L’accento sulle differenze 
           
           
           
          Maria Luisa Mirabile 
           
           
           
          Articoli collegati: 
          L’accento sulle differenze 
          L’Aristotele che è in noi
          (surfisti esclusi)
           
          Questo saggio appare sul numero 2/2000 della Nuova Serie della
          rivista Filosofia e Questioni Pubbliche diretta da Sebastiano
          Maffettone, e fa parte di un forum su Workfare e Welfare. Per
          ulteriori informazioni potete collegarvi al sito
          della Luiss Edizioni  o scrivere all'indirizzo e-mail edizioni@luiss.it  
           
          E' il frutto della rielaborazione di un progetto di ricerca
          recentemente presentato alla Ue per lo studio comparativo del
          cambiamento istituzionale nei sistemi di regolazione del mercato del
          lavoro e dell’assistenza sociale, cambiamento sollecitato, «dal
          basso» dai processi di trasformazione del lavoro e del rischio
          sociale, e «dall’alto» dalle istituzioni comunitarie stesse. L’autrice
          intende pertanto ringraziare F. Carrera e i partner stranieri del
          progetto stesso (in particolare Jean Claude Barbier, Dann Finn e
          Mathias Knuth) per gli apporti dati nel corso della stesura, rimanendo
          naturalmente responsabile in prima persona del testo e di ogni
          affermazione e tesi in esso contenute. 
           
          Un prologo e qualche considerazione 
           
          Gli anni Novanta vedono le istituzioni comunitarie europee impegnate
          in uno sforzo di ridefinizione tanto delle politiche del lavoro quanto
          di quelle assistenziali. L’intento, rivolto in un primo momento al
          settore delle politiche del lavoro, e solo in una fase successiva all’area
          della povertà e della lotta all’esclusione sociale, è stato di
          modificare profondamente le logiche dell’intervento sociale in
          entrambi i settori, ridefinendone principi e percorsi: prima il lavoro
          e poi il sussidio. 
          Il lavoro è stato dunque stato rivalutato, anche attraverso la leva
          del sistema fiscale e contributivo, e reso più vantaggioso rispetto
          alle somme sempre più modeste erogate in funzione dell’assistenza
          tradizionale; alla condizionalità lavorativa è stato inoltre dato un
          ruolo sempre più decisivo nella selezione per l’accesso al sostegno
          economico da parte dell’attore pubblico. Sempre più i bisognosi
          avrebbero conservato il diritto alla solidarietà pubblica a
          condizione di una partecipazione attiva ad iniziative proposte loro
          dall’Ufficio del lavoro o dalle strutture dell’Assistenza sociale. 
           
          Questa impostazione non è in effetti condivisa negli stessi termini
          da tutti i paesi europei. Come molti sanno, il principio della
          condizionalità al lavoro è stato abbracciato soprattutto dai paesi
          anglosassoni, mentre nei casi della Francia e dei paesi scandinavi si
          è verificata una consolidata opzione in favore del principio dell’inserimento,
          divenuto, in qualche modo, punto di riferimento delle innovazioni in
          campo assistenziale anche nei paesi del Sud-Europa. Ovunque però si
          è assistito alla nascita, o in alcuni casi allo sviluppo, sulla base
          di premesse già esistenti, di una vasta gamma di politiche di
          «attivazione»: un orientamento nel cui bacino si trovano ad
          insistere, non senza ambiguità, una gamma molto differenziata di
          programmi e di obiettivi, a loro volta riferiti ad un’ampia ed
          eterogenea platea di utenti. 
           
          Welfare to work, work to welfare, workfare, activation,
          insertion, contropartie sono alcuni dei termini
          utilizzati: di essi si fa un uso spesso sinonimo per alludere all’insieme
          o a singoli programmi indicativi delle trasformazioni in corso; un
          utilizzo in ogni caso sintomatico di non pochi problemi, fra cui -
          riteniamo - una certa faticosità del passaggio da una precedente
          distinzione delle missioni istituzionali fra i campi rispettivi delle
          politiche assistenziali e di quelle del lavoro, all’attuale fase
          contrassegnata dalla ricerca di soluzioni per l’integrazione fra i
          due settori. Una lancia va dunque certamente spezzata in favore dei
          tentativi di chiarificazione delle peculiarità semantiche di alcuni
          termini riferiti alle nozioni di inserimento, la denuncia dei limiti
          delle analisi globali, l’intenzione di contrastare la potenziale
          egemonia della nozione di workfare nei confronti delle politiche
          sociali europee, la presa in considerazione del radicamento sociale di
          ciascuna politica entro la storia e le concezioni nazionali
          innanzitutto dell’assistenza sociale, della solidarietà, del
          diritto, e dei diritti sociali. 
           
