L’Aristotele che è in noi (surfisti
          esclusi) 
           
           
           
          Ingrid Salvatore 
           
           
           
          Articoli collegati: 
          L’accento sulle differenze 
          L’Aristotele che è in noi
          (surfisti esclusi)
           
          Questo saggio appare sul numero 2/2000 della Nuova Serie della
          rivista Filosofia e Questioni Pubbliche diretta da Sebastiano
          Maffettone, e fa parte di un forum su Workfare e Welfare. Per
          ulteriori informazioni potete collegarvi al sito
          della Luiss Edizioni  o scrivere all'indirizzo e-mail edizioni@luiss.it  
           
          Nota dell'autrice: desidero ringraziare i partecipanti al seminario di
          Urbino, dove ho presentato una prima versione di questo articolo.
          Massimo Rosati che mi ha incoraggiata a sviluppare le idee che qui
          vengono esposte sin dalla loro prima, assai confusa, formulazione.
          Sebastiano Maffettone e Luciano Andreozzi che hanno letto varie
          stesure e, come sempre, mi hanno aiutato a migliorare il lavoro. 
           
          Introduzione 
           
          Philippe Van Parijs ha presentato, ormai qualche anno fa, una proposta
          di riforma dei meccanismi di redistribuzione della ricchezza sociale,
          il basic income, divenendone in qualche modo il paladino in una
          varietà di contesti, sia accademici che politici. L’idea centrale
          del basic income può essere sintetizzata nell’intento di svincolare
          le prestazioni sociali dal lavoro, un legame, quello fra lavoro e
          prestazione sociale, che ha costituito, e per la verità costituisce,
          il tratto tipico della gran parte degli stati sociali esistenti,
          nonché dei modelli teorici che li giustificano. 
           
          In tal senso, il basic income è diverso da tutte le altre forme di
          erogazione di un reddito di sostegno, perché non è sottoposto a
          vincolo alcuno. Il basic income, per come lo ha immaginato Van Parijs,
          viene percepito indipendentemente dall’essere ricchi o poveri,
          indipendentemente dall’essere disoccupati o lavoratori,
          indipendentemente dal voler mai lavorare o fare qualcos’altro,
          compreso il surf sulla spiaggia di Malibu. La sua erogazione,
          naturalmente, dipende dalla ricchezza sociale disponibile; sarà
          dunque più o meno alto a seconda di quanto è ricca una società.
          Quanto più il basic income sarà alto, tanto meno, evidentemente, la
          gente sarà incentivata a lavorare, tornando invece nel mercato del
          lavoro quando il basic income dovesse consentire una vita meno
          soddisfacente di quella desiderata. 
           
          Van Parijs ha ovviamente presentato una batteria di argomenti a favore
          della sua proposta, difendendola da una quantità di possibili
          obiezioni. E tuttavia, il basic income rimane un’idea
          sostanzialmente controintuiva per la maggior parte delle persone. Come
          lo stesso Van Parijs scrive, nell’articolo che qui presentiamo,
          «una simpatica idea di un pugno di originali». 
           
          Di fatto, nel dibattito che ha recentemente visti impegnati quasi
          tutti i paesi occidentali sulla necessità di riformare lo stato
          sociale, divenuto ormai troppo costoso e inefficiente, né il basic
          income, né le tesi che lo sorreggono, separare lavoro e welfare,
          hanno giocato un ruolo di grande rilievo, specialmente se confrontate
          ad altre linee di riforma: il workfare, in primo luogo - o, in Italia,
          lavori socialmente utili - o la riduzione dell’orario di lavoro, la
          flessibilizzazione del mercato del lavoro in risposta alla
          disoccupazione e così via. 
          Io credo che vi sia una ragione molto profonda che fa apparire il
          workfare (e le altre proposte) una via praticabile e il basic income
          un’idea bislacca e irrealizzabile, ma credo anche che questa
          profonda ragione non abbia alcuna plausibilità. Quello che vorrei
          mostrare è che il basic income, piuttosto solitariamente nel
          dibattito sulle forme di redistribuzione, sfida un’intuizione assai
          persistente, un’intuizione che in generale siamo poco disposti a
          mettere in discussione, talvolta, lo vedremo nel caso del workfare,
          anche al costo di una notevole implausibilità. Ciò a cui così
          fermamente crediamo è che alla base dell’idea di giustizia sociale,
          alla base dell’idea che la ricchezza sociale vada in qualche modo
          redistribuita, c’è il fatto che noi cooperiamo per produrla,
          traendo da ciò, e da ciò soltanto, la legittimazione che ci consente
          di rivendicarne una parte. Lo scopo di questo articolo è quello di
          mostrare che, a dispetto di quanto comune sia questa idea, a dispetto
          di quanto fermamente ci crediamo, essa è tuttavia falsa. Porre la
          cooperazione sociale a fondamento dei nostri meccanismi redistributivi
          implica una concezione della società filosoficamente insostenibile e,
          per giunta, del tutto inefficace rispetto ai problemi di giustizia
          più urgenti di fronte a cui siamo posti. 
          L’intento di questo articolo, dunque, è quello di offrire una
          difesa del basic income non direttamente, offrendo argomenti in suo
          favore, ma provando a scalzare quella che sembra essere l’obiezione
          più forte e intuitivamente più plausibile contro di esso: l’idea
          che la redistribuzione poggi su un sistema di cooperazione. Se si può
          mostrare che alla base di questa obiezione vi è un modello di
          società che in realtà nessuno è in grado di difendere, né
          vorrebbe, un modello assai più implausibile di quanto possa apparire
          quello di chi difende il basic income, allora forse anche gli
          argomenti a favore del basic income, della sua effettiva
          realizzabilità, della sua efficacia nel riformare lo stato sociale
          generando più giustizia, avranno maggior forza6. 
           
           
          La difficile insorgenza della cooperazione 
          o come gli orsi salvarono la pelle 
           
