L’Aristotele che è in noi (surfisti
esclusi)
Ingrid Salvatore
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L’accento sulle differenze
L’Aristotele che è in noi
(surfisti esclusi)
Questo saggio appare sul numero 2/2000 della Nuova Serie della
rivista Filosofia e Questioni Pubbliche diretta da Sebastiano
Maffettone, e fa parte di un forum su Workfare e Welfare. Per
ulteriori informazioni potete collegarvi al sito
della Luiss Edizioni o scrivere all'indirizzo e-mail edizioni@luiss.it
Nota dell'autrice: desidero ringraziare i partecipanti al seminario di
Urbino, dove ho presentato una prima versione di questo articolo.
Massimo Rosati che mi ha incoraggiata a sviluppare le idee che qui
vengono esposte sin dalla loro prima, assai confusa, formulazione.
Sebastiano Maffettone e Luciano Andreozzi che hanno letto varie
stesure e, come sempre, mi hanno aiutato a migliorare il lavoro.
Introduzione
Philippe Van Parijs ha presentato, ormai qualche anno fa, una proposta
di riforma dei meccanismi di redistribuzione della ricchezza sociale,
il basic income, divenendone in qualche modo il paladino in una
varietà di contesti, sia accademici che politici. L’idea centrale
del basic income può essere sintetizzata nell’intento di svincolare
le prestazioni sociali dal lavoro, un legame, quello fra lavoro e
prestazione sociale, che ha costituito, e per la verità costituisce,
il tratto tipico della gran parte degli stati sociali esistenti,
nonché dei modelli teorici che li giustificano.
In tal senso, il basic income è diverso da tutte le altre forme di
erogazione di un reddito di sostegno, perché non è sottoposto a
vincolo alcuno. Il basic income, per come lo ha immaginato Van Parijs,
viene percepito indipendentemente dall’essere ricchi o poveri,
indipendentemente dall’essere disoccupati o lavoratori,
indipendentemente dal voler mai lavorare o fare qualcos’altro,
compreso il surf sulla spiaggia di Malibu. La sua erogazione,
naturalmente, dipende dalla ricchezza sociale disponibile; sarà
dunque più o meno alto a seconda di quanto è ricca una società.
Quanto più il basic income sarà alto, tanto meno, evidentemente, la
gente sarà incentivata a lavorare, tornando invece nel mercato del
lavoro quando il basic income dovesse consentire una vita meno
soddisfacente di quella desiderata.
Van Parijs ha ovviamente presentato una batteria di argomenti a favore
della sua proposta, difendendola da una quantità di possibili
obiezioni. E tuttavia, il basic income rimane un’idea
sostanzialmente controintuiva per la maggior parte delle persone. Come
lo stesso Van Parijs scrive, nell’articolo che qui presentiamo,
«una simpatica idea di un pugno di originali».
Di fatto, nel dibattito che ha recentemente visti impegnati quasi
tutti i paesi occidentali sulla necessità di riformare lo stato
sociale, divenuto ormai troppo costoso e inefficiente, né il basic
income, né le tesi che lo sorreggono, separare lavoro e welfare,
hanno giocato un ruolo di grande rilievo, specialmente se confrontate
ad altre linee di riforma: il workfare, in primo luogo - o, in Italia,
lavori socialmente utili - o la riduzione dell’orario di lavoro, la
flessibilizzazione del mercato del lavoro in risposta alla
disoccupazione e così via.
Io credo che vi sia una ragione molto profonda che fa apparire il
workfare (e le altre proposte) una via praticabile e il basic income
un’idea bislacca e irrealizzabile, ma credo anche che questa
profonda ragione non abbia alcuna plausibilità. Quello che vorrei
mostrare è che il basic income, piuttosto solitariamente nel
dibattito sulle forme di redistribuzione, sfida un’intuizione assai
persistente, un’intuizione che in generale siamo poco disposti a
mettere in discussione, talvolta, lo vedremo nel caso del workfare,
anche al costo di una notevole implausibilità. Ciò a cui così
fermamente crediamo è che alla base dell’idea di giustizia sociale,
alla base dell’idea che la ricchezza sociale vada in qualche modo
redistribuita, c’è il fatto che noi cooperiamo per produrla,
traendo da ciò, e da ciò soltanto, la legittimazione che ci consente
di rivendicarne una parte. Lo scopo di questo articolo è quello di
mostrare che, a dispetto di quanto comune sia questa idea, a dispetto
di quanto fermamente ci crediamo, essa è tuttavia falsa. Porre la
cooperazione sociale a fondamento dei nostri meccanismi redistributivi
implica una concezione della società filosoficamente insostenibile e,
per giunta, del tutto inefficace rispetto ai problemi di giustizia
più urgenti di fronte a cui siamo posti.
L’intento di questo articolo, dunque, è quello di offrire una
difesa del basic income non direttamente, offrendo argomenti in suo
favore, ma provando a scalzare quella che sembra essere l’obiezione
più forte e intuitivamente più plausibile contro di esso: l’idea
che la redistribuzione poggi su un sistema di cooperazione. Se si può
mostrare che alla base di questa obiezione vi è un modello di
società che in realtà nessuno è in grado di difendere, né
vorrebbe, un modello assai più implausibile di quanto possa apparire
quello di chi difende il basic income, allora forse anche gli
argomenti a favore del basic income, della sua effettiva
realizzabilità, della sua efficacia nel riformare lo stato sociale
generando più giustizia, avranno maggior forza6.
La difficile insorgenza della cooperazione
o come gli orsi salvarono la pelle
Immaginare la società come un’impresa cooperativa, l’abbiamo
detto, è un modo piuttosto naturale di pensare alle società in cui
viviamo e al modo in cui sono organizzate. La gran parte delle cose
che ci rendono possibile la vita comoda che conduciamo7, le case in
cui viviamo, il caffè che abbiamo appena bevuto, i vestiti che
indossiamo e così via, hanno richiesto un complesso sforzo
organizzativo che ha messo ciascuno nella condizione di compiere una
parte del lavoro necessario, godendo, per la sua parte, di questa
agevole vita. La cooperazione è ciò in cui consiste questo complesso
sforzo organizzativo, ciò che ci consente di ottenere risultati
migliori di quelli che ciascuno di noi potrebbe ottenere, agendo da
solo. Un modo standard per caratterizzare la cooperazione, dunque, è
il seguente: c’è cooperazione tutte le volte che il risultato della
nostra azione, combinata con quella degli altri, è migliore del
risultato delle azioni singole. Nessuno di noi è in grado, da solo,
di costruire un grattacielo, mentre coordinando gli sforzi di più
persone, questa complicata impresa diventa possibile. Poiché molte
delle cose che ci assicurano agio, benessere e comfort sono di questo
tipo, l’idea che noi ci organizziamo per farle nel modo più
semplice appare del tutto ovvia.
In questo senso, l’idea di cooperazione fa appello a intuizioni
molto blande e poco problematiche, da un punto di vista teorico. Per
spiegare l’insorgere della cooperazione basta assumere individui
razionali, autointeressati, che desiderano i prodotti della
cooperazione e li desiderano in quantità maggiore piuttosto che
minore. Cooperare, infatti, è semplicemente un modo per avere di più
piuttosto che di meno, ed è facile pensare che tutti vogliano di più
piuttosto che meno. Una volta spiegato l’insorgere della
cooperazione, poi, è facile collegare ad esso l’insorgere di
istituzioni che stabilizzano questa cooperazione, sempre sulla base
della preferenza razionale degli individui. Se gli individui
preferiscono cooperare in vista di vantaggi, allora si stabilirà
cooperazione e, alla lunga, si stabiliranno regole, morali o d’altro
tipo, perché la cooperazione continui. Non solo dunque la
cooperazione è un modo semplice e naturale di pensare all’organizzazione
sociale, ma in più possiede grande efficacia teorica, perché è in
grado di spiegare molto a fronte delle semplici assunzioni che
richiede.
