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Alcuni contributi dell’analisi economica



Elena Granaglia



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Alcuni contributi dell’analisi economica


Questo saggio appare sul numero 2/2000 della Nuova Serie della rivista Filosofia e Questioni Pubbliche diretta da Sebastiano Maffettone, e fa parte di un forum su Workfare e Welfare. Per ulteriori informazioni potete collegarvi al sito della Luiss Edizioni  o scrivere all'indirizzo e-mail edizioni@luiss.it 

Introduzione

In ambito di etica pubblica, la riflessione sul workfare, ossia, sull’introduzione di un obbligo al lavoro quale condizione per accedere ai trasferimenti da parte di chi è in grado di lavorare, verte, come è presumibile, su questioni di legittimità etica. Da un lato, vi sono coloro, come Van Parijs, che ritengono il workfare illegittimo, in quanto imporrebbe un valore di buona vita, quella dove il lavoro è considerato una virtù. Il che sarebbe in contrasto con la giustizia, richiedendo la giustizia di distribuire diritti e doveri nelle relazioni fra individui indipendentemente dai piani di vita individuale, pena la violazione delle libertà dei singoli a seguire tali piani e, con essi, le proprie e specifiche concezioni del bene. Dall’altro, vi sono coloro che, pur condividendo tale concezione di giustizia, considerano il lavoro come un dovere che, lungi dal costituire una virtù, rappresenta la contropartita legittima dei diritti di cittadinanza.

Al tempo stesso, la discussione tende a essere effettuata nel contesto dei trasferimenti universali, ossia, il contrasto tende a essere fra reddito di cittadinanza (o di base) - che prescinde da qualsiasi vincolo in termini di lavoro - e reddito di partecipazione - che impone l’obbligo al lavoro. Anche qualora a essere considerati siano trasferimenti selettivi, nessuna distinzione viene, comunque, effettuata fra il ruolo che il workfare può giocare nelle due prospettive, venendo estese alla prospettiva selettiva le stesse considerazioni applicabili alla prospettiva universale.

L’economia, invece, permette di esaminare il contributo specifico che il workfare può offrire in quanto antidoto ai disincentivi al lavoro e al risparmio tipici dei trasferimenti selettivi. In tal modo, l’analisi economica mette in luce alcuni possibili benefici del workfare sottovalutati dalla riflessione filosofica. L’analisi economica sottolinea altresì alcuni costi e, con essi, scelte aggiuntive, oltre quelle connesse alla presenza o meno di un valore di buona vita, che vanno affrontate qualora si decida di intraprendere la via del workfare.


Trasferimenti universali vs. trasferimenti selettivi.
Alcune chiarificazioni concettuali.

Prima di entrare nel merito dell’argomentazione, una chiarificazione concettuale sui diversi schemi di trasferimento di reddito (a prescindere dalla presenza di un obbligo al lavoro). Tali schemi, siano essi universali o selettivi, possono prevedere l’integrazione fra i trasferimenti e l’imposta, ossia, richiedere il bilancio in pareggio, oppure possono essere erogati da agenzie amministrative allo scopo deputate, a prescindere da qualsiasi riferimento alle modalità di finanziamento. L’integrazione fra trasferimenti e imposta avrebbe il merito di tenere conto sia del complesso degli effetti distributivi, siano essi collegati ai trasferimenti o all’imposta, sia dei vincoli di autosostenibilità finanziaria dei programmi. La non integrazione permetterebbe, invece, una maggiore flessibilità nei programmi.

Ciò premesso, rispetto ai trasferimenti universali, concentriamo l’attenzione sul solo schema integrato costituito dal dividendo sociale. In tale schema, i trasferimenti corrispondono a un sussidio S, esente da imposta a beneficio di tutti i soggetti, i quali hanno poi l’obbligo di pagare le imposte sul complesso dei redditi eventualmente guadagnati, ossia, sul cosiddetto reddito originario. Il reddito disponibile, Rd, corrisponderebbe, dunque, a S + Ro(1-t), dove t è l’aliquota media dell’imposta e Ro è il reddito originario.

S è una percentuale s del reddito medio Rm, ossia S coincide con sRm. Affinché il sistema sia in grado di autofinanziarsi, s deve essere eguale a t, ossia, l’aliquota media del prelievo deve essere pari alla percentuale del reddito medio che si vuole assicurare sotto forma di sussidio. Il reddito medio, nella prospettiva del dividendo sociale, rappresenta il cosiddetto reddito di equilibrio (o break-even point).

In generale, il reddito d’equilibrio è quel reddito il possesso del quale rende gli individui indifferenti rispetto alla presenza o meno di uno schema di trasferimenti. In altri termini, chi possiede il reddito d’equilibrio mantiene esattamente lo stesso reddito disponibile, sia che lo schema sia posto in essere sia che non lo sia. Nella prospettiva del dividendo sociale, più in particolare, tal reddito si sostanzia nel livello di reddito in coincidenza del quale il valore del sussidio per il singolo è esattamente eguale a quello delle imposte che il singolo stesso paga. Se il reddito d’equilibrio fosse superiore al reddito medio, lo schema sarebbe in passivo, se fosse inferiore, sarebbe in attivo. I soggetti che guadagnano un reddito inferiore a quello medio sono beneficiari netti, mentre chi guadagna un reddito superiore paga un ammontare di imposte superiore al trasferimento.

