Privatizzazioni, non basta fare cassa
Enrico Cisnetto con Antonio Carioti
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cassa
Chi è il più liberista del reame? L'interrogativo sorge spontaneo
di fronte alle opposte rivendicazioni dei due schieramenti che si
contendono la guida del Paese. La Casa delle libertà accusa il
centrosinistra di nutrire un'atavica diffidenza verso il mercato e
promette un'incisiva svolta liberalizzatrice. L'Ulivo ribatte
enumerando le numerose privatizzazioni attuate in questi anni, alle
quali l'opposizione non ha saputo contrapporre proposte alternative
credibili.
Abbiamo girato la domanda al giornalista Enrico Cisnetto, attento
commentatore delle vicende economiche e autore di un libro molto
venduto (Il gioco dell'Opa, Sperling & Kupfer) sui
conflitti tra i cosiddetti "poteri forti" e in particolare
sulla scalata a Telecom compiuta con successo da Roberto Colaninno.

"In realtà - risponde Cisnetto - nessuno dei due poli ha le
carte in regola. Il centrodestra non è stato al governo, quindi non
gli si possono imputare le scelte compiute a livello nazionale, ma
alcuni episodi riguardanti le municipalizzate hanno dimostrato che
spesso al suo interno gli interessi politici concreti prevalgono sui
propositi liberisti sostenuti in teoria. Al centrosinistra bisogna
riconoscere, come ha fatto di recente l'Ocse, che parecchie
privatizzazioni sono state realizzate, tanto da ricavarne quasi 160
mila miliardi in pochi anni. Il problema è che tali operazioni sono
state condotte in modo assai discutibile".
Che cos'è che non va nella politica seguita dall'Ulivo?
Le privatizzazioni non sono di per sé un toccasana: bisogna vedere
quale scopo si propongono. Nella prassi del centrosinistra sono
servite soltanto a fare cassa, a reperire le risorse necessarie per
raggiungere i parametri di Maastricht. Scartata l'ipotesi di
intervenire energicamente sulla spesa, specie nei settori delle
pensioni e della sanità, il denaro per risanare i conti dello Stato
è stato ricavato dagli introiti delle dismissioni di imprese
pubbliche. Così siamo entrati nell'euro, il che è un bene, ma al
tempo stesso abbiamo sprecato l'occasione che le privatizzazioni e
le connesse liberalizzazioni ci offrivano per attuare un disegno
strategico di politica industriale. E' mancato il riposizionamento
generale del quale il capitalismo italiano aveva bisogno. In questo
il governo ha completamente fallito.
Ma dal Polo è arrivata qualche indicazione valida a tal
proposito?
I due schieramenti mi sembrano ambedue criticabili. Il
centrosinistra perché ha privatizzato in quel modo. Il centrodestra
perché neppure adesso, in campagna elettorale, mostra di aver
elaborato un progetto plausibile di riforma del nostro sistema
economico, da perseguire al governo in caso di successo.
Non è un po' esagerato parlare di fallimento per le
privatizzazioni degli ultimi anni?
I risultati, direi, parlano da soli. Non si è modernizzato un
capitalismo asfittico, non si sono aperti i mercati a una
concorrenza autentica, non sono apparsi all'orizzonte nuovi soggetti
più dinamici, il potere dell'establishment economico è rimasto
fortemente concentrato in un circolo chiuso.
Però l'operazione Telecom ha fatto emergere delle facce prima
quasi sconosciute.
Non è certo un esempio positivo di privatizzazione. Prima l'azienda
è stata messa in mano a un gruppo di controllo del 7 per cento, che
con quattro soldi si è impadronito di una società da centomila
miliardi. Poi questo preteso "nocciolo duro", che in
realtà era un "nocciolino molle", è risultato
vulnerabile a una scalata condotta all'insegna del leveraged buy
out, un sistema spesso usato negli anni '80 in America e poi
accantonato spontaneamente dallo stesso capitalismo Usa, quando si
è visto che distruggeva valore invece di crearlo.
Spieghiamo di che si tratta ai lettori digiuni di economia.
Il leveraged buy out è la scalata di una società da parte
di chi non ha di suo fondi sufficienti per comprarla, ma suppone di
poter ripagare il debito contratto per finanziare l'affare traendo
risorse dall'impresa di cui acquisisce il controllo. Di solito
succede poi che lo scalatore smembra l'azienda conquistata e ne
rivende i pezzi, in modo da estinguere i debiti e lucrare un buon
guadagno.
Però Colaninno non sta mettendo sul mercato parti della Telecom.
E' vero, infatti gli rimangono 75 mila miliardi di debiti: un
problema che prima o poi è destinato a esplodere. Consideriamo che
per provocare il crac del gruppo Ferruzzi ne bastarono 30 mila. La
Telecom era una delle aziende pubbliche più importanti da
privatizzare, collocata per giunta in un settore altamente
strategico come le telecomunicazioni. Non mi sembra proprio che
l'esito sia stato brillante.