Nonostante questa apparente ovvietà, lo statuto dell’idea di
cooperazione è piuttosto incerto. In alcuni casi, infatti, l’idea
di cooperazione deve essere considerata niente più che un modellino
esplicativo, in grado di gettare luce su problemi complessi che
viceversa risulterebbero teoricamente intrattabili. Dopo tutto,
infatti, cooperare non è l’unica cosa che facciamo nelle nostre
società, luoghi in cui ci innamoriamo, abbiamo una vita sociale e
affettiva, facciamo figli, ci divertiamo e così via. Né l’autointeresse
è l’unica spinta motivazionale che abbiamo, e forse nemmeno la più
importante. Questa sembra essere la concezione che ne ha Thomas
Schelling quando asserisce che «il vantaggio di coltivare l’area
della “strategia” per gli sviluppi teorici non è che, di tutti i
possibili approcci, essa sia con evidenza la più vicina alla verità,
ma che l’assunzione di un comportamento razionale è produttivo.
[...] La premessa di un comportamento razionale è qualcosa di potente
per la produzione della teoria. Se la teoria che ne risulta fornisca
intuizioni povere o adeguate circa il reale comportamento è materia
[...] di un giudizio successivo»8.
Altre volte, invece, la cooperazione ha pretese più ampie di così.
È un fenomeno la cui insorgenza può essere spiegata in termini
evolutivi e che narra davvero come potrebbe essere andata agli albori
della nostra storia, e come da lì potrebbero essersi formati i
sentimenti morali di cui parla l’etica9. Altre volte ancora, la
cooperazione è semplicemente una descrizione, attendibile e
teoricamente efficace, delle società in cui viviamo10.
In realtà, queste ambiguità dell’idea di cooperazione si sono
rivelate, io credo, una risorsa in suo favore, consentendo spesso il
passaggio dall’una all’altra nozione di cooperazione, secondo le
esigenze del momento. Si può mostrare, infatti, che le semplici
assunzioni che rendono così teoricamente interessante l’idea di
cooperazione sono in realtà del tutto inefficaci da un punto di vista
normativo11. Così, quanto più il nostro scopo è quello di ottenere
risultati normativamente interessanti (per esempio, in termini di
teoria morale o politica), tanto più saremo indotti ad impegnarci in
un ideale di cooperazione assai più sostanzioso e assai meno
intuitivo di quello iniziale. Ma, facilmente, saremo anche indotti a
non esplicitare affatto questo passaggio, continuando a credere che
ciò di cui stiamo parlando è semplice, intuitivo, elegante.
Il punto, dunque, è riuscire a mostrare che le teorie che fanno della
cooperazione la base su cui poggia la redistribuzione della ricchezza
sociale, traggono le loro conclusioni normative da una nozione di
cooperazione che implica una visione della società insostenibile ai
loro stessi occhi.
Rawls è l’autore che ha cercato con maggiore sistematicità di
estendere il modello della cooperazione - con le sue deboli assunzioni
- cercando di trarne non solo una teoria delle istituzioni, ma una
teoria della giustizia. Per questa ragione, Rawls è l’autore che
consente di argomentare con chiarezza la tesi che qui si sta
sostenendo. Proprio perché le esigenze normative della sua teoria
sono assai forti, Rawls consente di mostrare con chiarezza come e
perché avviene il passaggio da una nozione debole della cooperazione
a una assai più forte. Ma Rawls è anche l’autore della più
importante teoria politica di questo secolo. La sua teoria della
giustizia fornisce il modello più influente di critica e di riforma
delle società esistenti. Se si riesce a mostrare che la nozione di
cooperazione che sta alla base della sua teoria è implausibile,
allora a me pare di poter dire che si sarà gettato più di qualche
dubbio sulla nozione di cooperazione stessa, aprendo lo spazio per un
modello redistributivo meno angusto e più efficace. Questo è ciò
che mi propongo di fare.
Nelle prime pagine della teoria della giustizia, Rawls scrive:
«Assumiamo che la società è un’associazione più o meno
autosufficiente di persone che, nelle loro relazioni reciproche,
riconoscono come vincolanti certe norme di comportamento. [...]
Supponiamo poi che queste norme specifichino un sistema di
cooperazione», caratterizzato da «benefici e oneri»12. La corretta
distribuzione di questi benefici e oneri è il problema centrale della
teoria della giustizia13.
Nel suo nucleo essenziale, l’idea di Rawls era assai semplice: se
possiamo dimostrare che una forma stabile di cooperazione è anche
giusta, noi possiamo riformulare il problema della giustizia sociale
in termini di allocazione di benefici e oneri, servendoci delle
assunzioni assai parche della razionalità economica e offrendo quindi
una teoria semplice, efficace ed elegante per un problema solitamente
considerato difficile e oscuro14. Poiché tutti vogliono i benefici
della cooperazione, e tutti sanno che tutti vogliono i benefici della
cooperazione, il modo migliore per rendere stabile la cooperazione
consiste nel fare in modo che ciò che ciascuno ha sia anche - ai suoi
occhi e a quelli degli altri - giusto15. Se questo è fattibile, il
risultato sarà che ciascuno è motivato a cooperare sulla base del
suo interesse personale; che ciascuno ha una forte motivazione a
mantenere la cooperazione in termini di giustizia, viceversa essa
potrebbe collassare, e nessuno preferisce l’assenza di cooperazione
alla cooperazione; e abbiamo dunque ottime ragioni per redistribuire
secondo giustizia, perché appunto una cooperazione stabile è anche
giusta. Insomma, noi abbiamo coi semplici strumenti della teoria della
scelta razionale o della razionalità economica risolto in maniera
efficace e parca il problema fondamentale della giustizia sociale.
Questa era l’idea.
Il mio scopo è mostrare che così non è, che in realtà Rawls non
arriva alla concezione di giustizia (che stabilisce come deve essere
redistribuita la ricchezza sociale) da questa via, ma sostituendo
questo modello di cooperazione con una concezione diversa che, come
mostrerò, è insostenibile e falsa.
Come abbiamo accennato, l’idea di cooperazione sfrutta l’ovvia
considerazione che azioni sufficientemente complesse sono possibili e
vantaggiose se semplicemente noi siamo in grado di coordinare le
nostre azioni. Possiamo immaginare un gruppo di uomini che si
coordinano per organizzare una caccia all’orso16. L’orso è un
grosso animale che darà cibo per tutti. Per assunzione, nessuno è in
grado di ammazzarlo da solo, l’impresa cooperativa, dunque, sorgerà
spontanea. Questo è semplice e chiaro, ma così abbiamo completamente
lasciato da parte il problema essenziale. Non sappiamo ancora,
infatti, come sarà redistribuito il povero animale ucciso. È chiaro
che solo tutti insieme possiamo uccidere l’orso, ma nessuno di noi
è direttamente interessato alla sua morte (a meno che non ci minacci,
ma questa è una diversa questione17), mentre tutti siamo interessati
a come verrà distribuita la carne dell’orso ucciso. E qui il
modello della cooperazione è in grado di dirci assai meno.
Il modello di cooperazione basato sulla razionalità autointeressata
dei soggetti, infatti, è così esile che, a condizione di migliorare
di una qualunque quantità la situazione di ciascun partecipante,
cooperare risulterà vantaggioso18. Se le mie condizioni di partenza
sono particolarmente sfavorite (per esempio, perché sono
mingherlino), quand’anche dopo la caccia all’orso a cui tutti
abbiamo preso parte a me tocchi una quantità minore degli altri, io
ho comunque migliorato la mia posizione e, dal punto di vista delle
deboli assunzioni della scelta razionale, questa è una situazione o
è un esito cooperativo del tutto legittimo19. Ma, naturalmente, un
tale risultato è inservibile dal punto di vista della giustizia20. In
che senso allora lo si può utilizzare per gli scopi di una teoria
della giustizia? Il tentativo di giungere a risultati normativamente
significativi, passando attraverso questa idea di cooperazione, è in
generale affidato, come abbiamo accennato, alla nozione di stabilità.
