanciare la lotta contro "ogni forma di abuso del referendum":
in sede di Comitato centrale del PCI (3-5 giugno 1974), il segretario
comunista avanzò proposte di modifica della disciplina, nel senso
di limitare il numero delle richieste, di semplificare loggetto
dei quesiti, di innalzare il numero delle sottoscrizioni, recuperando
altresì i limiti già avanzati in passato dalle proposte Ballardini
e Scalfari.
La linea del partito comunista si tradusse nel progetto di legge
Malagugini e altri, presentato il 25 settembre 1975, contenente
unorganica revisione della disciplina della legge sul referendum
in senso restrittivo. La proposta di legge, che pure suscitò una
ampia discussione sulla stampa quotidiana e settimanale, non ebbe
alcun esito per effetto dello scioglimento anticipato del 1976.
Essa venne recuperata nella VII legislatura, nel quadro di un ben
più articolato proposito di revisione della disciplina del 1970,
che, questa volta accomunava comunisti, democristiani e socialdemocratici.
Queste ultime iniziative legislative furono di due tipi: una diretta
a modificare la legge n. 352 del 1970, laltra a incidere restrittivamente
sulle disposizioni contenute nellart. 75 Cost.
La proposta legislativa ordinaria, presentata dai deputati comunisti
della Commissione affari costituzionali (ma senza la firma di uno
degli autori di questa relazione) , ricalcava il progetto Malagugini,
e, recuperando taluni motivi espressamente caduti in sede di Assemblea
costituente, tendeva a:
1) introdurre aggravamenti procedurali nella raccolta delle firme;
2) subordinare liniziativa referendaria, in ogni caso, al
primato della volontà legislativa del Parlamento (attraverso la
previsione di un "periodo bianco" di tre anni in cui sarebbe
stata vietata qualsiasi richiesta referendaria; la introduzione
della possibilità per il Capo dello Stato di differire lindizione
del referendum qualora fossero pendenti in Parlamento proposte di
modifica della legge oggetto della richiesta; la sospensione delliter
referendario per il periodo in cui lefficacia della legge
è sospesa; la possibilità di modificare, sia pure sostanzialmente,
oltreché di abrogare la legge oggetto di referendum prima della
pronuncia popolare: artt. 2, 4 e 5, 6, 10);
3) dare rilievo nel procedimento referendario a partiti e gruppi
politici rappresentati in Parlamento (i quali potevano costituirsi
innanzi alla Corte costituzionale, oltreché impugnare lordinanza
dellUCR sulla c.d. "abrogazione sufficiente" ai
sensi dellart. 39 innanzi alle sezioni unite della Cassazione:
artt. 3 e 10);
4) alterare le modalità di computo del risultato referendario (attraverso
il riconoscimento come volontà contraria allabrogazione referendaria
anche alle schede bianche: artt. 7 e 8).
Le iniziative di revisione costituzionale dellart. 75 Cost.,
invece, riguardavano tre progetti di legge costituzionale analoghi,
presentati da esponenti dei gruppi democristiano, socialdemocratico
e dagli stessi esponenti del gruppo comunista che avevano firmato
il progetto di legge ordinaria. Tutti i progetti prevedevano linnalzamento
del numero minimo di sottoscrizioni per la richiesta referendaria,
elevato da cinquecentomila a un milione di firme (esteso anche allart.
138 Cost. nei progetti comunista e democristiano).
Il solo progetto diniziativa comunista, inoltre, modificava
il criterio di computo dellesito della consultazione popolare,
stabilendosi lapprovazione della proposta sottoposta a referendum
solo ove fosse raggiunta la maggioranza assoluta degli aventi diritto
al voto, con una soluzione che celava, ma non fino in fondo, il
tentativo smaccato di far valere lastensionismo elettorale
contro labrogazione della legge.
Si trattava di progetti - soprattutto quelli di iniziativa del PCI
- che arrivarono ad essere definiti liberticiti. Essi suscitarono
unimmediata reazione da parte della scienza giuridica, la
quale, quasi unanimemente, manifestò un reciso dissenso.
