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L’accento sulle differenze



Maria Luisa Mirabile



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Questo saggio appare sul numero 2/2000 della Nuova Serie della rivista Filosofia e Questioni Pubbliche diretta da Sebastiano Maffettone, e fa parte di un forum su Workfare e Welfare. Per ulteriori informazioni potete collegarvi al sito della Luiss Edizioni  o scrivere all'indirizzo e-mail edizioni@luiss.it 

E' il frutto della rielaborazione di un progetto di ricerca recentemente presentato alla Ue per lo studio comparativo del cambiamento istituzionale nei sistemi di regolazione del mercato del lavoro e dell’assistenza sociale, cambiamento sollecitato, «dal basso» dai processi di trasformazione del lavoro e del rischio sociale, e «dall’alto» dalle istituzioni comunitarie stesse. L’autrice intende pertanto ringraziare F. Carrera e i partner stranieri del progetto stesso (in particolare Jean Claude Barbier, Dann Finn e Mathias Knuth) per gli apporti dati nel corso della stesura, rimanendo naturalmente responsabile in prima persona del testo e di ogni affermazione e tesi in esso contenute.

Un prologo e qualche considerazione

Gli anni Novanta vedono le istituzioni comunitarie europee impegnate in uno sforzo di ridefinizione tanto delle politiche del lavoro quanto di quelle assistenziali. L’intento, rivolto in un primo momento al settore delle politiche del lavoro, e solo in una fase successiva all’area della povertà e della lotta all’esclusione sociale, è stato di modificare profondamente le logiche dell’intervento sociale in entrambi i settori, ridefinendone principi e percorsi: prima il lavoro e poi il sussidio.
Il lavoro è stato dunque stato rivalutato, anche attraverso la leva del sistema fiscale e contributivo, e reso più vantaggioso rispetto alle somme sempre più modeste erogate in funzione dell’assistenza tradizionale; alla condizionalità lavorativa è stato inoltre dato un ruolo sempre più decisivo nella selezione per l’accesso al sostegno economico da parte dell’attore pubblico. Sempre più i bisognosi avrebbero conservato il diritto alla solidarietà pubblica a condizione di una partecipazione attiva ad iniziative proposte loro dall’Ufficio del lavoro o dalle strutture dell’Assistenza sociale.

Questa impostazione non è in effetti condivisa negli stessi termini da tutti i paesi europei. Come molti sanno, il principio della condizionalità al lavoro è stato abbracciato soprattutto dai paesi anglosassoni, mentre nei casi della Francia e dei paesi scandinavi si è verificata una consolidata opzione in favore del principio dell’inserimento, divenuto, in qualche modo, punto di riferimento delle innovazioni in campo assistenziale anche nei paesi del Sud-Europa. Ovunque però si è assistito alla nascita, o in alcuni casi allo sviluppo, sulla base di premesse già esistenti, di una vasta gamma di politiche di «attivazione»: un orientamento nel cui bacino si trovano ad insistere, non senza ambiguità, una gamma molto differenziata di programmi e di obiettivi, a loro volta riferiti ad un’ampia ed eterogenea platea di utenti.

Welfare to work, work to welfare, workfare, activation, insertion, contropartie sono alcuni dei termini utilizzati: di essi si fa un uso spesso sinonimo per alludere all’insieme o a singoli programmi indicativi delle trasformazioni in corso; un utilizzo in ogni caso sintomatico di non pochi problemi, fra cui - riteniamo - una certa faticosità del passaggio da una precedente distinzione delle missioni istituzionali fra i campi rispettivi delle politiche assistenziali e di quelle del lavoro, all’attuale fase contrassegnata dalla ricerca di soluzioni per l’integrazione fra i due settori. Una lancia va dunque certamente spezzata in favore dei tentativi di chiarificazione delle peculiarità semantiche di alcuni termini riferiti alle nozioni di inserimento, la denuncia dei limiti delle analisi globali, l’intenzione di contrastare la potenziale egemonia della nozione di workfare nei confronti delle politiche sociali europee, la presa in considerazione del radicamento sociale di ciascuna politica entro la storia e le concezioni nazionali innanzitutto dell’assistenza sociale, della solidarietà, del diritto, e dei diritti sociali.