Ed infatti, il tentativo di Rawls è di mostrare che questo esito
cooperativo non è semplicemente ingiusto, ma che è instabile, e che
per renderlo stabile dobbiamo redistribuire in modo equo l’orso21.
Ora, il punto è che se io non ottengo abbastanza dalla cooperazione
(per esempio, ho troppo poco orso), il mio incentivo a defezionare
sarà più alto e, di conseguenza, la cooperazione instabile. E se per
assunzione la cooperazione è dominante, cioè preferita da tutti,
allora sarà razionale per gli altri darmi una parte equa di orso,
perché questo aumenterà il mio interesse a stare dentro la
cooperazione e a non defezionare. Questo sembra ovvio e semplice, ma
in realtà, complica il modello in un modo che il modello stesso non
è in grado di sostenere. Infatti, se noi cominciamo a irrobustire le
assunzioni di razionalità che stanno dietro la scelta di cooperare,
uno degli esiti possibili non è affatto la giusta distribuzione ma,
più probabilmente, il fatto che la cooperazione non insorga22.
Supponiamo che io cominci ad avanzare pretese sulla quantità di orso.
Perché esse abbiano una qualche efficacia, occorre che io sia in
grado di fare realmente quello che minaccio. Ma io posso davvero, per
esempio, uscire dalla cooperazione? Tutti sanno che non sono in grado
di cacciare da solo, come sappiamo sono un tipo deboluccio, perché
mai allora dovrebbero credermi? E io stesso, posso davvero rischiare
di essere escluso? Supponiamo che, a fronte delle mie pretese, il
gruppo dei più forti si convinca che accogliendo richieste di tal
genere il loro vantaggio a cooperare diventerebbe troppo scarso. Per
quanto li riguarda, loro possono benissimo organizzarsi fra loro, o
vivere di animali più piccoli (che, essendo più forti sono in grado
di cacciare, mentre, per assunzione, io no). Insomma, il loro
incentivo a defezionare diventa altrettanto alto quanto quello che
abbiamo supposto all’inizio per me. In queste circostanze, quello
che con ogni probabilità accadrà è che la cooperazione
semplicemente non avrà luogo. Se cioè abbandoniamo le assunzioni
semplicissime di razionalità, per cui c’è cooperazione ogni volta
che qualcuno migliora la sua posizione (senza peggiorare quella di
qualcun altro), se facciamo questo passo in più, la cooperazione
lungi dal divenire più giusta, semplicemente collassa o non ha
luogo23.
Oppure, ammesso che si riesca a far partire la cooperazione, una
diversa soluzione, altrettanto inservibile per la giustizia, è che la
sua stabilizzazione non conduca affatto a un esito compatibile con una
qualunque idea di giustizia. Date assunzioni di razionalità più
sofisticate e più realistiche, è facile immaginare una varietà di
circostanze in cui la cooperazione ha sì luogo e diventa pure
stabile, ma non per questo diventa giusta. A seconda di quanto è
importante per me ottenere la collaborazione degli altri, io posso
essere disposto ad accettare molto meno di quello che mi spetterebbe o
che potrei desiderare, perché senza di loro starei anche peggio. Se
davvero alcuni possono vivere cacciando animali più piccoli dell’orso
e io no, la mia minaccia di uscire dalla cooperazione è risibile e
non verrà presa sul serio. Per quanto piccola sia la parte di orso
che mi spetta, tutti sanno che non potrei vivere senza di essa e
questo è un incentivo per me a continuare a cooperare, un incentivo
per loro a darmi quello che vogliono, ciò che dà come risultato una
cooperazione assai stabile ma per niente giusta24.
Il modello della cooperazione razionale, dunque, funziona solo se la
nostra idea di razionalità è molto semplice, ma allora è
normativamente inefficace. Se assumiamo un’idea di razionalità più
esigente, collassa. Date le parche assunzioni della teoria della
scelta razionale non c’è nessuna ragione per chiedere una diversa
distribuzione. Non c’è nel modello lo spazio per una richiesta di
giustizia. Partecipando alla cooperazione e ottenendo la mia parte di
carne di orso, quale che sia, ho fatto ciò che dovevo e potevo fare
perché la condizione di razionalità fosse soddisfatta. E non c’è
altro da aggiungere.
Di sicuro, quello che non può darsi per scontato è che la
razionalità della cooperazione dia luogo a una preferenza per la
giustizia e la giustizia a una per la stabilità. Questo a meno di non
operare un piccolo trucco, assai elegante e sofisticato, ma
teoricamente implausibile.
Immaginiamo, tenendo fermo il nostro modello sulla cooperazione, di
cominciare a complicarlo con assunzioni diverse da quelle che abbiamo
sin qui visto all’opera. Immaginiamo che quando io avanzo le mie
pretese sull’orso, gli altri non abbiano la reazione che abbiamo
visto, ma comincino a pensare che effettivamente se la cooperazione
lascia alcuni insoddisfatti, ebbene allora la loro tentazione di
defezionare diventa molto alta. Immaginiamo che essi sappiano, per
esempio, che io ho dei figli e che se la quantità di carne è troppo
scarsa io potrei preferire morire piuttosto che vedere i miei figli
affamati. La mia capacità di minaccia adesso è più credibile. Non
ha fondamento solo nella razionalità, che abbiamo visto essere
inefficace, ma in qualcosa di più forte, i bisogni. Proviamo ora ad
estendere questa situazione, indebolendo le opzioni disponibili circa
la defezione e dunque rafforzando il nostro interesse alla
cooperazione, anzi il nostro bisogno di cooperazione. Cioè assumiamo
che, in realtà, nessuno è davvero in grado di defezionare, perché
nessuno è davvero in grado di vivere fuori dalla cooperazione
sociale.
Ebbene, si può mostrare che, a questo punto, le implicazioni
normative che prima risultavano impossibili sono invece tutte a
disposizione. Adesso è possibile cominciare a pensare che se la
cooperazione non è almeno in qualche senso giusta, allora
effettivamente potrebbe anche non avere luogo e poiché abbiamo alzato
la posta dell’assenza di cooperazione, può realmente aver senso
sostenere che ciascuno è disposto a cedere qualcosa alla giustizia
pur di avere una cooperazione stabile. Ma il prezzo che abbiamo pagato
è assai alto e, come cercherò di dimostrare, teoricamente
insostenibile.
Aristotele, gli architetti e i ciabattini
La mia idea è che con gli aggiustamenti progressivi che abbiamo
fatto, noi abbiamo completamente abbandonato il nostro modello
esplicativo che traeva forza dalla debolezza delle sue pretese e ci
siamo impegnati in una teoria filosofica della cooperazione sociale
della cui plausibilità si può ampiamente dubitare. Intendo sostenere
che l’idea di cooperazione in cui ci siamo impegnati ha un padre
tanto illustre quanto ingombrante, Aristotele, e che scommettere sulla
plausibilità della concezione di Aristotele in materia di
cooperazione sociale è un grosso azzardo. E cercherò di mostrare che
è esattamente ciò che Rawls fa.
Vorrei mostrare come Aristotele offra una potente alternativa al
modello cooperativo che abbiamo appena visto fallire e, poiché non si
sottrae a nessuno degli esiti che la sua costruzione implica,
Aristotele mostra assai bene perché la cooperazione implichi una
concezione della società insostenibile. Nel modello di Aristotele la
cooperazione è svincolata da qualunque volontà o scelta degli
individui, il suo fine, infatti, è fissato nella soddisfazione dei
nostri bisogni. In tal modo, essa non solo è sottratta a qualunque
minaccia di fallimento, ma può essere facilmente ancorata a una
concezione della giustizia, proprio perché, e nella misura in cui,
soddisfa i nostri bisogni. Ma la società che Aristotele progetta e
difende non solo non è, e non può essere, la società in cui
viviamo; è anche un tipo di società in cui, credo, non vorremmo
vivere.