La risposta più importante, tuttavia, venne proprio dallorgano
di chiusura del sistema: la Corte costituzionale. Con un intervento
generale e unitario, la storica decisione n. 16 del 1978, il giudice
delle leggi restrinse gli spazi entro i quali il referendum abrogativo
può operare. Utilizzando i discutibili criteri interpretativi della
"natura delle cose" (riferita allistituto referendario)
e dei "limiti impliciti", nonostante la tassatività del
secondo comma dellart. 75 Cost. la Corte ha individuato quattro
ragioni di inammissibilità, riguardanti:
1) le richieste contenenti "una pluralità di domande eterogenee,
carenti di matrice razionalmente unitaria" (limite della c.d.
"omogeneità del quesito");
2) le richieste tendenti ad abrogare "la Costituzione, le leggi
di revisione costituzionale, le altre leggi costituzionali considerate
dallart. 138 Cost., come pure gli atti legislativi dotati
di forza passiva peculiare (e dunque insuscettibili di essere validamente
abrogati da leggi ordinarie successive)";
3) le richieste aventi ad oggetto "disposizioni legislative
a contenuto costituzionalmente vincolato, il cui nucleo normativo
non possa essere alterato o privato di efficacia, senza che ne risultino
lesi i corrispondenti specifici disposti della Costituzione stessa
(o di altre leggi costituzionali)" (limite delle c.d. "leggi
a contenuto costituzionalmente vincolato");
4) nonché - oltre alle cause "testualmente descritte nellart.
75 cpv., che diversamente dalle altre sono state esplicitate dalla
Costituzione, proprio perché esse rispondevano e rispondono a particolari
scelte di politica istituzionale, anziché inerire alla stessa natura
dellistituto in questione" - "le disposizioni produttive
di effetti collegati in modo così stretto allambito di operatività
delle leggi espressamente indicate dallart. 75, che la preclusione
debba ritenersi sottintesa".
Al di là delle interminabili discussioni che, da questa pronuncia,
la giurisprudenza costituzionale ha continuamente alimentato, è
certo che la Corte costituzionale non solo ha sostanzialmente innovato
rispetto al testo della Costituzione, ma ha fatto propria la tesi
dellinconciliabilità o della sostanziale contraddittorietà
di referendum e sistema politico-rappresentativo. Laccoglimento
di una simile impostazione, in particolare, ha costituito la premessa
per configurare - lungo tutta la successiva giurisprudenza costituzionale
di ammissibilità - i rapporti tra legislazione (ordinaria) e referendum,
secondo una gerarchia di valore.

Nel giudizio di ammissibilità è stato così riconosciuto
una sorta di privilegio del legislatore rappresentativo rispetto
alle decisioni popolari, cui si affianca la tendenza a circoscrivere
lefficacia dellabrogazione referendaria entro,
piuttosto che contro, le scelte legislative che attraverso
le richieste di referendum si vorrebbero annullare.
7. Il referendum "garantito". Iniziativa referendaria
e potere legislativo. Il comitato promotore come potere dello Stato.
Con la sent. n. 16 del 1978 gran parte delle richieste radicali
caddero: ammessi al voto furono solo i quesiti su legge Reale, finanziamento
pubblico dei partiti, Commissione inquirente, manicomi. Ad essi
si aggiungeva il quesito sullaborto, slittato al 1978 per
effetto dello scioglimento del 1976.
Fissata la data della consultazione per l11-12 giugno (d.p.r.
14 aprile 1978), lapprovazione da parte del Parlamento di
leggi di riforma delle discipline su aborto, manicomi e Commissione
inquirente provocò per i rispettivi quesiti la cessazione delle
operazioni referendarie, dichiarata dallUCR con ordinanza
del 25 e 26 maggio.
Rimaneva aperta, però, la questione del referendum sulla legge Reale,
dato che lUCR, nel dichiarare legittima la richiesta, aveva
riformulato il quesito eliminando il riferimento allart. 5,
ritenuto abrogato per effetto dellart. 1, comma 1, della legge
n. 533 del 1978. Ciò provocò, dapprima, unistanza dei promotori
allUCR, per ottenere il ripristino del quesito abrogativo
nella formulazione originaria, ritenendo i radicali illegittimo
- come si è già detto - qualsiasi intervento legislativo che non
fosse soppressivo delle norme sottoposte a referendum "nella
stessa modalità e con la stessa portata con cui la soppressione
è stata richiesta dai proponenti del referendum (abrogazione parziale
o totale di legge)". Poi, di fronte alla decisione di rigetto
per inammissibilità dell'istanza, i promotori esperirono un ricorso
per conflitto di attribuzione tra poteri, avverso lordinanza
dellUCR, innanzi alla Corte costituzionale.