Rispetto ai trasferimenti selettivi, vale, invece, la pena considerare entrambe le opzioni dell’integrazione e della non integrazione. Lo schema integrato, nella prospettiva selettiva, prende il nome di imposta negativa. Con l’imposta negativa, chi non guadagna alcun reddito riceve un reddito minimo, che corrisponde anche al valore massimo del sussidio, sul quale non paga alcuna imposta. Chi guadagna un reddito superiore a quello minimo, ma inferiore a quello di equilibrio, continuerebbe a ricevere un sussidio, seppur di dimensioni ridotte rispetto a chi non ha alcun reddito originario, e continuerebbe a non pagare le imposte. Chi avesse, invece, redditi superiori non riceverebbe alcun sussidio e pagherebbe le imposte sulla parte di reddito eccedente il reddito d’equilibrio.

Nella prospettiva dei trasferimenti selettivi, il reddito d’equilibrio assume la configurazione di reddito soglia, Rs: vale a dire, rappresenta la soglia al di sotto della quale si riceve il sussidio e al di sopra della quale si paga l’imposta. Più in particolare, se s corrisponde all’aliquota dell’imposta negativa (ossia, del sussidio) e t a quella dell’imposta positiva (da pagare), l’imposta negativa In è pari a s(Rs-Ro), mentre l’imposta positiva, T, è pari a t(Ro-Rs). Il reddito disponibile, Rd sarà allora pari a Ro+s(Rs -Ro), per chi è al di sotto del reddito soglia, e a Ro-t(Ro-Rs), per chi ne è al di sopra.

Un esempio numerico può essere utile. Assumendo Ro = 0; Rs = 5000 e s = 70 per cento, il reddito disponibile, Rd sarà 0+.7(5000-0), ossia, 3500, che costituisce anche il livello minimo di reddito da assicurare a tutti. Se, invece, il soggetto guadagnasse 3000, il reddito disponibile sarebbe 3000+.7(5000-3000), ossia, 4400. È evidente che, in presenza di un Ro pari a 5000, Rd sarà esattamente pari a 5000.

Lo schema non integrato è costituito dal reddito minimo garantito che, perlomeno nella forma pura, si contraddistingue per l’obiettivo di assicurare a tutti i soggetti con redditi originari al di sotto di una determinata soglia, il reddito pari alla soglia stessa. Ad esempio, se la soglia è fissata a 5000, tutti i soggetti avranno 5000, con la conseguenza che un soggetto che non disponga di alcun reddito originario riceverà 5000, mentre un soggetto che disponga di 2000, riceverà 3000.

In realtà, le distinzioni sono un po’ più complicate. Innanzitutto, anche il reddito minimo garantito potrebbe essere erogato in modo graduato, lasciando a chi guadagna di più un reddito disponibile maggiore di quello che otterrebbe non lavorando. La via, in questa direzione, è quella di considerare, ai fini della determinazione dei trasferimenti, una percentuale del reddito originario, anziché l’intero ammontare. Il reddito disponibile diverrebbe Rmg+Ro(1-p), dove Rmg è il reddito minimo garantito e p è la percentuale del reddito originario computata ai fini dell’individuazione del sussidio.

Così procedendo, la struttura del reddito minimo garantito verrebbe a corrispondere a quella dell’imposta negativa. Nella prospettiva dell’imposta negativa, infatti, il reddito disponibile per coloro che sono al di sotto del reddito soglia è Ro+s(Rs-Ro). Il che può essere trasformato in sRs+Ro(1-s) che, appunto, coincide con Rmg+Ro(1-p). Se p=s e Rmg=sRs medesimo sarà anche l’impatto distributivo dei due trasferimenti.

Tornando ai valori dell’esempio numerico relativo all’imposta negativa, assumiamo p=70 per cento e Rmg=3500. Se un soggetto non disponesse di alcun reddito originario, lo schema di reddito minimo garantito gli assicurerebbe 3500. Se, però, disponesse di un reddito originario di 2000, il trasferimento scenderebbe a 2100, che rappresenta la differenza fra 3500 e il 70 per cento di 2000. Se, invece, il soggetto guadagnasse 5000, verrebbe meno qualsiasi trasferimento, equivalendo il 70 per cento di 5000 a 3500, ossia, al livello di reddito minimo garantito. Come risulta evidente, la situazione distributiva sarebbe la stessa che si verificherebbe con l’imposta negativa.

Considerazioni simili valgono per l’imposta negativa e il dividendo sociale. Al riguardo, si consideri l’imposta positiva a carico dei più abbienti nella prospettiva dell’imposta negativa. Come sopra indicato, essa è t(Ro-Rs). Il che è strutturalmente identico all’imposta da pagare nella prospettiva del dividendo sociale, ossia, tRo-S. Inoltre, se sRs e S avessero lo stesso valore e lo stesso fosse il valore di s e di t per entrambi i tipi di trasferimento, lo stesso sarebbe anche l’impatto distributivo. Riprendendo i valori utilizzati negli esempi precedenti, supponiamo che Rs sia 5000, che s e t, per entrambi i trasferimenti, siano 20 per cento e che vi siano due individui, con redditi originari rispettivamente di 3000 e di 7000. Con l’imposta negativa, certamente, il primo soggetto riceverebbe 400 e il secondo pagherebbe 400 di imposta, mentre con il dividendo sociale, tutti e due riceverebbero 1000, il primo pagherebbe 600 e il secondo ben 1400. In entrambi i casi, però, i due soggetti resterebbero con il medesimo reddito disponibile, rispettivamente di 3400 e di 6600. Dunque, cambierebbero i flussi del dare e dell’avere, ma il risultato finale, in termini di impatto distributivo, resterebbe il medesimo.