          Ian Gough, in un suo recente contributo, si sofferma su queste
          ambivalenze, in particolare sulla maggiore o minore ampiezza
          attribuita alla nozione di workfare da parte di autorevoli studiosi
          europei dei sistemi assistenziali, e distinguendo gli sviluppi Usa del
          workfare alla luce della nozione di underclass, e dunque all’«esigenza»
          di «sorvegliare e punire», dagli sviluppi europei della nozione di
          attivazione, la cui base teorica di riferimento è stata quella di
          esclusione sociale. Provvisoriamente comunque, a nostro avviso, fra
          tutti, il termine di «attivazione» potrebbe comunque essere, grazie
          alla sua capacità di definizione leggera, quello più idoneo a
          riferire in senso lato, e senza eccessive forzature, delle
          problematiche aperte e alle mutazioni istituzionali in corso nel campo
          delle politiche sociali europee. 
           
          Queste ultime, come dicevamo, sviluppando le politiche di sostegno al
          lavoro tramite il potenziamento dei servizi per l’impiego, l’articolazione
          e le maggiori remunerazioni degli impieghi poveri e socialmente
          sostenuti, hanno dato luogo ad iniziative finalizzate all’inserimento
          sociale e lavorativo dei soggetti particolarmente deboli e marginali,
          determinando profondi cambiamenti negli assetti gestionali di entrambi
          i settori. Lo sviluppo delle politiche attive comporta, nel settore
          delle politiche del lavoro, un crescente decentramento dei servizi per
          l’impiego ed un ruolo sempre più importante degli attori locali e
          delle parti sociali, tendenza che, oltre a migliorare l’efficacia
          delle iniziative, dovrebbe agevolare il contatto e l’integrazione
          con la componente extrapensionistica delle politiche assistenziali e
          di inserimento sociale, in alcuni casi, come l’Italia, già
          caratterizzate da una maggiore autonomia e diffusione territoriale. 
           
          Negli anni Novanta aumenta inoltre l’attenzione al possibile ruolo
          dei mercati intermedi (offerta di servizi sociali da parte del Terzo
          settore) nell’offrire opportunità di inserimento sociale e
          lavorativo alle fasce più deboli dell’offerta di lavoro (disabili e
          aree dello svantaggio sociale). C’è infine da dire, ed è un
          aspetto tutt’altro che secondario, che le nuove iniziative ruotano
          intorno a target simili di utenti, gli adulti più problematici,
          «disadattati» o poveri abili, nei confronti dei quali si reputa
          necessario che l’intervento pubblico privilegi la ricostituzione di
          capacità basilari di autosufficienza e di socialità, mirando ad
          esiti di occupabilità, più che di occupazione in senso stretto. 
           
          L’insieme di queste sollecitazioni ha quindi da ultimo comportato l’esigenza
          di un maggior coordinamento fra i due settori tradizionali dell’azione
          sociale, quello delle politiche del lavoro e quello assistenziale.
          Spesso ciò ha portato anche ulteriori riforme degli assetti
          istituzionali tanto nell’uno, quanto nell’altro ambito. 
           
          Ma il principio dell’attivazione sconta, nel settore assistenziale,
          oltre ad un più breve periodo di applicazione, significative
          ambiguità dovute - crediamo - alla notevole differenziazione delle
          culture nazionali soggiacenti ai diversi principi di «attivazione»
          adottati nei diversi paesi dell’Unione europea (oltreché,
          naturalmente, negli Usa, antesignani della versione workfare):
          articolazione ancora non sufficientemente indagata, che si rappresenta
          in parte anche attraverso la già citata confusione circa i termini
          delle politiche di volta in volta da identificare. Crediamo che, sotto
          il profilo dell’efficacia, che oggi si possa comunque sostenere che
          le politiche di attivazione abbiano realizzato esiti positivi nell’ambito
          delle politiche del lavoro, mentre i loro risultati restano ancora
          largamente inesplorati nel settore assistenziale, più complesso in
          termini di criteri valutativi, e contrassegnato da una maggiore
          brevità dell’esperienza complessivamente intesa. 
           