Ian Gough, in un suo recente contributo, si sofferma su queste ambivalenze, in particolare sulla maggiore o minore ampiezza attribuita alla nozione di workfare da parte di autorevoli studiosi europei dei sistemi assistenziali, e distinguendo gli sviluppi Usa del workfare alla luce della nozione di underclass, e dunque all’«esigenza» di «sorvegliare e punire», dagli sviluppi europei della nozione di attivazione, la cui base teorica di riferimento è stata quella di esclusione sociale. Provvisoriamente comunque, a nostro avviso, fra tutti, il termine di «attivazione» potrebbe comunque essere, grazie alla sua capacità di definizione leggera, quello più idoneo a riferire in senso lato, e senza eccessive forzature, delle problematiche aperte e alle mutazioni istituzionali in corso nel campo delle politiche sociali europee.

Queste ultime, come dicevamo, sviluppando le politiche di sostegno al lavoro tramite il potenziamento dei servizi per l’impiego, l’articolazione e le maggiori remunerazioni degli impieghi poveri e socialmente sostenuti, hanno dato luogo ad iniziative finalizzate all’inserimento sociale e lavorativo dei soggetti particolarmente deboli e marginali, determinando profondi cambiamenti negli assetti gestionali di entrambi i settori. Lo sviluppo delle politiche attive comporta, nel settore delle politiche del lavoro, un crescente decentramento dei servizi per l’impiego ed un ruolo sempre più importante degli attori locali e delle parti sociali, tendenza che, oltre a migliorare l’efficacia delle iniziative, dovrebbe agevolare il contatto e l’integrazione con la componente extrapensionistica delle politiche assistenziali e di inserimento sociale, in alcuni casi, come l’Italia, già caratterizzate da una maggiore autonomia e diffusione territoriale.

Negli anni Novanta aumenta inoltre l’attenzione al possibile ruolo dei mercati intermedi (offerta di servizi sociali da parte del Terzo settore) nell’offrire opportunità di inserimento sociale e lavorativo alle fasce più deboli dell’offerta di lavoro (disabili e aree dello svantaggio sociale). C’è infine da dire, ed è un aspetto tutt’altro che secondario, che le nuove iniziative ruotano intorno a target simili di utenti, gli adulti più problematici, «disadattati» o poveri abili, nei confronti dei quali si reputa necessario che l’intervento pubblico privilegi la ricostituzione di capacità basilari di autosufficienza e di socialità, mirando ad esiti di occupabilità, più che di occupazione in senso stretto.

L’insieme di queste sollecitazioni ha quindi da ultimo comportato l’esigenza di un maggior coordinamento fra i due settori tradizionali dell’azione sociale, quello delle politiche del lavoro e quello assistenziale. Spesso ciò ha portato anche ulteriori riforme degli assetti istituzionali tanto nell’uno, quanto nell’altro ambito.

Ma il principio dell’attivazione sconta, nel settore assistenziale, oltre ad un più breve periodo di applicazione, significative ambiguità dovute - crediamo - alla notevole differenziazione delle culture nazionali soggiacenti ai diversi principi di «attivazione» adottati nei diversi paesi dell’Unione europea (oltreché, naturalmente, negli Usa, antesignani della versione workfare): articolazione ancora non sufficientemente indagata, che si rappresenta in parte anche attraverso la già citata confusione circa i termini delle politiche di volta in volta da identificare. Crediamo che, sotto il profilo dell’efficacia, che oggi si possa comunque sostenere che le politiche di attivazione abbiano realizzato esiti positivi nell’ambito delle politiche del lavoro, mentre i loro risultati restano ancora largamente inesplorati nel settore assistenziale, più complesso in termini di criteri valutativi, e contrassegnato da una maggiore brevità dell’esperienza complessivamente intesa.