Dovremmo allora concludere che non vi è alcuna differenza fra i diversi schemi di trasferimento? Per quanto riguarda la contrapposizione fra imposta negativa e reddito minimo, ritengo che, a parte il diverso schema di erogazione, la risposta debba essere affermativa. Più complicata è la risposta per quanto concerne la contrapposizione fra universalismo e selettività. Da un lato, le considerazioni appena svolte portano alla luce la superficialità e la genericità con le quali i termini di selettività e universalità sono spesso utilizzati nel dibattito corrente, dove le possibili somiglianze fra le due prospettive sono del tutto ignorate. Dall’altro lato, però, non mi paiono convincenti posizioni, come quella di Barr, che propongono di abolire il riferimento alla selettività, sostituendolo con quello alle politiche correlate al reddito. L’assunto, al riguardo, è che, se per schemi selettivi si intendono schemi basati su una prova dei mezzi (means tested), anche le imposte correlate al reddito sarebbero selettive, prelevando quantità di imposte crescenti al crescere del reddito. Ad esempio, sarebbero selettive anche imposte, come quelle proporzionali, che sono correlate al reddito. La mia posizione è che, così procedendo, si perderebbe qualcosa che è implicito nell’accezione comunemente attribuita alla selettività, ossia, il trattarsi di politiche che prevedono benefici limitati agli individui o alle famiglie meno abbienti.

Mi sembra, dunque, utile mantenere il riferimento alle politiche selettive come politiche basate su una prova dei mezzi, integrandolo, però, con un riferimento alla natura del beneficio. Vale a dire, la qualificazione di selettive si applicherebbe unicamente alle politiche di trasferimento di risorse, che comportano un beneficio esclusivo o addizionale a favore di individui o famiglie selezionate sulla base di una prova dei mezzi.

L’imposta negativa sarebbe selettiva in quanto permette di differenziare l’aliquota del trasferimento da quella dell’imposta che i più ricchi devono pagare, ossia, di alzare la prima e abbassare la seconda, così permettendo di concentrare il trasferimento sui più poveri. Poiché non ha senso affermare un maggior impatto distributivo se non a parità di onere finanziario dei due schemi, il maggiore trasferimento ai poveri sarebbe compensato da una diminuzione dei soggetti coinvolti, ossia, la differenziazione delle aliquote si accompagnerebbe a una diminuzione del reddito di equilibrio.

Gli effetti sul lavoro (e sul risparmio)

Dal punto di vista economico, il problema centrale, con i trasferimenti di reddito, è costituito dai disincentivi al lavoro e al risparmio. Concentrando l’attenzione sui soli disincentivi al lavoro (le stesse argomentazioni sono applicabili al risparmio, considerando al posto del lavoro il risparmio e a quello dell’ozio il consumo presente), tutti i trasferimenti di reddito, qualsiasi sia la loro forma, ingenerano un effetto di reddito negativo in capo ai beneficiari: avendo più risorse, questi ultimi saranno disposti a lavorare di meno. L’effetto di reddito, a sua volta, sarà tanto maggiore quanto maggiore è l’ammontare del trasferimento.

Ai disincentivi causati dall’effetto di reddito, i trasferimenti selettivi aggiungono i disincentivi causati dall’effetto di sostituzione. Diversamente dai trasferimenti universali, i trasferimenti selettivi alterano, infatti, il prezzo dell’ozio rispetto a quello del lavoro, rendendo l’ozio più conveniente e il lavoro meno remunerativo, dunque, inducendo a diminuire l’offerta di lavoro, perlomeno nell’economia legale. In altri termini, i trasferimenti selettivi incentivano comportamenti opportunistici di azzardo morale, qualora l’effetto sia una diminuzione dell’offerta di lavoro, e vera e propria frode, qualora l’effetto sia l’ingresso/permanenza nell’economia sommersa.
I disincentivi connessi all’effetto sostituzione si estendono all’eventuale coniuge, qualora la soglia sia stimata con riferimento alle risorse complessivamente detenute dal nucleo familiare e l’ingresso del coniuge nel mercato del lavoro, comportando redditi aggiuntivi, comporti anche una diminuzione o addirittura un annullamento dei trasferimenti. Ancora, i disincentivi sono tanto maggiori quanto più numerosi sono i programmi di trasferimento selettivo. Più tali programmi aumentano, più, infatti, aumentano i benefici cui si ha diritto non lavorando, dunque, più aumenta il costo di lavorare rispetto a oziare.

La conseguenza, da un lato, è la creazione di quella che Weisbrod definisce un’inefficienza verticale nella distribuzione: vale a dire, accedono ai trasferimenti anche soggetti che poveri non sono. Più in particolare, l’inefficienza verticale deriva, in questo caso, da un problema di autoselezione, accedendo al programma i cosiddetti falsi positivi, ossia, «impostori» che si autorivelano come bisognosi pur avendo le abilità per lavorare. Il che rappresenta una violazione della più generale target efficiency, intendendosi per target efficiency una selezione dei destinatari coerente rispetto a quella desiderata. Dall’altro lato, è la creazione, per l’insieme dei soggetti coperti dai programmi, di vere e proprie trappole di disoccupazione o, quanto meno di povertà, qualora gli individui, pur lavorando, offrano meno lavoro di quanto offrirebbero in assenza dei trasferimenti, con effetti negativi in termini di prevenzione della povertà, anche sui figli. Emblematici, al riguardo, sono i dati sulla diminuzione delle remunerazioni per coloro che, usciti dal mercato del lavoro, vogliano rientrarvi. Le trappole, in quanto fonte del problema che le politiche dovrebbero attaccare, rappresentano un chiaro esempio di effetto perverso.