          Immaginare la società come un’impresa cooperativa, l’abbiamo
          detto, è un modo piuttosto naturale di pensare alle società in cui
          viviamo e al modo in cui sono organizzate. La gran parte delle cose
          che ci rendono possibile la vita comoda che conduciamo7, le case in
          cui viviamo, il caffè che abbiamo appena bevuto, i vestiti che
          indossiamo e così via, hanno richiesto un complesso sforzo
          organizzativo che ha messo ciascuno nella condizione di compiere una
          parte del lavoro necessario, godendo, per la sua parte, di questa
          agevole vita. La cooperazione è ciò in cui consiste questo complesso
          sforzo organizzativo, ciò che ci consente di ottenere risultati
          migliori di quelli che ciascuno di noi potrebbe ottenere, agendo da
          solo. Un modo standard per caratterizzare la cooperazione, dunque, è
          il seguente: c’è cooperazione tutte le volte che il risultato della
          nostra azione, combinata con quella degli altri, è migliore del
          risultato delle azioni singole. Nessuno di noi è in grado, da solo,
          di costruire un grattacielo, mentre coordinando gli sforzi di più
          persone, questa complicata impresa diventa possibile. Poiché molte
          delle cose che ci assicurano agio, benessere e comfort sono di questo
          tipo, l’idea che noi ci organizziamo per farle nel modo più
          semplice appare del tutto ovvia. 
          In questo senso, l’idea di cooperazione fa appello a intuizioni
          molto blande e poco problematiche, da un punto di vista teorico. Per
          spiegare l’insorgere della cooperazione basta assumere individui
          razionali, autointeressati, che desiderano i prodotti della
          cooperazione e li desiderano in quantità maggiore piuttosto che
          minore. Cooperare, infatti, è semplicemente un modo per avere di più
          piuttosto che di meno, ed è facile pensare che tutti vogliano di più
          piuttosto che meno. Una volta spiegato l’insorgere della
          cooperazione, poi, è facile collegare ad esso l’insorgere di
          istituzioni che stabilizzano questa cooperazione, sempre sulla base
          della preferenza razionale degli individui. Se gli individui
          preferiscono cooperare in vista di vantaggi, allora si stabilirà
          cooperazione e, alla lunga, si stabiliranno regole, morali o d’altro
          tipo, perché la cooperazione continui. Non solo dunque la
          cooperazione è un modo semplice e naturale di pensare all’organizzazione
          sociale, ma in più possiede grande efficacia teorica, perché è in
          grado di spiegare molto a fronte delle semplici assunzioni che
          richiede. 
          Nonostante questa apparente ovvietà, lo statuto dell’idea di
          cooperazione è piuttosto incerto. In alcuni casi, infatti, l’idea
          di cooperazione deve essere considerata niente più che un modellino
          esplicativo, in grado di gettare luce su problemi complessi che
          viceversa risulterebbero teoricamente intrattabili. Dopo tutto,
          infatti, cooperare non è l’unica cosa che facciamo nelle nostre
          società, luoghi in cui ci innamoriamo, abbiamo una vita sociale e
          affettiva, facciamo figli, ci divertiamo e così via. Né l’autointeresse
          è l’unica spinta motivazionale che abbiamo, e forse nemmeno la più
          importante. Questa sembra essere la concezione che ne ha Thomas
          Schelling quando asserisce che «il vantaggio di coltivare l’area
          della “strategia” per gli sviluppi teorici non è che, di tutti i
          possibili approcci, essa sia con evidenza la più vicina alla verità,
          ma che l’assunzione di un comportamento razionale è produttivo.
          [...] La premessa di un comportamento razionale è qualcosa di potente
          per la produzione della teoria. Se la teoria che ne risulta fornisca
          intuizioni povere o adeguate circa il reale comportamento è materia
          [...] di un giudizio successivo»8. 
          Altre volte, invece, la cooperazione ha pretese più ampie di così.
          È un fenomeno la cui insorgenza può essere spiegata in termini
          evolutivi e che narra davvero come potrebbe essere andata agli albori
          della nostra storia, e come da lì potrebbero essersi formati i
          sentimenti morali di cui parla l’etica9. Altre volte ancora, la
          cooperazione è semplicemente una descrizione, attendibile e
          teoricamente efficace, delle società in cui viviamo10. 
          In realtà, queste ambiguità dell’idea di cooperazione si sono
          rivelate, io credo, una risorsa in suo favore, consentendo spesso il
          passaggio dall’una all’altra nozione di cooperazione, secondo le
          esigenze del momento. Si può mostrare, infatti, che le semplici
          assunzioni che rendono così teoricamente interessante l’idea di
          cooperazione sono in realtà del tutto inefficaci da un punto di vista
          normativo11. Così, quanto più il nostro scopo è quello di ottenere
          risultati normativamente interessanti (per esempio, in termini di
          teoria morale o politica), tanto più saremo indotti ad impegnarci in
          un ideale di cooperazione assai più sostanzioso e assai meno
          intuitivo di quello iniziale. Ma, facilmente, saremo anche indotti a
          non esplicitare affatto questo passaggio, continuando a credere che
          ciò di cui stiamo parlando è semplice, intuitivo, elegante. 
          Il punto, dunque, è riuscire a mostrare che le teorie che fanno della
          cooperazione la base su cui poggia la redistribuzione della ricchezza
          sociale, traggono le loro conclusioni normative da una nozione di
          cooperazione che implica una visione della società insostenibile ai
          loro stessi occhi. 
          Rawls è l’autore che ha cercato con maggiore sistematicità di
          estendere il modello della cooperazione - con le sue deboli assunzioni
          - cercando di trarne non solo una teoria delle istituzioni, ma una
          teoria della giustizia. Per questa ragione, Rawls è l’autore che
          consente di argomentare con chiarezza la tesi che qui si sta
          sostenendo. Proprio perché le esigenze normative della sua teoria
          sono assai forti, Rawls consente di mostrare con chiarezza come e
          perché avviene il passaggio da una nozione debole della cooperazione
          a una assai più forte. Ma Rawls è anche l’autore della più
          importante teoria politica di questo secolo. La sua teoria della
          giustizia fornisce il modello più influente di critica e di riforma
          delle società esistenti. Se si riesce a mostrare che la nozione di
          cooperazione che sta alla base della sua teoria è implausibile,
          allora a me pare di poter dire che si sarà gettato più di qualche
          dubbio sulla nozione di cooperazione stessa, aprendo lo spazio per un
          modello redistributivo meno angusto e più efficace. Questo è ciò
          che mi propongo di fare. 
          Nelle prime pagine della teoria della giustizia, Rawls scrive:
          «Assumiamo che la società è un’associazione più o meno
          autosufficiente di persone che, nelle loro relazioni reciproche,
          riconoscono come vincolanti certe norme di comportamento. [...]
          Supponiamo poi che queste norme specifichino un sistema di
          cooperazione», caratterizzato da «benefici e oneri»12. La corretta
          distribuzione di questi benefici e oneri è il problema centrale della
          teoria della giustizia13. 
          Nel suo nucleo essenziale, l’idea di Rawls era assai semplice: se
          possiamo dimostrare che una forma stabile di cooperazione è anche
          giusta, noi possiamo riformulare il problema della giustizia sociale
          in termini di allocazione di benefici e oneri, servendoci delle
          assunzioni assai parche della razionalità economica e offrendo quindi
          una teoria semplice, efficace ed elegante per un problema solitamente
          considerato difficile e oscuro14. Poiché tutti vogliono i benefici
          della cooperazione, e tutti sanno che tutti vogliono i benefici della
          cooperazione, il modo migliore per rendere stabile la cooperazione
          consiste nel fare in modo che ciò che ciascuno ha sia anche - ai suoi
          occhi e a quelli degli altri - giusto15. Se questo è fattibile, il
          risultato sarà che ciascuno è motivato a cooperare sulla base del
          suo interesse personale; che ciascuno ha una forte motivazione a
          mantenere la cooperazione in termini di giustizia, viceversa essa
          potrebbe collassare, e nessuno preferisce l’assenza di cooperazione
          alla cooperazione; e abbiamo dunque ottime ragioni per redistribuire
          secondo giustizia, perché appunto una cooperazione stabile è anche
          giusta. Insomma, noi abbiamo coi semplici strumenti della teoria della
          scelta razionale o della razionalità economica risolto in maniera
          efficace e parca il problema fondamentale della giustizia sociale.
          Questa era l’idea. 
          Il mio scopo è mostrare che così non è, che in realtà Rawls non
          arriva alla concezione di giustizia (che stabilisce come deve essere