Va a questo riguardo oltretutto considerata la maggiore problematicità generalmente espressa dalle scienze sociali circa le possibili evoluzioni in senso attivante delle politiche socio-assistenziali, a differenza di una riflessione molto più pragmatica, focalizzata su risultati immediatamente misurabili, che gli economisti hanno dedicato all’argomento per ciò che riguarda le politiche del lavoro. Oltretutto poi, evidentemente, l’idea dello scambio è insita in ogni forma di mercato, fra gli scienziati sociali si paventa il pericolo che l’attivazione condizionale possa dar luogo a forme moralmente insopportabili di controllo sociale, ovviando al dovere pubblico di garantire in ogni caso condizioni dignitose di esistenza ai cittadini più deboli.

In una foresta oscura

Come già accennato, l’attivazione nel campo delle politiche dell’assistenza inizia a suscitare tanto l’emergere di critiche relative alla legittimità morale di politiche sociali in cui l’erogazione del sostegno sociale sia condizionato all’adempimento di obblighi da parte del beneficiario, quanto - riteniamo - l’esigenza di ulteriori approfondimenti empirici sulle tipologie dei programmi in questione nei diversi paesi europei. Le ricerche comparative sull’argomento hanno perlopiù sviluppato approfondimenti su programmi omogenei per definizione, tipo gli Rmi, pure se ovviamente connaturati alle specifiche realtà nazionali. Ancora poco sviluppato è viceversa l’approccio degli «equivalenti funzionali», vale a dire quelle analisi comparative in cui il confronto fra le diverse policies nazionali presupponga l’identificazione di iniziative assimilabili sulla base delle loro finalità, dei gruppi target, dei tipi di limitazioni e di condizionalità, incentivazioni eccetera, con la massima attenzione ad evitare ogni forma di appiattimento delle culture sociali nazionali/locali di cui ciascuna policy esaminata sarà inevitabilmente espressione.

Per ciò che riguarda la preoccupazione relativa alla salvaguardia della tutela sociale di base in quanto diritto di cittadinanza, che si avverte minacciato dalla diffusione (e da una tendenziale egemonia anglosassone) delle forme condizionali di intervento, resta a nostro avviso sullo sfondo, alquanto sottovalutato, l’aspetto relativo alle attitudini e alle risorse istituzionali necessarie ad impostare le iniziative di attivazione: è realistico ipotizzare che ad una loro maggiore debolezza, e dunque ad una maggiore difficoltà a realizzare politiche di successo in termini di inserimento sociale, potrebbe corrispondere una prevalente attenzione al controllo burocratico delle condizioni di elegibilità per l’accesso ai programmi, piuttosto che alla messa in opera di occasioni di inserimento socialmente forti (per inciso: sulla base delle informazioni disponibili, questo sembra essere il primo paradigma sostanzialmente dimostrato alla luce della sperimentazione dell’Rmi in Italia, nei 39 Comuni oggetto dell’esperienza).

In altri termini, se gli approcci condizionali esprimono valenze coercitive di moralizzazione dei gruppi marginali, ritenuti costosi per la collettività e dei quali si presuppone la reticenza ad assumersi responsabilità individuali, nei confronti delle proprie famiglie, o della società nel suo insieme, specularmente ci sarebbe da chiedersi se e in che misura il problema morale intorno alla coercitività sussisterebbe qualora le misure di attivazione e di reinserimento registrassero tassi di elevato successo, se gli utenti dei servizi trovassero effettivamente un lavoro e poi rimanessero occupati, o se riuscissero a trovare con continuità nuovi lavori.