Per Aristotele lo Stato è una complessa organizzazione, formatasi
«bensì per rendere possibile la vita», ma esistendo in realtà
«per rendere possibile una vita felice»25. Che lo Stato esista per
rendere possibile la vita implica, come volevamo, che l’esistenza
stessa di una società dipende dal fatto che noi siamo esseri
caratterizzati da bisogni, i quali possono essere soddisfatti soltanto
in un’unione all’interno della quale noi siamo messi in grado di
produrre e scambiare vantaggiosamente i beni che ci sono necessari per
vivere e poi anche per vivere bene. Questo è ciò che solitamente
chiamiamo cooperazione: una divisione del lavoro che consenta a
ciascuno di fare la sua parte, producendo un risultato che è migliore
di ciò che ciascuno può fare da solo26. Infatti, scrive Aristotele:
«Lo stato non risulta di una parte sola, ma di molte. [...] Di queste
una è la massa impegnata per il cibo, i cosiddetti agricoltori;
seconda la classe cosiddetta degli operai meccanici, [...] terza dei
commercianti»27 e così via.
È l’unione cooperativa di operai, architetti, meccanici e
agricoltori che ci rende possibile la vita. Ed è per rendere
possibile la vita che lo Stato si forma. Ma il legame fra i bisogni e
lo Stato che Aristotele istituisce attraverso la cooperazione se,
certo, offre una forte ragione a favore dell’insorgenza della
cooperazione, ha d’altra parte implicazioni assai forti sul modo in
cui lo Stato deve formarsi, rendendo possibile la vita. Implicazioni
che Aristotele non manca di cogliere e di difendere.
All’inizio, potrebbe sembrare che Aristotele abbia in mente una
sorta di derivazione naturale dello Stato dall’unione prima di ciò
che non può starsene separato - l’uomo e la donna, per esempio -
poi di gruppi di famiglie in piccoli villaggi.
«Se si studiassero le cose svolgersi dall’origine - ci dice
Aristotele - anche qui come altrove se ne avrebbe una visione quanto
mai chiara»28. Vedremmo, infatti, come «è necessario in primo luogo
che si uniscano gli esseri che non sono in grado di esistere separati
gli uni dagli altri, per es. la femmina e il maschio in vista della
riproduzione»29. La formazione della famiglia, dunque, avviene in
modo del tutto naturale, e lo stesso accade per l’unione di più
famiglie in villaggi. E così potrebbe sembrare che lo Stato
semplicemente risulti dal progressivo crescere del numero delle
famiglie o dall’unione di più villaggi. Ma le cose sono più
complicate di così. Infatti, se certo in Aristotele lo Stato esiste
per natura, il modo in cui ciò avviene non è affatto lineare.
Lo Stato esiste per natura nel senso che la sua ragion d’essere è
indotta dalla natura: «per natura, dunque, è in tutti la spinta
verso una siffatta comunità, e chi per primo la costituì fu causa di
grandissimi beni»30. Senza lo Stato, infatti, noi semplicemente non
potremmo vivere, e ancor meno vivere una vita felice: «Chi non è in
grado di entrare nella comunità o per la sua autosufficienza non ne
sente il bisogno, non è parte dello stato, e di conseguenza o è
bestia o dio»31.
Tuttavia, lo Stato non può essere il frutto della semplice unione di
ciò che non può starsene separato, come accade per la famiglia, per
la semplice ragione che nulla del genere esiste in natura. Se, come
abbiamo detto, lo Stato è una complessa macchina il cui scopo è
quello di metterci in grado di cooperare vantaggiosamente - «infatti
non da due medici sorge una comunità, ma da un medico e da un
contadino, e in generale da diversi e non da eguali»32 - allora noi
dobbiamo essere messi in condizione di organizzarci in quanto medici e
contadini, ciabattini e architetti. E mentre, esistono in natura la
donna e l’uomo, come del resto lo schiavo, non altrettanto può
dirsi per artigiani e architetti, per medici e agricoltori. Non ci
sono medici e architetti in natura, come Aristotele sa bene33. E
questo perché non può esistere alcun architetto se non c’è
qualcuno che produca il grano, e nessun medico se qualcuno non
costruisce gli attrezzi e la casa che gli sono necessari e così via.
Se non c’è lo Stato, infatti, non ci sono nemmeno le sue parti: i
medici, gli artigiani, gli architetti. Ma se non ci sono medici ed
architetti non può esservi cooperazione, perché in tal caso non
saremmo in grado di soddisfare i nostri bisogni e la cooperazione non
avrebbe né senso, né luogo. Ed infatti, «per natura lo stato è
anteriore alla famiglia e a ciascuno di noi perché il tutto deve
essere necessariamente anteriore alla parte: infatti, soppresso il
tutto non ci sono più né piede né mano se non per analogia
verbale»34.
Perché la cooperazione abbia luogo, dunque, rendendoci possibile la
vita, occorre che lo Stato abbia priorità sugli individui e sulla
famiglia. Perché nessuno potrebbe sapere ciò che (si) deve fare
senza conoscere ciò di cui lo Stato ha bisogno per sussistere. E
senza sapere ciò che si deve fare perché uno Stato sussista, non
avremo Stato. Così, perché la cooperazione soddisfi i bisogni nel
modo che ci è necessario, occorre che il risultato finale sia dato
prima, viceversa siamo ricacciati in una situazione in cui ciò di cui
abbiamo massimamente bisogno, lo Stato, non può tuttavia formarsi35.
Questa conclusione di Aristotele è tanto impegnativa, quanto
inevitabile nel modello proposto. Se ciascuno deve fare la sua parte,
come vedremo anche più avanti, bisogna che sia in qualche modo
stabilito qual è la parte che deve fare. Per essere in grado di
cooperare dobbiamo essere in grado di dividerci il lavoro, viceversa
non saremo in grado di soddisfare i nostri bisogni. E «che sia il
bisogno a tenere uniti gli uomini, come costituendo qualcosa di unico,
manifesta il fatto che, quando non abbiamo reciprocamente bisogno, o
entrambe le parti o una delle due, non effettuano scambi»36. Ma gli
scambi si effettuano fra diversi, e i diversi possono esistere solo se
siamo in grado di distinguere e organizzare le nostre funzioni,
distinguendo i medici dagli agricoltori e i ciabattini dagli operai37.
Si dà cooperazione dunque solo a condizione di assegnare a ciascuno
la parte che deve fare, viceversa essa non può costituire la ragion d’essere
della nostra unione. Non c’è cooperazione se ciascuno pretende di
fare ciò che gli pare. Il suo insorgere e la sua stabilizzazione sono
ancorati alla soddisfazione dei bisogni.
Un’immediata conseguenza di quanto abbiamo appena detto è che la
cooperazione si specifica in Aristotele in ragione dell’autosufficienza.
Di che cosa ha bisogno, infatti, uno Stato per poter sussistere? Di
essere autosufficiente, naturalmente, per poter provvedere ai bisogni
di tutti i cittadini, non essendo quindi mai esposto alla minaccia di
un collasso: «La comunità che risulta di più villaggi è lo stato,
perfetto, che raggiunge ormai, per così dire, il limite dell’autosufficienza
completa»38.
L’autosufficienza è l’ovvio completamento dell’idea di
cooperazione che abbiamo visto operare in Aristotele. Perché la
cooperazione abbia luogo occorre che i bisogni (tutti i bisogni) siano
soddisfatti, e questo significa che l’opera di ciascuno all’interno
della cooperazione deve mirare a ciò. Non si può prender parte alla
cooperazione, per esempio, per il solo desiderio di arricchirsi,
perché questo mette a rischio la stabilità della cooperazione.
Producendo scarpe solo per trarne del guadagno, cioè non per comprare
qualcos’altro di cui ho bisogno, ma solo per accumulare denaro, si
corre il rischio di sottrarre alla cooperazione la sua ragione
fondante (la soddisfazione dei bisogni), così esponendola di nuovo al
rischio di fallimento39.
