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Sorpresa: il mercato è di sinistra



Franco Debenedetti con Antonio Carioti



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In genere nei paesi occidentali la destra s'identifica con il liberismo, le privatizzazioni spinte, gli incentivi all'iniziativa individuale, mentre la sinistra si caratterizza per una più accentuata sensibilità sociale e la tendenza a porre vincoli al dispiegarsi del mercato. A sentire Silvio Berlusconi, in Italia la distinzione si ripresenta pari pari, con tratti particolarmente marcati: al suo fianco ci sarebbero i paladini delle libertà economiche; nell'Ulivo i nostalgici del dirigismo, se non addirittura del collettivismo.

Da alcuni anni Franco Debenedetti, imprenditore e senatore del gruppo Ds, cerca di dimostrare che nei fatti le cose stanno in modo assai diverso. E chiunque voglia verificarlo, trova un'ampia selezione dei suoi assidui interventi (consultabili anche sul sito www.francodebenedetti.it) nel volume Sappia la destra (Baldini&Castoldi). Un libro la cui introduzione, redatta in forma di dialogo con il giornalista economico Oscar Giannino, costituisce un autentico manifesto per una sinistra aperta al mercato. Ai limiti del provocatorio la tesi di fondo dell'autore: di privatizzazioni e liberalizzazioni, in questa legislatura, si è occupato solo lo schieramento progressista, mentre il Polo restava a guardare o addirittura difendeva l'esistente.


Dunque il liberismo del centrodestra sarebbe un bluff, senatore Debenedetti? Eppure gli esponenti di quella parte politica dicono di voler privatizzare tutto il privatizzabile. Si sono svegliati solo in campagna elettorale?

Ovviamente in vista del voto fioccano le promesse. Per esempio il responsabile economico di Forza Italia, Antonio Marzano, ha dichiarato il suo programma: "privatizzare tutto e subito". "Troppa grazia sant'Antonio", gli ho risposto su Panorama: privatizzare bene non è né semplice né immediato. Se si vuole essere credibili, bisogna dire che cosa si vuole mettere sul mercato, con quale tempistica, come si selezionano i compratori, come si forma il prezzo. Insomma le scelte di governo, quelle con cui ci siamo confrontati noi in questi anni. A far proclami astratti, si rischia anche l'infortunio, come è successo a Giulio Tremonti a proposito delle fondazioni bancarie.

A che cosa si riferisce?

La legge che abbiamo approvato voleva che le fondazioni uscissero dal controllo delle banche e dedicassero il loro patrimonio a opere di pubblica utilità E per indurle a cedere il controllo, dava anche consistenti vantaggi fiscali. Nonostante gli sforzi miei e di larga parte dei Ds, alla fine è stata approvata una legge poco incisiva: come avevo previsto, le fondazioni continuano a detenere partecipazioni strategiche per il controllo delle principali banche italiane, dal Sanpaolo, a Unicredito, a Intesa. E Forza Italia si è schierata compatta e battagliera a favore dei notabilati delle Casse di Risparmio.

Accodandosi a chi si scandalizza che le fondazioni si siano prese gli sgravi per vendere, ma restino in molti casi ago della bilancia degli assetti proprietari, Tremonti sul Sole 24 Ore ha indicato il suo rimedio: abolire la legge. Con il che si avrebbe il bel risultato che cadrebbero anche gli attuali deboli vincoli. “Troppo facile San Giulio”, vien da dire questa volta. Il problema è scrivere una norma nuova: cosa non facile ora che il pasticcio, grazie anche al fattivo contributo degli uomini di Forza Italia, è stato fatto.

E' un caso limite o ci sono altri esempi del genere?

Si potrebbe continuare a elencarli molto a lungo. A Roma Alleanza nazionale si è opposta alla privatizzazione della Centrale del latte e alla vendita di una prima quota dell'Acea, la municipalizzata dell'elettricità e dell'acqua. Sull'ordinamento degli ordini professionali Forza Italia si è schierata per la conservazione dell'esistente. Roberto Formigoni vorrebbe che la Regione Lombardia prendesse una importante partecipazione nella Sea. A Milano la giunta di centrodestra non intende scendere sotto il 51 per cento nelle municipalizzate. Non c’è vincolo di legge a impedirlo, solo che in tal caso il Comune dovrebbe mettere a gara le forniture pubbliche. Evidentemente la prospettiva non è gradita alle municipalizzate. E proprio per questo motivo dovrebbe essere gradita ai cittadini.

A fronte di tutto ciò, quale bilancio presenta l'Ulivo, dopo cinque anni di governo, sul versante delle liberalizzazioni economiche?