Forse l’enfasi sugli aspetti morali presuppone implicitamente che l’attivazione nella maggior parte dei casi non funzioni: e questo oltretutto può essere più frequentemente il caso di persone fortemente svantaggiate, più che il caso dei «semplici» disoccupati. O potrebbe darsi il caso che, mentre l’accento originariamente posto in Europa sulle politiche attive deriva dalla tradizione dei paesi nordici (fu data dalla Svezia, intorno agli anni Trenta, e l’Oecd ha successivamente reso popolare il concetto, ancora legato a qualche forma di keinesismo), oggi il pensiero dominante, notevolmente influenzato dal dibattito anglosassone, rischia di trascinare con sé l’esito paradossale di una generalizzazione delle critiche. Un tentativo di sbarramento utile forse nell’immediato, ai fini di caveat politici; dubbio a fini di più lungo periodo (assumo, evidentemente, che nell’attivazione ci siano componenti buone).

Certo, sappiamo che l’orientamento al workfare ha trovato negli ultimi anni una forte legittimazione nella pressione per il contenimento della spesa sociale, realizzabile, secondo alcuni, attraverso la riduzione del carico dovuto alla dipendenza dei più bisognosi dai sussidi. L’ipotesi di fondo, alquanto nota, è che i sussidi svolgano una funzione di disincentivo all’inserimento sociale e alla ricerca di lavoro, e che favoriscano quindi la permanenza nello stato di dipendenza. I requisiti d’accesso ai sussidi, siano essi di matrice assistenziale piuttosto che lavoristica, sono stati inaspriti, la loro durata è stata normalmente ridotta, e sono stati inoltre resi più stringenti i criteri per accertare le effettive attività di ricerca del lavoro, o per creare le condizioni di un inserimento lavorativo guidato dalle istituzioni pubbliche. Per ciò che riguarda in particolare i sussidi di disoccupazione, l’analisi comparativa ha rilevato che il loro inasprimento è avvenuto anche attraverso l’esclusione dei lavori temporanei e di quelli con orari inferiori a soglie prefissate; la durata del sussidio è stata in alcuni casi più strettamente legata al periodo di contribuzione, rafforzandone così la componente assicurativa.

Ma in altre esperienze è stato esattamente il contrario. Secondo, per esempio, i sostenitori delle politiche di attivazione basate sullo scambio contrattuale, dunque secondo i sostenitori delle politiche di inserimento sociale alla maniera dell’insertion francese, l’obbligazione non rappresenta un vincolo che pesa da una sola parte: essa impone un obbligo positivo sulla società stessa, invitandola a prendere sul serio i diritti, ed in particolare quella nuova tipologia di diritti sociali che viene da essi identificata in avanti rispetto all’idea di diritto sociale alla sussistenza, come «diritto all’inserimento», o come «diritto all’utilità sociale». Secondo questo punto di vista, fra il diritto sociale tradizionale e l’aiuto sociale paternalista, si apre la strada per un coinvolgimento reciproco dell’individuo e della società, da cui può scaturire una nuova visione del progresso sociale, a condizione di non incorrere nella tentazione di un controllo sociale rinnovato. Questa prospettiva introduce ciò che potremmo chiamare condizionalità leggera intesa come leva per indurre atteggiamenti partecipativi, o come agente per una presunta necessaria costrittività, cui i beneficiari delle politiche sociali vengono assoggettati per ottenere un più articolato sostegno pubblico, finalizzato al loro inserimento, e non più solo l’immediata, quanto ritenuta sterile, gratifica in denaro.

Qui le regole per l’elegibilità sono state trasformate per consentire alle persone in difficoltà di ottenere i benefici, o parte di essi, e per consentire l’accesso a lavori a tempo parziale o «speciali». È stato così per l’Rmi francese, apripista in questo senso, ma non solo. In diversi programmi l’inserimento corrisponde all’idea secondo cui l’aiuto sociale debba essere erogato sulla base di un contratto fra cittadino ed istituzioni pubbliche. I termini dei contratti di inserimento prevedono da un lato la disponibilità del soggetto in questione a partecipare ad un programma mirato alla propria emancipazione, dall’altro l’erogazione di un sostegno economico, che viene subordinato all’accettazione della suddetta clausola, nonché all’effettivo rispetto di quanto già sottoscritto. L’ipotesi di fondo è che il cittadino in difficoltà venga così sollecitato a progettare insieme all’istituzione pubblica un percorso di uscita dalla dipendenza, di inserimento sociale o lavorativo, di sviluppo della propria autonomia.