Se, tradizionalmente, l’analisi economica si è concentrata sul ruolo degli incentivi e dei disincentivi, soprattutto negli ultimi anni, un’attenzione crescente va indirizzandosi all’influenza delle politiche sulla natura delle preferenze. Mi spiego meglio. L’analisi che fa leva sugli effetti di reddito e di sostituzione vale indipendentemente dalle preferenze dei singoli. L’assunto è che, se gli individui sono razionali e il lavoro implica disutilità e l’ozio utilità, allora politiche che diminuiscono i benefici derivanti dal lavoro saranno anche politiche che favoriscono la diminuzione dell’offerta di lavoro. Si tratta di una semplice valutazione costi-benefici, che vale per qualsiasi bene normale: se il prezzo di un bene diminuisce e aumenta quello di un altro, gli individui aumentano il consumo del primo e diminuiscono quello del secondo. A essere influenzato è essenzialmente il comportamento, non le preferenze.

Le politiche potrebbero, però, influenzare anche la natura delle preferenze. Ad esempio, sapere che, qualsiasi sia il nostro comportamento, riceveremo sempre le risorse necessarie per vivere potrebbe, nel tempo, accrescere la disaffezione nei confronti del lavoro - in altri termini, potrebbe aumentare la disutilità del lavoro. L’etica del lavoro risulterebbe così indebolita a favore dello sviluppo di una cultura della dipendenza (dai trasferimenti), che perpetua essa stessa l’assenza di risorse cui le politiche dovrebbero sopperire. Non solo: a essere indotta potrebbe essere una più complessiva deresponsabilizzazione nei confronti dei costi delle scelte effettuate. Il che, di nuovo, varrebbe per tutti i trasferimenti, compresi quelli universali. I trasferimenti selettivi accentuerebbero, però, tale tendenza (proprio per l’effetto di sostituzione ad essi connesso). Aggiungo che più le preferenze vengono a modificarsi nelle direzioni indicate, più difficoltosa diventa la strada degli incentivi.

Si potrebbe obiettare che i programmi selettivi hanno, al loro interno, alcuni antidoti. Una prima possibilità è quella di abbassare al di sotto del 100 per cento il cosiddetto replacement rate - d’ora in avanti, il tasso di sostituzione - che rappresenta il rapporto fra quanto si ottiene se non si lavora e quanto si ottiene lavorando. Si sussidierebbe, così, il lavoro, permettendo a chi lavora di non perdere interamente il sussidio. Una tale considerazione porterebbe sia all’abbandono del reddito minimo non graduato - che ha un tasso di sostituzione del 100 per cento - sia a un contenimento nel numero dei programmi selettivi, nel riconoscimento che la presenza di più programmi selettivi potrebbe comportare tassi di sostituzione superiori all’unità.

L’imposta negativa e il reddito minimo graduato sono già strutturati sulla base di un tasso di sostituzione inferiore al 100 per cento, rendendo disponibile, per chi lavora, un reddito superiore a quello che si otterrebbe rinunciando a lavorare. Anche in questa prospettiva, però, gli effetti sul lavoro dipendono da quanto il tasso di sostituzione viene abbassato, vale a dire, dal valore di s, per l’imposta negativa, e di p, per il reddito minimo garantito. Tanto minori sono tali valori, tanto minori saranno i disincentivi a non lavorare, tanto meno diminuendo il trasferimento al crescere del reddito originario. Ad esempio, s eguale a 70 per cento implica che all’aumentare del reddito, il sussidio diminuisce del 70 per cento e, di converso, il reddito disponibile aumenta solo del 30 per cento. Se, invece, s diminuisse al 30 per cento, i valori sarebbero invertiti: il sussidio diminuirebbe solo del 30 per cento e il reddito disponibile aumenterebbe del 70 per cento.

Una seconda possibilità, relativamente all’obiettivo di non disincentivare il lavoro da parte del coniuge con minore capacità di reddito, è quella di considerare, ai fini della prova dei mezzi, solo una percentuale del reddito da quest’ultimo guadagnato. Oppure, come avviene in Australia per i sussidi di disoccupazione, si potrebbe considerare il reddito del redditiere più basso solo qualora quello del redditiere più elevato ecceda un determinato ammontare. Addirittura, si potrebbe procedere alla individualizzazione della soglia.

Ancora, si potrebbe obiettare che le considerazioni sopra esposte poggino su una concezione delle preferenze individuali, secondo cui l’unico beneficio del lavoro sarebbe il reddito prodotto. Nella prospettiva degli incentivi e dei disincentivi, la soluzione è, infatti, quella di sussidiare il lavoro, ossia, di incrementare la remunerazione del lavoro. Similmente, in quella dell’influenza dei trasferimenti sulle preferenze è la maggiore disponibilità di reddito a seguito dei trasferimenti, a intensificare la disutilità del lavoro. Il lavoro potrebbe, invece, essere fonte anche di utilità, a prescindere dal reddito a esso associato. Come sostiene Moffit, ad esempio, gli individui potrebbero essere interessati alla provenienza del reddito, preferendo un po’ meno reddito, ma originato nel mercato, rispetto a livelli più elevati, ma generati da trasferimenti pubblici ritenuti fonte di stigma. Se così fosse, le preferenze stesse attenuerebbero il peso dei disincentivi. Il che dovrebbe condurre a considerare con cautela gli eventuali comportamenti di non offerta di lavoro, dato che, a ostacolare il lavoro, anziché considerazioni di convenienza economica, potrebbero essere i vincoli cui sono soggetti gli individui, primi fra tutti quelli costituiti dalle responsabilità di cura.