Ma in più, se non si tiene di mira la necessità della cooperazione
per il fine dell’autosufficienza, in qualche modo si stanno
truccando le carte, violando le regole dello scambio. Ciò che regola
lo scambio, infatti, è ancora una volta il bisogno, che funziona come
criterio di comparazione dei beni. Scrive Aristotele: «Bisogna dunque
che tutti i beni siano misurati con un’unica cosa [...] e questa in
verità è il bisogno, il quale tiene uniti tutti i beni»40.
Poiché produciamo e scambiano i nostri beni in relazione ai nostri
bisogni, questi saranno anche la misura di ciò che reciprocamente ci
dobbiamo: «In realtà è impossibile che le cose che differiscono
tanto siano commensurabili, ma è possibile che lo siano
sufficientemente in relazione al bisogno»41. È il bisogno, dunque,
che dà conto della giustezza dello scambio: «per questo bisogna che
tutti i beni siano stimati. In questo modo infatti sarà sempre
possibile uno scambio, e se sarà possibile questo, sarà possibile
una comunità»42.
Se svincoliamo la nostra produzione di beni dai nostri bisogni, come
potremo mai avere una misura di ciò che è giusto? Come potremo mai
sapere qual è il giusto rapporto fra chi produce scarpe e chi produce
case? E se non siamo più in possesso di questo rapporto come si
potrà ancora cooperare? E che non si dia cooperazione, come sappiamo,
è un rischio che non ci possiamo permettere. Infatti, scrive
Aristotele: «Bisogna dunque che il medesimo rapporto che intercorre
fra un architetto e un calzolaio vi sia anche tra paia di scarpe e una
casa, o un alimento. Se infatti non si dà questo rapporto non vi
sarà né scambio né comunità»43. Se la cooperazione deve avere
luogo, e non può non avere luogo, deve essere secondo giustizia,
identificando attraverso il bisogno ciò che reciprocamente ci
dobbiamo.
E così cooperazione e giustizia sono adesso visibilmente
collegate, come volevamo. Ma credo che il risultato ci appaia ora un
po’ meno desiderabile di come sembrava all’inizio.
Quello che credo di aver mostrato, infatti, è che se si assicura l’insorgenza
della cooperazione, motivandola con la necessità che abbiamo di
soddisfare i nostri bisogni, siamo è vero in grado di spiegare
perché ciò che mi spetta dipende dal modo in cui l’insieme è
stato prodotto, ma siamo anche costretti a pagare il prezzo che
Aristotele paga: sostenere una visione della società che metta, per
così dire, ciascuno al suo posto, garantendo che ciascuno faccia ciò
di cui la società ha bisogno. Se l’argomento funziona quello che
deve mostrare è che o noi siamo disposti a difendere questa visione
della società, ma non vedo come, o noi dobbiamo sbarazzarci dell’idea
di cooperazione. Intendo sostenere la plausibilità di questa
conclusione, mostrando come opera in Rawls l’idea di cooperazione.
Cooperare con Tom Cruise (e non nel senso che state pensando!)
Abbiamo visto come l’ideale aristotelico di cooperazione preveda un
mondo fatto di artigiani, medici e architetti capaci di provvedere
alle necessità della vita, ciascuno impegnato in quella complicata
impresa che è la costruzione di una società autosufficiente.
Naturalmente, era più facile per Aristotele stabilire come dovesse
essere fatta, grosso modo, una società autosufficiente e quali
fossero le funzioni da assegnare a ciascuno sia perché vi era più
portato, sia perché lo Stato ne aveva bisogno. Più complicato è per
noi che non cooperiamo in quanto ciabattini e architetti, medici e
agricoltori. Il modello cooperativo della nostra società deve,
infatti, prevedere che la cooperazione abbia luogo fra attori e
consulenti aziendali44, ricercatori e designer, pubblicitari e
produttori di scarpe Tod’s45. E benché questo renda il nostro
ideale di cooperazione intuitivamente un po’ meno solido di quanto
lo fosse per Aristotele, lasciamo pure che sia così, per il momento.
In verità, spiegare se e in che senso Tom Cruise stia prendendo parte
a una impresa cooperativa non è del tutto chiaro e anzi, come
vedremo, non è chiaro affatto. Ma prendiamo per buona l’idea e
consideriamo, come Rawls ci invita a fare, che la società sia «uno
schema di cooperazione al di fuori del quale nessuno può condurre un’esistenza
soddisfacente»46. Quello che dobbiamo mostrare, lo ricordo, è che il
modello della cooperazione basato sulle semplici assunzioni della
teoria della razionalità economica non è affatto ciò da cui
dipendono gli esiti normativi della teoria.
Assumiamo dunque, per ora, che Tom Cruise, i consulenti aziendali, il
signor Tod’s e così via stiano effettivamente cooperando. Cosa
significa che stanno cooperando? Una prima, ovvia risposta,
considerato di chi stiamo parlando, è che stanno ottenendo dal
mercato una quantità di soldi di cui è perfino difficile farsi un’idea
sensata. Ma questa, benché naturalmente vera, non è la risposta
giusta.
Quello che Rawls sembra avere in mente, infatti, è che Tom Cruise,
guadagnando come sa, sta in realtà prendendo parte a un’impresa
comune grazie alla quale ciascuno di noi, compreso lui, è messo in
condizione di vivere una vita, appunto, soddisfacente. L’enorme
differenza di denaro che Tom Cruise e i comuni mortali guadagnano non
costituisce un problema per questa idea di cooperazione. Lo schema
cooperativo, infatti, ha lo scopo di far sì che ciascuno consideri
«le maggiori capacità come una dote da usare per il vantaggio
comune»47. L’idea è che noi consentiamo a chi ne è capace di
guadagnare nel mercato perché questo, se tutti accettano la visione
cooperativa, ci mette in condizione di prendere parte dei suoi soldi
per fini redistributivi. La ragione per cui parliamo di uno schema di
cooperazione è che ciascuno riconosce che senza il contributo degli
altri non potrebbe fare la sua parte e dunque non potrebbe avere una
vita soddisfacente. Similmente a ciò che abbiamo visto in Aristotele,
anche qui, senza gli elettricisti, i parrucchieri, i fotografi e così
via, non vi sarebbe alcun Tom Cruise, e viceversa. Per ciascuno,
dunque, «è evidente che il benessere di ognuno dipende da uno schema
di cooperazione sociale, in mancanza del quale nessuno potrebbe avere
un’esistenza soddisfacente»48, come dovevano ammettere i
partecipanti alla comunità politica di Aristotele.
E tuttavia, mentre nello schema aristotelico si poteva comprendere in
che senso ciabattini e architetti non potessero «avere una vita
soddisfacente» senza cooperare, infatti i loro bisogni sarebbero
rimasti insoddisfatti, lo stesso schema è assai più implausibile
come descrizione del nostro mondo. Io non riesco a vedere nessun senso
in cui il benessere di ognuno dipende dai film che fa Tom Cruise o dal
lavoro dei consulenti aziendali.
In un mondo in cui la cooperazione è evidentemente sganciata non solo
dai bisogni, ma da un qualunque ideale politico di vita felice,
possiamo ancora realmente assumere che se ciascuno non fa la sua parte
nessuno può avere una vita soddisfacente? Quando ne specifichiamo in
modo realistico il significato - Tom Cruise non fa i suoi film, non
vengono prodotte scarpe Tod’s - se ne comprende ancora il senso? Non
è, piuttosto, che Rawls sta pensando qui non ai Tom Cruise ma alla
mitica società di ciabattini e agricoltori che aveva in mente
Aristotele? In che altro senso, viceversa, bisogna intendere l’affermazione
secondo cui «ogni persona riceve una parte equa se tutti (compreso
lui stesso) fanno la loro parte»49? In che senso Tom Cruise sta
facendo la sua parte? Come possiamo mai sapere quale sia la parte di
chiunque se, come ci ha insegnato Aristotele, non sappiamo quale sia
il fine che, ciascuno insieme agli altri ma nessuno singolarmente, ci
stiamo proponendo?