          redistribuita la ricchezza sociale) da questa via, ma sostituendo
          questo modello di cooperazione con una concezione diversa che, come
          mostrerò, è insostenibile e falsa. 
          Come abbiamo accennato, l’idea di cooperazione sfrutta l’ovvia
          considerazione che azioni sufficientemente complesse sono possibili e
          vantaggiose se semplicemente noi siamo in grado di coordinare le
          nostre azioni. Possiamo immaginare un gruppo di uomini che si
          coordinano per organizzare una caccia all’orso16. L’orso è un
          grosso animale che darà cibo per tutti. Per assunzione, nessuno è in
          grado di ammazzarlo da solo, l’impresa cooperativa, dunque, sorgerà
          spontanea. Questo è semplice e chiaro, ma così abbiamo completamente
          lasciato da parte il problema essenziale. Non sappiamo ancora,
          infatti, come sarà redistribuito il povero animale ucciso. È chiaro
          che solo tutti insieme possiamo uccidere l’orso, ma nessuno di noi
          è direttamente interessato alla sua morte (a meno che non ci minacci,
          ma questa è una diversa questione17), mentre tutti siamo interessati
          a come verrà distribuita la carne dell’orso ucciso. E qui il
          modello della cooperazione è in grado di dirci assai meno. 
          Il modello di cooperazione basato sulla razionalità autointeressata
          dei soggetti, infatti, è così esile che, a condizione di migliorare
          di una qualunque quantità la situazione di ciascun partecipante,
          cooperare risulterà vantaggioso18. Se le mie condizioni di partenza
          sono particolarmente sfavorite (per esempio, perché sono
          mingherlino), quand’anche dopo la caccia all’orso a cui tutti
          abbiamo preso parte a me tocchi una quantità minore degli altri, io
          ho comunque migliorato la mia posizione e, dal punto di vista delle
          deboli assunzioni della scelta razionale, questa è una situazione o
          è un esito cooperativo del tutto legittimo19. Ma, naturalmente, un
          tale risultato è inservibile dal punto di vista della giustizia20. In
          che senso allora lo si può utilizzare per gli scopi di una teoria
          della giustizia? Il tentativo di giungere a risultati normativamente
          significativi, passando attraverso questa idea di cooperazione, è in
          generale affidato, come abbiamo accennato, alla nozione di stabilità.
          Ed infatti, il tentativo di Rawls è di mostrare che questo esito
          cooperativo non è semplicemente ingiusto, ma che è instabile, e che
          per renderlo stabile dobbiamo redistribuire in modo equo l’orso21. 
          Ora, il punto è che se io non ottengo abbastanza dalla cooperazione
          (per esempio, ho troppo poco orso), il mio incentivo a defezionare
          sarà più alto e, di conseguenza, la cooperazione instabile. E se per
          assunzione la cooperazione è dominante, cioè preferita da tutti,
          allora sarà razionale per gli altri darmi una parte equa di orso,
          perché questo aumenterà il mio interesse a stare dentro la
          cooperazione e a non defezionare. Questo sembra ovvio e semplice, ma
          in realtà, complica il modello in un modo che il modello stesso non
          è in grado di sostenere. Infatti, se noi cominciamo a irrobustire le
          assunzioni di razionalità che stanno dietro la scelta di cooperare,
          uno degli esiti possibili non è affatto la giusta distribuzione ma,
          più probabilmente, il fatto che la cooperazione non insorga22. 
          Supponiamo che io cominci ad avanzare pretese sulla quantità di orso.
          Perché esse abbiano una qualche efficacia, occorre che io sia in
          grado di fare realmente quello che minaccio. Ma io posso davvero, per
          esempio, uscire dalla cooperazione? Tutti sanno che non sono in grado
          di cacciare da solo, come sappiamo sono un tipo deboluccio, perché
          mai allora dovrebbero credermi? E io stesso, posso davvero rischiare
          di essere escluso? Supponiamo che, a fronte delle mie pretese, il
          gruppo dei più forti si convinca che accogliendo richieste di tal
          genere il loro vantaggio a cooperare diventerebbe troppo scarso. Per
          quanto li riguarda, loro possono benissimo organizzarsi fra loro, o
          vivere di animali più piccoli (che, essendo più forti sono in grado
          di cacciare, mentre, per assunzione, io no). Insomma, il loro
          incentivo a defezionare diventa altrettanto alto quanto quello che
          abbiamo supposto all’inizio per me. In queste circostanze, quello
          che con ogni probabilità accadrà è che la cooperazione
          semplicemente non avrà luogo. Se cioè abbandoniamo le assunzioni
          semplicissime di razionalità, per cui c’è cooperazione ogni volta
          che qualcuno migliora la sua posizione (senza peggiorare quella di
          qualcun altro), se facciamo questo passo in più, la cooperazione
          lungi dal divenire più giusta, semplicemente collassa o non ha
          luogo23. 
          Oppure, ammesso che si riesca a far partire la cooperazione, una
          diversa soluzione, altrettanto inservibile per la giustizia, è che la
          sua stabilizzazione non conduca affatto a un esito compatibile con una
          qualunque idea di giustizia. Date assunzioni di razionalità più
          sofisticate e più realistiche, è facile immaginare una varietà di
          circostanze in cui la cooperazione ha sì luogo e diventa pure
          stabile, ma non per questo diventa giusta. A seconda di quanto è
          importante per me ottenere la collaborazione degli altri, io posso
          essere disposto ad accettare molto meno di quello che mi spetterebbe o
          che potrei desiderare, perché senza di loro starei anche peggio. Se
          davvero alcuni possono vivere cacciando animali più piccoli dell’orso
          e io no, la mia minaccia di uscire dalla cooperazione è risibile e
          non verrà presa sul serio. Per quanto piccola sia la parte di orso
          che mi spetta, tutti sanno che non potrei vivere senza di essa e
          questo è un incentivo per me a continuare a cooperare, un incentivo
          per loro a darmi quello che vogliono, ciò che dà come risultato una
          cooperazione assai stabile ma per niente giusta24. 
          Il modello della cooperazione razionale, dunque, funziona solo se la
          nostra idea di razionalità è molto semplice, ma allora è
          normativamente inefficace. Se assumiamo un’idea di razionalità più
          esigente, collassa. Date le parche assunzioni della teoria della
          scelta razionale non c’è nessuna ragione per chiedere una diversa
          distribuzione. Non c’è nel modello lo spazio per una richiesta di
          giustizia. Partecipando alla cooperazione e ottenendo la mia parte di
          carne di orso, quale che sia, ho fatto ciò che dovevo e potevo fare
          perché la condizione di razionalità fosse soddisfatta. E non c’è
          altro da aggiungere. 
          Di sicuro, quello che non può darsi per scontato è che la
          razionalità della cooperazione dia luogo a una preferenza per la
          giustizia e la giustizia a una per la stabilità. Questo a meno di non
          operare un piccolo trucco, assai elegante e sofisticato, ma
          teoricamente implausibile. 
          Immaginiamo, tenendo fermo il nostro modello sulla cooperazione, di
          cominciare a complicarlo con assunzioni diverse da quelle che abbiamo
          sin qui visto all’opera. Immaginiamo che quando io avanzo le mie
          pretese sull’orso, gli altri non abbiano la reazione che abbiamo
          visto, ma comincino a pensare che effettivamente se la cooperazione
          lascia alcuni insoddisfatti, ebbene allora la loro tentazione di
          defezionare diventa molto alta. Immaginiamo che essi sappiano, per
          esempio, che io ho dei figli e che se la quantità di carne è troppo
          scarsa io potrei preferire morire piuttosto che vedere i miei figli
          affamati. La mia capacità di minaccia adesso è più credibile. Non
          ha fondamento solo nella razionalità, che abbiamo visto essere
          inefficace, ma in qualcosa di più forte, i bisogni. Proviamo ora ad
          estendere questa situazione, indebolendo le opzioni disponibili circa
          la defezione e dunque rafforzando il nostro interesse alla
          cooperazione, anzi il nostro bisogno di cooperazione. Cioè assumiamo
          che, in realtà, nessuno è davvero in grado di defezionare, perché
          nessuno è davvero in grado di vivere fuori dalla cooperazione
          sociale. 
          Ebbene, si può mostrare che, a questo punto, le implicazioni
          normative che prima risultavano impossibili sono invece tutte a
          disposizione. Adesso è possibile cominciare a pensare che se la
          cooperazione non è almeno in qualche senso giusta, allora
          effettivamente potrebbe anche non avere luogo e poiché abbiamo alzato
          la posta dell’assenza di cooperazione, può realmente aver senso
          sostenere che ciascuno è disposto a cedere qualcosa alla giustizia
          pur di avere una cooperazione stabile. Ma il prezzo che abbiamo pagato
          è assai alto e, come cercherò di dimostrare, teoricamente
          insostenibile. 
           