          Va a questo riguardo oltretutto considerata la maggiore
          problematicità generalmente espressa dalle scienze sociali circa le
          possibili evoluzioni in senso attivante delle politiche
          socio-assistenziali, a differenza di una riflessione molto più
          pragmatica, focalizzata su risultati immediatamente misurabili, che
          gli economisti hanno dedicato all’argomento per ciò che riguarda le
          politiche del lavoro. Oltretutto poi, evidentemente, l’idea dello
          scambio è insita in ogni forma di mercato, fra gli scienziati sociali
          si paventa il pericolo che l’attivazione condizionale possa dar
          luogo a forme moralmente insopportabili di controllo sociale, ovviando
          al dovere pubblico di garantire in ogni caso condizioni dignitose di
          esistenza ai cittadini più deboli. 
           
          In una foresta oscura 
           
          Come già accennato, l’attivazione nel campo delle politiche dell’assistenza
          inizia a suscitare tanto l’emergere di critiche relative alla
          legittimità morale di politiche sociali in cui l’erogazione del
          sostegno sociale sia condizionato all’adempimento di obblighi da
          parte del beneficiario, quanto - riteniamo - l’esigenza di ulteriori
          approfondimenti empirici sulle tipologie dei programmi in questione
          nei diversi paesi europei. Le ricerche comparative sull’argomento
          hanno perlopiù sviluppato approfondimenti su programmi omogenei per
          definizione, tipo gli Rmi, pure se ovviamente connaturati alle
          specifiche realtà nazionali. Ancora poco sviluppato è viceversa l’approccio
          degli «equivalenti funzionali», vale a dire quelle analisi
          comparative in cui il confronto fra le diverse policies
          nazionali presupponga l’identificazione di iniziative assimilabili
          sulla base delle loro finalità, dei gruppi target, dei tipi di
          limitazioni e di condizionalità, incentivazioni eccetera, con la
          massima attenzione ad evitare ogni forma di appiattimento delle
          culture sociali nazionali/locali di cui ciascuna policy esaminata
          sarà inevitabilmente espressione. 
           
          Per ciò che riguarda la preoccupazione relativa alla salvaguardia
          della tutela sociale di base in quanto diritto di cittadinanza, che si
          avverte minacciato dalla diffusione (e da una tendenziale egemonia
          anglosassone) delle forme condizionali di intervento, resta a nostro
          avviso sullo sfondo, alquanto sottovalutato, l’aspetto relativo alle
          attitudini e alle risorse istituzionali necessarie ad impostare le
          iniziative di attivazione: è realistico ipotizzare che ad una loro
          maggiore debolezza, e dunque ad una maggiore difficoltà a realizzare
          politiche di successo in termini di inserimento sociale, potrebbe
          corrispondere una prevalente attenzione al controllo burocratico delle
          condizioni di elegibilità per l’accesso ai programmi, piuttosto che
          alla messa in opera di occasioni di inserimento socialmente forti (per
          inciso: sulla base delle informazioni disponibili, questo sembra
          essere il primo paradigma sostanzialmente dimostrato alla luce della
          sperimentazione dell’Rmi in Italia, nei 39 Comuni oggetto dell’esperienza). 
           
          In altri termini, se gli approcci condizionali esprimono valenze
          coercitive di moralizzazione dei gruppi marginali, ritenuti costosi
          per la collettività e dei quali si presuppone la reticenza ad
          assumersi responsabilità individuali, nei confronti delle proprie
          famiglie, o della società nel suo insieme, specularmente ci sarebbe
          da chiedersi se e in che misura il problema morale intorno alla
          coercitività sussisterebbe qualora le misure di attivazione e di
          reinserimento registrassero tassi di elevato successo, se gli utenti
          dei servizi trovassero effettivamente un lavoro e poi rimanessero
          occupati, o se riuscissero a trovare con continuità nuovi lavori. 
           