Non solo. In presenza di stigma, il problema dell’autoselezione potrebbe diventare quello opposto dei falsi negativi, ossia, di individui che si autoselezionano come non poveri, anche se, in realtà, sono poveri. Il risultato sarebbe, dunque, un altro problema di target efficiency, questa volta in termini di inefficienza orizzontale: vale a dire, esisterebbero poveri che non ricevono l’ammontare di risorse ritenuto desiderabile.

L’insieme di queste osservazioni non appare, però, del tutto convincente. Gli antidoti connessi alla diminuzione del tasso di sostituzione non solo non sono privi di costi, ma neppure paiono in grado di neutralizzare i disincentivi. Diminuire s o p, come abbiamo visto, significa sussidiare il lavoro e ciò comporta un costo per l’erario, tanto maggiore quanto maggiore è la disutilità del lavoro. Addirittura, nell’ipotesi limite in cui la disutilità del lavoro sia superiore al valore del prodotto marginale del lavoro, sarebbe preferibile che i destinatari dei trasferimenti non lavorino, pena esborsi finanziari superiori ai benefici.

Al tempo stesso, a parità di reddito soglia, la diminuzione di s o di p comporta, inevitabilmente, una diminuzione del reddito minimo. La soluzione, per evitare questa conseguenza, sarebbe quella di aumentare il reddito soglia. Il problema è che a ogni incremento nel livello di equilibrio corrisponde un aggravio sia del costo di finanziamento del programma sia dei pericoli di inefficienza verticale.
Due sono le ragioni, a quest’ultimo riguardo. La prima è che aumenterebbero gli incentivi all’autoselezione da parte degli impostori. Il risultato finale potrebbe, addirittura, essere la diminuzione complessiva nell’offerta di lavoro, qualora l’incremento nell’offerta di lavoro da parte dei destinatari originari delle politiche sia insufficiente a compensare la diminuzione dell’offerta di lavoro da parte dei nuovi soggetti indotti a entrare nel programma dall’incremento del reddito soglia. Secondo Levy e Moffit, sarebbe questo l’esito delle politiche rivolte alle madri capofamiglia, a causa della rigidità nell’offerta di lavoro da parte di tale gruppo. Il che rappresenterebbe un altro effetto perverso, dato che un meccanismo teso a incentivare il lavoro verrebbe a produrne una diminuzione. La seconda è che ogni aumento del reddito soglia oltre il livello di povertà implica l’istituzionalizzazione stessa dell’inefficienza verticale, nel senso che l’accesso da parte dei non poveri sarebbe sancito dalle stesse disposizioni legali (anziché essere soltanto l’esito dei processi di autoselezione).

Considerazioni simili si applicano alle misure rivolte a una qualche individualizzazione della soglia che ad altro non equivalgono se non a un aumento del reddito soglia. Nell’ipotesi della totale individualizzazione della soglia, verrebbero, altresì, a sottovalutarsi i vantaggi derivanti dalla comunanza delle risorse per chi vive in famiglia. Ancora, anche muovendosi nella direzione di una riduzione della cumulabilità dei trasferimenti selettivi, resta il fatto che anche un unico programma selettivo continuerebbe a essere inficiato dai disincentivi. Al tempo stesso, se è vero che il lavoro potrebbe essere fonte di utilità, a prescindere dal reddito, resta incontrovertibile che, soprattutto per i lavori a bassa qualificazione, l’eventuale utilità extrareddituale non appare, in media, in grado di contrastare i disincentivi al lavoro.

Proprio in questi effetti negativi risiede una delle ragioni principali a favore dei trasferimenti universali. Se è vero che questi ultimi inducono a una minore riduzione nell’offerta di lavoro da parte dei beneficiari, altrettanto è, però, vero che sono assillati dai disincentivi in capo a chi li finanzia, inducendo sulle imposte un effetto sostituzione negativo a danno della base imponibile tassata. Se questa consiste nel lavoro, il risultato è un aumento del costo del lavorare rispetto all’oziare, esattamente come avviene per i beneficiari dei trasferimenti selettivi - l’unica differenza è che l’aumentato onere è a carico di chi finanzia. Naturalmente, i disincentivi al lavoro posti in essere dalla presenza di imposte esistono anche nella prospettiva dei trasferimenti selettivi - necessitando anche tali trasferimenti di essere finanziati. Il punto è che i trasferimenti universali, implicando un costo finanziario superiore, ne accentuano l’entità.

