| Alcuni contributi dell’analisi
          economica 
 
 
 Elena Granaglia
 
 
 
 Articoli collegati:
 Povertà e culture della
          giustizia
 Alcuni contributi dell’analisi
          economica
 Questo saggio appare sul numero 2/2000 della Nuova Serie della rivista
          Filosofia e Questioni Pubbliche diretta da Sebastiano Maffettone, e fa
          parte di un forum su Workfare e Welfare. Per ulteriori informazioni
          potete collegarvi al sito
          della Luiss Edizioni  o scrivere all'indirizzo e-mail edizioni@luiss.it
 
 Introduzione
 
 In ambito di etica pubblica, la riflessione sul workfare, ossia, sull’introduzione
          di un obbligo al lavoro quale condizione per accedere ai trasferimenti
          da parte di chi è in grado di lavorare, verte, come è presumibile,
          su questioni di legittimità etica. Da un lato, vi sono coloro, come
          Van Parijs, che ritengono il workfare illegittimo, in quanto
          imporrebbe un valore di buona vita, quella dove il lavoro è
          considerato una virtù. Il che sarebbe in contrasto con la giustizia,
          richiedendo la giustizia di distribuire diritti e doveri nelle
          relazioni fra individui indipendentemente dai piani di vita
          individuale, pena la violazione delle libertà dei singoli a seguire
          tali piani e, con essi, le proprie e specifiche concezioni del bene.
          Dall’altro, vi sono coloro che, pur condividendo tale concezione di
          giustizia, considerano il lavoro come un dovere che, lungi dal
          costituire una virtù, rappresenta la contropartita legittima dei
          diritti di cittadinanza.
 
 Al tempo stesso, la discussione tende a essere effettuata nel contesto
          dei trasferimenti universali, ossia, il contrasto tende a essere fra
          reddito di cittadinanza (o di base) - che prescinde da qualsiasi
          vincolo in termini di lavoro - e reddito di partecipazione - che
          impone l’obbligo al lavoro. Anche qualora a essere considerati siano
          trasferimenti selettivi, nessuna distinzione viene, comunque,
          effettuata fra il ruolo che il workfare può giocare nelle due
          prospettive, venendo estese alla prospettiva selettiva le stesse
          considerazioni applicabili alla prospettiva universale.
 
 L’economia, invece, permette di esaminare il contributo specifico
          che il workfare può offrire in quanto antidoto ai disincentivi al
          lavoro e al risparmio tipici dei trasferimenti selettivi. In tal modo,
          l’analisi economica mette in luce alcuni possibili benefici del
          workfare sottovalutati dalla riflessione filosofica. L’analisi
          economica sottolinea altresì alcuni costi e, con essi, scelte
          aggiuntive, oltre quelle connesse alla presenza o meno di un valore di
          buona vita, che vanno affrontate qualora si decida di intraprendere la
          via del workfare.
 
 
 Trasferimenti universali vs. trasferimenti selettivi.
 Alcune chiarificazioni concettuali.
 
 Prima di entrare nel merito dell’argomentazione, una chiarificazione
          concettuale sui diversi schemi di trasferimento di reddito (a
          prescindere dalla presenza di un obbligo al lavoro). Tali schemi,
          siano essi universali o selettivi, possono prevedere l’integrazione
          fra i trasferimenti e l’imposta, ossia, richiedere il bilancio in
          pareggio, oppure possono essere erogati da agenzie amministrative allo
          scopo deputate, a prescindere da qualsiasi riferimento alle modalità
          di finanziamento. L’integrazione fra trasferimenti e imposta avrebbe
          il merito di tenere conto sia del complesso degli effetti
          distributivi, siano essi collegati ai trasferimenti o all’imposta,
          sia dei vincoli di autosostenibilità finanziaria dei programmi. La
          non integrazione permetterebbe, invece, una maggiore flessibilità nei
          programmi.
 