È infine il caso di rilevare come, secondo alcuni autori, la propensione verso l’uno o l’altro dei due aspetti nella realtà dei paesi europei con esperienze avanzate in tal senso - il contratto di inserimento o le restrizioni - sarebbe stata in concreto bilanciata da un ricorso integrato e da un collegamento fra i due termini del discorso.

Fate e fantasmi?

Ma ancora: è curioso notare come, secondo Michael Wiseman, dell’Urban Institute di Washington DC, i programmi Usa realmente ascrivibili alla nozione di workfare rappresentino solo una parte modestamente diffusa del complesso della politica di welfare nordamericana, la quale, nel suo insieme, si è decisamente mossa nella direzione di obbligare i richiedenti e i percettori di indennità a lavorare per diventare più autosufficienti. In particolare, invece, le proposte del workfare sarebbero sostenute dall’idea che lavorare nel settore pubblico e privato non profit, dunque in attività lavorative socialmente utili, permette il mantenimento e lo sviluppo degli skills preesistenti, la formazione di nuove capacità lavorative e, in generale, di una maggiore occupabilità dei soggetti coinvolti.

Il workfare sarebbe dunque una politica complessa (non un semplice «ramazzare foglie»), gestibile esclusivamente da parte di strutture pubbliche competenti e dotate di notevoli risorse organizzative, e rifletterebbe motivazioni molteplici, incluso l’activity fare, rivolta a target groups costituiti da soggetti delle età centrali con figli a carico. Ciò a differenza che in Europa, dove gli sforzi si concentrano verso i giovani o i disoccupati di lunga durata. Diversi programmi workfare Usa consistono in politiche di responsabilizzazione (o di attacco allo stile di vita, secondo i critici) dei genitori con figli a carico, dunque, come testimonia Orloff, frequentemente, di fatto, delle madri sole, appartenenti in genere a gruppi etnici con comportamenti sociali distanti da quelli comunemente espressi dalla middle class. Vale la pena da questo punto di vista menzionare come anche questa autrice, pure all’interno di una serie di accenti critici rivolti alla impositività delle recenti riforme dell’assistenza sociale Usa, rilevi spunti in favore di effetti emancipatori di queste politiche nei confronti delle donne appartenenti alla cosiddetta underclass.

Ma tornando agli aspetti ambigui dell’intera questione, qui intesi come agevole possibilità di tirare la coperta interpretativa da una parte o dall’altra, vogliamo riferirci, sia pure per cenni, all’esperienza del caso danese in cui, sin dai primi anni Novanta, sono stati sperimentati, con risultati positivi nell’ambito del mercato del lavoro e del sistema assistenziale riscontrabili attraverso gli incrementi nel numero della popolazione attiva e i decrementi dei tassi di disoccupazione e del numero di persone dipendenti dal sistema assistenziale.

Il caso danese è emblematico per il grado di coordinamento e di integrazione delle politiche del lavoro e dell’assistenza, riformate rispettivamente nel 1994 (con destinatari i percettori di indennità di disoccupazione) e nel 1996 (la legge sull’attivazione, rivolta a coloro che ricevevano il sussidio dall’assistenza sociale, cui si attribuiscono i sopra menzionati successi. Secondo l’analisi di Jensen, gli obiettivi comuni delle due riforme erano: a) di aiutare i gruppi più deboli e i disoccupati di lunga durata a rientrare nel mercato del lavoro; b) di ridurre al minimo i problemi di disoccupazione ed emarginazione; c) di migliorare il funzionamento del mercato del lavoro. Ma anche in questo caso sembrano essersi registrate alcune controversie sull’interpretazione delle due riforme. Ancora secondo Jensen, mentre alcuni studiosi hanno sostenuto che le riforme indicassero una transizione dal welfare al workfare, altri le hanno considerate come programmi che mettevano in grado l’individuo di raggiungere l’autorealizzazione e l’autonomia personale.

