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L’Aristotele che è in noi (surfisti esclusi)



Ingrid Salvatore



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Questo saggio appare sul numero 2/2000 della Nuova Serie della rivista Filosofia e Questioni Pubbliche diretta da Sebastiano Maffettone, e fa parte di un forum su Workfare e Welfare. Per ulteriori informazioni potete collegarvi al sito della Luiss Edizioni  o scrivere all'indirizzo e-mail edizioni@luiss.it 

Nota dell'autrice: desidero ringraziare i partecipanti al seminario di Urbino, dove ho presentato una prima versione di questo articolo. Massimo Rosati che mi ha incoraggiata a sviluppare le idee che qui vengono esposte sin dalla loro prima, assai confusa, formulazione. Sebastiano Maffettone e Luciano Andreozzi che hanno letto varie stesure e, come sempre, mi hanno aiutato a migliorare il lavoro.

Introduzione

Philippe Van Parijs ha presentato, ormai qualche anno fa, una proposta di riforma dei meccanismi di redistribuzione della ricchezza sociale, il basic income, divenendone in qualche modo il paladino in una varietà di contesti, sia accademici che politici. L’idea centrale del basic income può essere sintetizzata nell’intento di svincolare le prestazioni sociali dal lavoro, un legame, quello fra lavoro e prestazione sociale, che ha costituito, e per la verità costituisce, il tratto tipico della gran parte degli stati sociali esistenti, nonché dei modelli teorici che li giustificano.

In tal senso, il basic income è diverso da tutte le altre forme di erogazione di un reddito di sostegno, perché non è sottoposto a vincolo alcuno. Il basic income, per come lo ha immaginato Van Parijs, viene percepito indipendentemente dall’essere ricchi o poveri, indipendentemente dall’essere disoccupati o lavoratori, indipendentemente dal voler mai lavorare o fare qualcos’altro, compreso il surf sulla spiaggia di Malibu. La sua erogazione, naturalmente, dipende dalla ricchezza sociale disponibile; sarà dunque più o meno alto a seconda di quanto è ricca una società. Quanto più il basic income sarà alto, tanto meno, evidentemente, la gente sarà incentivata a lavorare, tornando invece nel mercato del lavoro quando il basic income dovesse consentire una vita meno soddisfacente di quella desiderata.

Van Parijs ha ovviamente presentato una batteria di argomenti a favore della sua proposta, difendendola da una quantità di possibili obiezioni. E tuttavia, il basic income rimane un’idea sostanzialmente controintuiva per la maggior parte delle persone. Come lo stesso Van Parijs scrive, nell’articolo che qui presentiamo, «una simpatica idea di un pugno di originali».

Di fatto, nel dibattito che ha recentemente visti impegnati quasi tutti i paesi occidentali sulla necessità di riformare lo stato sociale, divenuto ormai troppo costoso e inefficiente, né il basic income, né le tesi che lo sorreggono, separare lavoro e welfare, hanno giocato un ruolo di grande rilievo, specialmente se confrontate ad altre linee di riforma: il workfare, in primo luogo - o, in Italia, lavori socialmente utili - o la riduzione dell’orario di lavoro, la flessibilizzazione del mercato del lavoro in risposta alla disoccupazione e così via.
Io credo che vi sia una ragione molto profonda che fa apparire il workfare (e le altre proposte) una via praticabile e il basic income un’idea bislacca e irrealizzabile, ma credo anche che questa profonda ragione non abbia alcuna plausibilità. Quello che vorrei mostrare è che il basic income, piuttosto solitariamente nel dibattito sulle forme di redistribuzione, sfida un’intuizione assai persistente, un’intuizione che in generale siamo poco disposti a mettere in discussione, talvolta, lo vedremo nel caso del workfare, anche al costo di una notevole implausibilità. Ciò a cui così fermamente crediamo è che alla base dell’idea di giustizia sociale, alla base dell’idea che la ricchezza sociale vada in qualche modo redistribuita, c’è il fatto che noi cooperiamo per produrla, traendo da ciò, e da ciò soltanto, la legittimazione che ci consente di rivendicarne una parte. Lo scopo di questo articolo è quello di mostrare che, a dispetto di quanto comune sia questa idea, a dispetto di quanto fermamente ci crediamo, essa è tuttavia falsa. Porre la cooperazione sociale a fondamento dei nostri meccanismi redistributivi implica una concezione della società filosoficamente insostenibile e, per giunta, del tutto inefficace rispetto ai problemi di giustizia più urgenti di fronte a cui siamo posti.
L’intento di questo articolo, dunque, è quello di offrire una difesa del basic income non direttamente, offrendo argomenti in suo favore, ma provando a scalzare quella che sembra essere l’obiezione più forte e intuitivamente più plausibile contro di esso: l’idea che la redistribuzione poggi su un sistema di cooperazione. Se si può mostrare che alla base di questa obiezione vi è un modello di società che in realtà nessuno è in grado di difendere, né vorrebbe, un modello assai più implausibile di quanto possa apparire quello di chi difende il basic income, allora forse anche gli argomenti a favore del basic income, della sua effettiva realizzabilità, della sua efficacia nel riformare lo stato sociale generando più giustizia, avranno maggior forza6.