           
          Aristotele, gli architetti e i ciabattini 
           
          La mia idea è che con gli aggiustamenti progressivi che abbiamo
          fatto, noi abbiamo completamente abbandonato il nostro modello
          esplicativo che traeva forza dalla debolezza delle sue pretese e ci
          siamo impegnati in una teoria filosofica della cooperazione sociale
          della cui plausibilità si può ampiamente dubitare. Intendo sostenere
          che l’idea di cooperazione in cui ci siamo impegnati ha un padre
          tanto illustre quanto ingombrante, Aristotele, e che scommettere sulla
          plausibilità della concezione di Aristotele in materia di
          cooperazione sociale è un grosso azzardo. E cercherò di mostrare che
          è esattamente ciò che Rawls fa. 
          Vorrei mostrare come Aristotele offra una potente alternativa al
          modello cooperativo che abbiamo appena visto fallire e, poiché non si
          sottrae a nessuno degli esiti che la sua costruzione implica,
          Aristotele mostra assai bene perché la cooperazione implichi una
          concezione della società insostenibile. Nel modello di Aristotele la
          cooperazione è svincolata da qualunque volontà o scelta degli
          individui, il suo fine, infatti, è fissato nella soddisfazione dei
          nostri bisogni. In tal modo, essa non solo è sottratta a qualunque
          minaccia di fallimento, ma può essere facilmente ancorata a una
          concezione della giustizia, proprio perché, e nella misura in cui,
          soddisfa i nostri bisogni. Ma la società che Aristotele progetta e
          difende non solo non è, e non può essere, la società in cui
          viviamo; è anche un tipo di società in cui, credo, non vorremmo
          vivere. 
          Per Aristotele lo Stato è una complessa organizzazione, formatasi
          «bensì per rendere possibile la vita», ma esistendo in realtà
          «per rendere possibile una vita felice»25. Che lo Stato esista per
          rendere possibile la vita implica, come volevamo, che l’esistenza
          stessa di una società dipende dal fatto che noi siamo esseri
          caratterizzati da bisogni, i quali possono essere soddisfatti soltanto
          in un’unione all’interno della quale noi siamo messi in grado di
          produrre e scambiare vantaggiosamente i beni che ci sono necessari per
          vivere e poi anche per vivere bene. Questo è ciò che solitamente
          chiamiamo cooperazione: una divisione del lavoro che consenta a
          ciascuno di fare la sua parte, producendo un risultato che è migliore
          di ciò che ciascuno può fare da solo26. Infatti, scrive Aristotele:
          «Lo stato non risulta di una parte sola, ma di molte. [...] Di queste
          una è la massa impegnata per il cibo, i cosiddetti agricoltori;
          seconda la classe cosiddetta degli operai meccanici, [...] terza dei
          commercianti»27 e così via. 
          È l’unione cooperativa di operai, architetti, meccanici e
          agricoltori che ci rende possibile la vita. Ed è per rendere
          possibile la vita che lo Stato si forma. Ma il legame fra i bisogni e
          lo Stato che Aristotele istituisce attraverso la cooperazione se,
          certo, offre una forte ragione a favore dell’insorgenza della
          cooperazione, ha d’altra parte implicazioni assai forti sul modo in
          cui lo Stato deve formarsi, rendendo possibile la vita. Implicazioni
          che Aristotele non manca di cogliere e di difendere. 
          All’inizio, potrebbe sembrare che Aristotele abbia in mente una
          sorta di derivazione naturale dello Stato dall’unione prima di ciò
          che non può starsene separato - l’uomo e la donna, per esempio -
          poi di gruppi di famiglie in piccoli villaggi. 
          «Se si studiassero le cose svolgersi dall’origine - ci dice
          Aristotele - anche qui come altrove se ne avrebbe una visione quanto
          mai chiara»28. Vedremmo, infatti, come «è necessario in primo luogo
          che si uniscano gli esseri che non sono in grado di esistere separati
          gli uni dagli altri, per es. la femmina e il maschio in vista della
          riproduzione»29. La formazione della famiglia, dunque, avviene in
          modo del tutto naturale, e lo stesso accade per l’unione di più
          famiglie in villaggi. E così potrebbe sembrare che lo Stato
          semplicemente risulti dal progressivo crescere del numero delle
          famiglie o dall’unione di più villaggi. Ma le cose sono più
          complicate di così. Infatti, se certo in Aristotele lo Stato esiste
          per natura, il modo in cui ciò avviene non è affatto lineare. 
          Lo Stato esiste per natura nel senso che la sua ragion d’essere è
          indotta dalla natura: «per natura, dunque, è in tutti la spinta
          verso una siffatta comunità, e chi per primo la costituì fu causa di
          grandissimi beni»30. Senza lo Stato, infatti, noi semplicemente non
          potremmo vivere, e ancor meno vivere una vita felice: «Chi non è in
          grado di entrare nella comunità o per la sua autosufficienza non ne
          sente il bisogno, non è parte dello stato, e di conseguenza o è
          bestia o dio»31. 
          Tuttavia, lo Stato non può essere il frutto della semplice unione di
          ciò che non può starsene separato, come accade per la famiglia, per
          la semplice ragione che nulla del genere esiste in natura. Se, come
          abbiamo detto, lo Stato è una complessa macchina il cui scopo è
          quello di metterci in grado di cooperare vantaggiosamente - «infatti
          non da due medici sorge una comunità, ma da un medico e da un
          contadino, e in generale da diversi e non da eguali»32 - allora noi
          dobbiamo essere messi in condizione di organizzarci in quanto medici e
          contadini, ciabattini e architetti. E mentre, esistono in natura la
          donna e l’uomo, come del resto lo schiavo, non altrettanto può
          dirsi per artigiani e architetti, per medici e agricoltori. Non ci
          sono medici e architetti in natura, come Aristotele sa bene33. E
          questo perché non può esistere alcun architetto se non c’è
          qualcuno che produca il grano, e nessun medico se qualcuno non
          costruisce gli attrezzi e la casa che gli sono necessari e così via.
          Se non c’è lo Stato, infatti, non ci sono nemmeno le sue parti: i
          medici, gli artigiani, gli architetti. Ma se non ci sono medici ed
          architetti non può esservi cooperazione, perché in tal caso non
          saremmo in grado di soddisfare i nostri bisogni e la cooperazione non
          avrebbe né senso, né luogo. Ed infatti, «per natura lo stato è
          anteriore alla famiglia e a ciascuno di noi perché il tutto deve
          essere necessariamente anteriore alla parte: infatti, soppresso il
          tutto non ci sono più né piede né mano se non per analogia
          verbale»34. 
          Perché la cooperazione abbia luogo, dunque, rendendoci possibile la
          vita, occorre che lo Stato abbia priorità sugli individui e sulla
          famiglia. Perché nessuno potrebbe sapere ciò che (si) deve fare
          senza conoscere ciò di cui lo Stato ha bisogno per sussistere. E
          senza sapere ciò che si deve fare perché uno Stato sussista, non
          avremo Stato. Così, perché la cooperazione soddisfi i bisogni nel
          modo che ci è necessario, occorre che il risultato finale sia dato
          prima, viceversa siamo ricacciati in una situazione in cui ciò di cui
          abbiamo massimamente bisogno, lo Stato, non può tuttavia formarsi35. 
          Questa conclusione di Aristotele è tanto impegnativa, quanto
          inevitabile nel modello proposto. Se ciascuno deve fare la sua parte,
          come vedremo anche più avanti, bisogna che sia in qualche modo
          stabilito qual è la parte che deve fare. Per essere in grado di
          cooperare dobbiamo essere in grado di dividerci il lavoro, viceversa
          non saremo in grado di soddisfare i nostri bisogni. E «che sia il
          bisogno a tenere uniti gli uomini, come costituendo qualcosa di unico,
          manifesta il fatto che, quando non abbiamo reciprocamente bisogno, o
          entrambe le parti o una delle due, non effettuano scambi»36. Ma gli
          scambi si effettuano fra diversi, e i diversi possono esistere solo se
          siamo in grado di distinguere e organizzare le nostre funzioni,
          distinguendo i medici dagli agricoltori e i ciabattini dagli operai37.
          Si dà cooperazione dunque solo a condizione di assegnare a ciascuno
          la parte che deve fare, viceversa essa non può costituire la ragion d’essere
          della nostra unione. Non c’è cooperazione se ciascuno pretende di
          fare ciò che gli pare. Il suo insorgere e la sua stabilizzazione sono
          ancorati alla soddisfazione dei bisogni. 
          Un’immediata conseguenza di quanto abbiamo appena detto è che la
          cooperazione si specifica in Aristotele in ragione dell’autosufficienza.
          Di che cosa ha bisogno, infatti, uno Stato per poter sussistere? Di
          essere autosufficiente, naturalmente, per poter provvedere ai bisogni
          di tutti i cittadini, non essendo quindi mai esposto alla minaccia di
          un collasso: «La comunità che risulta di più villaggi è lo stato,
          perfetto, che raggiunge ormai, per così dire, il limite dell’autosufficienza
          completa»38. 
          L’autosufficienza è l’ovvio completamento dell’idea di
          cooperazione che abbiamo visto operare in Aristotele. Perché la
          cooperazione abbia luogo occorre che i bisogni (tutti i bisogni) siano
          soddisfatti, e questo significa che l’opera di ciascuno all’interno
          della cooperazione deve mirare a ciò. Non si può prender parte alla
          cooperazione, per esempio, per il solo desiderio di arricchirsi,
          perché questo mette a rischio la stabilità della cooperazione.
          Producendo scarpe solo per trarne del guadagno, cioè non per comprare
          qualcos’altro di cui ho bisogno, ma solo per accumulare denaro, si
          corre il rischio di sottrarre alla cooperazione la sua ragione
          fondante (la soddisfazione dei bisogni), così esponendola di nuovo al
          rischio di fallimento39. 
          Ma in più, se non si tiene di mira la necessità della cooperazione
          per il fine dell’autosufficienza, in qualche modo si stanno
          truccando le carte, violando le regole dello scambio. Ciò che regola
          lo scambio, infatti, è ancora una volta il bisogno, che funziona come
          criterio di comparazione dei beni. Scrive Aristotele: «Bisogna dunque
          che tutti i beni siano misurati con un’unica cosa [...] e questa in
          verità è il bisogno, il quale tiene uniti tutti i beni»40. 
          Poiché produciamo e scambiano i nostri beni in relazione ai nostri
          bisogni, questi saranno anche la misura di ciò che reciprocamente ci
          dobbiamo: «In realtà è impossibile che le cose che differiscono
          tanto siano commensurabili, ma è possibile che lo siano
          sufficientemente in relazione al bisogno»41. È il bisogno, dunque,
          che dà conto della giustezza dello scambio: «per questo bisogna che
          tutti i beni siano stimati. In questo modo infatti sarà sempre
          possibile uno scambio, e se sarà possibile questo, sarà possibile
          una comunità»42. 
          Se svincoliamo la nostra produzione di beni dai nostri bisogni, come
          potremo mai avere una misura di ciò che è giusto? Come potremo mai
          sapere qual è il giusto rapporto fra chi produce scarpe e chi produce
          case? E se non siamo più in possesso di questo rapporto come si
          potrà ancora cooperare? E che non si dia cooperazione, come sappiamo,
          è un rischio che non ci possiamo permettere. Infatti, scrive
          Aristotele: «Bisogna dunque che il medesimo rapporto che intercorre
          fra un architetto e un calzolaio vi sia anche tra paia di scarpe e una
          casa, o un alimento. Se infatti non si dà questo rapporto non vi
          sarà né scambio né comunità»43. Se la cooperazione deve avere
          luogo, e non può non avere luogo, deve essere secondo giustizia,
          identificando attraverso il bisogno ciò che reciprocamente ci
          dobbiamo. 
          E così cooperazione e giustizia sono adesso visibilmente
          collegate, come volevamo. Ma credo che il risultato ci appaia ora un
          po’ meno desiderabile di come sembrava all’inizio. 
          Quello che credo di aver mostrato, infatti, è che se si assicura l’insorgenza
          della cooperazione, motivandola con la necessità che abbiamo di
          soddisfare i nostri bisogni, siamo è vero in grado di spiegare
          perché ciò che mi spetta dipende dal modo in cui l’insieme è
          stato prodotto, ma siamo anche costretti a pagare il prezzo che
          Aristotele paga: sostenere una visione della società che metta, per
          così dire, ciascuno al suo posto, garantendo che ciascuno faccia ciò
          di cui la società ha bisogno. Se l’argomento funziona quello che
          deve mostrare è che o noi siamo disposti a difendere questa visione
          della società, ma non vedo come, o noi dobbiamo sbarazzarci dell’idea
          di cooperazione. Intendo sostenere la plausibilità di questa
          conclusione, mostrando come opera in Rawls l’idea di cooperazione. 
          Cooperare con Tom Cruise (e non nel senso che state pensando!) 
           