L’unico modo che vedo per specificare in che senso una società
giusta è una società in cui ciascuno fa la sua parte in un sistema
cooperativo è quello di avere in mente qualcosa di molto simile alla
priorità dello Stato che aveva in mente Aristotele. E cioè una
qualche visione di ciò di cui lo Stato ha bisogno che organizzi
appunto la cooperazione e le competenze e le abilità dei singoli. Ma
senza una visione di questo genere, d’altra parte insensata per le
nostre società, che senso ha dire che qualcuno sta facendo la sua
parte? Qualcuno, in questo preciso momento, sta forse progettando un
prodotto che non avrà mai alcun successo nel mercato: dobbiamo forse
escluderlo dalla cooperazione?
Naturalmente, Rawls teme che senza implicazioni così forti noi
rischiamo di perdere la ragione cruciale per cui redistribuire. Solo
se Tom Cruise è disposto a riconoscere che «il principio di
differenza rappresenta, in effetti, un accordo per considerare la
distribuzione delle doti naturali come un patrimonio comune»50, siamo
in grado di offrirgli una ragione per redistribuire i suoi guadagni.
Ma, ancora una volta, è difficile sfuggire all’impressione che all’opera
qui sia esattamente lo stesso modello aristotelico di cooperazione. In
Aristotele è perfettamente chiaro perché le doti di un ciabattino
siano un patrimonio comune: a nessuno piace camminare scalzo su strade
accidentate o se fa freddo. E questa è esattamente la ragione per
cui, come sappiamo, è bene che i ciabattini facciano i ciabattini, ed
è bene che lo Stato provveda a specificare di ciascuno la sua
funzione, mettendo, per così dire, ognuno al suo posto. Ma, potrebbe
mai Rawls, coerentemente con le pretese della sua teoria, accettare
questa concezione della società? E possiamo noi, in generale,
accettare una simile visione della nostra società? In che senso le
doti del signor Tod’s sono un patrimonio comune? A differenza di
ciò che paventava Aristotele, a me non importa poi molto che il
signor Tod’s non produca più le sue scarpe, né mi sento costretta
a comprarle perché le sue doti non vadano sprecate. A differenza di
ciò che temeva Aristotele, e a differenza di ciò che Rawls
implicitamente assume, se nessuno produce più pane, io posso sempre
comprare brioche, con buona pace delle doti dei panettieri.
E va ancora peggio con affermazioni del tipo «secondo la giustizia
come equità, gli uomini accettano di condividere i propri
destini»51. In che senso io accetto di condividere il mio destino con
quello di Tom Cruise? Allora voglio almeno avere voce in capitolo sui
film che fa. Seguendo questa linea di ragionamento, poi, farei bene a
vedere tutti i film di Tom Cruise, che mi piacciano o no. In questo
modo potrei evitare pericolosi fallimenti della sua carriera,
contribuire a che diventi sempre più ricco, far prosperare gli studios
hollywoodiani, rendendo tutti ricchi e felici: e tutto questo soltanto
andando al cinema!52
Non sarà piuttosto che il modo in cui si produce la ricchezza sociale
non ha nulla a che vedere con ciò e che bisogna trovare spiegazioni
più convincenti per dare conto delle ragioni per cui redistribuiamo?
Naturalmente, sostenere che in Rawls è presente un modello
implausibile di cooperazione non significa ancora aver mostrato che
non vi siano altre concezioni della cooperazione più plausibili.
Quello che credo di aver mostrato, tuttavia, è che se la cooperazione
deve generare esiti normativamente significativi, allora è difficile
sfuggire alle implicazioni aristoteliche che abbiamo visto. Voglio
ricordare che Rawls non solo respingerebbe il modello di cooperazione
che io considero invece parte del suo lavoro, ma era partito da un
modello del tutto diverso della cooperazione. E tuttavia, quando ha
dovuto dar conto delle implicazioni normative corpose di cui necessita
la teoria della giustizia, allora ha dovuto necessariamente ricorrere
all’unico ideale di cooperazione che può davvero generare gli esiti
sperati.
Del resto, quando Gutmann e Thompson, con esplicito riferimento all’idea
di cooperazione di Rawls, difendono un ideale di società basato sulla
reciproca dipendenza, non stanno esattamente sostenendo la stessa
cosa?53 Non stanno esattamente mostrando che l’ideale cooperativo di
Rawls implica una visione della società in cui noi abbiamo bisogno
gli uni degli altri, esattamente così come Aristotele pensava?
Rawls, come Gutmann e Thompson del resto, teme di perdere in questo
modo, lo abbiamo detto, la possibilità di rispondere alla domanda
«perché redistribuiamo?». Ma, ciò che è più sorprendente è che,
anche al prezzo di un ideale di società così impegnativo com’è
quello implicito nell’idea di cooperazione, a ben guardare, non
abbiamo affatto trovato una risposta soddisfacente ai problemi che noi
ci troviamo ad affrontare. Abbiamo visto, infatti, che se la
cooperazione deve fare il suo lavoro, allora occorre che tutti
cooperino. La cooperazione, dunque, sancisce il fatto che ciascuno
deve qualcosa a ciascun altro, ovviamente, solo nella misura in cui
tutti cooperino. Questo, naturalmente, implica che chiunque debba,
sappia, possa prender parte alla cooperazione. Che succede se invece
ciò non si realizza? Che succede se qualcuno resta fuori dalla
cooperazione?
Aristotele e Rawls, da questo punto di vista, condividono una certa
disinvoltura nel rispondere a questa domanda. Entrambi sembrano
credere che «poiché nessuno può vivere fuori dalla cooperazione»,
allora è evidente che la cooperazione non può lasciare nessuno
fuori. Tuttavia, dalla tesi che nessuno possa vivere fuori dalla
cooperazione non consegue affatto che chiunque possa prendere parte
alla cooperazione. Vi possono ben essere persone e persino talenti di
cui la società proprio non sa che farne. Vi possono ben essere più
persone di quante qualunque cooperazione possa mai aver bisogno. In
realtà, secondo molti autori, questo è esattamente quello che sta
accadendo nelle nostre società. Benché io non condivida questa
visione, per la semplice ragione che ha ancora alla base un ideale
cooperativo a cui, io credo, occorra invece semplicemente rinunciare,
l’idea più diffusa che spiega l’entrata in crisi dei nostri
sistemi redistributivi è proprio questa. Per un insieme di fattori,
noi ci troveremmo a vivere in un sistema cooperativo che semplicemente
ha bisogno di meno persone di quante ve ne siano disponibili nel
mercato del lavoro54. E che anzi sembra acquistare maggiore efficienza
quante meno persone impiega. Se così stanno le cose, dando per buono
che sia così, in che senso noi possiamo ancora pensare alla
cooperazione come base per la redistribuzione? Che ne facciamo di
quelli che restano fuori? Limitiamo le nostre società ai cooperatori
e per il resto si arrangi chi può? Se questa dovesse essere la
conclusione, allora dovremmo semplicemente rinunciare alle teorie
della giustizia.
Si può tuttavia tentare di forzare la cooperazione in modo da tenere
tutti dentro. Questa soluzione, variamente interpretata, consentirebbe
di tenere ancora fermo il modello cooperativo, senza tuttavia
abbandonare gli individui a un destino di esclusione dall’impresa
cooperativa. Se la cooperazione non è in grado spontaneamente, per
così dire, di generare giustizia, basta forzarla un po’, creando
lavoro là dove non ce n’è, in modo da stare tutti dentro. È
questo, come si comprende, il modello del workfare, la risposta che è
stata offerta, sia in termini teorici sia concretamente, alla crisi
del welfare state55.
Come ogni istituzione sociale, anche il workfare risponde, ovviamente,
a molti problemi differenti e ha diverse motivazioni. I suoi risultati
sono, per il momento, incerti e controversi, e non è chiaro se sarà
davvero in grado di migliorare le prestazioni dello stato sociale,
come evidenziano gli articoli qui presentati. Il mio punto, tuttavia,
è diverso. Quello che qui importa è valutare la plausibilità della
giustificazione del workfare, inteso come interpretazione del modello
cooperativo. E, da questo punto di vista, a me pare che il workfare si
basi su un tipo di ragionamento del tutto implausibile.