          Forse l’enfasi sugli aspetti morali presuppone implicitamente che l’attivazione
          nella maggior parte dei casi non funzioni: e questo oltretutto può
          essere più frequentemente il caso di persone fortemente svantaggiate,
          più che il caso dei «semplici» disoccupati. O potrebbe darsi il
          caso che, mentre l’accento originariamente posto in Europa sulle
          politiche attive deriva dalla tradizione dei paesi nordici (fu data
          dalla Svezia, intorno agli anni Trenta, e l’Oecd ha successivamente
          reso popolare il concetto, ancora legato a qualche forma di keinesismo),
          oggi il pensiero dominante, notevolmente influenzato dal dibattito
          anglosassone, rischia di trascinare con sé l’esito paradossale di
          una generalizzazione delle critiche. Un tentativo di sbarramento utile
          forse nell’immediato, ai fini di caveat politici; dubbio a fini di
          più lungo periodo (assumo, evidentemente, che nell’attivazione ci
          siano componenti buone). 
           
          Certo, sappiamo che l’orientamento al workfare ha trovato negli
          ultimi anni una forte legittimazione nella pressione per il
          contenimento della spesa sociale, realizzabile, secondo alcuni,
          attraverso la riduzione del carico dovuto alla dipendenza dei più
          bisognosi dai sussidi. L’ipotesi di fondo, alquanto nota, è che i
          sussidi svolgano una funzione di disincentivo all’inserimento
          sociale e alla ricerca di lavoro, e che favoriscano quindi la
          permanenza nello stato di dipendenza. I requisiti d’accesso ai
          sussidi, siano essi di matrice assistenziale piuttosto che lavoristica,
          sono stati inaspriti, la loro durata è stata normalmente ridotta, e
          sono stati inoltre resi più stringenti i criteri per accertare le
          effettive attività di ricerca del lavoro, o per creare le condizioni
          di un inserimento lavorativo guidato dalle istituzioni pubbliche. Per
          ciò che riguarda in particolare i sussidi di disoccupazione, l’analisi
          comparativa ha rilevato che il loro inasprimento è avvenuto anche
          attraverso l’esclusione dei lavori temporanei e di quelli con orari
          inferiori a soglie prefissate; la durata del sussidio è stata in
          alcuni casi più strettamente legata al periodo di contribuzione,
          rafforzandone così la componente assicurativa. 
           
          Ma in altre esperienze è stato esattamente il contrario. Secondo, per
          esempio, i sostenitori delle politiche di attivazione basate sullo
          scambio contrattuale, dunque secondo i sostenitori delle politiche di
          inserimento sociale alla maniera dell’insertion francese, l’obbligazione
          non rappresenta un vincolo che pesa da una sola parte: essa impone un
          obbligo positivo sulla società stessa, invitandola a prendere sul
          serio i diritti, ed in particolare quella nuova tipologia di diritti
          sociali che viene da essi identificata in avanti rispetto all’idea
          di diritto sociale alla sussistenza, come «diritto all’inserimento»,
          o come «diritto all’utilità sociale». Secondo questo punto di
          vista, fra il diritto sociale tradizionale e l’aiuto sociale
          paternalista, si apre la strada per un coinvolgimento reciproco dell’individuo
          e della società, da cui può scaturire una nuova visione del
          progresso sociale, a condizione di non incorrere nella tentazione di
          un controllo sociale rinnovato. Questa prospettiva introduce ciò che
          potremmo chiamare condizionalità leggera intesa come leva per indurre
          atteggiamenti partecipativi, o come agente per una presunta necessaria
          costrittività, cui i beneficiari delle politiche sociali vengono
          assoggettati per ottenere un più articolato sostegno pubblico,
          finalizzato al loro inserimento, e non più solo l’immediata, quanto
          ritenuta sterile, gratifica in denaro. 
           
          Qui le regole per l’elegibilità sono state trasformate per
          consentire alle persone in difficoltà di ottenere i benefici, o parte
          di essi, e per consentire l’accesso a lavori a tempo parziale o
          «speciali». È stato così per l’Rmi francese, apripista in questo
          senso, ma non solo. In diversi programmi l’inserimento corrisponde
          all’idea secondo cui l’aiuto sociale debba essere erogato sulla
          base di un contratto fra cittadino ed istituzioni pubbliche. I termini
          dei contratti di inserimento prevedono da un lato la disponibilità
          del soggetto in questione a partecipare ad un programma mirato alla
          propria emancipazione, dall’altro l’erogazione di un sostegno
          economico, che viene subordinato all’accettazione della suddetta
          clausola, nonché all’effettivo rispetto di quanto già
          sottoscritto. L’ipotesi di fondo è che il cittadino in difficoltà
          venga così sollecitato a progettare insieme all’istituzione
          pubblica un percorso di uscita dalla dipendenza, di inserimento
          sociale o lavorativo, di sviluppo della propria autonomia. 
           