L’affermazione potrebbe risultare in contrasto con quanto sopra scritto relativamente all’identità fra imposta negativa e dividendo sociale e va chiarita. Se l’impatto distributivo è lo stesso, lo stesso dovrebbe, infatti, essere anche il costo finanziario. Il che è, sicuramente, vero. Esiste, però, una differenza che riguarda l’imposta al lordo del trasferimento, la quale rappresenta il parametro cui sono sensibili i contribuenti. Se è vero che, al netto del trasferimento (che avvantaggia tutti), l’onere dell’imposta è esattamente lo stesso, al lordo del trasferimento, tale onere è superiore nel caso del dividendo sociale (dovendosi finanziare appunto un trasferimento a favore di tutti). Tornando all’esempio numerico utilizzato nelle pagine precedenti, a parità di impatto distributivo, l’onere fiscale associato all’imposta negativa è pari a 400, mentre l’onere fiscale lordo associato al dividendo sociale è pari a 2000. Il che congiura a favore del contenimento di quest’ultimo. Ma, tale contenimento altro non significa se non il pericolo di inefficienze orizzontali, in questo caso, dovute alle disposizioni formali all’accesso ai programmi.

Naturalmente, anche i trasferimenti selettivi sono soggetti a tali inefficienze orizzontali, ogniqualvolta il reddito minimo assicurato a chi non dispone di alcun reddito originario sia inferiore alla linea di povertà. Utilizzando la prospettiva di Beckerman, si consideri il grafico seguente dove i valori riportati sulle ascisse rappresentano la percentuale cumulativa delle famiglie e quelli sulle ordinate il livello di reddito disponibile; la linea tratteggiata rappresenta il reddito disponibile dopo i trasferimenti e quella in neretto il reddito originario. Il livello di reddito ORp rappresenta la linea di povertà, mentre ORs rappresenta il reddito soglia. H è la percentuale di famiglie con reddito al di sotto della linea della povertà. Un tale schema di trasferimenti genererebbe un’inefficienza orizzontale pari a A/A+B (l’area C+D/B+C+D rappresenterebbe, invece, l’inefficienza verticale e, più in particolare, il triangolo C, l’eccesso di trasferimenti nei confronti dei poveri e il triangolo D quello nei confronti dei non poveri).

Inoltre, l’entità dell’impatto distributivo dipende da come l’impatto è misurato. Nelle valutazioni appena esposte, è implicita l’adozione del divario di povertà, ossia, di una misura centrata sulla distanza fra il reddito medio dei poveri e la linea di povertà. Se a rilevare fosse, invece, il numero dei poveri, un programma che includesse tutti i poveri, sarebbe comunque un programma efficiente dal punto di vista orizzontale. Ancora, altre misure potrebbero essere utilizzate, come l’indice di Sen, che richiede l’uso congiunto del divario di povertà, della conta dei poveri e dell’indice di Gini applicato alla distribuzione del reddito dei poveri o, ancora, altre misure, quali quelle che attribuiscono un peso maggiore alla riduzione della povertà a favore di chi sta peggio. Non solo. La minimizzazione della povertà è solo uno fra gli obiettivi dei trasferimenti redistributivi, le cui finalità potrebbero riguardare l’intera distribuzione dei redditi anziché i soli redditi dei più poveri.

Certo, è, però, che se un obiettivo della redistribuzione è quello di garantire a tutti un livello minimo di reddito, concentrare le risorse al fine di diminuire il divario di povertà (anche attribuendo un peso maggiore alla posizione di chi sta peggio) appare, però, ragionevole e se ciò è ragionevole, i trasferimenti selettivi manifestano un vantaggio, in termini di efficienza orizzontale, rispetto ai trasferimenti universali.

Sembriamo, allora, intrappolati in un’impasse. Se desiderosi di accentuare l’impatto distributivo, scegliamo trasferimenti selettivi, veniamo minacciati dai disincentivi al lavoro in capo ai destinatari, con effetti negativi in termini di inefficienza verticale, di creazione di trappole nonché di pericolo, nel tempo, dello sviluppo di una cultura della dipendenza. Se, per evitare tali problemi, adottiamo, invece, trasferimenti universali, siamo costretti a diminuire l’impatto redistributivo, dunque, a sopportare inefficienze orizzontali pena la diffusione dei disincentivi in capo a chi finanzia.

Il ruolo del workfare

Il workfare può aiutarci a uscire dall’impasse, permettendo di fare affidamento sul maggiore impatto redistributivo delle politiche selettive. Naturalmente, il workfare può essere introdotto all’interno anche dei trasferimenti universali - basti pensare, al sopra menzionato reddito di partecipazione, che rappresenta uno schema di workfare. Nella prospettiva selettiva, il workfare ha, però, il merito aggiuntivo di attaccare esattamente i problemi dell’inefficienza verticale, delle trappole e della cultura della dipendenza tipici di tale prospettiva.

Per le osservazioni finora esposte, è stato sufficiente definire il workfare come l’introduzione di un obbligo al lavoro quale condizione per accedere ai trasferimenti da parte di chi è in grado di lavorare. Per valutare il possibile ruolo del workfare occorre, invece, considerare anche le modalità secondo cui il workfare può essere specificato. Al riguardo, assumo che esso possa richiedere la disponibilità sia a lavorare gratuitamente nel settore pubblico sia a lavorare per un salario, non importa se in ambito pubblico o privato, sia, perlomeno, a partecipare a programmi di formazione. In questo senso, il workfare ingloberebbe anche una parte delle cosiddette politiche attive del lavoro.

Ciò premesso, rispetto alle inefficienze verticali, il workfare permette di concentrare il trasferimento sui soli soggetti le cui risorse siano al di sotto della linea di povertà considerata. L’essenza del workfare è, infatti, quella di introdurre nei trasferimenti quella disutilità del lavoro la cui assenza induce a rivelarsi come poveri individui che, invece, sono in grado di lavorare. Detto in altri termini, il workfare muta le convenienze: diminuendo la remunerazione implicita dei trasferimenti, induce a lavorare gli impostori prima attratti dall’opportunità offerta dai trasferimenti di eludere il costo del lavoro. Al tempo stesso, il workfare è incompatibile con l’offerta di lavoro nell’economia sommersa.