La difficile insorgenza della cooperazione
o come gli orsi salvarono la pelle

Immaginare la società come un’impresa cooperativa, l’abbiamo detto, è un modo piuttosto naturale di pensare alle società in cui viviamo e al modo in cui sono organizzate. La gran parte delle cose che ci rendono possibile la vita comoda che conduciamo7, le case in cui viviamo, il caffè che abbiamo appena bevuto, i vestiti che indossiamo e così via, hanno richiesto un complesso sforzo organizzativo che ha messo ciascuno nella condizione di compiere una parte del lavoro necessario, godendo, per la sua parte, di questa agevole vita. La cooperazione è ciò in cui consiste questo complesso sforzo organizzativo, ciò che ci consente di ottenere risultati migliori di quelli che ciascuno di noi potrebbe ottenere, agendo da solo. Un modo standard per caratterizzare la cooperazione, dunque, è il seguente: c’è cooperazione tutte le volte che il risultato della nostra azione, combinata con quella degli altri, è migliore del risultato delle azioni singole. Nessuno di noi è in grado, da solo, di costruire un grattacielo, mentre coordinando gli sforzi di più persone, questa complicata impresa diventa possibile. Poiché molte delle cose che ci assicurano agio, benessere e comfort sono di questo tipo, l’idea che noi ci organizziamo per farle nel modo più semplice appare del tutto ovvia.
In questo senso, l’idea di cooperazione fa appello a intuizioni molto blande e poco problematiche, da un punto di vista teorico. Per spiegare l’insorgere della cooperazione basta assumere individui razionali, autointeressati, che desiderano i prodotti della cooperazione e li desiderano in quantità maggiore piuttosto che minore. Cooperare, infatti, è semplicemente un modo per avere di più piuttosto che di meno, ed è facile pensare che tutti vogliano di più piuttosto che meno. Una volta spiegato l’insorgere della cooperazione, poi, è facile collegare ad esso l’insorgere di istituzioni che stabilizzano questa cooperazione, sempre sulla base della preferenza razionale degli individui. Se gli individui preferiscono cooperare in vista di vantaggi, allora si stabilirà cooperazione e, alla lunga, si stabiliranno regole, morali o d’altro tipo, perché la cooperazione continui. Non solo dunque la cooperazione è un modo semplice e naturale di pensare all’organizzazione sociale, ma in più possiede grande efficacia teorica, perché è in grado di spiegare molto a fronte delle semplici assunzioni che richiede.
Nonostante questa apparente ovvietà, lo statuto dell’idea di cooperazione è piuttosto incerto. In alcuni casi, infatti, l’idea di cooperazione deve essere considerata niente più che un modellino esplicativo, in grado di gettare luce su problemi complessi che viceversa risulterebbero teoricamente intrattabili. Dopo tutto, infatti, cooperare non è l’unica cosa che facciamo nelle nostre società, luoghi in cui ci innamoriamo, abbiamo una vita sociale e affettiva, facciamo figli, ci divertiamo e così via. Né l’autointeresse è l’unica spinta motivazionale che abbiamo, e forse nemmeno la più importante. Questa sembra essere la concezione che ne ha Thomas Schelling quando asserisce che «il vantaggio di coltivare l’area della “strategia” per gli sviluppi teorici non è che, di tutti i possibili approcci, essa sia con evidenza la più vicina alla verità, ma che l’assunzione di un comportamento razionale è produttivo. [...] La premessa di un comportamento razionale è qualcosa di potente per la produzione della teoria. Se la teoria che ne risulta fornisca intuizioni povere o adeguate circa il reale comportamento è materia [...] di un giudizio successivo»8.
Altre volte, invece, la cooperazione ha pretese più ampie di così. È un fenomeno la cui insorgenza può essere spiegata in termini evolutivi e che narra davvero come potrebbe essere andata agli albori della nostra storia, e come da lì potrebbero essersi formati i sentimenti morali di cui parla l’etica9. Altre volte ancora, la cooperazione è semplicemente una descrizione, attendibile e teoricamente efficace, delle società in cui viviamo10.
In realtà, queste ambiguità dell’idea di cooperazione si sono rivelate, io credo, una risorsa in suo favore, consentendo spesso il passaggio dall’una all’altra nozione di cooperazione, secondo le esigenze del momento. Si può mostrare, infatti, che le semplici assunzioni che rendono così teoricamente interessante l’idea di cooperazione sono in realtà del tutto inefficaci da un punto di vista normativo11. Così, quanto più il nostro scopo è quello di ottenere risultati normativamente interessanti (per esempio, in termini di teoria morale o politica), tanto più saremo indotti ad impegnarci in un ideale di cooperazione assai più sostanzioso e assai meno intuitivo di quello iniziale. Ma, facilmente, saremo anche indotti a non esplicitare affatto questo passaggio, continuando a credere che ciò di cui stiamo parlando è semplice, intuitivo, elegante.
Il punto, dunque, è riuscire a mostrare che le teorie che fanno della cooperazione la base su cui poggia la redistribuzione della ricchezza sociale, traggono le loro conclusioni normative da una nozione di cooperazione che implica una visione della società insostenibile ai loro stessi occhi.
Rawls è l’autore che ha cercato con maggiore sistematicità di estendere il modello della cooperazione - con le sue deboli assunzioni - cercando di trarne non solo una teoria delle istituzioni, ma una teoria della giustizia. Per questa ragione, Rawls è l’autore che consente di argomentare con chiarezza la tesi che qui si sta sostenendo. Proprio perché le esigenze normative della sua teoria sono assai forti, Rawls consente di mostrare con chiarezza come e perché avviene il passaggio da una nozione debole della cooperazione a una assai più forte. Ma Rawls è anche l’autore della più importante teoria politica di questo secolo. La sua teoria della giustizia fornisce il modello più influente di critica e di riforma delle società esistenti. Se si riesce a mostrare che la nozione di cooperazione che sta alla base della sua teoria è implausibile, allora a me pare di poter dire che si sarà gettato più di qualche dubbio sulla nozione di cooperazione stessa, aprendo lo spazio per un modello redistributivo meno angusto e più efficace. Questo è ciò che mi propongo di fare.
Nelle prime pagine della teoria della giustizia, Rawls scrive: «Assumiamo che la società è un’associazione più o meno autosufficiente di persone che, nelle loro relazioni reciproche, riconoscono come vincolanti certe norme di comportamento. [...] Supponiamo poi che queste norme specifichino un sistema di cooperazione», caratterizzato da «benefici e oneri»12. La corretta distribuzione di questi benefici e oneri è il problema centrale della teoria della giustizia13.
Nel suo nucleo essenziale, l’idea di Rawls era assai semplice: se possiamo dimostrare che una forma stabile di cooperazione è anche giusta, noi possiamo riformulare il problema della giustizia sociale in termini di allocazione di benefici e oneri, servendoci delle assunzioni assai parche della razionalità economica e offrendo quindi una teoria semplice, efficace ed elegante per un problema solitamente considerato difficile e oscuro14. Poiché tutti vogliono i benefici della cooperazione, e tutti sanno che tutti vogliono i benefici della cooperazione, il modo migliore per rendere stabile la cooperazione consiste nel fare in modo che ciò che ciascuno ha sia anche - ai suoi occhi e a quelli degli altri - giusto15. Se questo è fattibile, il risultato sarà che ciascuno è motivato a cooperare sulla base del suo interesse personale; che ciascuno ha una forte motivazione a mantenere la cooperazione in termini di giustizia, viceversa essa potrebbe collassare, e nessuno preferisce l’assenza di cooperazione alla cooperazione; e abbiamo dunque ottime ragioni per redistribuire secondo giustizia, perché appunto una cooperazione stabile è anche giusta. Insomma, noi abbiamo coi semplici strumenti della teoria della scelta razionale o della razionalità economica risolto in maniera efficace e parca il problema fondamentale della giustizia sociale. Questa era l’idea.
