I
lettori scrivono
Da: gerardo ceriale <gerardo_ceriale@hotmail.com>
A: <caffeeuropa@caffeeuropa.it>
Data: Martedì, 10 aprile 2001 5:36
Oggetto: La
verita' vi prego sul lavoro
Sono un ragazzo di 26 anni, sono studente e sto trascorrendo un
periodo di stage. Vorrei esprimere la mia opinione
sull'articolo-dibattito a cura di Paola Casella.
Anzitutto non sono affatto d'accordo con Simona Argentieri sul fatto
che oggi "i sacrifici pulsionali non li fa nessuno e quasi
nessuno li richiede". Volendo riprendere le tesi della Scuola di
Francoforte (che oggi andrebbero rilette con attenzione) mi sento di
dire che è vero il contrario: i sacrifici pulsionali li facciamo
tutti, soprattutto "gli esclusi", ma non c'è nessuno che ce
li impone, sono richiesti e basta. La società odierna pubblicizza
vizio ma chiede indietro virtù. O meglio le virtù più funzionali al
suo conservarsi.
Per quanto riguarda specificamente il tema lavoro, mi sembra di
percepire che c'è più di una critica che la sinistra deve fare a se
stessa. Non da ultimo il fatto che non è riuscita o non ha voluto
evitare certi danni culturali.
Ora, è forse vero che "bisogna attivare politiche generali che
accompagnino il cambiamento e che aiutino il sistema a cambiare",
ma questo non vuol dire proprio prendere al guinzaglio quel processo
di cui si stanno criticando i risultati attuali?
Mi spiego meglio. Se la sinistra non ha saputo evitare certi danni
culturali non è forse perché avrebbe dovuto porsi contro tendenze
storiche mondiali, contro le quali non avrebbe potuto combattere? Che
il capitalismo sia il sistema economico dominante è palese, lo
riconoscono tutti. Ma se la sinistra ha al fondo delle sue radici la
critica al capitalismo è altrettanto chiaro perché essa sia entrata
in crisi.
Il fatto che ora si parli di "governare" la globalizzazione
è certamente giusto, ma questo non deve far dimenticare proprio
questa difficoltà: la sinistra italiana si trova a dover governare
una economia che è più che mai universalmente condizionata, e
condizionata dalle dominanti regole del profitto.
Si ha allora un bel dire sui problemi della flessibilità e della
disoccupazione tecnologica, sul fatto che "il cambiamento della
realtà lavorativa dev'essere integrato, spiegato e accompagnato da
progetti"; secondo me il grande problema di fondo è sempre lo
stesso (e correggetemi se sbaglio): ogni passo che si riesce a fare
per arginare gli effetti negativi dell'economia di mercato (come
appunto la disoccupazione) è un freno all'economia di mercato, per
cui ognuno di questi passi è controproducente se guardato nell'ottica
globale attuale, in cui ogni settore dell'economia di un paese è
legato a filo doppio con l'economia degli altri paesi.
Solo se questi passi, allora, venissero fatti di comune accordo con
altri governi, se certi limiti e certe regolamentazioni venissero
assunti a livello internazionale, solo allora essi potrebbero
realmente cambiare qualcosa. Insomma, forse sono troppo pessimista, ma
stiamo o non stiamo lottando "contro" la storia (anche se
"per" la storia)?
Gerardo
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