Si potrebbe obiettare che varie compagnie telefoniche europee
sono gravate da debiti altrettanto consistenti.
D'accordo, ma quelle imprese si sono indebitate per compiere grosse
acquisizioni (vedi il caso di Vodafone, che ha comprato Mannesmann e
con essa Omnitel) oppure per partecipare in diversi paesi alle gare
per le licenze dei cellulari di nuova generazione Umts. Comunque si
tratta di ambiziose iniziative industriali. Telecom invece è
indebitata fino al collo perché qualcuno che non aveva i soldi le
ha scaricato addosso gli oneri enormi assunti sui mercati finanziari
per scalarla. Non rimpiango certo l'epoca dei boiardi di Stato, ma
non mi sembra che dall'avvento di Colaninno il nostro sistema-paese
abbia ricavato un gran vantaggio.
Torniamo alla politica. Se la Casa delle libertà vince, sarà in
grado di fare le riforme della previdenza e del mercato del lavoro
che rimprovera all'Ulivo di non aver realizzato?
Almeno il centrodestra si è assunto la responsabilità di
dichiarare che intende affrontare questi problemi, sui quali il
centrosinistra invece preferisce sorvolare. Teoricamente nel Polo
c'è una maggiore compattezza di progetto e d'intenti, ma
naturalmente la prova dei fatti è un'altra cosa, perché le scelte
di cambiamento costano un prezzo salato in termini di consenso.
Bisogna vedere se Silvio Berlusconi, di fronte a una dura reazione
di piazza del sindacato, avrà la forza di andare avanti o
preferirà ripiegare sulla via di una concertazione faticosa e
inconcludente. E' difficile fare previsioni, ma qualche dubbio sulla
determinazione del centrodestra personalmente ce l'ho.
Come s'inserisce in un simile contesto la nuova linea di
Confindustria, che sembra più benevola verso il Cavaliere?
La considero una posizione ragionevole. L'attuale leader degli
imprenditori, Antonio D'Amato, è finalmente espressione della base.
Non solo per la sua formazione personale (in fondo anche Giorgio
Fossa veniva dalla piccola industria), ma perché non è stato
cooptato dall'establishment, anzi ha sconfitto proprio il candidato
delle grandi imprese, Carlo Callieri. Il nuovo presidente di
Confindustria ha preso atto che i suoi associati propendono per
Berlusconi e ha fatto cadere la pregiudiziale contro il Cavaliere,
che io ho chiamato "fattore B", mostrando una piena
disponibilità verso un eventuale governo del centrodestra. Ciò non
significa però che D'Amato punti a un nuovo collateralismo o
conceda a Berlusconi un'apertura di credito illimitata e a scatola
chiusa. Lo giudicherà dai fatti, in particolare dalla sua capacità
di non farsi irretire dai sindacati.
Non è un po' un mito l'idea che in passato la grande industria
abbia appoggiato il centrosinistra?
E' nota la frase dell'avvocato Agnelli secondo cui la sinistra
sarebbe stata lo schieramento più adatto a fare una politica di
destra, cioè favorevole agli interessi degli imprenditori. I
termini dello scambio erano chiari: i "poteri forti"
assicuravano all'Ulivo la copertura della grande stampa e come
contropartita ottenevano il mantenimento della pace sociale nelle
fabbriche. Questa intesa tacita ha avuto anche risvolti positivi,
perché ha consentito l'ingresso dell'Italia nella moneta unica
europea, ma ha finito per paralizzare il sistema e intralciare la
crescita.
Per questo Confindustria ha cambiato rotta?
Oggi la necessità primaria del Paese non è conservare la pace
sociale, ma rimettere in moto la macchina dello sviluppo, anche a
costo di un certo grado di conflittualità, per agganciarsi alla
rivoluzione digitale e alle dinamiche del mercato globale. La
sensazione di Confindustria è che il centrosinistra sia logoro e
anchilosato, legato a concezioni consociative e ostaggio della Cgil
di Sergio Cofferati: insomma, inadeguato alle esigenze del
cambiamento. Quindi gli industriali vogliono mettere alla prova la
Casa delle libertà.
E il conflitto d'interessi?
Senza dubbio è un problema reale, perché Berlusconi fa parte anche
lui dell'establishment: con Mediolanum ha un piede dentro Mediobanca
e potrebbe diventare un protagonista anche della vicenda
Olivetti-Telecom. In qualche modo è un attore della partita
economica, oltre che un leader politico aspirante alla guida del
governo. Abbiamo visto però che anche chi non possiede aziende
subisce la tentazione di intervenire nel processo di
ristrutturazione del capitalismo italiano. Non a caso Massimo D'Alema,
quando era presidente del Consiglio, è stato accusato di aver fatto
di Palazzo Chigi una sorta di merchant bank, una banca
d'affari. Anche questa è una forma di conflitto d'interessi.
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