Il mio scopo è mostrare che così non è, che in realtà Rawls non arriva alla concezione di giustizia (che stabilisce come deve essere redistribuita la ricchezza sociale) da questa via, ma sostituendo questo modello di cooperazione con una concezione diversa che, come mostrerò, è insostenibile e falsa.
Come abbiamo accennato, l’idea di cooperazione sfrutta l’ovvia considerazione che azioni sufficientemente complesse sono possibili e vantaggiose se semplicemente noi siamo in grado di coordinare le nostre azioni. Possiamo immaginare un gruppo di uomini che si coordinano per organizzare una caccia all’orso16. L’orso è un grosso animale che darà cibo per tutti. Per assunzione, nessuno è in grado di ammazzarlo da solo, l’impresa cooperativa, dunque, sorgerà spontanea. Questo è semplice e chiaro, ma così abbiamo completamente lasciato da parte il problema essenziale. Non sappiamo ancora, infatti, come sarà redistribuito il povero animale ucciso. È chiaro che solo tutti insieme possiamo uccidere l’orso, ma nessuno di noi è direttamente interessato alla sua morte (a meno che non ci minacci, ma questa è una diversa questione17), mentre tutti siamo interessati a come verrà distribuita la carne dell’orso ucciso. E qui il modello della cooperazione è in grado di dirci assai meno.
Il modello di cooperazione basato sulla razionalità autointeressata dei soggetti, infatti, è così esile che, a condizione di migliorare di una qualunque quantità la situazione di ciascun partecipante, cooperare risulterà vantaggioso18. Se le mie condizioni di partenza sono particolarmente sfavorite (per esempio, perché sono mingherlino), quand’anche dopo la caccia all’orso a cui tutti abbiamo preso parte a me tocchi una quantità minore degli altri, io ho comunque migliorato la mia posizione e, dal punto di vista delle deboli assunzioni della scelta razionale, questa è una situazione o è un esito cooperativo del tutto legittimo19. Ma, naturalmente, un tale risultato è inservibile dal punto di vista della giustizia20. In che senso allora lo si può utilizzare per gli scopi di una teoria della giustizia? Il tentativo di giungere a risultati normativamente significativi, passando attraverso questa idea di cooperazione, è in generale affidato, come abbiamo accennato, alla nozione di stabilità. Ed infatti, il tentativo di Rawls è di mostrare che questo esito cooperativo non è semplicemente ingiusto, ma che è instabile, e che per renderlo stabile dobbiamo redistribuire in modo equo l’orso21.
Ora, il punto è che se io non ottengo abbastanza dalla cooperazione (per esempio, ho troppo poco orso), il mio incentivo a defezionare sarà più alto e, di conseguenza, la cooperazione instabile. E se per assunzione la cooperazione è dominante, cioè preferita da tutti, allora sarà razionale per gli altri darmi una parte equa di orso, perché questo aumenterà il mio interesse a stare dentro la cooperazione e a non defezionare. Questo sembra ovvio e semplice, ma in realtà, complica il modello in un modo che il modello stesso non è in grado di sostenere. Infatti, se noi cominciamo a irrobustire le assunzioni di razionalità che stanno dietro la scelta di cooperare, uno degli esiti possibili non è affatto la giusta distribuzione ma, più probabilmente, il fatto che la cooperazione non insorga22.
Supponiamo che io cominci ad avanzare pretese sulla quantità di orso. Perché esse abbiano una qualche efficacia, occorre che io sia in grado di fare realmente quello che minaccio. Ma io posso davvero, per esempio, uscire dalla cooperazione? Tutti sanno che non sono in grado di cacciare da solo, come sappiamo sono un tipo deboluccio, perché mai allora dovrebbero credermi? E io stesso, posso davvero rischiare di essere escluso? Supponiamo che, a fronte delle mie pretese, il gruppo dei più forti si convinca che accogliendo richieste di tal genere il loro vantaggio a cooperare diventerebbe troppo scarso. Per quanto li riguarda, loro possono benissimo organizzarsi fra loro, o vivere di animali più piccoli (che, essendo più forti sono in grado di cacciare, mentre, per assunzione, io no). Insomma, il loro incentivo a defezionare diventa altrettanto alto quanto quello che abbiamo supposto all’inizio per me. In queste circostanze, quello che con ogni probabilità accadrà è che la cooperazione semplicemente non avrà luogo. Se cioè abbandoniamo le assunzioni semplicissime di razionalità, per cui c’è cooperazione ogni volta che qualcuno migliora la sua posizione (senza peggiorare quella di qualcun altro), se facciamo questo passo in più, la cooperazione lungi dal divenire più giusta, semplicemente collassa o non ha luogo23.
Oppure, ammesso che si riesca a far partire la cooperazione, una diversa soluzione, altrettanto inservibile per la giustizia, è che la sua stabilizzazione non conduca affatto a un esito compatibile con una qualunque idea di giustizia. Date assunzioni di razionalità più sofisticate e più realistiche, è facile immaginare una varietà di circostanze in cui la cooperazione ha sì luogo e diventa pure stabile, ma non per questo diventa giusta. A seconda di quanto è importante per me ottenere la collaborazione degli altri, io posso essere disposto ad accettare molto meno di quello che mi spetterebbe o che potrei desiderare, perché senza di loro starei anche peggio. Se davvero alcuni possono vivere cacciando animali più piccoli dell’orso e io no, la mia minaccia di uscire dalla cooperazione è risibile e non verrà presa sul serio. Per quanto piccola sia la parte di orso che mi spetta, tutti sanno che non potrei vivere senza di essa e questo è un incentivo per me a continuare a cooperare, un incentivo per loro a darmi quello che vogliono, ciò che dà come risultato una cooperazione assai stabile ma per niente giusta24.
Il modello della cooperazione razionale, dunque, funziona solo se la nostra idea di razionalità è molto semplice, ma allora è normativamente inefficace. Se assumiamo un’idea di razionalità più esigente, collassa. Date le parche assunzioni della teoria della scelta razionale non c’è nessuna ragione per chiedere una diversa distribuzione. Non c’è nel modello lo spazio per una richiesta di giustizia. Partecipando alla cooperazione e ottenendo la mia parte di carne di orso, quale che sia, ho fatto ciò che dovevo e potevo fare perché la condizione di razionalità fosse soddisfatta. E non c’è altro da aggiungere.
Di sicuro, quello che non può darsi per scontato è che la razionalità della cooperazione dia luogo a una preferenza per la giustizia e la giustizia a una per la stabilità. Questo a meno di non operare un piccolo trucco, assai elegante e sofisticato, ma teoricamente implausibile.
Immaginiamo, tenendo fermo il nostro modello sulla cooperazione, di cominciare a complicarlo con assunzioni diverse da quelle che abbiamo sin qui visto all’opera. Immaginiamo che quando io avanzo le mie pretese sull’orso, gli altri non abbiano la reazione che abbiamo visto, ma comincino a pensare che effettivamente se la cooperazione lascia alcuni insoddisfatti, ebbene allora la loro tentazione di defezionare diventa molto alta. Immaginiamo che essi sappiano, per esempio, che io ho dei figli e che se la quantità di carne è troppo scarsa io potrei preferire morire piuttosto che vedere i miei figli affamati. La mia capacità di minaccia adesso è più credibile. Non ha fondamento solo nella razionalità, che abbiamo visto essere inefficace, ma in qualcosa di più forte, i bisogni. Proviamo ora ad estendere questa situazione, indebolendo le opzioni disponibili circa la defezione e dunque rafforzando il nostro interesse alla cooperazione, anzi il nostro bisogno di cooperazione. Cioè assumiamo che, in realtà, nessuno è davvero in grado di defezionare, perché nessuno è davvero in grado di vivere fuori dalla cooperazione sociale.
Ebbene, si può mostrare che, a questo punto, le implicazioni normative che prima risultavano impossibili sono invece tutte a disposizione. Adesso è possibile cominciare a pensare che se la cooperazione non è almeno in qualche senso giusta, allora effettivamente potrebbe anche non avere luogo e poiché abbiamo alzato la posta dell’assenza di cooperazione, può realmente aver senso sostenere che ciascuno è disposto a cedere qualcosa alla giustizia pur di avere una cooperazione stabile. Ma il prezzo che abbiamo pagato è assai alto e, come cercherò di dimostrare, teoricamente insostenibile.