Le mie critiche stanno scritte sui giornali e le mantengo, tant’è che, per chi le avesse scordate, ne ripubblico una selezione in Sappia la destra. Ma sostengo che nel suo complesso il risultato è largamente positivo. Non c’è contraddizione tra le due affermazioni. Il treno delle privatizzazioni poteva andare più veloce e fare più strada, ma un lungo tratto è stato percorso. E siamo stati noi, noi del centrosinistra, a farlo avanzare. Noi abbiamo fatto dell'Italia un Paese più moderno e aperto al mercato. Il Polo non ha spinto per soluzioni più incisive: ha votato contro quelle del governo, com'era logico e legittimo che facesse, ma non elaborando proposte nel senso di una maggiore liberalizzazione.

Dunque è ingeneroso accusare l'Ulivo di un persistente statalismo?

Direi proprio di sì. Negli ultimi cinque anni il dibattito sulla flessibilità, sulla concorrenza, sui servizi pubblici ha compiuto nella sinistra enormi passi avanti. Le idee camminano sulla testa della gente: e io credo di aver dato un contributo non piccolo a farle camminare. Per questo rivendico per la sinistra non solo il merito di quello che abbiamo fatto, ma di quello che abbiamo detto. E’ anche merito nostro se ormai c’è la consapevolezza che il mercato libera i diritti, non solo perché dà più libertà di scelta, ma perché amplia l’orizzonte in cui gli uomini progettano la propria vita. Lo statalismo oggi non abita più tanto a sinistra quanto da un lato in An, dall’altro nei protezionismi locali. Il rischio oggi è che nascano tanti centralismi regionali al posto dello statalismo.

Tornando alle idee della sinistra, se capisco bene, lei sostiene che il capitalismo non deve più essere accettato come un male minore, ma visto come una fonte di progresso.

Sono convinto che oggi una politica liberista non vada a vantaggio solo dei ceti agiati, ma di tutti i cittadini, perché favorisce lo sviluppo e offre alle persone più opportunità. Aver tolto vincoli al mercato è un punto di forza della sinistra, che può permetterle di aumentare i consensi. Chi vuole meno tasse e meno pastoie non è "antropologicamente" di destra: in gran parte è gente che soffre i vincoli. Ma se non diamo loro risposte, siamo noi a cacciarli a destra.


Comunque nelle zone più avanzate del Paese, dove maggiore è la sensibilità verso il tema del mercato, gli elettori sembrano preferire nettamente la Casa delle libertà.

Il mio libro si rivolge appunto a queste persone. La destra che sta nel titolo Sappia la destra non sono i partiti della Casa delle libertà, ma i cittadini che voterebbero a destra ritenendo che a sinistra prevalga ancora il vecchio dirigismo. A loro io chiedo di valutare non solo le realizzazioni dell'Ulivo, nel complesso certamente positive, ma anche le idee che esso ha elaborato, discusso e diffuso. Perché i cambiamenti, prima di tradursi in leggi, devono imporsi nella cultura dei cittadini. Credo che gli elettori sapranno tenerlo nel debito conto al momento di scegliere.

C'è però chi sostiene che l'azione del centrosinistra in materia di liberalizzazioni abbia raggiunto un limite invalicabile, perché il veto della Cgil impedisce di spingersi più avanti.

Il problema senza dubbio esiste. Non a caso mi sono trovato più volte in vivace disaccordo con il sindacato, soprattutto in tema di flessibilità del lavoro, di pensioni, di contenuti delle piattaforme contrattuali. Ma ho il massimo rispetto dell’autonomia sindacale. La discussione va svolta all’interno delle forze politiche.

Anche qui tuttavia le resistenze non mancano. Basta pensare alle posizioni del ministro del Lavoro, Cesare Salvi, che del resto riflettono sentimenti molto diffusi nella base dei Ds.

Non è facile parlare di flessibilità ai lavoratori che temono di perdere il posto, me ne rendo conto, ma questa è appunto la sfida cui è chiamata una sinistra di governo. Se non diamo una qualche rassicurazione alla gente, se non ridisegniamo il sistema delle protezioni, flessibilità diventerà sinonimo di precarietà. Ciascuno rimarrà attaccato al poco che ha, invece di cercare di conquistare il di più che può avere. E così tutto si blocca.

E’ noto che l’aumento della produttività si ottiene soprattutto con spostamenti di posto di lavoro, assai più che restando nello stesso impiego. La crescita del Paese consiste appunto in milioni di decisioni innovative, prese da persone che vogliono migliorare la propria situazione. Si tratta di incoraggiarle, infondere loro fiducia, trovare un equilibrio soddisfacente tra spinta al mutamento e bisogno di sicurezza. Un compito che la sinistra può svolgere meglio della destra.