Si aprì così un ulteriore importante capitolo nella storia del referendum:
alla Corte si chiedeva di stabilire, da un lato, se il Parlamento,
nelle more del procedimento, poteva o meno intervenire sulla legge
oggetto di referendum, e in che modo e fino a che punto ciò era
costituzionalmente legittimo; nonché, daltro lato, se esistevano
o meno nellordinamento costituzionale strumenti per tutelare
di fronte a possibili manipolazioni legislative linteresse
costituzionale al pronunciamento popolare mediante referendum abrogativo.
Questultimo problema venne risolto dalla Corte costituzionale
nellammettere il ricorso dei radicali contro lUCR, attribuendo
anche al comitato promotore la qualifica di "potere dello Stato"
(sia pure nellaccezione crisafulliana di "Stato-ordinamento")
in rappresentanza dei firmatari di una richiesta di referendum abrogativo,
ossia della frazione del corpo elettorale identificata dallart.
75 Cost. come "titolare dellesercizio di una pubblica
funzione costituzionalmente rilevante".
Le decisioni nn. 17 e 69 del 1978, infatti, riconoscono e garantiscono
ai promotori la disponibilità di uno strumento di tutela del referendum
abrogativo contro atti arbitrari, perché lesivi del diritto al pronunciamento
popolare mediante referendum, posti in essere da ogni altro organo
(Ufficio centrale, Governo, Presidente della repubblica, Corte costituzionale)
che concorre con i primi nel procedimento referendario.
Laltra questione venne sciolta con sent. n. 68 del 1978, in
cui dal giudice delle leggi decise la questione di legittimità costituzionale
della norma che prevede la cessazione delle operazioni referendarie
quando "la legge o latto avente forza di legge, o le
singole disposizioni di essi cui il referendum si riferisce, siano
stati abrogati" (art. 39, legge n. 352 del 1970). Preliminarmente,
il giudice costituzionale scartò la tesi radicale secondo cui la
richiesta referendaria produceva un "effetto di prevenzione",
ossia di preclusione, nei confronti del potere legislativo.
La ragione, evidentemente, riposava nel principio di "inesauribilità
dalla funzione legislativa", da cui conseguiva la possibilità
- come nel caso degli effetti conseguenti all'abrogazione referendaria
- di interventi legislativi di mera abrogazione oppure di abrogazione
accompagnata da una nuova disciplina della stessa materia. Ciononostante,
per evitare, nell'indeterminatezza della disposizione, di affidare
la previsione e la garanzia del potere referendario "alla piena
ed insindacabile disponibilità del legislatore ordinario",
col rischio di frustrare i poteri di democrazia diretta, la Corte
ritenne comunque necessario procedere ad uninterpretazione
correttiva dell'art. 39.
La necessità di distinguere, in caso di abrogazione per sostituzione
di disciplina, tra intervento di mera forma (che mantenga
inalterato loggetto della domanda referendaria), e intervento
sostanziale (che modifichi o i principi ispiratori della
complessiva disciplina preesistente o i contenuti normativi essenziali
dei singoli precetti della disciplina), condusse allillegittimità
costituzionale dellart. 39, nella parte in cui non prevedeva
nel primo caso lo svolgimento del referendum sulle nuove
disposizioni legislative.
La decisione tentava così di conciliare "la permanente potestà
legislativa delle Camere con la garanzia del referendum abrogativo",
dato che solo lintervento legislativo effettivamente innovativo
avrebbe determinato la chiusura del procedimento referendario, laddove
modifiche di pura facciata o di dettaglio, avrebbero dovuto consentire
, secondo la Corte, comunque lo svolgimento del referendum, mediante
il trasferimento del quesito - operato dallUCR - dalle originarie
alle nuove disposizioni di legge.

La decisione della Corte, nel 1978, fu favorevole
al comitato promotore, comportando lannullamento dellordinanza
dellUCR che aveva riformulato il quesito sulla legge Reale.