Gli studiosi sostenitori della «prospettiva workfare» ponevano l’accento sul fatto che l’attivazione sia comunque un dovere civico per il disoccupato, cosicché la nuova strategia di attivazione veniva da loro interpretata come l’obbligo morale al lavoro per ottenere i mezzi di sussistenza. Gli altri, sostenitori della prospettiva del «mettere in grado», hanno posto al contrario l’enfasi sul fatto che i disoccupati vengano direttamente coinvolti nella loro attivazione; e poiché, da questa prospettiva, l’attivazione del disoccupato deve partire dai suoi bisogni e desideri, si considera come le riforme del mercato del lavoro favoriscano l’autoriflessione: il disoccupato, coinvolto nella ridefinizione e nella ricerca di soluzioni per i suoi problemi, formula un nuovo modello di vita quotidiana.

Il coordinamento come lieto fine

La logica dell’attivazione è la precondizione del cambiamento istituzionale in atto, che ha anche motivato l’attuale esigenza di un coordinamento fra i due settori del mercato del lavoro e dell’assistenza sociale.

Le istituzioni (intese tanto come policies quanto come agenzie) dei due settori tendono probabilmente in maniera «naturale» verso una reciproca assimilazione di fini e di metodi (basti riflettere sullo sviluppo dei mercati sociali intermedi e del ruolo comunemente svolto dal Terzo settore in entrambi gli ambiti), rallentata da storie e strutture settoriali generalmente disomogenee, ma sollecitata sia dalle linee guida comunitarie, sia dai piani nazionali per l’occupazione (Nap) di entrambi i settori. In breve, le istituzioni di governo del lavoro e dell’assistenza sono chiamate a sviluppare una capacità di coordinarsi, in modo da sviluppare l’efficacia, attraverso - al minimo - una reciproca funzionalità, gli specifici interventi sviluppati nell’uno e nell’altro ambito.

Il coordinamento rappresenta dunque un tentativo di dare migliori risposte ad una domanda sociale variegata e mutevole. La logica settoriale degli interventi sociali lascerebbe così, almeno in parte, il posto a criteri integrati, come nei casi in cui i servizi sociali non riusciscono a far seguire il lavoro alla riabilitazione sociale, o in cui un inserimento lavorativo temporaneo non viene anche sostenuto da un più profondo intervento sul miglioramento dell’occupabilità del medesimo soggetto. C’è però che il coordinamento fra le politiche del mercato del lavoro e le politiche sociali è in effetti un’istanza recente, e dunque ancora poco sperimentata, ma ancor meno sistematicamente indagata. I suoi sviluppi riteniamo che potrebbero comunque dipendere dall’interazione fra una pluralità di fattori, fra cui:

- il ruolo delle politiche nazionali, da cui può venire più o meno esplicitamente identificato e più o meno fortemente perseguito l’obiettivo di una maggiore comunicabilità/interfacciamento fra i due settori. Crediamo che in tutti i paesi d’Europa questo sia un processo avviato, anche se con gradi differenziati di autoriflessività e di implementazione;

- gli effetti, diretti ed indiretti, di politiche specifiche, per loro stesse a cavallo fra i due settori, come è il caso, esemplare, degli Rmi;

- i processi di adeguamento spontaneo e funzionale degli stessi operatori istituzionali, in quanto spinte necessarie a livello locale, dovute all’esigenza di dare risposte credibili a target di utenza «misti» (disoccupati e «poveri abili»), la cui compartimentazione tradizionale in settori stagni stenta a reggere il passo dell’incessante crescita della complessità sociale;

- l’accelerazione impressa ai processi di integrazione dovuta agli «aggiustamenti» fra le diverse agenzie (enti locali e privato-sociale), attive nella messa in campo dei relativi servizi.

