Jazz, spot e l'illusione
dell'élite
Francesco Mandica
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Jazz, spot e l'illusione dell'élite
Un uomo allo specchio conta le sue rughe, solchi indelebili della sua
vita da post-yuppie: una, due, tre. Per fortuna che c’è la sua
nuova autovettura tedesca, consolazione di lamiera della sua
esistenza. Cal Tjader incalza con il suo vibrafono e la vita sembra
davvero una cosa meravigliosa.
Una donna si aggira in un improbabile party dell’alta società fra
le sale impettite della galleria Borghese mentre Richard Gere, bolso e
tenebroso, affida alla mano marmorea della Proserpina del Bernini un
cioccolatino che promette glicemie alte, colesterolo e un fllirt
vecchio stile. La voce del vecchio Frank (Sinatra) sopravanza, il tema
di Fly me to the moon ci ricorda che un flauto dolce e una
chitarra che batte i quarti possono davvero cambiarci la vita (e il
peso forma).

Due esempi, due situazioni lontane dal vissuto comune ci rivelano come
la pubblicita’ del XXI secolo abbia voluto connotarsi come
prodotto-altro, apparentemente destinato a pochi, subdolamente
propinato a tutti. E nell’era del mercato comune e globale il jazz
svolge nella pubblicità il ruolo di lectio difficilior, cioé
di traguardo da raggiungere per sentirsi a la page fra un
parquet e un canapè, vessillo della società che conta, motore
immobile di una festa fra intellettuali ricchi in stile Woody Allen.
E pensare che il jazz e’ una musica nata povera da brandelli di
scalcagnate bande militari, ritmi di un'Africa in catene e sporadiche
reminiscenze classiche…un minestrone che poco sarebbe piaciuto agli
avventori di quel tipo di società alla quale il marketing vuol farci
appartenere.
A proposito di minestroni: c’e’ una strana affinita’ fra i
surgelati e la chitarra manouche del grande Django Reinhardt -
pisellini primavera, sofficini dal ripieno non ben identificato e
zuppe di improbabili casali del “Chiantishire” prediligono il
suono gitano e raffinato del jazz francese. Anche qui si tratta di
contesto, ovvero di questa strana mania di voler fornire la cornice
adatta a situazioni più o meno amene come quella del single alle
prese con una padella antiaderente che aspetta il suo deprimente
destino.
Ma non basta; tutto il mondo degli elettrodomestici ha subìto il
fascino di questa nouvelle vague tzigana: Django e surrogati
vari (Bireli Lagrene, Rosemberg trio etc. etc.) campeggiano fra
lavatrici, lavastoviglie e frigoriferi: l’utensile viene presentato
nella sua versione più umana, la musica spontanea e solare conferisce
al freon freddo dei frigidaire un non so che di umano e terragno.

Caramelle al triplo gusto di vaniglia fragola e cannella hanno bisogno
dell’imprimatur di Cheek to cheek, cavallo di
battaglia di Fred Astaire, che richiama atmosfere celestiali solo per
il reiterato uso della parola “heaven”. Tutto fa brodo e l’aura old
fashioned del grande ballerino rievoca fasti che una caramella
sciolta in bocca difficilmente potrà rinverdire.
Di esempi ce ne sarebbero a bizzeffe, da Ella Fitzgerald a Billie
Holiday, clamorosamente tornata in auge grazie ad una marca di mutande
e profumi, e l’intento più o meno subliminale che la pubblicità di
oggi si propone è quello di fare quadrato attorno ad una nicchia (pseudo-raffinata,
pseudo-ricca, pseudo-intelligente, insomma, inesistente) rispetto ai
veri destinatari del messaggio, una massa che a quella nicchia
fantasma vorrebbe appartenere.
Non è un caso che le pubblicità delle automobili siano al primo
posto nella scelta di generi musicali fintamente elitari: la berlina
è tale se presentata come bonsai di buon gusto, concentrato di stile
e techne che racchiude nel suo mondo di radiche plastificate e
climatizzatori una posticcia filosofia di vita. La pubblicitù usa il
jazz quando ci chiede di operare una scelta ben precisa e ci implora
di farlo seguendo la via che più ci connota come diversi, fuori dalla
mischia.
Il primo gestore di telefonia nazionale ci chiede di comporre il
famoso 12 mentre distorte (per motivi di copyright) si intuiscono le
note di Night in Tunisia di Dizzy Gillespie; il secondo ha
scelto due icone altrettanto incisive: il cane che segna il suo
territorio nella maniera a lui più consona ed il sottofondo di un hard-bop
anni sessanta - impossibile resistere alla tentazione di sentirsi
parte di queste rivoluzioni di polistirolo, il nostro amor proprio ci
supplica di aderire a questo canone (estetico, ma soprattutto
telefonico).
La soluzione a questa inflazione di segni sta forse nella musica
stessa: di tutte quelle note gettate in pasto al divo commercio
conserviamo una strana paternità. Riconoscere una pubblicità dalla
sua musica è per molti indubbiamente un momento di grande “affermazione
sociale”, ma tenersi nel cuore le prime quattro battute di Fly me
to the moon è un'altra cosa: un imperativo romantico che nessuna reclame
potrà mai toglierci. Speriamo.
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