Aristotele, gli architetti e i ciabattini

La mia idea è che con gli aggiustamenti progressivi che abbiamo fatto, noi abbiamo completamente abbandonato il nostro modello esplicativo che traeva forza dalla debolezza delle sue pretese e ci siamo impegnati in una teoria filosofica della cooperazione sociale della cui plausibilità si può ampiamente dubitare. Intendo sostenere che l’idea di cooperazione in cui ci siamo impegnati ha un padre tanto illustre quanto ingombrante, Aristotele, e che scommettere sulla plausibilità della concezione di Aristotele in materia di cooperazione sociale è un grosso azzardo. E cercherò di mostrare che è esattamente ciò che Rawls fa.
Vorrei mostrare come Aristotele offra una potente alternativa al modello cooperativo che abbiamo appena visto fallire e, poiché non si sottrae a nessuno degli esiti che la sua costruzione implica, Aristotele mostra assai bene perché la cooperazione implichi una concezione della società insostenibile. Nel modello di Aristotele la cooperazione è svincolata da qualunque volontà o scelta degli individui, il suo fine, infatti, è fissato nella soddisfazione dei nostri bisogni. In tal modo, essa non solo è sottratta a qualunque minaccia di fallimento, ma può essere facilmente ancorata a una concezione della giustizia, proprio perché, e nella misura in cui, soddisfa i nostri bisogni. Ma la società che Aristotele progetta e difende non solo non è, e non può essere, la società in cui viviamo; è anche un tipo di società in cui, credo, non vorremmo vivere.
Per Aristotele lo Stato è una complessa organizzazione, formatasi «bensì per rendere possibile la vita», ma esistendo in realtà «per rendere possibile una vita felice»25. Che lo Stato esista per rendere possibile la vita implica, come volevamo, che l’esistenza stessa di una società dipende dal fatto che noi siamo esseri caratterizzati da bisogni, i quali possono essere soddisfatti soltanto in un’unione all’interno della quale noi siamo messi in grado di produrre e scambiare vantaggiosamente i beni che ci sono necessari per vivere e poi anche per vivere bene. Questo è ciò che solitamente chiamiamo cooperazione: una divisione del lavoro che consenta a ciascuno di fare la sua parte, producendo un risultato che è migliore di ciò che ciascuno può fare da solo26. Infatti, scrive Aristotele: «Lo stato non risulta di una parte sola, ma di molte. [...] Di queste una è la massa impegnata per il cibo, i cosiddetti agricoltori; seconda la classe cosiddetta degli operai meccanici, [...] terza dei commercianti»27 e così via.
È l’unione cooperativa di operai, architetti, meccanici e agricoltori che ci rende possibile la vita. Ed è per rendere possibile la vita che lo Stato si forma. Ma il legame fra i bisogni e lo Stato che Aristotele istituisce attraverso la cooperazione se, certo, offre una forte ragione a favore dell’insorgenza della cooperazione, ha d’altra parte implicazioni assai forti sul modo in cui lo Stato deve formarsi, rendendo possibile la vita. Implicazioni che Aristotele non manca di cogliere e di difendere.
All’inizio, potrebbe sembrare che Aristotele abbia in mente una sorta di derivazione naturale dello Stato dall’unione prima di ciò che non può starsene separato - l’uomo e la donna, per esempio - poi di gruppi di famiglie in piccoli villaggi.
«Se si studiassero le cose svolgersi dall’origine - ci dice Aristotele - anche qui come altrove se ne avrebbe una visione quanto mai chiara»28. Vedremmo, infatti, come «è necessario in primo luogo che si uniscano gli esseri che non sono in grado di esistere separati gli uni dagli altri, per es. la femmina e il maschio in vista della riproduzione»29. La formazione della famiglia, dunque, avviene in modo del tutto naturale, e lo stesso accade per l’unione di più famiglie in villaggi. E così potrebbe sembrare che lo Stato semplicemente risulti dal progressivo crescere del numero delle famiglie o dall’unione di più villaggi. Ma le cose sono più complicate di così. Infatti, se certo in Aristotele lo Stato esiste per natura, il modo in cui ciò avviene non è affatto lineare.
Lo Stato esiste per natura nel senso che la sua ragion d’essere è indotta dalla natura: «per natura, dunque, è in tutti la spinta verso una siffatta comunità, e chi per primo la costituì fu causa di grandissimi beni»30. Senza lo Stato, infatti, noi semplicemente non potremmo vivere, e ancor meno vivere una vita felice: «Chi non è in grado di entrare nella comunità o per la sua autosufficienza non ne sente il bisogno, non è parte dello stato, e di conseguenza o è bestia o dio»31.
Tuttavia, lo Stato non può essere il frutto della semplice unione di ciò che non può starsene separato, come accade per la famiglia, per la semplice ragione che nulla del genere esiste in natura. Se, come abbiamo detto, lo Stato è una complessa macchina il cui scopo è quello di metterci in grado di cooperare vantaggiosamente - «infatti non da due medici sorge una comunità, ma da un medico e da un contadino, e in generale da diversi e non da eguali»32 - allora noi dobbiamo essere messi in condizione di organizzarci in quanto medici e contadini, ciabattini e architetti. E mentre, esistono in natura la donna e l’uomo, come del resto lo schiavo, non altrettanto può dirsi per artigiani e architetti, per medici e agricoltori. Non ci sono medici e architetti in natura, come Aristotele sa bene33. E questo perché non può esistere alcun architetto se non c’è qualcuno che produca il grano, e nessun medico se qualcuno non costruisce gli attrezzi e la casa che gli sono necessari e così via. Se non c’è lo Stato, infatti, non ci sono nemmeno le sue parti: i medici, gli artigiani, gli architetti. Ma se non ci sono medici ed architetti non può esservi cooperazione, perché in tal caso non saremmo in grado di soddisfare i nostri bisogni e la cooperazione non avrebbe né senso, né luogo. Ed infatti, «per natura lo stato è anteriore alla famiglia e a ciascuno di noi perché il tutto deve essere necessariamente anteriore alla parte: infatti, soppresso il tutto non ci sono più né piede né mano se non per analogia verbale»34.
Perché la cooperazione abbia luogo, dunque, rendendoci possibile la vita, occorre che lo Stato abbia priorità sugli individui e sulla famiglia. Perché nessuno potrebbe sapere ciò che (si) deve fare senza conoscere ciò di cui lo Stato ha bisogno per sussistere. E senza sapere ciò che si deve fare perché uno Stato sussista, non avremo Stato. Così, perché la cooperazione soddisfi i bisogni nel modo che ci è necessario, occorre che il risultato finale sia dato prima, viceversa siamo ricacciati in una situazione in cui ciò di cui abbiamo massimamente bisogno, lo Stato, non può tuttavia formarsi35.
Questa conclusione di Aristotele è tanto impegnativa, quanto inevitabile nel modello proposto. Se ciascuno deve fare la sua parte, come vedremo anche più avanti, bisogna che sia in qualche modo stabilito qual è la parte che deve fare. Per essere in grado di cooperare dobbiamo essere in grado di dividerci il lavoro, viceversa non saremo in grado di soddisfare i nostri bisogni. E «che sia il bisogno a tenere uniti gli uomini, come costituendo qualcosa di unico, manifesta il fatto che, quando non abbiamo reciprocamente bisogno, o entrambe le parti o una delle due, non effettuano scambi»36. Ma gli scambi si effettuano fra diversi, e i diversi possono esistere solo se siamo in grado di distinguere e organizzare le nostre funzioni, distinguendo i medici dagli agricoltori e i ciabattini dagli operai37. Si dà cooperazione dunque solo a condizione di assegnare a ciascuno la parte che deve fare, viceversa essa non può costituire la ragion d’essere della nostra unione. Non c’è cooperazione se ciascuno pretende di fare ciò che gli pare. Il suo insorgere e la sua stabilizzazione sono ancorati alla soddisfazione dei bisogni.
Un’immediata conseguenza di quanto abbiamo appena detto è che la cooperazione si specifica in Aristotele in ragione dell’autosufficienza. Di che cosa ha bisogno, infatti, uno Stato per poter sussistere? Di essere autosufficiente, naturalmente, per poter provvedere ai bisogni di tutti i cittadini, non essendo quindi mai esposto alla minaccia di un collasso: «La comunità che risulta di più villaggi è lo stato, perfetto, che raggiunge ormai, per così dire, il limite dell’autosufficienza completa»38.
L’autosufficienza è l’ovvio completamento dell’idea di cooperazione che abbiamo visto operare in Aristotele. Perché la cooperazione abbia luogo occorre che i bisogni (tutti i bisogni) siano soddisfatti, e questo significa che l’opera di ciascuno all’interno della cooperazione deve mirare a ciò. Non si può prender parte alla cooperazione, per esempio, per il solo desiderio di arricchirsi, perché questo mette a rischio la stabilità della cooperazione. Producendo scarpe solo per trarne del guadagno, cioè non per comprare qualcos’altro di cui ho bisogno, ma solo per accumulare denaro, si corre il rischio di sottrarre alla cooperazione la sua ragione fondante (la soddisfazione dei bisogni), così esponendola di nuovo al rischio di fallimento39.
Ma in più, se non si tiene di mira la necessità della cooperazione per il fine dell’autosufficienza, in qualche modo si stanno truccando le carte, violando le regole dello scambio. Ciò che regola lo scambio, infatti, è ancora una volta il bisogno, che funziona come criterio di comparazione dei beni. Scrive Aristotele: «Bisogna dunque che tutti i beni siano misurati con un’unica cosa [...] e questa in verità è il bisogno, il quale tiene uniti tutti i beni»40.
Poiché produciamo e scambiano i nostri beni in relazione ai nostri bisogni, questi saranno anche la misura di ciò che reciprocamente ci dobbiamo: «In realtà è impossibile che le cose che differiscono tanto siano commensurabili, ma è possibile che lo siano sufficientemente in relazione al bisogno»41. È il bisogno, dunque, che dà conto della giustezza dello scambio: «per questo bisogna che tutti i beni siano stimati. In questo modo infatti sarà sempre possibile uno scambio, e se sarà possibile questo, sarà possibile una comunità»42.
Se svincoliamo la nostra produzione di beni dai nostri bisogni, come potremo mai avere una misura di ciò che è giusto? Come potremo mai sapere qual è il giusto rapporto fra chi produce scarpe e chi produce case? E se non siamo più in possesso di questo rapporto come si potrà ancora cooperare? E che non si dia cooperazione, come sappiamo, è un rischio che non ci possiamo permettere. Infatti, scrive Aristotele: «Bisogna dunque che il medesimo rapporto che intercorre fra un architetto e un calzolaio vi sia anche tra paia di scarpe e una casa, o un alimento. Se infatti non si dà questo rapporto non vi sarà né scambio né comunità»43. Se la cooperazione deve avere luogo, e non può non avere luogo, deve essere secondo giustizia, identificando attraverso il bisogno ciò che reciprocamente ci dobbiamo.
E così cooperazione e giustizia sono adesso visibilmente collegate, come volevamo. Ma credo che il risultato ci appaia ora un po’ meno desiderabile di come sembrava all’inizio.
Quello che credo di aver mostrato, infatti, è che se si assicura l’insorgenza della cooperazione, motivandola con la necessità che abbiamo di soddisfare i nostri bisogni, siamo è vero in grado di spiegare perché ciò che mi spetta dipende dal modo in cui l’insieme è stato prodotto, ma siamo anche costretti a pagare il prezzo che Aristotele paga: sostenere una visione della società che metta, per così dire, ciascuno al suo posto, garantendo che ciascuno faccia ciò di cui la società ha bisogno. Se l’argomento funziona quello che deve mostrare è che o noi siamo disposti a difendere questa visione della società, ma non vedo come, o noi dobbiamo sbarazzarci dell’idea di cooperazione. Intendo sostenere la plausibilità di questa conclusione, mostrando come opera in Rawls l’idea di cooperazione.
Cooperare con Tom Cruise (e non nel senso che state pensando!)