Alla base del workfare, come ho detto, vi è l’idea che l’unico
scambio equo fra Stato e cittadino è quello per cui lo Stato mi dà
qualcosa se io - in cambio - lavoro. Ora, questo scambio è l’unico
equo perché la società si basa su un sistema di cooperazione in cui
solo se tutti fanno la propria parte tutti possono avere qualcosa.
Così, se io non sono in condizione di fare la mia parte, allora devo
essere messo in condizione di farla. Dunque, io vengo pagato dagli
altri per dimostrare loro di essere dipendenti anche dal mio
contributo. Non fa una grinza!
Se siamo reciprocamente dipendenti, allora tutti dobbiamo fare la
nostra parte; ma se qualcuno non può fare la sua parte, allora deve
essere pagato per farla, dal momento che siamo reciprocamente
dipendenti. Questo è il modo in cui funziona la giustificazione del
workfare. Poiché la società è un sistema di cooperazione, noi ci
dobbiamo qualcosa l’un l’altro e, quando cooperazione non si dia,
noi ci diamo qualcosa l’un l’altro (workfare) per poterci dare
qualcosa l’un l’altro.
A fronte di ciò, siamo ancora disposti a considerare il basic income,
l’idea che la ricchezza sociale venga redistribuita
indipendentemente da che si lavori o meno, un’idea stravagante? Se
io devo davvero redistribuire risorse per generare cooperazione
perché la cooperazione è la sola cosa che genera redistribuzione,
forse è giunto il momento di rinunciare alla cooperazione come ciò
che genera sia la ricchezza sociale sia la ragione per redistribuirla.
Note
1 P. Van Parijs, Real Freedom for All. What (if Anything) can
Justify Capitalism?, Clarendon, Oxford 1995; P. Van Parijs, a cura
di, Arguing for Basic Income: Ethical Foundations for a Radical
Reform, Verso, Londra 1992. Vedi naturalmente anche infra, Il
basic income e i due dilemmi del welfare state.
2 G.A. Ritter, Storia dello Stato sociale, Laterza, Roma-Bari
1995. Si legge nell’introduzione: «infatti qual è il problema
dello Stato sociale, se non il riconoscimento del lavoro come base per
l’ingresso nella sfera della cittadinanza?», p. XIII. Più sfumate
le posizioni di autori più recenti, anche se io credo che il modello
«prestazione in cambio di lavoro» sia condiviso da quasi tutti. Si
veda, comunque, A. Gutmann, a cura di, Democracy and the Welfare
State, Princeton University Press, Princeton 1988, F. Girotti, Welfare
State, Carocci, Roma 1998, R.E. Goodin, Reasons for Welfare,
Princeton University Press, Princeton 1988, che ha una posizione
diversa.
3 P. Van Parijs, Why Surfers Should Be Fed?, «Philosophy and
Public Affairs», 20, 1991. In una nota di Liberalismo politico,
Rawls, senza citare Van Parijs, ma chiaramente in risposta alla tesi
del basic income, sostiene che: «chi passa tutto il giorno a fare
surf sulla spiaggia di Malibu dovrebbe trovare il modo di mantenersi e
non avrebbe diritto a un sussidio pubblico». J. Rawls, Liberalismo
politico, Comunità, Milano 1994, p. 334, nota 9.
4 P. Van Parijs, Real Freedom for All, cit., cap. 2. Ho sfumato
la tesi secondo cui meno gente lavora e più basso sarà il basic
income, perché a me sembra sempre meno sicuro che la ricchezza che
produciamo (noi società ricche) sia proporzionale alla quantità di
gente che lavora. Ma naturalmente non posso approfondire qui la tesi,
e per la verità nemmeno altrove, per il momento.
5 Il basic income e i due dilemmi del welfare state, infra, p.
17.
6 Non si sarebbe fatto molto in favore del basic income se tutta la
difesa dovesse dipendere da argomenti pro o contro la cooperazione. A
nessun riformatore politico importa più di tanto se la cooperazione
è o meno un buon modello per lo Stato sociale. Ma il basic income si
rivela un efficace strumento di riforma sociale in relazione a una
grande quantità di problemi di fronte a cui il welfare si trova. Il
basic income contrasta, a differenza di tutte le forme di reddito di
sostegno esistenti, la trappola della povertà; è una risposta
efficace alla disoccupazione, assai più rapida e estesa del workfare;
è universalistico e, quindi, non si presta a nessuna delle note forme
di clientelismo e di arbitrio burocratico. Poiché sostituisce molte
altre prestazioni pubbliche, evita forme di discriminazioni odiose fra
coppie sposate e non sposate e fra individui e famiglie. In quanto
sganciato dallo status di lavoratore è uno strumento a favore delle
donne che decidono di avere figli, senza discriminare fra lavoratrici
garantite e lavoratrici non garantite o non lavoratrici. Ho spiegato
tuttavia che il mio intento è piuttosto provare a spiegare perché, a
fronte di tutto ciò, il basic income resta tutto sommato estraneo al
dibattito pubblico sulla riforma del welfare.
7 Per coloro che la conducono, ovviamente.
8 T. Schelling, The Strategy of Conflict, Harvard University
Press, Cambridge MA 1980, p. 4. Questo è uno dei rompicapi più
resistenti che io conosca: se e in che senso un modello possa essere
esplicativamente usato, senza tuttavia essere in nessun senso una
descrizione di ciò che stiamo cercando di spiegare. Ma non ne so
abbastanza per dire alcunché di significativo a riguardo. Ho in mente
che l’intuizione di Rawls, nell’uso della posizione originaria,
dovesse essere qualcosa di molto simile a quello che sostiene
Schelling, ma che Rawls stesso si sia poi convinto che le cose non
potessero andare così. Spero di approfondire questo tema in altra
sede. Vedi A. Nelson, Explanation and Justification in Political
Philosophy, e i commenti di A. Rosemberg, The
Explanatory Role of Existence Proofs e di J. Woodward, Explanation
in Social Theory: Comments on Alan Nelson, «Ethics», 1, 1986.
9 R. Axelrod, The Evolution of Cooperation, Penguin, Londra
1990; A. Gibbard, Wise Choices, Apt Feelings, Harvard
University Press, Cambridge MA 1990. Questo è per me una delle tesi
più implausibili sulla cooperazione. Io non riesco a capire perché
se è plausibile immaginare che insorgano sentimenti morali dalla
cooperazione, allora non dovrebbe essere ancora più plausibile
immaginare che i sentimenti morali dipendano da molte altre cose che
ci caratterizzano, oltre al fatto che cooperiamo. Dopo tutto siamo
esseri che hanno provato freddo e paura ed è da qui che potrebbe
essere insorto, attaverso l’empatia, il nostro senso di giustizia.
Di come nella guerra di trincea si sviluppi, secondo Axelrod (cit.,
cap. 4), un comportamento morale, a me pare, che l’empatia offra una
spiegazione assai più plausibile della cooperazione. A. Damasio, L’errore
di Cartesio, Adelphi, Milano 1997. C’è un’ampia letteratura
femminista che, d’altra parte, e altrettanto plausibilmente, mette l’accento
su noi come genitori di esseri bisognosi di cure e protezione per un
lungo periodo di tempo, assai più che sui cooperatori, come base per
lo sviluppo di un senso morale. Cito solo A. Baier, Moral
Prejudices, Harvard University Press, Cambridge MA 1991 e C.
Botti, La ricerca delle donne sulla morale e l’importanza dell’etica
privata, «Filosofia e questioni pubbliche», 2, 1998.
10 Questa sembra essere la posizione a cui è definitivamente
approdato Rawls nei suoi ultimi lavori. Liberalismo politico,
cit., quando dice: «La giustizia come equità [...] assume come
propria idea fondamentale quella di società come equo sistema di
cooperazione che dura nel tempo», p. 31.
11 E per la verità nemmeno descrittivo, stando a J. Elster, Il
cemento della società, Il Mulino, Bologna 1995.