          Abbiamo visto come l’ideale aristotelico di cooperazione preveda un
          mondo fatto di artigiani, medici e architetti capaci di provvedere
          alle necessità della vita, ciascuno impegnato in quella complicata
          impresa che è la costruzione di una società autosufficiente.
          Naturalmente, era più facile per Aristotele stabilire come dovesse
          essere fatta, grosso modo, una società autosufficiente e quali
          fossero le funzioni da assegnare a ciascuno sia perché vi era più
          portato, sia perché lo Stato ne aveva bisogno. Più complicato è per
          noi che non cooperiamo in quanto ciabattini e architetti, medici e
          agricoltori. Il modello cooperativo della nostra società deve,
          infatti, prevedere che la cooperazione abbia luogo fra attori e
          consulenti aziendali44, ricercatori e designer, pubblicitari e
          produttori di scarpe Tod’s45. E benché questo renda il nostro
          ideale di cooperazione intuitivamente un po’ meno solido di quanto
          lo fosse per Aristotele, lasciamo pure che sia così, per il momento.
          In verità, spiegare se e in che senso Tom Cruise stia prendendo parte
          a una impresa cooperativa non è del tutto chiaro e anzi, come
          vedremo, non è chiaro affatto. Ma prendiamo per buona l’idea e
          consideriamo, come Rawls ci invita a fare, che la società sia «uno
          schema di cooperazione al di fuori del quale nessuno può condurre un’esistenza
          soddisfacente»46. Quello che dobbiamo mostrare, lo ricordo, è che il
          modello della cooperazione basato sulle semplici assunzioni della
          teoria della razionalità economica non è affatto ciò da cui
          dipendono gli esiti normativi della teoria. 
          Assumiamo dunque, per ora, che Tom Cruise, i consulenti aziendali, il
          signor Tod’s e così via stiano effettivamente cooperando. Cosa
          significa che stanno cooperando? Una prima, ovvia risposta,
          considerato di chi stiamo parlando, è che stanno ottenendo dal
          mercato una quantità di soldi di cui è perfino difficile farsi un’idea
          sensata. Ma questa, benché naturalmente vera, non è la risposta
          giusta. 
          Quello che Rawls sembra avere in mente, infatti, è che Tom Cruise,
          guadagnando come sa, sta in realtà prendendo parte a un’impresa
          comune grazie alla quale ciascuno di noi, compreso lui, è messo in
          condizione di vivere una vita, appunto, soddisfacente. L’enorme
          differenza di denaro che Tom Cruise e i comuni mortali guadagnano non
          costituisce un problema per questa idea di cooperazione. Lo schema
          cooperativo, infatti, ha lo scopo di far sì che ciascuno consideri
          «le maggiori capacità come una dote da usare per il vantaggio
          comune»47. L’idea è che noi consentiamo a chi ne è capace di
          guadagnare nel mercato perché questo, se tutti accettano la visione
          cooperativa, ci mette in condizione di prendere parte dei suoi soldi
          per fini redistributivi. La ragione per cui parliamo di uno schema di
          cooperazione è che ciascuno riconosce che senza il contributo degli
          altri non potrebbe fare la sua parte e dunque non potrebbe avere una
          vita soddisfacente. Similmente a ciò che abbiamo visto in Aristotele,
          anche qui, senza gli elettricisti, i parrucchieri, i fotografi e così
          via, non vi sarebbe alcun Tom Cruise, e viceversa. Per ciascuno,
          dunque, «è evidente che il benessere di ognuno dipende da uno schema
          di cooperazione sociale, in mancanza del quale nessuno potrebbe avere
          un’esistenza soddisfacente»48, come dovevano ammettere i
          partecipanti alla comunità politica di Aristotele. 
          E tuttavia, mentre nello schema aristotelico si poteva comprendere in
          che senso ciabattini e architetti non potessero «avere una vita
          soddisfacente» senza cooperare, infatti i loro bisogni sarebbero
          rimasti insoddisfatti, lo stesso schema è assai più implausibile
          come descrizione del nostro mondo. Io non riesco a vedere nessun senso
          in cui il benessere di ognuno dipende dai film che fa Tom Cruise o dal
          lavoro dei consulenti aziendali. 
          In un mondo in cui la cooperazione è evidentemente sganciata non solo
          dai bisogni, ma da un qualunque ideale politico di vita felice,
          possiamo ancora realmente assumere che se ciascuno non fa la sua parte
          nessuno può avere una vita soddisfacente? Quando ne specifichiamo in
          modo realistico il significato - Tom Cruise non fa i suoi film, non
          vengono prodotte scarpe Tod’s - se ne comprende ancora il senso? Non
          è, piuttosto, che Rawls sta pensando qui non ai Tom Cruise ma alla
          mitica società di ciabattini e agricoltori che aveva in mente
          Aristotele? In che altro senso, viceversa, bisogna intendere l’affermazione
          secondo cui «ogni persona riceve una parte equa se tutti (compreso
          lui stesso) fanno la loro parte»49? In che senso Tom Cruise sta
          facendo la sua parte? Come possiamo mai sapere quale sia la parte di
          chiunque se, come ci ha insegnato Aristotele, non sappiamo quale sia
          il fine che, ciascuno insieme agli altri ma nessuno singolarmente, ci
          stiamo proponendo? 
          L’unico modo che vedo per specificare in che senso una società
          giusta è una società in cui ciascuno fa la sua parte in un sistema
          cooperativo è quello di avere in mente qualcosa di molto simile alla
          priorità dello Stato che aveva in mente Aristotele. E cioè una
          qualche visione di ciò di cui lo Stato ha bisogno che organizzi
          appunto la cooperazione e le competenze e le abilità dei singoli. Ma
          senza una visione di questo genere, d’altra parte insensata per le
          nostre società, che senso ha dire che qualcuno sta facendo la sua
          parte? Qualcuno, in questo preciso momento, sta forse progettando un
          prodotto che non avrà mai alcun successo nel mercato: dobbiamo forse
          escluderlo dalla cooperazione? 
          Naturalmente, Rawls teme che senza implicazioni così forti noi
          rischiamo di perdere la ragione cruciale per cui redistribuire. Solo
          se Tom Cruise è disposto a riconoscere che «il principio di
          differenza rappresenta, in effetti, un accordo per considerare la
          distribuzione delle doti naturali come un patrimonio comune»50, siamo
          in grado di offrirgli una ragione per redistribuire i suoi guadagni.
          Ma, ancora una volta, è difficile sfuggire all’impressione che all’opera
          qui sia esattamente lo stesso modello aristotelico di cooperazione. In
          Aristotele è perfettamente chiaro perché le doti di un ciabattino
          siano un patrimonio comune: a nessuno piace camminare scalzo su strade
          accidentate o se fa freddo. E questa è esattamente la ragione per
          cui, come sappiamo, è bene che i ciabattini facciano i ciabattini, ed
          è bene che lo Stato provveda a specificare di ciascuno la sua
          funzione, mettendo, per così dire, ognuno al suo posto. Ma, potrebbe
          mai Rawls, coerentemente con le pretese della sua teoria, accettare
          questa concezione della società? E possiamo noi, in generale,
          accettare una simile visione della nostra società? In che senso le
          doti del signor Tod’s sono un patrimonio comune? A differenza di
          ciò che paventava Aristotele, a me non importa poi molto che il
          signor Tod’s non produca più le sue scarpe, né mi sento costretta
          a comprarle perché le sue doti non vadano sprecate. A differenza di
          ciò che temeva Aristotele, e a differenza di ciò che Rawls
          implicitamente assume, se nessuno produce più pane, io posso sempre
          comprare brioche, con buona pace delle doti dei panettieri. 
          E va ancora peggio con affermazioni del tipo «secondo la giustizia
          come equità, gli uomini accettano di condividere i propri