 Ciò premesso, rispetto ai trasferimenti universali, concentriamo l’attenzione
          sul solo schema integrato costituito dal dividendo sociale. In tale
          schema, i trasferimenti corrispondono a un sussidio S, esente da
          imposta a beneficio di tutti i soggetti, i quali hanno poi l’obbligo
          di pagare le imposte sul complesso dei redditi eventualmente
          guadagnati, ossia, sul cosiddetto reddito originario. Il reddito
          disponibile, Rd, corrisponderebbe, dunque, a S + Ro(1-t), dove t è l’aliquota
          media dell’imposta e Ro è il reddito originario.
 
 S è una percentuale s del reddito medio Rm, ossia S coincide con sRm.
          Affinché il sistema sia in grado di autofinanziarsi, s deve essere
          eguale a t, ossia, l’aliquota media del prelievo deve essere pari
          alla percentuale del reddito medio che si vuole assicurare sotto forma
          di sussidio. Il reddito medio, nella prospettiva del dividendo
          sociale, rappresenta il cosiddetto reddito di equilibrio (o break-even
          point).
 
 In generale, il reddito d’equilibrio è quel reddito il possesso del
          quale rende gli individui indifferenti rispetto alla presenza o meno
          di uno schema di trasferimenti. In altri termini, chi possiede il
          reddito d’equilibrio mantiene esattamente lo stesso reddito
          disponibile, sia che lo schema sia posto in essere sia che non lo sia.
          Nella prospettiva del dividendo sociale, più in particolare, tal
          reddito si sostanzia nel livello di reddito in coincidenza del quale
          il valore del sussidio per il singolo è esattamente eguale a quello
          delle imposte che il singolo stesso paga. Se il reddito d’equilibrio
          fosse superiore al reddito medio, lo schema sarebbe in passivo, se
          fosse inferiore, sarebbe in attivo. I soggetti che guadagnano un
          reddito inferiore a quello medio sono beneficiari netti, mentre chi
          guadagna un reddito superiore paga un ammontare di imposte superiore
          al trasferimento.
 
 Rispetto ai trasferimenti selettivi, vale, invece, la pena considerare
          entrambe le opzioni dell’integrazione e della non integrazione. Lo
          schema integrato, nella prospettiva selettiva, prende il nome di
          imposta negativa. Con l’imposta negativa, chi non guadagna alcun
          reddito riceve un reddito minimo, che corrisponde anche al valore
          massimo del sussidio, sul quale non paga alcuna imposta. Chi guadagna
          un reddito superiore a quello minimo, ma inferiore a quello di
          equilibrio, continuerebbe a ricevere un sussidio, seppur di dimensioni
          ridotte rispetto a chi non ha alcun reddito originario, e
          continuerebbe a non pagare le imposte. Chi avesse, invece, redditi
          superiori non riceverebbe alcun sussidio e pagherebbe le imposte sulla
          parte di reddito eccedente il reddito d’equilibrio.
 
 Nella prospettiva dei trasferimenti selettivi, il reddito d’equilibrio
          assume la configurazione di reddito soglia, Rs: vale a dire,
          rappresenta la soglia al di sotto della quale si riceve il sussidio e
          al di sopra della quale si paga l’imposta. Più in particolare, se s
          corrisponde all’aliquota dell’imposta negativa (ossia, del
          sussidio) e t a quella dell’imposta positiva (da pagare), l’imposta
          negativa In è pari a s(Rs-Ro), mentre l’imposta positiva, T, è
          pari a t(Ro-Rs). Il reddito disponibile, Rd sarà allora pari a Ro+s(Rs
          -Ro), per chi è al di sotto del reddito soglia, e a Ro-t(Ro-Rs), per
          chi ne è al di sopra.
 
 Un esempio numerico può essere utile. Assumendo Ro = 0; Rs = 5000 e s
          = 70 per cento, il reddito disponibile, Rd sarà 0+.7(5000-0), ossia,
          3500, che costituisce anche il livello minimo di reddito da assicurare
          a tutti. Se, invece, il soggetto guadagnasse 3000, il reddito
          disponibile sarebbe 3000+.7(5000-3000), ossia, 4400. È evidente che,
          in presenza di un Ro pari a 5000, Rd sarà esattamente pari a 5000.
 