Abbiamo visto come l’ideale aristotelico di cooperazione preveda un mondo fatto di artigiani, medici e architetti capaci di provvedere alle necessità della vita, ciascuno impegnato in quella complicata impresa che è la costruzione di una società autosufficiente. Naturalmente, era più facile per Aristotele stabilire come dovesse essere fatta, grosso modo, una società autosufficiente e quali fossero le funzioni da assegnare a ciascuno sia perché vi era più portato, sia perché lo Stato ne aveva bisogno. Più complicato è per noi che non cooperiamo in quanto ciabattini e architetti, medici e agricoltori. Il modello cooperativo della nostra società deve, infatti, prevedere che la cooperazione abbia luogo fra attori e consulenti aziendali44, ricercatori e designer, pubblicitari e produttori di scarpe Tod’s45. E benché questo renda il nostro ideale di cooperazione intuitivamente un po’ meno solido di quanto lo fosse per Aristotele, lasciamo pure che sia così, per il momento. In verità, spiegare se e in che senso Tom Cruise stia prendendo parte a una impresa cooperativa non è del tutto chiaro e anzi, come vedremo, non è chiaro affatto. Ma prendiamo per buona l’idea e consideriamo, come Rawls ci invita a fare, che la società sia «uno schema di cooperazione al di fuori del quale nessuno può condurre un’esistenza soddisfacente»46. Quello che dobbiamo mostrare, lo ricordo, è che il modello della cooperazione basato sulle semplici assunzioni della teoria della razionalità economica non è affatto ciò da cui dipendono gli esiti normativi della teoria.
Assumiamo dunque, per ora, che Tom Cruise, i consulenti aziendali, il signor Tod’s e così via stiano effettivamente cooperando. Cosa significa che stanno cooperando? Una prima, ovvia risposta, considerato di chi stiamo parlando, è che stanno ottenendo dal mercato una quantità di soldi di cui è perfino difficile farsi un’idea sensata. Ma questa, benché naturalmente vera, non è la risposta giusta.
Quello che Rawls sembra avere in mente, infatti, è che Tom Cruise, guadagnando come sa, sta in realtà prendendo parte a un’impresa comune grazie alla quale ciascuno di noi, compreso lui, è messo in condizione di vivere una vita, appunto, soddisfacente. L’enorme differenza di denaro che Tom Cruise e i comuni mortali guadagnano non costituisce un problema per questa idea di cooperazione. Lo schema cooperativo, infatti, ha lo scopo di far sì che ciascuno consideri «le maggiori capacità come una dote da usare per il vantaggio comune»47. L’idea è che noi consentiamo a chi ne è capace di guadagnare nel mercato perché questo, se tutti accettano la visione cooperativa, ci mette in condizione di prendere parte dei suoi soldi per fini redistributivi. La ragione per cui parliamo di uno schema di cooperazione è che ciascuno riconosce che senza il contributo degli altri non potrebbe fare la sua parte e dunque non potrebbe avere una vita soddisfacente. Similmente a ciò che abbiamo visto in Aristotele, anche qui, senza gli elettricisti, i parrucchieri, i fotografi e così via, non vi sarebbe alcun Tom Cruise, e viceversa. Per ciascuno, dunque, «è evidente che il benessere di ognuno dipende da uno schema di cooperazione sociale, in mancanza del quale nessuno potrebbe avere un’esistenza soddisfacente»48, come dovevano ammettere i partecipanti alla comunità politica di Aristotele.
E tuttavia, mentre nello schema aristotelico si poteva comprendere in che senso ciabattini e architetti non potessero «avere una vita soddisfacente» senza cooperare, infatti i loro bisogni sarebbero rimasti insoddisfatti, lo stesso schema è assai più implausibile come descrizione del nostro mondo. Io non riesco a vedere nessun senso in cui il benessere di ognuno dipende dai film che fa Tom Cruise o dal lavoro dei consulenti aziendali.
In un mondo in cui la cooperazione è evidentemente sganciata non solo dai bisogni, ma da un qualunque ideale politico di vita felice, possiamo ancora realmente assumere che se ciascuno non fa la sua parte nessuno può avere una vita soddisfacente? Quando ne specifichiamo in modo realistico il significato - Tom Cruise non fa i suoi film, non vengono prodotte scarpe Tod’s - se ne comprende ancora il senso? Non è, piuttosto, che Rawls sta pensando qui non ai Tom Cruise ma alla mitica società di ciabattini e agricoltori che aveva in mente Aristotele? In che altro senso, viceversa, bisogna intendere l’affermazione secondo cui «ogni persona riceve una parte equa se tutti (compreso lui stesso) fanno la loro parte»49? In che senso Tom Cruise sta facendo la sua parte? Come possiamo mai sapere quale sia la parte di chiunque se, come ci ha insegnato Aristotele, non sappiamo quale sia il fine che, ciascuno insieme agli altri ma nessuno singolarmente, ci stiamo proponendo?
L’unico modo che vedo per specificare in che senso una società giusta è una società in cui ciascuno fa la sua parte in un sistema cooperativo è quello di avere in mente qualcosa di molto simile alla priorità dello Stato che aveva in mente Aristotele. E cioè una qualche visione di ciò di cui lo Stato ha bisogno che organizzi appunto la cooperazione e le competenze e le abilità dei singoli. Ma senza una visione di questo genere, d’altra parte insensata per le nostre società, che senso ha dire che qualcuno sta facendo la sua parte? Qualcuno, in questo preciso momento, sta forse progettando un prodotto che non avrà mai alcun successo nel mercato: dobbiamo forse escluderlo dalla cooperazione?
Naturalmente, Rawls teme che senza implicazioni così forti noi rischiamo di perdere la ragione cruciale per cui redistribuire. Solo se Tom Cruise è disposto a riconoscere che «il principio di differenza rappresenta, in effetti, un accordo per considerare la distribuzione delle doti naturali come un patrimonio comune»50, siamo in grado di offrirgli una ragione per redistribuire i suoi guadagni. Ma, ancora una volta, è difficile sfuggire all’impressione che all’opera qui sia esattamente lo stesso modello aristotelico di cooperazione. In Aristotele è perfettamente chiaro perché le doti di un ciabattino siano un patrimonio comune: a nessuno piace camminare scalzo su strade accidentate o se fa freddo. E questa è esattamente la ragione per cui, come sappiamo, è bene che i ciabattini facciano i ciabattini, ed è bene che lo Stato provveda a specificare di ciascuno la sua funzione, mettendo, per così dire, ognuno al suo posto. Ma, potrebbe mai Rawls, coerentemente con le pretese della sua teoria, accettare questa concezione della società? E possiamo noi, in generale, accettare una simile visione della nostra società? In che senso le doti del signor Tod’s sono un patrimonio comune? A differenza di ciò che paventava Aristotele, a me non importa poi molto che il signor Tod’s non produca più le sue scarpe, né mi sento costretta a comprarle perché le sue doti non vadano sprecate. A differenza di ciò che temeva Aristotele, e a differenza di ciò che Rawls implicitamente assume, se nessuno produce più pane, io posso sempre comprare brioche, con buona pace delle doti dei panettieri.