Di conseguenza, applicando i principi formulati nella sent. n. 68
del 1978, lUCR non ritenne sostanzialmente innovativa la novella
operata sullart. 5, con la conseguenza che, con una nuova
ordinanza, provvide a estendere il quesito anche alle modifiche
nel frattempo intervenute. La Corte costituzionale, di nuovo chiamata
a pronunciarsi, ammise nuovamente il referendum sulla legge Reale,
nel quesito riformulato.
8. I referendum radicali del 1978 e del 1981.
Il voto ai due referendum residui, quello sulla legge Reale e sulla
disciplina del finanziamento pubblico ai partiti, vide la vittoria
dei "NO", ma con maggioranze diverse nei due casi: i rapporti
furono pari al 76,5% dei "NO" contro il 23,5% dei "SI"
nel primo caso, e al 56,4% dei "NO" contro il 43,6% dei
"SI" nel secondo caso.
La sconfitta di misura del quesito sul finanziamento dei partiti,
in particolare, segnava un importante campanello d'allarme nei confronti
della tenuta del sistema dei partiti della stagione del compromesso
storico.
La fine di questa esperienza politica era ormai alle porte. Ad essa
contribuirono varie ragioni: l'assassinio di Aldo Moro (13 maggio
1978); l'avvicendamento alla presidenza della repubblica di Pertini
dopo le dimissioni di Leone connesse alla campagna di stampa intorno
all'affaire Lockheed (15 giugno, 8 luglio 1978); la nuova linea
politica impressa al PSI da Craxi, il quale voleva ritagliare al
proprio partito una maggiore visibilità politica in un "governo
paritario" o "alternativo alla DC al governo, al PCI fuori
del governo"; la crisi del quarto governo Andreotti (31 gennaio
1979) e, dopo il fallimento del tentativo La Malfa (2 marzo), la
crisi apertasi a seguito dei franchi tiratori che al Senato negarono
la fiducia al quinto governo Andreotti (31 marzo 1979), con il conseguente
terzo scioglimento anticipato consecutivo (2 aprile 1979).
Le elezioni politiche del 3-4 giugno e quelle per il parlamento
europeo del 10 giugno 1979 completarono il passaggio politico, in
quanto segnarono una netta sconfitta del PCI (che alla Camera scende
dal 34,4% al 30,4%), mentre mantennero le posizioni del 1976 DC
e PSI, con sostanziale tenuta dei partiti laici. I voti persi dai
comunisti confluirono, invece, per larga parte proprio sul Partito
radicale.
Sulle ali del successo elettorale, i radicali lanciarono una nuova
sfida referendaria: i dieci referendum proposti, oltre allaborto
e a tematiche analoghe a quelle respinte nel 1978, avevano ad oggetti
temi di immediato impatto sociale, quali la legalizzazione delle
droghe leggere, il nucleare, la caccia, e istituzionale,
come per la smilitarizzazione della Guardia di finanza.
Anche in questo caso le richieste referendarie si muovevano nel
solco della strategia radicale antipartitocratica e, come tali,
vennero percepite dal sistema politico, che ancora una volta manifestò
la propria opposizione all'abuso dello strumento referendario. Questa
situazione, tuttavia, confermava piuttosto la crisi di centralità
dei partiti politici, e della corrispondente concezione tesa all'identificazione
tra sistema politico e sistema dei partiti.
Il problema che l'occasione dei referendum rinnovava, allora, non
era - venne sottolineato in quegli anni - "quello di contrapporre
in alternativa ai partiti i movimenti o i contropoteri ma quello
di sviluppare tutti quei canali di partecipazione e di comunicazione
fra istituzioni e società che non sempre i partiti riescono a far
funzionare o per assenza o per eccessiva e ingombrante presenza,
e comunque quello di dare spazio a quanti, a torto o a ragione,
non si riconoscono nella intermediazione politica".
Sulla strada dei referendum proposti, tuttavia, si frappose ancora
una volta la Corte costituzionale che, pur partendo dalla sent.
n. 16 del 1978, non perse occasione per arricchire di nuovi sviluppi
e ulteriori specificazioni i limiti di ammissibilità. Ciò ha riguardato
soprattutto il requisito dell'omogeneità, sviluppato nel senso ulteriore
della necessità di semplicità, chiarezza e inconfondibilità
del quesito, nel senso che "non è concepibile una risposta
articolata", ma "la nettezza della scelta" che "postula
la nettezza del quesito", oppure l'univocità della domanda,
tale da evitare "atteggiamenti differenziati da parte degli
elettori"; ma anche il limite delle leggi collegate a quelle
espressamente menzionate dal secondo comma dell'art. 75 Cost., estesa
dalle leggi di autorizzazione e di esecuzione dei trattati internazionali,
anche alle "norme la cui emanazione è, per così dire, imposta
dagli obblighi medesimi", "per le quali (...) non vi sia
margine di discrezionalità quanto alla loro esistenza e al loro
contenuto, ma solo l'alternativa tra il dare esecuzione all'obbligo
assunto sul piano internazionale ed il violarlo, non emanando la
norma e abrogandola dopo averla emanata".