Tale funzione di selezione, nel suo complesso, sarà tanto più accentuata quanto più lo schema di workfare è severo. Si considerino le disposizioni in materia di disponibilità a lavorare. È evidente che uno schema che preveda l’obbligo di lavorare gratuitamente nel settore pubblico, ad esempio, in attività di pulizia delle strade e dei parchi pubblici, con un tasso di remunerazione implicito (ossia, con un livello di trasferimenti) inferiore a quello di mercato, avrà un effetto di contenimento dell’autoselezione maggiore di un sistema dove la disponibilità a lavorare si può sostanziare nella sola iscrizione a istituti mal funzionanti di collocamento. Più in particolare, nella prima ipotesi, il workfare avrebbe una capacità di selezione in grado da fungere, come argomenta Fazzi, da test della volontarietà della disoccupazione. Il che non sembra, invece, possibile nella seconda ipotesi, a causa delle asimmetrie informative a danno degli operatori pubblici, che rendono difficile controllare se gli individui abbiano fatto tutti i possibili sforzi per trovare un impiego e per restare occupati. Ricordo come la severità, oltre a riguardare gli specifici programmi di lavoro, potrebbe riguardare anche le procedure di accesso ai trasferimenti.

Rispetto, invece, alle trappole, il contributo del workfare sarebbe quello di favorire la prevenzione sul doppio piano della deterrenza e dell’offerta di opportunità di qualificazione del capitale umano, con effetti positivi, in entrambi i casi, sui diretti beneficiari dei programmi e sui loro figli. Cruciali, al riguardo, sono di nuovo le modalità secondo cui si concretizza il vincolo alla disponibilità a lavorare. Più queste sono severe - come nell’ipotesi sopra menzionata in cui a essere richiesta sia l’offerta di lavoro gratuito e di bassa qualità nel settore pubblico - più a essere enfatizzata sarebbe la funzione di deterrenza. Se la disponibilità a lavorare prevedesse, invece, la partecipazione ad attività formative, a essere privilegiata sarebbe l’offerta di opportunità di qualificazione del capitale umano. Inoltre, come argomenta, di nuovo, Fazzi, in una prospettiva di salari efficienza, ossia, di salari concepiti come strumento di induzione all’offerta di sforzo da parte del lavoratore, la deterrenza potrebbe esercitare effetti positivi anche sul livello complessivo dell’occupazione. L’assunto è che, in presenza di uno schema severo di workfare, i lavoratori saranno indotti a offrire più sforzo - per contenere i rischi di licenziamento - con il risultato di un abbassamento del salario efficienza e, con esso, della disoccupazione. In entrambe le specificazioni, il workfare potrebbe, altresì, favorire la prevenzione a seguito di una modificazione delle preferenze nella direzione di un maggior attaccamento al lavoro.

Infine, accenno brevemente a un ultimo vantaggio del workfare che riguarda il piano politico. Vale a dire, se l’entità dei trasferimenti selettivi fosse limitata dalle resistenze dei più ricchi a redistribuire a favore dei più poveri, il workfare potrebbe contribuire a diminuire tali resistenze.

Alcune questioni rimangono, però, aperte. Da un lato, molte delle argomentazioni appena esposte indicano strade alternative, che obbligano alla scelta. Ad esempio, è evidente il contrasto fra le due vie indicate ai fini della prevenzione. La deterrenza richiede di accentuare la disutilità del lavoro. Il che implica muoversi nella direzione opposta rispetto alla via della qualificazione del capitale umano. Come procedere, allora? Realizzando un workfare severo, come sostenuto dai conservatori morali, che plaudono a programmi di duro lavoro che rinforzano il controllo sociale, la disciplina lavorativa, lo stigma nei confronti di chi non lavora? Oppure, la direzione è quella dell’offerta di opportunità secondo modalità tese a favorire l’inclusione, come sostenuto dal New Labour?

Similmente, se si propende per la via dell’offerta di opportunità, verrebbe ad ingenerarsi un altro trade off, questa volta, fra prevenzione e selezione, dato che più le politiche puntano su tale qualificazione, più coloro che avrebbero le abilità per guadagnare un reddito alternativo saranno incentivati a entrare nel programma. Anche in questo caso, come comportarsi: «errando dal lato della generosità» oppure da quello della severità? Ancora, come individuare i soggetti in grado di lavorare? Ad esempio, sono da includersi anche i soggetti con responsabilità di cura oppure no?

Da un altro lato, la stessa realizzazione dei programmi di workfare richiede risorse finanziarie, che potrebbero rivelarsi ingenti. Basti pensare ai costi per le remunerazioni del personale, ai costi per l’acquisto di beni e servizi strumentali all’amministrazione del workfare, nonché ai costi connessi alle attività di formazione e alla creazione pubblica di posti di lavoro, qualora l’economia non sia in grado di generare una domanda sufficiente di lavoro. Non solo: nell’ipotesi dell’obbligo a lavorare per un salario, anche se l’economia generasse un numero «adeguato» di posti di lavoro, le remunerazioni offerte potrebbero rivelarsi assai lontane dalla linea della povertà. In tal caso, i trasferimenti, in termini di sussidio al salario, resterebbero ingenti. Di converso, se l’obbligo al lavoro fosse associato all’assunzione di un lavoro «gratuito» nel settore pubblico, diminuirebbe il tempo disponibile per eventuali impieghi privati, con un incremento nel divario di povertà, con un aumento conseguente nelle dimensioni della spesa per trasferimenti.