E va ancora peggio con affermazioni del tipo «secondo la giustizia come equità, gli uomini accettano di condividere i propri destini»51. In che senso io accetto di condividere il mio destino con quello di Tom Cruise? Allora voglio almeno avere voce in capitolo sui film che fa. Seguendo questa linea di ragionamento, poi, farei bene a vedere tutti i film di Tom Cruise, che mi piacciano o no. In questo modo potrei evitare pericolosi fallimenti della sua carriera, contribuire a che diventi sempre più ricco, far prosperare gli studios hollywoodiani, rendendo tutti ricchi e felici: e tutto questo soltanto andando al cinema!52
Non sarà piuttosto che il modo in cui si produce la ricchezza sociale non ha nulla a che vedere con ciò e che bisogna trovare spiegazioni più convincenti per dare conto delle ragioni per cui redistribuiamo?
Naturalmente, sostenere che in Rawls è presente un modello implausibile di cooperazione non significa ancora aver mostrato che non vi siano altre concezioni della cooperazione più plausibili. Quello che credo di aver mostrato, tuttavia, è che se la cooperazione deve generare esiti normativamente significativi, allora è difficile sfuggire alle implicazioni aristoteliche che abbiamo visto. Voglio ricordare che Rawls non solo respingerebbe il modello di cooperazione che io considero invece parte del suo lavoro, ma era partito da un modello del tutto diverso della cooperazione. E tuttavia, quando ha dovuto dar conto delle implicazioni normative corpose di cui necessita la teoria della giustizia, allora ha dovuto necessariamente ricorrere all’unico ideale di cooperazione che può davvero generare gli esiti sperati.
Del resto, quando Gutmann e Thompson, con esplicito riferimento all’idea di cooperazione di Rawls, difendono un ideale di società basato sulla reciproca dipendenza, non stanno esattamente sostenendo la stessa cosa?53 Non stanno esattamente mostrando che l’ideale cooperativo di Rawls implica una visione della società in cui noi abbiamo bisogno gli uni degli altri, esattamente così come Aristotele pensava?
Rawls, come Gutmann e Thompson del resto, teme di perdere in questo modo, lo abbiamo detto, la possibilità di rispondere alla domanda «perché redistribuiamo?». Ma, ciò che è più sorprendente è che, anche al prezzo di un ideale di società così impegnativo com’è quello implicito nell’idea di cooperazione, a ben guardare, non abbiamo affatto trovato una risposta soddisfacente ai problemi che noi ci troviamo ad affrontare. Abbiamo visto, infatti, che se la cooperazione deve fare il suo lavoro, allora occorre che tutti cooperino. La cooperazione, dunque, sancisce il fatto che ciascuno deve qualcosa a ciascun altro, ovviamente, solo nella misura in cui tutti cooperino. Questo, naturalmente, implica che chiunque debba, sappia, possa prender parte alla cooperazione. Che succede se invece ciò non si realizza? Che succede se qualcuno resta fuori dalla cooperazione?
Aristotele e Rawls, da questo punto di vista, condividono una certa disinvoltura nel rispondere a questa domanda. Entrambi sembrano credere che «poiché nessuno può vivere fuori dalla cooperazione», allora è evidente che la cooperazione non può lasciare nessuno fuori. Tuttavia, dalla tesi che nessuno possa vivere fuori dalla cooperazione non consegue affatto che chiunque possa prendere parte alla cooperazione. Vi possono ben essere persone e persino talenti di cui la società proprio non sa che farne. Vi possono ben essere più persone di quante qualunque cooperazione possa mai aver bisogno. In realtà, secondo molti autori, questo è esattamente quello che sta accadendo nelle nostre società. Benché io non condivida questa visione, per la semplice ragione che ha ancora alla base un ideale cooperativo a cui, io credo, occorra invece semplicemente rinunciare, l’idea più diffusa che spiega l’entrata in crisi dei nostri sistemi redistributivi è proprio questa. Per un insieme di fattori, noi ci troveremmo a vivere in un sistema cooperativo che semplicemente ha bisogno di meno persone di quante ve ne siano disponibili nel mercato del lavoro54. E che anzi sembra acquistare maggiore efficienza quante meno persone impiega. Se così stanno le cose, dando per buono che sia così, in che senso noi possiamo ancora pensare alla cooperazione come base per la redistribuzione? Che ne facciamo di quelli che restano fuori? Limitiamo le nostre società ai cooperatori e per il resto si arrangi chi può? Se questa dovesse essere la conclusione, allora dovremmo semplicemente rinunciare alle teorie della giustizia.
Si può tuttavia tentare di forzare la cooperazione in modo da tenere tutti dentro. Questa soluzione, variamente interpretata, consentirebbe di tenere ancora fermo il modello cooperativo, senza tuttavia abbandonare gli individui a un destino di esclusione dall’impresa cooperativa. Se la cooperazione non è in grado spontaneamente, per così dire, di generare giustizia, basta forzarla un po’, creando lavoro là dove non ce n’è, in modo da stare tutti dentro. È questo, come si comprende, il modello del workfare, la risposta che è stata offerta, sia in termini teorici sia concretamente, alla crisi del welfare state55.
Come ogni istituzione sociale, anche il workfare risponde, ovviamente, a molti problemi differenti e ha diverse motivazioni. I suoi risultati sono, per il momento, incerti e controversi, e non è chiaro se sarà davvero in grado di migliorare le prestazioni dello stato sociale, come evidenziano gli articoli qui presentati. Il mio punto, tuttavia, è diverso. Quello che qui importa è valutare la plausibilità della giustificazione del workfare, inteso come interpretazione del modello cooperativo. E, da questo punto di vista, a me pare che il workfare si basi su un tipo di ragionamento del tutto implausibile.
Alla base del workfare, come ho detto, vi è l’idea che l’unico scambio equo fra Stato e cittadino è quello per cui lo Stato mi dà qualcosa se io - in cambio - lavoro. Ora, questo scambio è l’unico equo perché la società si basa su un sistema di cooperazione in cui solo se tutti fanno la propria parte tutti possono avere qualcosa. Così, se io non sono in condizione di fare la mia parte, allora devo essere messo in condizione di farla. Dunque, io vengo pagato dagli altri per dimostrare loro di essere dipendenti anche dal mio contributo. Non fa una grinza!
Se siamo reciprocamente dipendenti, allora tutti dobbiamo fare la nostra parte; ma se qualcuno non può fare la sua parte, allora deve essere pagato per farla, dal momento che siamo reciprocamente dipendenti. Questo è il modo in cui funziona la giustificazione del workfare. Poiché la società è un sistema di cooperazione, noi ci dobbiamo qualcosa l’un l’altro e, quando cooperazione non si dia, noi ci diamo qualcosa l’un l’altro (workfare) per poterci dare qualcosa l’un l’altro.
A fronte di ciò, siamo ancora disposti a considerare il basic income, l’idea che la ricchezza sociale venga redistribuita indipendentemente da che si lavori o meno, un’idea stravagante? Se io devo davvero redistribuire risorse per generare cooperazione perché la cooperazione è la sola cosa che genera redistribuzione, forse è giunto il momento di rinunciare alla cooperazione come ciò che genera sia la ricchezza sociale sia la ragione per redistribuirla.