12 J. Rawls, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano
1982, p. 22.
13 Ibid.
14 Ivi, pp. 31, 106.
15 Ivi, p. 28.
16 Alcuni hanno trovato bizzarra la scelta dell’orso per l’esempio
della caccia. Tuttavia, ho preso le mie misure e posso sostenere che
gli orsi sono stati regolarmente cacciati, tanto per la loro pelliccia
quanto per la loro carne: dura ma tanta. Inoltre, io ho molta simpatia
per l’indolenza degli orsi e per il loro caratteraccio. Che sia un
orso a mettere in difficoltà la cooperazione, l’idea che intendo
avversare, non può che farmi simpatia. Ringrazio Luca, il mio
compagno, per aver forzato le sue conoscenze fino al punto di
consentirmi di usare l’orso per il mio esempio.
17 Questo ha a che fare con il noto grattacapo dei beni pubblici che
pone problemi in qualche modo opposti a quelli di redistribuzione di
cui qui ci stiamo occupando. Infatti, la salvezza procurata ammazzando
l’orso è inevitabilmente fornita a tutti, anche a chi non vi abbia
dato alcun contributo. M. Olson, The Logic of Collective Action.
Public Goods ancd the Theory of Groups, Harvard University Press,
Cambridge MA 1998.
18 Questo ha notoriamente a che fare col fatto che i vincoli di pareto
efficienza sono troppo deboli e, in particolare, escludono
considerazioni sulle diverse posizioni di partenza. B. Barry, Theories
of Justice, Vol. 1, University of California Press, Berkeley 1989,
p. 13.
19 Barry suggerisce che «la soluzione di Nash al problema della
contrattazione potrebbe esser visto (e io suggerisco che dovrebbe
esser visto) come il tentativo di catturare formalmente questa elusiva
nozione di diverso potere di contrattazione», Theories of Justice,
cit., p. 14. Ma sostiene anche che il tentativo non ottiene il
successo sperato.
20 J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., p. 123.
21 Ivi, pp. 112-113 e, in generale, tutto il cap. 3.
22 Qui il modello standard è il dilemma del prigioniero. R. Axelrod, The
Evolution of Cooperation, cit.
23 Tito Magri mostra come si debba giungere a una conclusione del
genere in Hobbes. T. Magri, Contratto e convenzione,
Feltrinelli, Milano 1994.
24 David Gauthier è di diverso avviso, ma molti dubitano dell’efficacia
della sua argomentazione. D. Gauthier, Morals By Agreement,
Clarendon, Oxford 1986. R. Campbell, Gauthier’s Theory of Morals
by Agreement, «The Philosophical Quarterly», 38, 152.
25 Aristotele, Politica, Laterza, Roma-Bari 1993, p. 4.
26 B. Yack, The Problems of a Political Animal, University of
California Press, Berkely 1993: «Ciò che tiene insieme gli individui
in una comunità politica è il loro interesse reciproco nel fare uso
dei diversi beni e abilità che possiedono», p. 55. Yack è
interessato qui a distinguere la sua lettura di Aristotele da quella
diffusa dai comunitaristi e basata su nozioni quali l’identità, la
leatà, le affezioni. Il riferimento all’interesse razionale in
Aristotele non implica quindi una immediata smentita della mia lettura
sull’insorgenza della cooperazione.
27 Aristotele, Politica, cit., p. 52.
28 Ivi, p. 4.
29 Ibid.
30 Ivi, p. 7.
31 Ibid.
32 Aristotele, Etica nicomachea, Rizzoli, Milano 1994, p. 348.
33 Aristotele, Politica, cit., p. 28.
34 Ivi, p. 7.
35 Si consideri la seguente affermazione di Rawls: «I principi di
giustizia non sono che una parte, anche se forse la più importante,
[di un ideale sociale]. Un ideale sociale è a sua volta collegato con
una concezione della società, una visione del modo in cui debbono
essere intesi gli scopi e gli obiettivi della cooperazione sociale. Le
varie concezioni della giustizia sono il prodotto di differenti
nozioni di società, sullo sfondo di visioni contrastanti riguardo
alle necessità naturali e alle opportunità della vita umana. Per
comprendere a fondo una concezione della giustizia dobbiamo rendere
esplicita l’idea di cooperazione sociale da cui essa deriva», Una
teoria della giustizia, cit., p. 26. Questo è esattamente ciò
che fa Aristotele e, se è vero quello che sostengo, anche quello che
fa Rawls sulla sua scia.
36 Aristotele, Etica nicomachea, cit., p. 351.
37 In natura invece ci sono solo uomini, e gli uomini (non-donne,
non-schiavi), per Aristotele, sono sostanzialmente eguali. Yack, The
Problems of a Political Animal, cit., p. 53. È solo nello Stato
(a differenza che nel caso delle donne e degli schiavi) che gli uomini
sono diversi: «d’altronde uno stato non consiste solo di una massa
di uomini, bensì di uomini specificamente diversi, perché non si
costituisce uno stato di elementi uguali», Politica, cit., p.
32.
38 Aristotele, Politica, cit., p. 6.
39 Ivi, p. 20. È evidente qui l’influenza di Aristotele su Marx e,
in particolare, sulla contrapposizione fra i modelli
merce-denaro-merce e denaro-merce-denaro (M-D-M e D-M-D). C. Marx, Il
capitale, Editori Riuniti, Roma 1980, vol. 1, cap. 4. G. McCarthy,
a cura di, Aristotle and Marx, Rowman & Littlefield, Lanham,
Maryland 1992.
40 Aristotele, Etica nicomachea, cit., p. 349.
41 Ivi, p. 351.
42 Ibid.
43 Ivi, p. 349.
44 Le mie idee sul mestiere di consulente aziendale dipendono, forse
ingiustamente, da Trudeau che le ha così descritte: «Ciao babbo! hai
avuto una buona giornata?». Doonesbury, a quell’epoca appunto
consulente: «Certo tesoro!». «Cosa hai fatto?». «Oh, tante cose.
Prima di tutto ho consultato l’agenda. Poi ho controllato la posta
elettronica e la segreteria telefonica per vedere se c’erano dei
messaggi. Poi ho guardato la tv un paio d’ore, poi ho scaricato un
po’ di software dalla rete e, alla fine, ho districato il filo del
telefono». «Wow, babbo quando sono grande anch’io voglio fare il
consulente».
45 Con questo non intendo affatto suggerire che Aristotele stesse
semplicemente aderendo alla realtà del mondo in cui viveva e non
avesse, invece, una teoria su come dovesse essere organizzata la
comunità politica.
46 J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., p. 30.
47 Ivi, p. 103.
48 Ivi, p. 99.
49 Ivi, p. 106.
50 Ivi, p. 98.
51 Ivi, p. 99.
52 Il buffo è che l’idea di cooperazione rende perfettamente
possibili esiti di questo genere, una volta che sia sganciata dalla
soddisfazione dei bisogni. In questo modo, infatti, poiché il
significato in cui noi siamo dipendenti gli uni dagli altri è del
tutto imprecisato, allora si possono immaginare a iosa costruzioni del
tutto circolari, in cui un gruppo di persone viene pagato per fare lo
spettatore, consentendo a chi lavora nel cinema di continuare a fare
la sua parte, producendo film. Come vedremo più avanti, il workfare
non propone soluzioni troppo distanti da questa.
53 A. Gutmann e D. Thompson, Gli obblighi del welfare, infra,
p. 23.
54 Il riferimento è al noto dibattito sulla fine del lavoro che
considero poco più di una boutade. Non è che sia «finito» il
lavoro, affermazione del tutto priva di senso (basta che io faccia il
bucato per aver creato lavoro), è che il lavoro non garantisce
giustizia; è la rottura del legame fra lavoro e welfare che mette in
crisi i sistemi redistributivi. Si veda, comunque, A. Gorz, Metamorfosi
del lavoro, Boringhieri, Torino 1992.
55 A. Gutmann e D. Thompson, Gli obblighi del welfare, cit.
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