Da un altro lato, ancora, il workfare potrebbe creare costi esterni per i lavoratori a bassa qualificazione precedentemente impiegati. Come argomentano Peck e Theodore, il workfare comporterebbe, infatti, la deregolamentazione del mercato del lavoro a bassa qualificazione, così creando costi per lavoratori, estranei al sistema dei trasferimenti, per le cui occupazioni competerebbero i destinatari del workfare. In questo senso, essi affermano, il workfare rappresenterebbe «l’analogo in termini di politiche sociali dei mercati flessibili del lavoro». Le conseguenze complessive potrebbero essere sia la disoccupazione - a seguito dello spiazzamento da parte degli individui coinvolti nei programmi di workfare - sia l’indebolimento delle tutele sindacali, con il risultato complessivo, oltre al peggioramento delle condizioni di lavoro, di una diminuzione delle remunerazioni. Ad esempio, secondo Solow, occupare 2/3 della popolazione adulta destinataria del programma americano di aiuto alle famiglie povere con i figli a carico implicherebbe, oltre a una maggiore disoccupazione fra i lavoratori estranei al sistema di workfare, una diminuzione delle remunerazioni reali fra il 3 e il 5 per cento. Aggiungo che l’eventuale disoccupazione per i lavoratori precedentemente occupati, oltre a rappresentare un altro esempio di effetto perverso, riguarderebbe proprio quei soggetti «virtuosi» - che lavoravano, anziché dipendere dal welfare.

Da ultimo, una questione più specifica che riguarda le sole modalità di workfare che si sostanziano nel sussidio alle remunerazioni offerte nei confronti dei lavoratori a bassa produttività. La questione è che, benché spostati a livelli superiori di reddito, resterebbero presenti i disincentivi al lavoro che assillano i trasferimenti graduati di reddito. La ragione è che limitare i sussidi a determinati livelli salariali, significa ricreare i problemi connessi con il tasso di sostituzione. Non solo. Restando il sussidio collegato al reddito familiare, sarebbero in essere gli stessi disincentivi al lavoro nei confronti del coniuge più debole.

Anche a questo proposito, come comportarsi? Il workfare dovrebbe essere, comunque, mantenuto, nonostante il rischio dei costi appena menzionati o sarebbe preferibile abbandonarlo? Oppure, sarebbero da seguire vie intermedie, che combinano trasferimenti incondizionati a favore dei soggetti meno produttivi e trasferimenti vincolati al workfare?

Quali conclusioni trarre?

Rispetto alle domande presentate, non solo diventano essenziali le indagini empiriche, ma, laddove le politiche pubbliche ingenerano costi per determinati soggetti - siano essi i destinatari potenziali delle politiche o i potenziali finanziatori - l’analisi economica resta, inevitabilmente, muta. Le risposte possono derivare solo dalla riflessione etica e dai processi di scelta collettiva.

Ciò nonostante, l’analisi economica appare insostituibile per allargare il quadro informativo entro il quale compiere le scelte, così, da un lato, mettendo in guardia l’etica da difese affrettate di assetti istituzionali che rischiano di rivelarsi assai più costosi di quanto atteso - i trasferimenti selettivi, come sopra indicato, non possono essere concepiti come equivalenti a trasferimenti universali su scala ridotta - e, dall’altro, obbligando a considerare domande altrimenti ignorate. Come abbiamo visto, la domanda se il workfare rappresenti o meno l’imposizione di una virtù è ben lungi dall’esaurire le questioni da affrontare nella scelta o meno a favore del workfare e, in caso affermativo, di quale workfare.

L’analisi economica gioca, dunque, un ruolo centrale nel delineare l’humus appropriato nel quale articolare le scelte, mentre l’etica pubblica fornisce i criteri di scelta, nella consapevolezza dei costi e dei benefici dei diversi assetti resa, a sua volta, possibile dall’analisi economica. In questo senso e in termini generali, riflessione economica e riflessione etica appaiono entrambe centrali per un processo di raffinamento continuo dei processi di valutazione delle politiche pubbliche.

Ultimo punto, prima di concludere. Il contributo dell’analisi economica in materia di workfare costituisce solo uno dei tasselli del quadro informativo necessario alla scelta fra selettività e universalità. A tale fine, molteplici sono le questioni addizionali che si pongono. Ad esempio, a militare contro la selettività potrebbero essere le difficoltà connesse alla verifica delle risorse possedute dai singoli. Al tempo stesso, la questione degli incentivi e dei disincentivi associati al gioco politico andrebbe più dettagliatamente analizzata. Ancora, la selettività potrebbe essere osteggiata, per gli effetti di divisione della collettività in due gruppi di cittadini ad essa inevitabilmente associati. Oppure, qualora si propendesse per la selettività e, in questo quadro, si optasse per l’utilizzazione di una soglia di risorse in qualche misura correlata al nucleo familiare, resta il problema di quali famiglie considerare.

Anche rispetto ad alcune di queste questioni, l’analisi economica ha un contributo da offrire: basti pensare al tema delle difficoltà connesse alla verifica delle risorse possedute. Si tratta, però, di un tema che esula dagli scopi di questo articolo, i cui confini consistono nella presentazione del contributo dell’analisi economica alla sola valutazione del workfare.


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