La tv e l'immaginario
collettivo
Aldo Grasso
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Quello che segue è un brano dell'intervento di Aldo Grasso al
secondo convegno del ciclo L’italia repubblicana nella crisi degli
anni Settanta
che si è svolto il 22 e 23 novembre all’Istituto
dell’Enciclopedia Italiana di Roma.
In che maniera incide la televisione sull’immaginario collettivo,
sull’identità di una nazione?
Alle origini del mezzo, l'idea che la tv sia un elemento cruciale
nella definizione dell'identità nazionale è data per scontata e
compresa negli obiettivi di mandato del servizio pubblico: programmi
come Campanile sera o Telematch costruiscono un'immagine del
nazionale a partire dai mille volti del locale. Ben diversa sarà la
situazione con la fine del monopolio e la crisi del servizio
pubblico: il tema dell'identità diventa un apparato discorsivo
volto a rilegittimare la presenza del servizio pubblico nel mercato
televisivo italiano divenuto definitivamente concorrenziale.

Il punto di partenza del cambiamento è
rappresentato dalla fine degli anni Sessanta. Sulla scia del
movimento di contestazione studentesca e operaia, il servizio
pubblico sembra partecipare al processo di decostruzione
dell’identità nazionale nel senso totalizzante fino ad allora
affermato: la riforma Rai del 1975 sviluppa - con la legge n. 103 -
una politica che mira a dare visibilità a identità multiple (i
giovani, le donne, le culture regionali...), attraverso i Programmi
dell’accesso; con la fondazione di Raitre, nel 1979, si vuole
inoltre rispondere a un bisogno di avvicinamento all’utenza, che
implica una maggiore “localizzazione” della televisione nelle
realtà regionali, attraverso la creazione di redazioni
giornalistiche regionali e allo sviluppo di una programmazione in
loco.
Le televisioni commerciali, che si sviluppano in seguito alla
liberalizzazione dell’emittenza, a partire dal 1976, da una parte
mantengono vivo l’orizzonte locale attraverso un robusto mercato
pubblicitario “minore” che si esprime, per esempio, nel “teleshopping”;
nello stesso tempo, come sottolinea Ortoleva (1995), la tv privata
crea l’ibrido del “locale nazionale”: ci si richiama al
locale, ma al contempo lo si “de-localizza” per renderlo
accettabile al grande pubblico (si pensi all'invenzione
pubblicitaria del “Mulino Bianco”, immagine idealizzata di una
campagna “perduta”, cui si aspira tornare in anni di slancio
ecologico; immagine, d'altro canto, del tutto astratta, privata di
qualsiasi riferimento ad un luogo reale, ad un “locale
effettivo”. O ancora, al frequente uso televisivo di dialetti
stereotipati, cioè “parlate tipiche” napoletane, milanesi o
romane che sono diventate patrimonio noto alla comunità nazionale,
pur essendo un pallido, sbiadito riflesso degli autentici dialetti).
Se, esaurito il compito di rappresentazione e costruzione di
un’identità nazionale unitaria, la televisione di servizio
pubblico cerca di volgere una più forte attenzione ai diversi volti
delle molte “Italie” attraverso una politica di decentramento e
un riferimento ad una dimensione territoriale “regionale” (per
altro piuttosto artificiosa), fra la fine degli anni Settanta e
l’inizio degli anni Ottanta la deregolamentazione dell’etere
genera prima un universo radiotelevisivo locale (e talvolta
strapaesano) e poi, accanto a quest’ultimo, un
“locale-nazionale” che trova sua espressione nell’apertura di
un nuovo, ampio mercato pubblicitario e nella costituzione dei
network televisivi commerciali.
L’affermarsi di una televisione nazionale privata e il suo
successo, avvenuto in modi imprevisti, passa solo parzialmente
attraverso la cosiddetta “americanizzazione” del panorama tv.
Questo termine si applica più correttamente al massiccio ricorso a
strategie di marketing e palinsesto tratte dall’unico grande
modello di televisione commerciale - quella americana, appunto - che
non all’insieme dei programmi delle neonate Canale 5, Italia 1 e
Retequattro (riunite nel gruppo Fininvest dal 1984). Canale 5, lo
abbiamo già detto, nasce all’insegna di Dallas e del
grande repertorio hollywoodiano, ma l’autoproduzione e il ricorso
a modelli d’intrattenimento del tutto peculiari alla storia
televisiva nazionale sono molto precoci. L’atto fondativo del
network è il passaggio all’emittenza privata di Mike Bongiorno -
autentico simbolo della storia televisiva nazionale - e la messa in
onda, la domenica sera, de I sogni nel cassetto, primo
programma ufficiale targato Fininvest.

Nel corso dei primi anni Ottanta il ricorso a
formule produttive d’intrattenimento nazional-popolare e al vasto
repertorio del cinema italiano (con l’acquisizione della library
Titanus) diventa sempre più consistente. I modelli cui si attinge
con più frequenza sono quelli ampiamente consolidati e apprezzati
dal pubblico televisivo (quiz, varietà e sport).
Insomma, l’intuizione che sottende al successo dei network
commerciali in Italia è il riconoscimento di uno spazio consistente
per una televisione d’intrattenimento in grado di riprendere e
riorganizzare i topoi e la memoria spettacolare nazionale e popolare
e di fonderli col grande repertorio della serialità made in Usa,
entro un orizzonte di aggressiva contro-programmazione. Era
probabilmente l’unica strada realmente percorribile per una
televisione “in differita”, impossibilitata istituzionalmente a
“stare addosso” alla realtà con la diretta.
Tuttavia, proprio negli anni 70, la tv va oltre il uso puramente
strumentale di “finestra aperta sul mondo”. Essa comincia non
solo a riprodurre i fatti esterni ma anche a provocarli,
determinarli; si trasforma da specchio più o meno fedele a
sommovitrice di questa realtà. E’ in questi anni che nasce il
credo, per alcuni, la leggenda, per altri, che i fatti esistono
soltanto quando finiscono in tv. Certo è che con l’avvento della
cosiddetta neotelevisione degli anni 80 si assiste a un’inversione
epocale del mezzo: nel giro di pochi anni, e grazie a trasmissioni
di cui Grande Fratello è solo l’espressione finale,
televisione non vuol più dire “guardare lontano” (che è
comunque un atto di conquista, di scoperta, di esplosione) ma
“essere visti da lontano” (che è, oltre che un gesto
narcisistico, anche una richiesta di attenzione e di comunicazione,
una necessità implosiva).
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