           
          È infine il caso di rilevare come, secondo alcuni autori, la
          propensione verso l’uno o l’altro dei due aspetti nella realtà
          dei paesi europei con esperienze avanzate in tal senso - il contratto
          di inserimento o le restrizioni - sarebbe stata in concreto bilanciata
          da un ricorso integrato e da un collegamento fra i due termini del
          discorso. 
           
          Fate e fantasmi? 
           
          Ma ancora: è curioso notare come, secondo Michael Wiseman, dell’Urban
          Institute di Washington DC, i programmi Usa realmente ascrivibili alla
          nozione di workfare rappresentino solo una parte modestamente diffusa
          del complesso della politica di welfare nordamericana, la quale, nel
          suo insieme, si è decisamente mossa nella direzione di obbligare i
          richiedenti e i percettori di indennità a lavorare per diventare più
          autosufficienti. In particolare, invece, le proposte del workfare
          sarebbero sostenute dall’idea che lavorare nel settore pubblico e
          privato non profit, dunque in attività lavorative socialmente utili,
          permette il mantenimento e lo sviluppo degli skills
          preesistenti, la formazione di nuove capacità lavorative e, in
          generale, di una maggiore occupabilità dei soggetti coinvolti. 
           
          Il workfare sarebbe dunque una politica complessa (non un semplice
          «ramazzare foglie»), gestibile esclusivamente da parte di strutture
          pubbliche competenti e dotate di notevoli risorse organizzative, e
          rifletterebbe motivazioni molteplici, incluso l’activity fare,
          rivolta a target groups costituiti da soggetti delle età
          centrali con figli a carico. Ciò a differenza che in Europa, dove gli
          sforzi si concentrano verso i giovani o i disoccupati di lunga durata.
          Diversi programmi workfare Usa consistono in politiche di
          responsabilizzazione (o di attacco allo stile di vita, secondo i
          critici) dei genitori con figli a carico, dunque, come testimonia
          Orloff, frequentemente, di fatto, delle madri sole, appartenenti in
          genere a gruppi etnici con comportamenti sociali distanti da quelli
          comunemente espressi dalla middle class. Vale la pena da questo
          punto di vista menzionare come anche questa autrice, pure all’interno
          di una serie di accenti critici rivolti alla impositività delle
          recenti riforme dell’assistenza sociale Usa, rilevi spunti in favore
          di effetti emancipatori di queste politiche nei confronti delle donne
          appartenenti alla cosiddetta underclass. 
           
          Ma tornando agli aspetti ambigui dell’intera questione, qui intesi
          come agevole possibilità di tirare la coperta interpretativa da una
          parte o dall’altra, vogliamo riferirci, sia pure per cenni, all’esperienza
          del caso danese in cui, sin dai primi anni Novanta, sono stati
          sperimentati, con risultati positivi nell’ambito del mercato del
          lavoro e del sistema assistenziale riscontrabili attraverso gli
          incrementi nel numero della popolazione attiva e i decrementi dei
          tassi di disoccupazione e del numero di persone dipendenti dal sistema
          assistenziale. 
           
          Il caso danese è emblematico per il grado di coordinamento e di
          integrazione delle politiche del lavoro e dell’assistenza, riformate
          rispettivamente nel 1994 (con destinatari i percettori di indennità
          di disoccupazione) e nel 1996 (la legge sull’attivazione, rivolta a
          coloro che ricevevano il sussidio dall’assistenza sociale, cui si
          attribuiscono i sopra menzionati successi. Secondo l’analisi di
          Jensen, gli obiettivi comuni delle due riforme erano: a) di aiutare i
          gruppi più deboli e i disoccupati di lunga durata a rientrare nel
          mercato del lavoro; b) di ridurre al minimo i problemi di
          disoccupazione ed emarginazione; c) di migliorare il funzionamento del
          mercato del lavoro. Ma anche in questo caso sembrano essersi
          registrate alcune controversie sull’interpretazione delle due
          riforme. Ancora secondo Jensen, mentre alcuni studiosi hanno sostenuto
          che le riforme indicassero una transizione dal welfare al workfare,
          altri le hanno considerate come programmi che mettevano in grado l’individuo
          di raggiungere l’autorealizzazione e l’autonomia personale. 
           