          destini»51. In che senso io accetto di condividere il mio destino con
          quello di Tom Cruise? Allora voglio almeno avere voce in capitolo sui
          film che fa. Seguendo questa linea di ragionamento, poi, farei bene a
          vedere tutti i film di Tom Cruise, che mi piacciano o no. In questo
          modo potrei evitare pericolosi fallimenti della sua carriera,
          contribuire a che diventi sempre più ricco, far prosperare gli studios
          hollywoodiani, rendendo tutti ricchi e felici: e tutto questo soltanto
          andando al cinema!52 
          Non sarà piuttosto che il modo in cui si produce la ricchezza sociale
          non ha nulla a che vedere con ciò e che bisogna trovare spiegazioni
          più convincenti per dare conto delle ragioni per cui redistribuiamo? 
          Naturalmente, sostenere che in Rawls è presente un modello
          implausibile di cooperazione non significa ancora aver mostrato che
          non vi siano altre concezioni della cooperazione più plausibili.
          Quello che credo di aver mostrato, tuttavia, è che se la cooperazione
          deve generare esiti normativamente significativi, allora è difficile
          sfuggire alle implicazioni aristoteliche che abbiamo visto. Voglio
          ricordare che Rawls non solo respingerebbe il modello di cooperazione
          che io considero invece parte del suo lavoro, ma era partito da un
          modello del tutto diverso della cooperazione. E tuttavia, quando ha
          dovuto dar conto delle implicazioni normative corpose di cui necessita
          la teoria della giustizia, allora ha dovuto necessariamente ricorrere
          all’unico ideale di cooperazione che può davvero generare gli esiti
          sperati. 
          Del resto, quando Gutmann e Thompson, con esplicito riferimento all’idea
          di cooperazione di Rawls, difendono un ideale di società basato sulla
          reciproca dipendenza, non stanno esattamente sostenendo la stessa
          cosa?53 Non stanno esattamente mostrando che l’ideale cooperativo di
          Rawls implica una visione della società in cui noi abbiamo bisogno
          gli uni degli altri, esattamente così come Aristotele pensava? 
          Rawls, come Gutmann e Thompson del resto, teme di perdere in questo
          modo, lo abbiamo detto, la possibilità di rispondere alla domanda
          «perché redistribuiamo?». Ma, ciò che è più sorprendente è che,
          anche al prezzo di un ideale di società così impegnativo com’è
          quello implicito nell’idea di cooperazione, a ben guardare, non
          abbiamo affatto trovato una risposta soddisfacente ai problemi che noi
          ci troviamo ad affrontare. Abbiamo visto, infatti, che se la
          cooperazione deve fare il suo lavoro, allora occorre che tutti
          cooperino. La cooperazione, dunque, sancisce il fatto che ciascuno
          deve qualcosa a ciascun altro, ovviamente, solo nella misura in cui
          tutti cooperino. Questo, naturalmente, implica che chiunque debba,
          sappia, possa prender parte alla cooperazione. Che succede se invece
          ciò non si realizza? Che succede se qualcuno resta fuori dalla
          cooperazione? 
          Aristotele e Rawls, da questo punto di vista, condividono una certa
          disinvoltura nel rispondere a questa domanda. Entrambi sembrano
          credere che «poiché nessuno può vivere fuori dalla cooperazione»,
          allora è evidente che la cooperazione non può lasciare nessuno
          fuori. Tuttavia, dalla tesi che nessuno possa vivere fuori dalla
          cooperazione non consegue affatto che chiunque possa prendere parte
          alla cooperazione. Vi possono ben essere persone e persino talenti di
          cui la società proprio non sa che farne. Vi possono ben essere più
          persone di quante qualunque cooperazione possa mai aver bisogno. In
          realtà, secondo molti autori, questo è esattamente quello che sta
          accadendo nelle nostre società. Benché io non condivida questa
          visione, per la semplice ragione che ha ancora alla base un ideale
          cooperativo a cui, io credo, occorra invece semplicemente rinunciare,
          l’idea più diffusa che spiega l’entrata in crisi dei nostri
          sistemi redistributivi è proprio questa. Per un insieme di fattori,
          noi ci troveremmo a vivere in un sistema cooperativo che semplicemente
          ha bisogno di meno persone di quante ve ne siano disponibili nel
          mercato del lavoro54. E che anzi sembra acquistare maggiore efficienza
          quante meno persone impiega. Se così stanno le cose, dando per buono
          che sia così, in che senso noi possiamo ancora pensare alla
          cooperazione come base per la redistribuzione? Che ne facciamo di
          quelli che restano fuori? Limitiamo le nostre società ai cooperatori
          e per il resto si arrangi chi può? Se questa dovesse essere la
          conclusione, allora dovremmo semplicemente rinunciare alle teorie
          della giustizia. 
          Si può tuttavia tentare di forzare la cooperazione in modo da tenere
          tutti dentro. Questa soluzione, variamente interpretata, consentirebbe
          di tenere ancora fermo il modello cooperativo, senza tuttavia
          abbandonare gli individui a un destino di esclusione dall’impresa
          cooperativa. Se la cooperazione non è in grado spontaneamente, per
          così dire, di generare giustizia, basta forzarla un po’, creando
          lavoro là dove non ce n’è, in modo da stare tutti dentro. È
          questo, come si comprende, il modello del workfare, la risposta che è
          stata offerta, sia in termini teorici sia concretamente, alla crisi
          del welfare state55. 
          Come ogni istituzione sociale, anche il workfare risponde, ovviamente,
          a molti problemi differenti e ha diverse motivazioni. I suoi risultati
          sono, per il momento, incerti e controversi, e non è chiaro se sarà
          davvero in grado di migliorare le prestazioni dello stato sociale,
          come evidenziano gli articoli qui presentati. Il mio punto, tuttavia,
          è diverso. Quello che qui importa è valutare la plausibilità della
          giustificazione del workfare, inteso come interpretazione del modello
          cooperativo. E, da questo punto di vista, a me pare che il workfare si
          basi su un tipo di ragionamento del tutto implausibile. 
          Alla base del workfare, come ho detto, vi è l’idea che l’unico
          scambio equo fra Stato e cittadino è quello per cui lo Stato mi dà
          qualcosa se io - in cambio - lavoro. Ora, questo scambio è l’unico
          equo perché la società si basa su un sistema di cooperazione in cui
          solo se tutti fanno la propria parte tutti possono avere qualcosa.
          Così, se io non sono in condizione di fare la mia parte, allora devo
          essere messo in condizione di farla. Dunque, io vengo pagato dagli
          altri per dimostrare loro di essere dipendenti anche dal mio
          contributo. Non fa una grinza! 
          Se siamo reciprocamente dipendenti, allora tutti dobbiamo fare la
          nostra parte; ma se qualcuno non può fare la sua parte, allora deve
          essere pagato per farla, dal momento che siamo reciprocamente
          dipendenti. Questo è il modo in cui funziona la giustificazione del
          workfare. Poiché la società è un sistema di cooperazione, noi ci
          dobbiamo qualcosa l’un l’altro e, quando cooperazione non si dia,
          noi ci diamo qualcosa l’un l’altro (workfare) per poterci dare
          qualcosa l’un l’altro. 
          A fronte di ciò, siamo ancora disposti a considerare il basic income,
          l’idea che la ricchezza sociale venga redistribuita
          indipendentemente da che si lavori o meno, un’idea stravagante? Se
          io devo davvero redistribuire risorse per generare cooperazione
          perché la cooperazione è la sola cosa che genera redistribuzione,
          forse è giunto il momento di rinunciare alla cooperazione come ciò
          che genera sia la ricchezza sociale sia la ragione per redistribuirla. 
           
