Le nuove forme di antisemitismo
David Meghnagi
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Questo articolo è apparso su
l'Unità del 3 settembre 2001
Di fronte alla diffusione dei pregiudizi antiebraici all’interno
delle organizzazioni socialiste e democratiche, August Bebel
affermò che “l’antisemitismo è il socialismo degli imbecilli”.
Parafrasando la sua celebre formula si potrebbe aggiungere che “l’antisionismo
è l’antimperialismo degli imbecilli”. Non è qui in discussione
il diritto di criticare il governo israeliano, di sminuirne le
responsabilità. Ma chi nel Vicino Oriente può dirsi innocente di
fronte ai gravi sviluppi dell’ultimo anno? Assad che accoglie il
Papa con un discorso antisemita, che la Chiesa ha abbandonato dopo
secoli? Arafat che denuncia Sharon dopo aver contribuito ampiamente
a mandare a casa il governo Barak, che voleva veramente la pace? La
tragedia mediorientale ha molte facce che mal si conciliano con una
lettura unilaterale e stereotipata dei problemi.
La demonizzazione d’Israele, con le sue trasposizioni simboliche,
delle “vittime di ieri” che diventano “carnefici” è stata
negli ultimi trent’anni uno dei topos più frequentati di logica
perversa.

Dietro ad una cornice solo in apparenza “rispettabile”
l’odio contro l’ebreo singolo diventa odio contro l’ebreo in
quanto nazione. Per parafrasare Sartre, l’antisemita mette in
discussione l’esistenza fisica dell’ebreo in quanto tale, l’antisionista
ne mette in discussione il diritto morale, se non quello materiale,
di esistere come nazione sovrana.
Nel panorama occidentale, ci sono antisionisti democratici che non
si rassegnano all’idea che gli ebrei reali non corrispondano all’ideale
dei personaggi rothiani con cui si sono identificati, che non si
chiedono in che misura l’idealizzazione possa nascondere a livelli
profondi l’aggressività rimossa e scissa. Sul versante opposto ci
sono antisemiti che attraverso l’antisionismo danno un’apparente
rispettabilità al pregiudizio antiebraico. Tra i due estremi, le
sfumature sono tante e non sempre appare facile dipanare l’intreccio
di una logica perversa che ha come esito l’antigiudaismo, e in
certi casi l’antisemitismo vero e proprio.
L’agitazione antiebraica ed i pogrom, in nome della “causa
palestinese”, sono stati ampiamente utilizzati dai movimenti
nazionalisti arabi per rovesciare i rispettivi sistemi monarchici e
instaurare stati d’ispirazione terzomondista. Non è un caso se le
comunità ebraiche del mondo arabo sono emigrate in massa in
Israele, se le sinagoghe sono in molti casi diventate moschee e i
cimiteri letteralmente spariti. Molto prima di Hamas e della Jihad,
il mondo arabo ha conosciuto l’esodo in massa degli ebrei, in
particolare verso Israele dove hanno trovato rifugio. La
demonizzazione di Israele è servita a deviare all’esterno le
tensioni sociali e politiche irrisolte.
Nei paesi del blocco sovietico, le accuse di antisionismo e di
cosmopolitismo erano un eufemismo per mascherare l’antisemitismo e
la repressione d’ogni forma di opposizione democratica. Per non
parlare dell’antisionismo di estrema destra che si collega
direttamente all’antisemitismo razzista.
Nel 1982 la sinistra italiana, specie quella di area comunista,
vacillò e in alcuni suoi settori avallò implicitamente ed
esplicitamente una perversa equazione che trasformava le vittime di
ieri nei carnefici di oggi. Come quando uno spezzone di corteo
sindacale non trovò di meglio che appoggiare una bara sulla lapide
che ricorda gli ottomila ebrei morti per mano dei fascisti e dei
nazisti. Con un capovolgimento simbolico aberrante nella stampa
italiana, gli israeliani diventavano i “nuovi nazisti” ed i
palestinesi i “nuovi ebrei”. Ci vollero mesi per ricucire una
dolorosa ferita inferta nella coscienza civile, segnata dal trauma
per l’assassinio di un bambino in braccio alla mamma, all’uscita
della sinagoga di Roma- in seguito ad un attentato che rompeva un
tacito accordo tra i servizi segreti italiani e la galassia del
terrorismo palestinese.

Salve alcune frange radicali, sono pochi oggi gli
esponenti della sinistra disposti a cavalcare la tigre dell’antisionismo.
L’Unione Sovietica con la forza del suo richiamo ideologico, non c’è
più, né può certo essere sostituita dal richiamo di regimi
oppressivi e lesivi per la dignità dei rispettivi cittadini,
esposti alla deriva del fondamentalismo.
In una situazione normale, di “sionismo” e di “antisionismo”
non si dovrebbe nemmeno più discutere. Come per il Risorgimento
italiano, con cui ha molte affinità culturali, se ne dovrebbe
parlare esclusivamente in una prospettiva storica. Il sionismo in
quanto movimento nazionale ha già realizzato i propri obiettivi,
approfittando di una congiuntura internazionale unica i suoi leader
hanno dato corpo ad un grande sogno di riscatto. Il problema
politico odierno è come rendere possibile un accordo pacifico fra
gli israeliani, che dopo tremende esperienze uno stato sono riusciti
a costruirlo, ed i palestinesi che dolorosamente lo attendono da
oltre mezzo secolo. Il problema è come impedire che la tragedia di
un conflitto di aspirazioni nazionali che dura da un secolo, e di
cui sono in molti a portare le responsabilità, precipiti l’intera
regione mediorientale in una guerra che sarebbe devastante per
tutti.
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