          Gli studiosi sostenitori della «prospettiva workfare» ponevano l’accento
          sul fatto che l’attivazione sia comunque un dovere civico per il
          disoccupato, cosicché la nuova strategia di attivazione veniva da
          loro interpretata come l’obbligo morale al lavoro per ottenere i
          mezzi di sussistenza. Gli altri, sostenitori della prospettiva del
          «mettere in grado», hanno posto al contrario l’enfasi sul fatto
          che i disoccupati vengano direttamente coinvolti nella loro
          attivazione; e poiché, da questa prospettiva, l’attivazione del
          disoccupato deve partire dai suoi bisogni e desideri, si considera
          come le riforme del mercato del lavoro favoriscano l’autoriflessione:
          il disoccupato, coinvolto nella ridefinizione e nella ricerca di
          soluzioni per i suoi problemi, formula un nuovo modello di vita
          quotidiana. 
           
          Il coordinamento come lieto fine 
           
          La logica dell’attivazione è la precondizione del cambiamento
          istituzionale in atto, che ha anche motivato l’attuale esigenza di
          un coordinamento fra i due settori del mercato del lavoro e dell’assistenza
          sociale. 
           
          Le istituzioni (intese tanto come policies quanto come agenzie)
          dei due settori tendono probabilmente in maniera «naturale» verso
          una reciproca assimilazione di fini e di metodi (basti riflettere
          sullo sviluppo dei mercati sociali intermedi e del ruolo comunemente
          svolto dal Terzo settore in entrambi gli ambiti), rallentata da storie
          e strutture settoriali generalmente disomogenee, ma sollecitata sia
          dalle linee guida comunitarie, sia dai piani nazionali per l’occupazione
          (Nap) di entrambi i settori. In breve, le istituzioni di governo del
          lavoro e dell’assistenza sono chiamate a sviluppare una capacità di
          coordinarsi, in modo da sviluppare l’efficacia, attraverso - al
          minimo - una reciproca funzionalità, gli specifici interventi
          sviluppati nell’uno e nell’altro ambito. 
           
          Il coordinamento rappresenta dunque un tentativo di dare migliori
          risposte ad una domanda sociale variegata e mutevole. La logica
          settoriale degli interventi sociali lascerebbe così, almeno in parte,
          il posto a criteri integrati, come nei casi in cui i servizi sociali
          non riusciscono a far seguire il lavoro alla riabilitazione sociale, o
          in cui un inserimento lavorativo temporaneo non viene anche sostenuto
          da un più profondo intervento sul miglioramento dell’occupabilità
          del medesimo soggetto. C’è però che il coordinamento fra le
          politiche del mercato del lavoro e le politiche sociali è in effetti
          un’istanza recente, e dunque ancora poco sperimentata, ma ancor meno
          sistematicamente indagata. I suoi sviluppi riteniamo che potrebbero
          comunque dipendere dall’interazione fra una pluralità di fattori,
          fra cui: 
           
          - il ruolo delle politiche nazionali, da cui può venire più o meno
          esplicitamente identificato e più o meno fortemente perseguito l’obiettivo
          di una maggiore comunicabilità/interfacciamento fra i due settori.
          Crediamo che in tutti i paesi d’Europa questo sia un processo
          avviato, anche se con gradi differenziati di autoriflessività e di
          implementazione; 
           
          - gli effetti, diretti ed indiretti, di politiche specifiche, per loro
          stesse a cavallo fra i due settori, come è il caso, esemplare, degli
          Rmi; 
           
          - i processi di adeguamento spontaneo e funzionale degli stessi
          operatori istituzionali, in quanto spinte necessarie a livello locale,
          dovute all’esigenza di dare risposte credibili a target di utenza
          «misti» (disoccupati e «poveri abili»), la cui compartimentazione
          tradizionale in settori stagni stenta a reggere il passo dell’incessante
          crescita della complessità sociale; 
           
          - l’accelerazione impressa ai processi di integrazione dovuta agli
          «aggiustamenti» fra le diverse agenzie (enti locali e
          privato-sociale), attive nella messa in campo dei relativi servizi. 
           