           
          Note 
           
          1 P. Van Parijs, Real Freedom for All. What (if Anything) can
          Justify Capitalism?, Clarendon, Oxford 1995; P. Van Parijs, a cura
          di, Arguing for Basic Income: Ethical Foundations for a Radical
          Reform, Verso, Londra 1992. Vedi naturalmente anche infra, Il
          basic income e i due dilemmi del welfare state. 
          2 G.A. Ritter, Storia dello Stato sociale, Laterza, Roma-Bari
          1995. Si legge nell’introduzione: «infatti qual è il problema
          dello Stato sociale, se non il riconoscimento del lavoro come base per
          l’ingresso nella sfera della cittadinanza?», p. XIII. Più sfumate
          le posizioni di autori più recenti, anche se io credo che il modello
          «prestazione in cambio di lavoro» sia condiviso da quasi tutti. Si
          veda, comunque, A. Gutmann, a cura di, Democracy and the Welfare
          State, Princeton University Press, Princeton 1988, F. Girotti, Welfare
          State, Carocci, Roma 1998, R.E. Goodin, Reasons for Welfare,
          Princeton University Press, Princeton 1988, che ha una posizione
          diversa. 
          3 P. Van Parijs, Why Surfers Should Be Fed?, «Philosophy and
          Public Affairs», 20, 1991. In una nota di Liberalismo politico,
          Rawls, senza citare Van Parijs, ma chiaramente in risposta alla tesi
          del basic income, sostiene che: «chi passa tutto il giorno a fare
          surf sulla spiaggia di Malibu dovrebbe trovare il modo di mantenersi e
          non avrebbe diritto a un sussidio pubblico». J. Rawls, Liberalismo
          politico, Comunità, Milano 1994, p. 334, nota 9. 
          4 P. Van Parijs, Real Freedom for All, cit., cap. 2. Ho sfumato
          la tesi secondo cui meno gente lavora e più basso sarà il basic
          income, perché a me sembra sempre meno sicuro che la ricchezza che
          produciamo (noi società ricche) sia proporzionale alla quantità di
          gente che lavora. Ma naturalmente non posso approfondire qui la tesi,
          e per la verità nemmeno altrove, per il momento. 
          5 Il basic income e i due dilemmi del welfare state, infra, p.
          17. 
          6 Non si sarebbe fatto molto in favore del basic income se tutta la
          difesa dovesse dipendere da argomenti pro o contro la cooperazione. A
          nessun riformatore politico importa più di tanto se la cooperazione
          è o meno un buon modello per lo Stato sociale. Ma il basic income si
          rivela un efficace strumento di riforma sociale in relazione a una
          grande quantità di problemi di fronte a cui il welfare si trova. Il
          basic income contrasta, a differenza di tutte le forme di reddito di
          sostegno esistenti, la trappola della povertà; è una risposta
          efficace alla disoccupazione, assai più rapida e estesa del workfare;
          è universalistico e, quindi, non si presta a nessuna delle note forme
          di clientelismo e di arbitrio burocratico. Poiché sostituisce molte
          altre prestazioni pubbliche, evita forme di discriminazioni odiose fra
          coppie sposate e non sposate e fra individui e famiglie. In quanto
          sganciato dallo status di lavoratore è uno strumento a favore delle
          donne che decidono di avere figli, senza discriminare fra lavoratrici
          garantite e lavoratrici non garantite o non lavoratrici. Ho spiegato
          tuttavia che il mio intento è piuttosto provare a spiegare perché, a
          fronte di tutto ciò, il basic income resta tutto sommato estraneo al
          dibattito pubblico sulla riforma del welfare. 
          7 Per coloro che la conducono, ovviamente. 
          8 T. Schelling, The Strategy of Conflict, Harvard University
          Press, Cambridge MA 1980, p. 4. Questo è uno dei rompicapi più
          resistenti che io conosca: se e in che senso un modello possa essere
          esplicativamente usato, senza tuttavia essere in nessun senso una
          descrizione di ciò che stiamo cercando di spiegare. Ma non ne so
          abbastanza per dire alcunché di significativo a riguardo. Ho in mente
          che l’intuizione di Rawls, nell’uso della posizione originaria,
          dovesse essere qualcosa di molto simile a quello che sostiene
          Schelling, ma che Rawls stesso si sia poi convinto che le cose non
          potessero andare così. Spero di approfondire questo tema in altra
          sede. Vedi A. Nelson, Explanation and Justification in Political
          Philosophy, e i commenti di A. Rosemberg, The
          Explanatory Role of Existence Proofs e di J. Woodward, Explanation
          in Social Theory: Comments on Alan Nelson, «Ethics», 1, 1986. 
          9 R. Axelrod, The Evolution of Cooperation, Penguin, Londra
          1990; A. Gibbard, Wise Choices, Apt Feelings, Harvard
          University Press, Cambridge MA 1990. Questo è per me una delle tesi
          più implausibili sulla cooperazione. Io non riesco a capire perché
          se è plausibile immaginare che insorgano sentimenti morali dalla
          cooperazione, allora non dovrebbe essere ancora più plausibile
          immaginare che i sentimenti morali dipendano da molte altre cose che
          ci caratterizzano, oltre al fatto che cooperiamo. Dopo tutto siamo
          esseri che hanno provato freddo e paura ed è da qui che potrebbe
          essere insorto, attaverso l’empatia, il nostro senso di giustizia.
          Di come nella guerra di trincea si sviluppi, secondo Axelrod (cit.,
          cap. 4), un comportamento morale, a me pare, che l’empatia offra una
          spiegazione assai più plausibile della cooperazione. A. Damasio, L’errore
          di Cartesio, Adelphi, Milano 1997. C’è un’ampia letteratura
          femminista che, d’altra parte, e altrettanto plausibilmente, mette l’accento
          su noi come genitori di esseri bisognosi di cure e protezione per un
          lungo periodo di tempo, assai più che sui cooperatori, come base per
          lo sviluppo di un senso morale. Cito solo A. Baier, Moral
          Prejudices, Harvard University Press, Cambridge MA 1991 e C.
          Botti, La ricerca delle donne sulla morale e l’importanza dell’etica
          privata, «Filosofia e questioni pubbliche», 2, 1998. 
          10 Questa sembra essere la posizione a cui è definitivamente
          approdato Rawls nei suoi ultimi lavori. Liberalismo politico,
          cit., quando dice: «La giustizia come equità [...] assume come
          propria idea fondamentale quella di società come equo sistema di
          cooperazione che dura nel tempo», p. 31. 
          11 E per la verità nemmeno descrittivo, stando a J. Elster, Il
          cemento della società, Il Mulino, Bologna 1995. 
          12 J. Rawls, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano
          1982, p. 22. 
          13 Ibid. 
          14 Ivi, pp. 31, 106. 
          15 Ivi, p. 28. 
          16 Alcuni hanno trovato bizzarra la scelta dell’orso per l’esempio
          della caccia. Tuttavia, ho preso le mie misure e posso sostenere che
          gli orsi sono stati regolarmente cacciati, tanto per la loro pelliccia
          quanto per la loro carne: dura ma tanta. Inoltre, io ho molta simpatia
          per l’indolenza degli orsi e per il loro caratteraccio. Che sia un
          orso a mettere in difficoltà la cooperazione, l’idea che intendo
          avversare, non può che farmi simpatia. Ringrazio Luca, il mio
          compagno, per aver forzato le sue conoscenze fino al punto di
          consentirmi di usare l’orso per il mio esempio. 
          17 Questo ha a che fare con il noto grattacapo dei beni pubblici che