 Lo schema non integrato è costituito dal reddito minimo garantito
          che, perlomeno nella forma pura, si contraddistingue per l’obiettivo
          di assicurare a tutti i soggetti con redditi originari al di sotto di
          una determinata soglia, il reddito pari alla soglia stessa. Ad
          esempio, se la soglia è fissata a 5000, tutti i soggetti avranno
          5000, con la conseguenza che un soggetto che non disponga di alcun
          reddito originario riceverà 5000, mentre un soggetto che disponga di
          2000, riceverà 3000.
 
 In realtà, le distinzioni sono un po’ più complicate.
          Innanzitutto, anche il reddito minimo garantito potrebbe essere
          erogato in modo graduato, lasciando a chi guadagna di più un reddito
          disponibile maggiore di quello che otterrebbe non lavorando. La via,
          in questa direzione, è quella di considerare, ai fini della
          determinazione dei trasferimenti, una percentuale del reddito
          originario, anziché l’intero ammontare. Il reddito disponibile
          diverrebbe Rmg+Ro(1-p), dove Rmg è il reddito minimo garantito e p è
          la percentuale del reddito originario computata ai fini dell’individuazione
          del sussidio.
 
 Così procedendo, la struttura del reddito minimo garantito verrebbe a
          corrispondere a quella dell’imposta negativa. Nella prospettiva dell’imposta
          negativa, infatti, il reddito disponibile per coloro che sono al di
          sotto del reddito soglia è Ro+s(Rs-Ro). Il che può essere
          trasformato in sRs+Ro(1-s) che, appunto, coincide con Rmg+Ro(1-p). Se
          p=s e Rmg=sRs medesimo sarà anche l’impatto distributivo dei due
          trasferimenti.
 
 Tornando ai valori dell’esempio numerico relativo all’imposta
          negativa, assumiamo p=70 per cento e Rmg=3500. Se un soggetto non
          disponesse di alcun reddito originario, lo schema di reddito minimo
          garantito gli assicurerebbe 3500. Se, però, disponesse di un reddito
          originario di 2000, il trasferimento scenderebbe a 2100, che
          rappresenta la differenza fra 3500 e il 70 per cento di 2000. Se,
          invece, il soggetto guadagnasse 5000, verrebbe meno qualsiasi
          trasferimento, equivalendo il 70 per cento di 5000 a 3500, ossia, al
          livello di reddito minimo garantito. Come risulta evidente, la
          situazione distributiva sarebbe la stessa che si verificherebbe con l’imposta
          negativa.
 
 Considerazioni simili valgono per l’imposta negativa e il dividendo
          sociale. Al riguardo, si consideri l’imposta positiva a carico dei
          più abbienti nella prospettiva dell’imposta negativa. Come sopra
          indicato, essa è t(Ro-Rs). Il che è strutturalmente identico all’imposta
          da pagare nella prospettiva del dividendo sociale, ossia, tRo-S.
          Inoltre, se sRs e S avessero lo stesso valore e lo stesso fosse il
          valore di s e di t per entrambi i tipi di trasferimento, lo stesso
          sarebbe anche l’impatto distributivo. Riprendendo i valori
          utilizzati negli esempi precedenti, supponiamo che Rs sia 5000, che s
          e t, per entrambi i trasferimenti, siano 20 per cento e che vi siano
          due individui, con redditi originari rispettivamente di 3000 e di
          7000. Con l’imposta negativa, certamente, il primo soggetto
          riceverebbe 400 e il secondo pagherebbe 400 di imposta, mentre con il
          dividendo sociale, tutti e due riceverebbero 1000, il primo pagherebbe
          600 e il secondo ben 1400. In entrambi i casi, però, i due soggetti
          resterebbero con il medesimo reddito disponibile, rispettivamente di
          3400 e di 6600. Dunque, cambierebbero i flussi del dare e dell’avere,
          ma il risultato finale, in termini di impatto distributivo, resterebbe
          il medesimo.
 