          Ricapitolando 
           
          A) Entrambi i settori, del mercato del lavoro e dell’assistenza,
          tendono ad una reciproca assimilazione, creando una sorta di mix
          istituzionale che tende a gestire le tradizionali aree di intervento.
          A nostro avviso, questo tipo di evoluzione deriva tanto dalle
          sollecitazioni europee, quanto da una minore riconoscibilità,
          rispetto al passato, degli specifici target di utenza dei gruppi
          elegibili per i diversi tipi di intervento sociale (minore
          distinguibilità dovuta alle trasformazioni del rischio sociale,
          cambiato da lineare a multicausale e complesso). Pesa decisamente l’esigenza,
          dichiarata insistentemente da entrambi i settori considerati, di
          ridurre tanto la durata quanto l’intensità della dipendenza dei
          disoccupati e dei poveri dall’intervento pubblico. Questo punto è
          molto importante per la riflessione. Infatti il suddetto mix
          corrisponde a quello che frequentemente viene definito workfare o welfare
          to work. Esso tende a sempre più a riguardare non solo i gruppi
          marginali, ma più ampi gruppi di disoccupati a causa della
          limitatezza delle politiche di job creation. 
           
          È perciò verosimile ipotizzare che le istituzioni e le politiche si
          trovino ad attraversare una fase di stress da adeguamento forzato,
          dovuto tanto alla sollecitazione diretta di nuove politiche nazionali
          nei diversi stati membri, quanto alla nascita di nuove, volontarie,
          sinergie o a commistioni sollecitate dalle esigenze dirette di
          intervento sul piano locale, fra gli interventi preposti alla gestione
          del mercato del lavoro e di quelli finalizzati all’inserimento
          sociale dei soggetti più marginali. Va in ogni caso rilevato che la
          riduzione della dipendenza è gestito in maniere differenti e
          specifiche nei diversi paesi in relazione alle diverse culture e
          regimi di welfare di riferimento. 
           
          B) Siamo in una fase di intenso «institutional building», motivato
          dal cambiamento sociale in atto e sollecitato dalle Istituzioni
          comunitarie, finalizzato alla ricerca di soluzioni sostenibili a
          quelle che sono state identificate, nel contesto anglosassone, come
          situazioni di «dipendenza sociale». 
           
          L’analisi dei riassetti istituzionali in corso nei diversi paesi
          diviene dunque in questa fase particolarmente necessaria per poter
          disporre di griglie di monitoraggio dell’evoluzione in corso e di
          una capacità valutativa di come i riassetti adottati rispondano sotto
          il profilo tanto dell’efficacia quanto dell’efficienza alle
          attuali tipologie della domanda sociale. Riteniamo pertanto che azioni
          costanti di monitoraggio e «carotaggi» valutativi del processo di
          riorganizzazione istituzionale in atto sarebbero decisivi per capire i
          differenti tipi di soluzioni in corso di implementazione nei diversi
          paesi. 
           
          C) La principale letteratura sulla modellistica dei sistemi di welfare
          suggerisce che gli orientamenti delle politiche di attivazione e di
          workfare dovrebbero riflettere i cosiddetti «welfare regimes» delle
          quattro «Europe sociali», vale a dire le logiche di tutela e di
          promozione sociale, gli stili organizzativi e le modalità di
          erogazione dei benefici presenti nelle famiglie dei paesi scandinavi,
          dei paesi anglosassoni, dei paesi continentali e dell’Europa
          mediterranea. Sembra però che questa articolazione, ormai
          paradigmatica, resti poco utilizzata nelle analisi delle diverse
          logiche ispiratrici delle politiche di attivazione, e che le
          riflessioni più interessanti siano comunque troppo concentrate a
          contrastare il pericolo dell’egemonia dell’approccio anglosassone
          al workfare. Riteniamo al contrario che alla nota modellizzazione,
          elaborata nel tempo sulla base del riscontro delle logiche e dei
          funzionamenti dei paesi con sistemi normativi e culturali affini,
          andrebbe oggi anche associata un’analisi che tenga conto del grado
          di assimilazione/giustapposizione fra i diversi raggruppamenti e
          sistemi-paese, dovuta al cosiddetto «fattore Europa», quanto alle
          soprannominate analoghe esigenze espresse della domanda sociale nei
          diversi paesi proprio per rafforzare quel che di buono c’è nell’attivazione
          «buona». 
           