Note

1 P. Van Parijs, Real Freedom for All. What (if Anything) can Justify Capitalism?, Clarendon, Oxford 1995; P. Van Parijs, a cura di, Arguing for Basic Income: Ethical Foundations for a Radical Reform, Verso, Londra 1992. Vedi naturalmente anche infra, Il basic income e i due dilemmi del welfare state.
2 G.A. Ritter, Storia dello Stato sociale, Laterza, Roma-Bari 1995. Si legge nell’introduzione: «infatti qual è il problema dello Stato sociale, se non il riconoscimento del lavoro come base per l’ingresso nella sfera della cittadinanza?», p. XIII. Più sfumate le posizioni di autori più recenti, anche se io credo che il modello «prestazione in cambio di lavoro» sia condiviso da quasi tutti. Si veda, comunque, A. Gutmann, a cura di, Democracy and the Welfare State, Princeton University Press, Princeton 1988, F. Girotti, Welfare State, Carocci, Roma 1998, R.E. Goodin, Reasons for Welfare, Princeton University Press, Princeton 1988, che ha una posizione diversa.
3 P. Van Parijs, Why Surfers Should Be Fed?, «Philosophy and Public Affairs», 20, 1991. In una nota di Liberalismo politico, Rawls, senza citare Van Parijs, ma chiaramente in risposta alla tesi del basic income, sostiene che: «chi passa tutto il giorno a fare surf sulla spiaggia di Malibu dovrebbe trovare il modo di mantenersi e non avrebbe diritto a un sussidio pubblico». J. Rawls, Liberalismo politico, Comunità, Milano 1994, p. 334, nota 9.
4 P. Van Parijs, Real Freedom for All, cit., cap. 2. Ho sfumato la tesi secondo cui meno gente lavora e più basso sarà il basic income, perché a me sembra sempre meno sicuro che la ricchezza che produciamo (noi società ricche) sia proporzionale alla quantità di gente che lavora. Ma naturalmente non posso approfondire qui la tesi, e per la verità nemmeno altrove, per il momento.
5 Il basic income e i due dilemmi del welfare state, infra, p. 17.
6 Non si sarebbe fatto molto in favore del basic income se tutta la difesa dovesse dipendere da argomenti pro o contro la cooperazione. A nessun riformatore politico importa più di tanto se la cooperazione è o meno un buon modello per lo Stato sociale. Ma il basic income si rivela un efficace strumento di riforma sociale in relazione a una grande quantità di problemi di fronte a cui il welfare si trova. Il basic income contrasta, a differenza di tutte le forme di reddito di sostegno esistenti, la trappola della povertà; è una risposta efficace alla disoccupazione, assai più rapida e estesa del workfare; è universalistico e, quindi, non si presta a nessuna delle note forme di clientelismo e di arbitrio burocratico. Poiché sostituisce molte altre prestazioni pubbliche, evita forme di discriminazioni odiose fra coppie sposate e non sposate e fra individui e famiglie. In quanto sganciato dallo status di lavoratore è uno strumento a favore delle donne che decidono di avere figli, senza discriminare fra lavoratrici garantite e lavoratrici non garantite o non lavoratrici. Ho spiegato tuttavia che il mio intento è piuttosto provare a spiegare perché, a fronte di tutto ciò, il basic income resta tutto sommato estraneo al dibattito pubblico sulla riforma del welfare.
7 Per coloro che la conducono, ovviamente.
8 T. Schelling, The Strategy of Conflict, Harvard University Press, Cambridge MA 1980, p. 4. Questo è uno dei rompicapi più resistenti che io conosca: se e in che senso un modello possa essere esplicativamente usato, senza tuttavia essere in nessun senso una descrizione di ciò che stiamo cercando di spiegare. Ma non ne so abbastanza per dire alcunché di significativo a riguardo. Ho in mente che l’intuizione di Rawls, nell’uso della posizione originaria, dovesse essere qualcosa di molto simile a quello che sostiene Schelling, ma che Rawls stesso si sia poi convinto che le cose non potessero andare così. Spero di approfondire questo tema in altra sede. Vedi A. Nelson, Explanation and Justification in Political Philosophy, e i commenti di A. Rosemberg, The Explanatory Role of Existence Proofs e di J. Woodward, Explanation in Social Theory: Comments on Alan Nelson, «Ethics», 1, 1986.
9 R. Axelrod, The Evolution of Cooperation, Penguin, Londra 1990; A. Gibbard, Wise Choices, Apt Feelings, Harvard University Press, Cambridge MA 1990. Questo è per me una delle tesi più implausibili sulla cooperazione. Io non riesco a capire perché se è plausibile immaginare che insorgano sentimenti morali dalla cooperazione, allora non dovrebbe essere ancora più plausibile immaginare che i sentimenti morali dipendano da molte altre cose che ci caratterizzano, oltre al fatto che cooperiamo. Dopo tutto siamo esseri che hanno provato freddo e paura ed è da qui che potrebbe essere insorto, attaverso l’empatia, il nostro senso di giustizia. Di come nella guerra di trincea si sviluppi, secondo Axelrod (cit., cap. 4), un comportamento morale, a me pare, che l’empatia offra una spiegazione assai più plausibile della cooperazione. A. Damasio, L’errore di Cartesio, Adelphi, Milano 1997. C’è un’ampia letteratura femminista che, d’altra parte, e altrettanto plausibilmente, mette l’accento su noi come genitori di esseri bisognosi di cure e protezione per un lungo periodo di tempo, assai più che sui cooperatori, come base per lo sviluppo di un senso morale. Cito solo A. Baier, Moral Prejudices, Harvard University Press, Cambridge MA 1991 e C. Botti, La ricerca delle donne sulla morale e l’importanza dell’etica privata, «Filosofia e questioni pubbliche», 2, 1998.
10 Questa sembra essere la posizione a cui è definitivamente approdato Rawls nei suoi ultimi lavori. Liberalismo politico, cit., quando dice: «La giustizia come equità [...] assume come propria idea fondamentale quella di società come equo sistema di cooperazione che dura nel tempo», p. 31.
11 E per la verità nemmeno descrittivo, stando a J. Elster, Il cemento della società, Il Mulino, Bologna 1995.
12 J. Rawls, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano 1982, p. 22.
13 Ibid.
14 Ivi, pp. 31, 106.
15 Ivi, p. 28.
16 Alcuni hanno trovato bizzarra la scelta dell’orso per l’esempio della caccia. Tuttavia, ho preso le mie misure e posso sostenere che gli orsi sono stati regolarmente cacciati, tanto per la loro pelliccia quanto per la loro carne: dura ma tanta. Inoltre, io ho molta simpatia per l’indolenza degli orsi e per il loro caratteraccio. Che sia un orso a mettere in difficoltà la cooperazione, l’idea che intendo avversare, non può che farmi simpatia. Ringrazio Luca, il mio compagno, per aver forzato le sue conoscenze fino al punto di consentirmi di usare l’orso per il mio esempio.