Ma puntando tutto su una linea liberista, che è lontana dalla sua tradizione, la Quercia non rischia di perdere i vecchi elettori per strada, come sembra dimostrare il continuo aumento dell'astensione?

Prima di tutto è da dimostrare che gli astenuti di sinistra tornerebbero alle urne se i Ds adottassero una linea più tradizionale. E poi, è semplice aritmetica constatare che non bastano i loro voti per vincere. E’ banale dirlo, ma per vincere bisogna avere la maggioranza dei consensi del Paese, cioè essere portatori di un programma che la maggioranza degli elettori stimi adatto a realizzare i propri individuali programmi di vita. Accontentarsi di coltivare il consenso di una minoranza fedele, significa puntare a una rendita di posizione e rinunciare a competere per il governo dell'Italia. Una prospettiva che a me, francamente, non interessa.

C'è chi obietta che la sinistra deve fare il suo mestiere, mentre inseguire il consenso moderato spetta al centro dell'Ulivo.

Sono profondamente contrario a questa "divisione del lavoro", che condannerebbe i Ds a un'eterna subalternità. Gli esempi di Tony Blair, di Gerhard Schröder, dello stesso Lionel Jospin dimostrano che la sinistra può benissimo aspirare alla maggioranza dei suffragi in un Paese occidentale avanzato. Affidare ad altri il compito di raccogliere i voti dei nuovi ceti produttivi è un'ipotesi rinunciataria. Un’ipotesi che perpetuerebbe l'asimmetria che ci penalizza: infatti nella Casa delle libertà, il centro, cioè Forza Italia, è preponderante rispetto alla destra; mentre nell’Ulivo il partito più forte sono i Ds, che sono percepiti come posizionati a sinistra dell’asse politico.

Ma come si può superare questa asimmetria?

Solo creando una sinistra a vocazione maggioritaria, capace di costituire l'asse portante di un'alleanza di governo, quindi indirizzata a raccogliere consensi in tutti i settori della società.

Lei, insieme ad altri esponenti progressisti, ha sottoscritto l'appello contro la faziosità comparso sul "Foglio", in cui si auspica una campagna elettorale dai toni pacati, senza demonizzazioni reciproche. Ma così non si attua un "disarmo unilaterale" della sinistra nei confronti di un Polo che non risparmia certo le asprezze?

Considero sbagliato dire che la Casa delle libertà è una "minaccia per la democrazia". Se non è una metafora, diventa un paradosso. Trattare Berlusconi come un potenziale dittatore, reclamarne l'ineleggibilità o auspicarne la messa fuori gioco per via giudiziaria fa pagare alla sinistra un costo politico elevato: perché distrae dal dare risposte a Berlusconi sul piano politico, equivale a dubitare di riuscire a batterlo sul terreno del consenso. Al contrario, io sono persuaso che noi abbiamo ottimi argomenti per convincere gli elettori che siamo in grado di governare l'Italia molto meglio della Casa delle libertà. Con la coesione, con la chiarezza, con qualche risolutezza in più, noi possiamo battere Berlusconi. Lo abbiamo sconfitto politicamente nel 1996 e possiamo farlo di nuovo, senza cercare scappatoie o evocare presunti scontri tra civiltà e barbarie.

Qualcuno pensa che, trattando il Cavaliere come un avversario pienamente legittimato, gli si faccia un grosso sconto in materia di conflitto d'interessi.

Il conflitto di interessi in capo a Berlusconi è e resta un grosso problema. Non l’ho mai negato, anzi su questo faccio i manifesti della mia campagna elettorale. Il funzionamento della democrazia, in un Paese evoluto come il nostro, si basa su delicati equilibri, sul rapporto di fiducia tra cittadini e istituzioni. Una fiducia che si alimenta anche della indipendenza dei governanti dagli interessi forti, della separazione tra potere politico e poteri economici. E’ reale il rischio di incrinare questo equilibrio.

Ciò deprimerebbe il tasso di democrazia del Paese, anche se non è una minaccia capace di distruggerla. Il conflitto d'interessi è un argomento molto forte contro Berlusconi, così come l'incoerenza delle sue grandiose promesse elettorali. O il credere e far credere che governare un Paese sia come guidare un’azienda. Evitare di demonizzare il leader del Polo non vuol dire affatto dargli tregua sui suoi punti deboli, anzi: consente di sfruttarli con determinazione.

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