          D) Il monitoraggio e la valutazione delle diverse soluzioni nazionali
          adottate (o di prossima adozione) rappresentano una condizione
          fondamentale per gli sviluppi dei sopra citati orientamenti europei. A
          questo proposito, una delle ipotesi alla base del progetto è che le
          stesse nozioni utilizzate nella valutazione dei processi e degli
          output delle politiche sociali (come, ad esempio, quelle di efficacia
          e di efficienza) siano a loro volta costruzioni sociali, che implicano
          - di conseguenza - significati, parametri e performance diversi da un
          «ambiente» culturale/nazionale all’altro: ciò comporterebbe che
          la comunità scientifica elaborasse una griglia di comparabilità dei
          programmi e delle politiche nazionali, basata su un’analisi
          preventiva dei linguaggi e del discorso politico sull’argomento,
          sviluppata in una prospettiva storica. 
           
          Per ciò che riguarda in particolare l’analisi delle trasformazioni
          istituzionali, le nostre ipotesi sono che: le istituzioni siano
          largamente il risultato di strutturazioni normative delle forme
          sociali e che il loro tipo di evoluzione derivi soprattutto dalla
          natura della comunicazione sociale vigente, che a sua volta si basa su
          conflitti, compromessi, negoziazioni, poteri, gerarchie, aspettative,
          timori, processi di apprendimento, capacità negativa. Che le
          trasformazioni istituzionali possano derivare da matrici diverse: da
          processi di trasformazione stabiliti dall’alto e guidati in maniera
          programmatica (politics), da processi orientati da un maggiore
          pragmatismo e basati su considerazioni realistiche di fattibilità (policies),
          ed infine da processi relativamente spontanei in cui le istituzioni
          sottoposte a stress da adeguamento, realizzano processi spontanei di
          apprendimento istituzionale, sovente mutuato reciprocamente. E,
          infine, che le forme del mutamento istituzionale possano essere di tre
          tipi: quello che deriva dall’attività di manutenzione ordinaria;
          quello che deriva da esplicita attività di progettazione, concepita
          in astratto, con scopi determinati ma effetti imprevedibili; quello
          che va sotto la definizione di institutional building, e che
          deriva dalla costruzione deliberata, ma processuale, con risultati da
          raggiungere nel tempo e dotata di gradi maggiori o minori di
          interattività, interistituzionalità, flessibilità. 
           
          E) Che gli studi sull’attivazione necessiterebbero: 
           
          1) di verifiche circa la percorribilità e i risultati raggiunti dalle
          politiche di attivazione nell’area della protezione sociale, cui
          oggi viene richiesto (dopo quello compiuto negli anni Novanta dalle
          politiche del lavoro) il maggior sforzo di adeguamento ai nuovi
          principi. Ciò implica un chiarimento dei nuovi principi guida e la
          verifica dell’effettiva capacità delle agenzie preposte all’inserimento,
          di individuare soluzioni durature di emancipazione; 
           
          2) di una ricostruzione del quadro europeo, generale e differenziato,
          circa le forme e i gradi dell’adeguamento politico e istituzionale
          in atto; 
           
          3) di una ricostruzione dei percorsi, dei processi e delle dinamiche
          delle diverse modalità nazionali-locali del cambiamento
          (sollecitazioni stabilite dall’alto, processi spontanei,
          negoziazioni fra attori e istituzioni). 
           
          nell’area del coordinamento: 
           
          1) di una verifica dei gradi presenti di coerenza/incoerenza di
          mandato, logistica e organizzativa fra i due settori; 
           
          2) di una verifica dello stato dell’arte sul coordinamento; 
           
          3) di verifica delle impostazioni, delle potenzialità, delle
          difficoltà e delle resistenze al coordinamento. 
           
           
          Articoli collegati: 
          L’accento sulle differenze 
          L’Aristotele che è in noi
          (surfisti esclusi) 
            
        i e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti
        da fare? Scriveteci il vostro punto di vista cliccando qui 
        Archivio
        Attualita'  |