17 Questo ha a che fare con il noto grattacapo dei beni pubblici che pone problemi in qualche modo opposti a quelli di redistribuzione di cui qui ci stiamo occupando. Infatti, la salvezza procurata ammazzando l’orso è inevitabilmente fornita a tutti, anche a chi non vi abbia dato alcun contributo. M. Olson, The Logic of Collective Action. Public Goods ancd the Theory of Groups, Harvard University Press, Cambridge MA 1998.
18 Questo ha notoriamente a che fare col fatto che i vincoli di pareto efficienza sono troppo deboli e, in particolare, escludono considerazioni sulle diverse posizioni di partenza. B. Barry, Theories of Justice, Vol. 1, University of California Press, Berkeley 1989, p. 13.
19 Barry suggerisce che «la soluzione di Nash al problema della contrattazione potrebbe esser visto (e io suggerisco che dovrebbe esser visto) come il tentativo di catturare formalmente questa elusiva nozione di diverso potere di contrattazione», Theories of Justice, cit., p. 14. Ma sostiene anche che il tentativo non ottiene il successo sperato.
20 J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., p. 123.
21 Ivi, pp. 112-113 e, in generale, tutto il cap. 3.
22 Qui il modello standard è il dilemma del prigioniero. R. Axelrod, The Evolution of Cooperation, cit.
23 Tito Magri mostra come si debba giungere a una conclusione del genere in Hobbes. T. Magri, Contratto e convenzione, Feltrinelli, Milano 1994.
24 David Gauthier è di diverso avviso, ma molti dubitano dell’efficacia della sua argomentazione. D. Gauthier, Morals By Agreement, Clarendon, Oxford 1986. R. Campbell, Gauthier’s Theory of Morals by Agreement, «The Philosophical Quarterly», 38, 152.
25 Aristotele, Politica, Laterza, Roma-Bari 1993, p. 4.
26 B. Yack, The Problems of a Political Animal, University of California Press, Berkely 1993: «Ciò che tiene insieme gli individui in una comunità politica è il loro interesse reciproco nel fare uso dei diversi beni e abilità che possiedono», p. 55. Yack è interessato qui a distinguere la sua lettura di Aristotele da quella diffusa dai comunitaristi e basata su nozioni quali l’identità, la leatà, le affezioni. Il riferimento all’interesse razionale in Aristotele non implica quindi una immediata smentita della mia lettura sull’insorgenza della cooperazione.
27 Aristotele, Politica, cit., p. 52.
28 Ivi, p. 4.
29 Ibid.
30 Ivi, p. 7.
31 Ibid.
32 Aristotele, Etica nicomachea, Rizzoli, Milano 1994, p. 348.
33 Aristotele, Politica, cit., p. 28.
34 Ivi, p. 7.
35 Si consideri la seguente affermazione di Rawls: «I principi di giustizia non sono che una parte, anche se forse la più importante, [di un ideale sociale]. Un ideale sociale è a sua volta collegato con una concezione della società, una visione del modo in cui debbono essere intesi gli scopi e gli obiettivi della cooperazione sociale. Le varie concezioni della giustizia sono il prodotto di differenti nozioni di società, sullo sfondo di visioni contrastanti riguardo alle necessità naturali e alle opportunità della vita umana. Per comprendere a fondo una concezione della giustizia dobbiamo rendere esplicita l’idea di cooperazione sociale da cui essa deriva», Una teoria della giustizia, cit., p. 26. Questo è esattamente ciò che fa Aristotele e, se è vero quello che sostengo, anche quello che fa Rawls sulla sua scia.
36 Aristotele, Etica nicomachea, cit., p. 351.
37 In natura invece ci sono solo uomini, e gli uomini (non-donne, non-schiavi), per Aristotele, sono sostanzialmente eguali. Yack, The Problems of a Political Animal, cit., p. 53. È solo nello Stato (a differenza che nel caso delle donne e degli schiavi) che gli uomini sono diversi: «d’altronde uno stato non consiste solo di una massa di uomini, bensì di uomini specificamente diversi, perché non si costituisce uno stato di elementi uguali», Politica, cit., p. 32.
38 Aristotele, Politica, cit., p. 6.
39 Ivi, p. 20. È evidente qui l’influenza di Aristotele su Marx e, in particolare, sulla contrapposizione fra i modelli merce-denaro-merce e denaro-merce-denaro (M-D-M e D-M-D). C. Marx, Il capitale, Editori Riuniti, Roma 1980, vol. 1, cap. 4. G. McCarthy, a cura di, Aristotle and Marx, Rowman & Littlefield, Lanham, Maryland 1992.
40 Aristotele, Etica nicomachea, cit., p. 349.
41 Ivi, p. 351.
42 Ibid.
43 Ivi, p. 349.
44 Le mie idee sul mestiere di consulente aziendale dipendono, forse ingiustamente, da Trudeau che le ha così descritte: «Ciao babbo! hai avuto una buona giornata?». Doonesbury, a quell’epoca appunto consulente: «Certo tesoro!». «Cosa hai fatto?». «Oh, tante cose. Prima di tutto ho consultato l’agenda. Poi ho controllato la posta elettronica e la segreteria telefonica per vedere se c’erano dei messaggi. Poi ho guardato la tv un paio d’ore, poi ho scaricato un po’ di software dalla rete e, alla fine, ho districato il filo del telefono». «Wow, babbo quando sono grande anch’io voglio fare il consulente».
45 Con questo non intendo affatto suggerire che Aristotele stesse semplicemente aderendo alla realtà del mondo in cui viveva e non avesse, invece, una teoria su come dovesse essere organizzata la comunità politica.
46 J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., p. 30.
47 Ivi, p. 103.
48 Ivi, p. 99.
49 Ivi, p. 106.
50 Ivi, p. 98.
51 Ivi, p. 99.
52 Il buffo è che l’idea di cooperazione rende perfettamente possibili esiti di questo genere, una volta che sia sganciata dalla soddisfazione dei bisogni. In questo modo, infatti, poiché il significato in cui noi siamo dipendenti gli uni dagli altri è del tutto imprecisato, allora si possono immaginare a iosa costruzioni del tutto circolari, in cui un gruppo di persone viene pagato per fare lo spettatore, consentendo a chi lavora nel cinema di continuare a fare la sua parte, producendo film. Come vedremo più avanti, il workfare non propone soluzioni troppo distanti da questa.
53 A. Gutmann e D. Thompson, Gli obblighi del welfare, infra, p. 23.
54 Il riferimento è al noto dibattito sulla fine del lavoro che considero poco più di una boutade. Non è che sia «finito» il lavoro, affermazione del tutto priva di senso (basta che io faccia il bucato per aver creato lavoro), è che il lavoro non garantisce giustizia; è la rottura del legame fra lavoro e welfare che mette in crisi i sistemi redistributivi. Si veda, comunque, A. Gorz, Metamorfosi del lavoro, Boringhieri, Torino 1992.
55 A. Gutmann e D. Thompson, Gli obblighi del welfare, cit.


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