Ricapitolando

A) Entrambi i settori, del mercato del lavoro e dell’assistenza, tendono ad una reciproca assimilazione, creando una sorta di mix istituzionale che tende a gestire le tradizionali aree di intervento. A nostro avviso, questo tipo di evoluzione deriva tanto dalle sollecitazioni europee, quanto da una minore riconoscibilità, rispetto al passato, degli specifici target di utenza dei gruppi elegibili per i diversi tipi di intervento sociale (minore distinguibilità dovuta alle trasformazioni del rischio sociale, cambiato da lineare a multicausale e complesso). Pesa decisamente l’esigenza, dichiarata insistentemente da entrambi i settori considerati, di ridurre tanto la durata quanto l’intensità della dipendenza dei disoccupati e dei poveri dall’intervento pubblico. Questo punto è molto importante per la riflessione. Infatti il suddetto mix corrisponde a quello che frequentemente viene definito workfare o welfare to work. Esso tende a sempre più a riguardare non solo i gruppi marginali, ma più ampi gruppi di disoccupati a causa della limitatezza delle politiche di job creation.

È perciò verosimile ipotizzare che le istituzioni e le politiche si trovino ad attraversare una fase di stress da adeguamento forzato, dovuto tanto alla sollecitazione diretta di nuove politiche nazionali nei diversi stati membri, quanto alla nascita di nuove, volontarie, sinergie o a commistioni sollecitate dalle esigenze dirette di intervento sul piano locale, fra gli interventi preposti alla gestione del mercato del lavoro e di quelli finalizzati all’inserimento sociale dei soggetti più marginali. Va in ogni caso rilevato che la riduzione della dipendenza è gestito in maniere differenti e specifiche nei diversi paesi in relazione alle diverse culture e regimi di welfare di riferimento.

B) Siamo in una fase di intenso «institutional building», motivato dal cambiamento sociale in atto e sollecitato dalle Istituzioni comunitarie, finalizzato alla ricerca di soluzioni sostenibili a quelle che sono state identificate, nel contesto anglosassone, come situazioni di «dipendenza sociale».

L’analisi dei riassetti istituzionali in corso nei diversi paesi diviene dunque in questa fase particolarmente necessaria per poter disporre di griglie di monitoraggio dell’evoluzione in corso e di una capacità valutativa di come i riassetti adottati rispondano sotto il profilo tanto dell’efficacia quanto dell’efficienza alle attuali tipologie della domanda sociale. Riteniamo pertanto che azioni costanti di monitoraggio e «carotaggi» valutativi del processo di riorganizzazione istituzionale in atto sarebbero decisivi per capire i differenti tipi di soluzioni in corso di implementazione nei diversi paesi.

C) La principale letteratura sulla modellistica dei sistemi di welfare suggerisce che gli orientamenti delle politiche di attivazione e di workfare dovrebbero riflettere i cosiddetti «welfare regimes» delle quattro «Europe sociali», vale a dire le logiche di tutela e di promozione sociale, gli stili organizzativi e le modalità di erogazione dei benefici presenti nelle famiglie dei paesi scandinavi, dei paesi anglosassoni, dei paesi continentali e dell’Europa mediterranea. Sembra però che questa articolazione, ormai paradigmatica, resti poco utilizzata nelle analisi delle diverse logiche ispiratrici delle politiche di attivazione, e che le riflessioni più interessanti siano comunque troppo concentrate a contrastare il pericolo dell’egemonia dell’approccio anglosassone al workfare. Riteniamo al contrario che alla nota modellizzazione, elaborata nel tempo sulla base del riscontro delle logiche e dei funzionamenti dei paesi con sistemi normativi e culturali affini, andrebbe oggi anche associata un’analisi che tenga conto del grado di assimilazione/giustapposizione fra i diversi raggruppamenti e sistemi-paese, dovuta al cosiddetto «fattore Europa», quanto alle soprannominate analoghe esigenze espresse della domanda sociale nei diversi paesi proprio per rafforzare quel che di buono c’è nell’attivazione «buona».