Di conseguenza, solo i quesiti su ordine pubblico (legge Cossiga),
ergastolo, porto d'armi, tribunali militari e due delle tre richieste
sull'aborto (quella radicale e quella "minimale" del Movimento
per la vita) furono ammessi al voto, mentre nessun seguito ebbero
gli altri, quelli che maggiormente ponevano l'accento su questioni
e interessi nuovi.
Nelle more della campagna elettorale l'approvazione della legge
7 maggio 1981, n. 180, determinò la cessazione delle operazioni
referendarie sul quesito relativo ai tribunali militari .
La consultazione del 17-18 maggio 1981 segnò, tuttavia, ancora una
volta la vittoria dei "NO", sia pure con maggioranze differenti,
e, in taluni casi, con il contributo decisivo degli elettori delle
regioni "rosse".
9. Riflessioni conclusive: dagli anni Settanta in poi
Dopo la tornata referendaria del 1981, la storia del referendum
abrogativo si è incamminata su nuovi percorsi. Significativi, per
ragioni differenti, furono, soprattutto, il referendum sulla scala
mobile del 1985; quelli sulla "giustizia giusta", sul
nucleare e sul CSM del 1987; quelli istituzionali delle tornate
referendarie del 1991, 1993 e 1999-2000.
Il primo segnò il primo caso di un referendum promosso da un partito
che era sempre stato contrario al ricorso alla decisione popolare,
il PCI di Berlinguer. L'iniziativa, in particolare, indirizzandosi
contro la politica che il governo Craxi aveva avviato per rompere
l'unità sindacale e con il metodo della concertazione, in virtù
del c.d. "decreto di San Valentino" del 14 febbraio 1984,
intendeva contrastare le strategie della stagione politica del pentapartito.
I referendum sulla giustizia, sulluso dellenergia nucleare
e sulla responsabilità civile dei giudici, dal canto loro, effettuati
l8 e il 9 novembre del 1987 dopo lapprovazione di una
leggina di deroga alla legge n. 352 del 1970 riguardarono iniziative
appoggiate dal partito (PSI) , che dal 1983 al 1987 aveva espresso
il Presidente del consiglio .
I referendum elettorali del 9 giugno del 1991 e del 18 aprile 1993
concretizzarono la stagione delle riforme, quelle che nel decennio
80-90 il Parlamento non riuscì a realizzare, consentendo attraverso
la modifica delle leggi elettorali di Camera e Senato, ma con un
effetto a cascata anche sui sistemi politici regionale e locale,
il passaggio dalla democrazia consociativa ai governi dell'alternanza
della c.d. "Seconda Repubblica".
Si è trattato di esperienze dissimili, che, pur tuttavia, hanno
contribuito a definire ulteriormente la fisionomia dell'istituto.
Nella storia repubblicana, il confronto referendario ha svolto un
ruolo positivo nella dialettica della democrazia pluralista. Nonostante
i tentativi tesi a restringerne potenzialità e usi, il referendum
abrogativo ha contribuito a mettere in moto significativi processi
di trasformazione sociale e politica, non solo quando ha aperto
il dibattito politico su questioni fondamentali in materia di diritti
civili e sociali, ma anche quando ha chiamato il corpo elettorale
a pronunciarsi su questioni istituzionali di essenziale importanza
per il funzionamento delle strutture democratiche.