          pone problemi in qualche modo opposti a quelli di redistribuzione di
          cui qui ci stiamo occupando. Infatti, la salvezza procurata ammazzando
          l’orso è inevitabilmente fornita a tutti, anche a chi non vi abbia
          dato alcun contributo. M. Olson, The Logic of Collective Action.
          Public Goods ancd the Theory of Groups, Harvard University Press,
          Cambridge MA 1998. 
          18 Questo ha notoriamente a che fare col fatto che i vincoli di pareto
          efficienza sono troppo deboli e, in particolare, escludono
          considerazioni sulle diverse posizioni di partenza. B. Barry, Theories
          of Justice, Vol. 1, University of California Press, Berkeley 1989,
          p. 13. 
          19 Barry suggerisce che «la soluzione di Nash al problema della
          contrattazione potrebbe esser visto (e io suggerisco che dovrebbe
          esser visto) come il tentativo di catturare formalmente questa elusiva
          nozione di diverso potere di contrattazione», Theories of Justice,
          cit., p. 14. Ma sostiene anche che il tentativo non ottiene il
          successo sperato. 
          20 J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., p. 123. 
          21 Ivi, pp. 112-113 e, in generale, tutto il cap. 3. 
          22 Qui il modello standard è il dilemma del prigioniero. R. Axelrod, The
          Evolution of Cooperation, cit. 
          23 Tito Magri mostra come si debba giungere a una conclusione del
          genere in Hobbes. T. Magri, Contratto e convenzione,
          Feltrinelli, Milano 1994. 
          24 David Gauthier è di diverso avviso, ma molti dubitano dell’efficacia
          della sua argomentazione. D. Gauthier, Morals By Agreement,
          Clarendon, Oxford 1986. R. Campbell, Gauthier’s Theory of Morals
          by Agreement, «The Philosophical Quarterly», 38, 152. 
          25 Aristotele, Politica, Laterza, Roma-Bari 1993, p. 4. 
          26 B. Yack, The Problems of a Political Animal, University of
          California Press, Berkely 1993: «Ciò che tiene insieme gli individui
          in una comunità politica è il loro interesse reciproco nel fare uso
          dei diversi beni e abilità che possiedono», p. 55. Yack è
          interessato qui a distinguere la sua lettura di Aristotele da quella
          diffusa dai comunitaristi e basata su nozioni quali l’identità, la
          leatà, le affezioni. Il riferimento all’interesse razionale in
          Aristotele non implica quindi una immediata smentita della mia lettura
          sull’insorgenza della cooperazione. 
          27 Aristotele, Politica, cit., p. 52. 
          28 Ivi, p. 4. 
          29 Ibid. 
          30 Ivi, p. 7. 
          31 Ibid. 
          32 Aristotele, Etica nicomachea, Rizzoli, Milano 1994, p. 348. 
          33 Aristotele, Politica, cit., p. 28. 
          34 Ivi, p. 7. 
          35 Si consideri la seguente affermazione di Rawls: «I principi di
          giustizia non sono che una parte, anche se forse la più importante,
          [di un ideale sociale]. Un ideale sociale è a sua volta collegato con
          una concezione della società, una visione del modo in cui debbono
          essere intesi gli scopi e gli obiettivi della cooperazione sociale. Le
          varie concezioni della giustizia sono il prodotto di differenti
          nozioni di società, sullo sfondo di visioni contrastanti riguardo
          alle necessità naturali e alle opportunità della vita umana. Per
          comprendere a fondo una concezione della giustizia dobbiamo rendere
          esplicita l’idea di cooperazione sociale da cui essa deriva», Una
          teoria della giustizia, cit., p. 26. Questo è esattamente ciò
          che fa Aristotele e, se è vero quello che sostengo, anche quello che
          fa Rawls sulla sua scia. 
          36 Aristotele, Etica nicomachea, cit., p. 351. 
          37 In natura invece ci sono solo uomini, e gli uomini (non-donne,
          non-schiavi), per Aristotele, sono sostanzialmente eguali. Yack, The
          Problems of a Political Animal, cit., p. 53. È solo nello Stato
          (a differenza che nel caso delle donne e degli schiavi) che gli uomini
          sono diversi: «d’altronde uno stato non consiste solo di una massa
          di uomini, bensì di uomini specificamente diversi, perché non si
          costituisce uno stato di elementi uguali», Politica, cit., p.
          32. 
          38 Aristotele, Politica, cit., p. 6. 
          39 Ivi, p. 20. È evidente qui l’influenza di Aristotele su Marx e,
          in particolare, sulla contrapposizione fra i modelli
          merce-denaro-merce e denaro-merce-denaro (M-D-M e D-M-D). C. Marx, Il
          capitale, Editori Riuniti, Roma 1980, vol. 1, cap. 4. G. McCarthy,
          a cura di, Aristotle and Marx, Rowman & Littlefield, Lanham,
          Maryland 1992. 
          40 Aristotele, Etica nicomachea, cit., p. 349. 
          41 Ivi, p. 351. 
          42 Ibid. 
          43 Ivi, p. 349. 
          44 Le mie idee sul mestiere di consulente aziendale dipendono, forse
          ingiustamente, da Trudeau che le ha così descritte: «Ciao babbo! hai
          avuto una buona giornata?». Doonesbury, a quell’epoca appunto
          consulente: «Certo tesoro!». «Cosa hai fatto?». «Oh, tante cose.
          Prima di tutto ho consultato l’agenda. Poi ho controllato la posta
          elettronica e la segreteria telefonica per vedere se c’erano dei
          messaggi. Poi ho guardato la tv un paio d’ore, poi ho scaricato un
          po’ di software dalla rete e, alla fine, ho districato il filo del
          telefono». «Wow, babbo quando sono grande anch’io voglio fare il
          consulente». 
          45 Con questo non intendo affatto suggerire che Aristotele stesse
          semplicemente aderendo alla realtà del mondo in cui viveva e non
          avesse, invece, una teoria su come dovesse essere organizzata la
          comunità politica. 
          46 J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., p. 30. 
          47 Ivi, p. 103. 
          48 Ivi, p. 99. 
          49 Ivi, p. 106. 
          50 Ivi, p. 98. 
          51 Ivi, p. 99. 
          52 Il buffo è che l’idea di cooperazione rende perfettamente
          possibili esiti di questo genere, una volta che sia sganciata dalla
          soddisfazione dei bisogni. In questo modo, infatti, poiché il
          significato in cui noi siamo dipendenti gli uni dagli altri è del
          tutto imprecisato, allora si possono immaginare a iosa costruzioni del
          tutto circolari, in cui un gruppo di persone viene pagato per fare lo
          spettatore, consentendo a chi lavora nel cinema di continuare a fare
          la sua parte, producendo film. Come vedremo più avanti, il workfare
          non propone soluzioni troppo distanti da questa. 
          53 A. Gutmann e D. Thompson, Gli obblighi del welfare, infra,
          p. 23. 
          54 Il riferimento è al noto dibattito sulla fine del lavoro che
          considero poco più di una boutade. Non è che sia «finito» il
          lavoro, affermazione del tutto priva di senso (basta che io faccia il
          bucato per aver creato lavoro), è che il lavoro non garantisce
          giustizia; è la rottura del legame fra lavoro e welfare che mette in
          crisi i sistemi redistributivi. Si veda, comunque, A. Gorz, Metamorfosi
          del lavoro, Boringhieri, Torino 1992. 
          55 A. Gutmann e D. Thompson, Gli obblighi del welfare, cit. 
           
           
          Articoli collegati: 
          L’accento sulle differenze 
          L’Aristotele che è in noi
          (surfisti esclusi) 
            
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