D) Il monitoraggio e la valutazione delle diverse soluzioni nazionali adottate (o di prossima adozione) rappresentano una condizione fondamentale per gli sviluppi dei sopra citati orientamenti europei. A questo proposito, una delle ipotesi alla base del progetto è che le stesse nozioni utilizzate nella valutazione dei processi e degli output delle politiche sociali (come, ad esempio, quelle di efficacia e di efficienza) siano a loro volta costruzioni sociali, che implicano - di conseguenza - significati, parametri e performance diversi da un «ambiente» culturale/nazionale all’altro: ciò comporterebbe che la comunità scientifica elaborasse una griglia di comparabilità dei programmi e delle politiche nazionali, basata su un’analisi preventiva dei linguaggi e del discorso politico sull’argomento, sviluppata in una prospettiva storica.

Per ciò che riguarda in particolare l’analisi delle trasformazioni istituzionali, le nostre ipotesi sono che: le istituzioni siano largamente il risultato di strutturazioni normative delle forme sociali e che il loro tipo di evoluzione derivi soprattutto dalla natura della comunicazione sociale vigente, che a sua volta si basa su conflitti, compromessi, negoziazioni, poteri, gerarchie, aspettative, timori, processi di apprendimento, capacità negativa. Che le trasformazioni istituzionali possano derivare da matrici diverse: da processi di trasformazione stabiliti dall’alto e guidati in maniera programmatica (politics), da processi orientati da un maggiore pragmatismo e basati su considerazioni realistiche di fattibilità (policies), ed infine da processi relativamente spontanei in cui le istituzioni sottoposte a stress da adeguamento, realizzano processi spontanei di apprendimento istituzionale, sovente mutuato reciprocamente. E, infine, che le forme del mutamento istituzionale possano essere di tre tipi: quello che deriva dall’attività di manutenzione ordinaria; quello che deriva da esplicita attività di progettazione, concepita in astratto, con scopi determinati ma effetti imprevedibili; quello che va sotto la definizione di institutional building, e che deriva dalla costruzione deliberata, ma processuale, con risultati da raggiungere nel tempo e dotata di gradi maggiori o minori di interattività, interistituzionalità, flessibilità.

E) Che gli studi sull’attivazione necessiterebbero:

1) di verifiche circa la percorribilità e i risultati raggiunti dalle politiche di attivazione nell’area della protezione sociale, cui oggi viene richiesto (dopo quello compiuto negli anni Novanta dalle politiche del lavoro) il maggior sforzo di adeguamento ai nuovi principi. Ciò implica un chiarimento dei nuovi principi guida e la verifica dell’effettiva capacità delle agenzie preposte all’inserimento, di individuare soluzioni durature di emancipazione;

2) di una ricostruzione del quadro europeo, generale e differenziato, circa le forme e i gradi dell’adeguamento politico e istituzionale in atto;

3) di una ricostruzione dei percorsi, dei processi e delle dinamiche delle diverse modalità nazionali-locali del cambiamento (sollecitazioni stabilite dall’alto, processi spontanei, negoziazioni fra attori e istituzioni).

nell’area del coordinamento:

1) di una verifica dei gradi presenti di coerenza/incoerenza di mandato, logistica e organizzativa fra i due settori;

2) di una verifica dello stato dell’arte sul coordinamento;

3) di verifica delle impostazioni, delle potenzialità, delle difficoltà e delle resistenze al coordinamento.


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