Nonostante l'ingenuità del modello costituente, diretto a predisporre
uno strumento di garanzia che offrisse una difesa della società
civile contro un potere legislativo invadente, in realtà, lungi
dal rappresentare la reazione della società contro il potere politico,
i referendum hanno essi stessi spesso risposto a logiche proprie
del sistema politico, talora permettendo decisioni su beni e valori
che toccano la coscienza individuale o temi di politica istituzionale
rispetto ai quali nessun rappresentante potrebbe sentirsi pienamente
delegato o legittimato così valorizzando movimenti per issues, talora
invece inserendosi allinterno di strategie partitiche volta
a rafforzare questa o quella forza politica. Vanno ricordati a questultimo
proposito , oltre ai referendum promossi dal partito radicale, quelli
promossi dal partito di democrazia proletaria (promotore del referendum
sui trattamenti di fine rapporto, bloccato in extremis da
una legge di riforma), allo stesso partito comunista.
Proprio con riferimento alle ricadute istituzionali, può sostenersi,
inoltre, che il referendum abrogativo ha rimodellato il sistema
politico in chiave bipolare e anticonsociativa, pur essendo uno
strumento di carattere trasversale. Questa spinta è parsa particolarmente
evidente fin dalle prime esperienze (1974, 1978, 1981), e si è consolidata
nelle tornate referendarie degli anni successivi, fino a giungere
a completamento nei referendum elettorali degli anni novanta.
Contro questa valenza del referendum il limite più clamoroso, tuttavia,
è venuto da una via tuttaltro che immaginabile: lastensionismo
elettorale. L'appello allastensione dal voto, infatti, ha
fornito al sistema politico una formidabile arma per contrastare
nella maniera più efficace ogni iniziativa referendaria sgradita.
Il primo uso politico dell'astensionismo venne effettuato in occasione
del referendum sulla scala mobile, proprio dal leader del partito
radicale Pannella, disattendendo la propria vocazione referendaria.
Quel gesto, seguito dalle associazioni dei cacciatori e degli agricoltori
in occasione della tornata referendaria del 1990 relativi allabolizione
della caccia e delluso dei pesticidi ( che vide la partecipazione
di circa il 43% degli elettori) costituì un grave precedente, destinato
ad avere seguito anche nelle tornate referendarie sulle leggi elettorali
del Parlamento.
Dopo lesito della consultazione del 1990 rappresentò una sorpresa
lalta partecipazione realizzatasi il 9 giugno del 1991 in
occasione del referendum sulla preferenza unica che, nonostante
linvito a "recarsi al mare " fatto da Craxi e da
Bossi, segnò la netta vittoria del "SI" per l'abrogazione
delle preferenze plurime alla Camera, aprendo alla vittoria del
referendum elettorale del 1993 sulla legge elettorale del Senato.
Il trend tornò negativo nella primavera del 1999 in occasione del
referendum contro la quota proporzionale della legge elettorale
per la Camera dei deputati, battuto per un pugno di voti ( in ragione
soprattutto delle liste elettorali "gonfiate" dalla presenza
di elettori residenti allestero e di cui si era persa traccia).
Ancora più negativo il risultato nella successiva primavera del
2000, dopo la riproposizione del medesimo quesito del '99 e le polemiche
ad essa connesse, nonché la consultazione referendaria sui 6 quesiti
radicali , sconfitti proprio in nome dell invito alla astensione
di cui direttamente e indirettamente si fecero portatori, oltre
a Rifondazione comunista, gran parte dei partiti dei due schieramenti
politici, con la sola esclusione dei DS e di AN, peraltro debolmente
impegnati nella campagna elettorale.
Se il destino del referendum abrogativo è legato per gran parte
all'uso ostruzionistico dell'astensionismo, è certo che le vicende
più recenti sembrano confermare la tesi di fondo qui sostenuta.
La sconfitta dei referendum elettorali del 1999-2000, pur pesantemente
influenzata dalle sirene dell'impolitico, potrebbe essere spiegata
anche considerando che, in quella fase storica, la transizione italiana
aveva già raggiunto un punto di svolta.
In breve: è possibile giungere alla conclusione che i referendum
hanno registrato in questi ultimi anni ripetuti insuccessi proprio
perché essi hanno già trasmesso al sistema politico direttamente
o indirettamente - fin dal referendum sul divorzio del 1974 ai referendum
eletttorali - una spinta alla ristrutturazione in senso bipolare?
Le consultazioni elettorali politiche, caratterizzate, peraltro,
da piattaforme programmatiche sempre meno sfuggenti, sono in grado
di sodisfare quella domanda di democrazia diretta che per diversi
anni si è manifestata con il ricorso allo strumento referendario?
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