 Dovremmo allora concludere che non vi è alcuna differenza fra i
          diversi schemi di trasferimento? Per quanto riguarda la
          contrapposizione fra imposta negativa e reddito minimo, ritengo che, a
          parte il diverso schema di erogazione, la risposta debba essere
          affermativa. Più complicata è la risposta per quanto concerne la
          contrapposizione fra universalismo e selettività. Da un lato, le
          considerazioni appena svolte portano alla luce la superficialità e la
          genericità con le quali i termini di selettività e universalità
          sono spesso utilizzati nel dibattito corrente, dove le possibili
          somiglianze fra le due prospettive sono del tutto ignorate. Dall’altro
          lato, però, non mi paiono convincenti posizioni, come quella di Barr,
          che propongono di abolire il riferimento alla selettività,
          sostituendolo con quello alle politiche correlate al reddito. L’assunto,
          al riguardo, è che, se per schemi selettivi si intendono schemi
          basati su una prova dei mezzi (means tested), anche le imposte
          correlate al reddito sarebbero selettive, prelevando quantità di
          imposte crescenti al crescere del reddito. Ad esempio, sarebbero
          selettive anche imposte, come quelle proporzionali, che sono correlate
          al reddito. La mia posizione è che, così procedendo, si perderebbe
          qualcosa che è implicito nell’accezione comunemente attribuita alla
          selettività, ossia, il trattarsi di politiche che prevedono benefici
          limitati agli individui o alle famiglie meno abbienti.
 
 Mi sembra, dunque, utile mantenere il riferimento alle politiche
          selettive come politiche basate su una prova dei mezzi, integrandolo,
          però, con un riferimento alla natura del beneficio. Vale a dire, la
          qualificazione di selettive si applicherebbe unicamente alle politiche
          di trasferimento di risorse, che comportano un beneficio esclusivo o
          addizionale a favore di individui o famiglie selezionate sulla base di
          una prova dei mezzi.
 
 L’imposta negativa sarebbe selettiva in quanto permette di
          differenziare l’aliquota del trasferimento da quella dell’imposta
          che i più ricchi devono pagare, ossia, di alzare la prima e abbassare
          la seconda, così permettendo di concentrare il trasferimento sui più
          poveri. Poiché non ha senso affermare un maggior impatto distributivo
          se non a parità di onere finanziario dei due schemi, il maggiore
          trasferimento ai poveri sarebbe compensato da una diminuzione dei
          soggetti coinvolti, ossia, la differenziazione delle aliquote si
          accompagnerebbe a una diminuzione del reddito di equilibrio.
 
 Gli effetti sul lavoro (e sul risparmio)
 
 Dal punto di vista economico, il problema centrale, con i
          trasferimenti di reddito, è costituito dai disincentivi al lavoro e
          al risparmio. Concentrando l’attenzione sui soli disincentivi al
          lavoro (le stesse argomentazioni sono applicabili al risparmio,
          considerando al posto del lavoro il risparmio e a quello dell’ozio
          il consumo presente), tutti i trasferimenti di reddito, qualsiasi sia
          la loro forma, ingenerano un effetto di reddito negativo in capo ai
          beneficiari: avendo più risorse, questi ultimi saranno disposti a
          lavorare di meno. L’effetto di reddito, a sua volta, sarà tanto
          maggiore quanto maggiore è l’ammontare del trasferimento.
 
 Ai disincentivi causati dall’effetto di reddito, i trasferimenti
          selettivi aggiungono i disincentivi causati dall’effetto di
          sostituzione. Diversamente dai trasferimenti universali, i
          trasferimenti selettivi alterano, infatti, il prezzo dell’ozio
          rispetto a quello del lavoro, rendendo l’ozio più conveniente e il
          lavoro meno remunerativo, dunque, inducendo a diminuire l’offerta di
          lavoro, perlomeno nell’economia legale. In altri termini, i
          trasferimenti selettivi incentivano comportamenti opportunistici di
          azzardo morale, qualora l’effetto sia una diminuzione dell’offerta
          di lavoro, e vera e propria frode, qualora l’effetto sia l’ingresso/permanenza
          nell’economia sommersa.
 I disincentivi connessi all’effetto sostituzione si estendono all’eventuale
          coniuge, qualora la soglia sia stimata con riferimento alle risorse
          complessivamente detenute dal nucleo familiare e l’ingresso del
          coniuge nel mercato del lavoro, comportando redditi aggiuntivi,
          comporti anche una diminuzione o addirittura un annullamento dei
          trasferimenti. Ancora, i disincentivi sono tanto maggiori quanto più
          numerosi sono i programmi di trasferimento selettivo. Più tali
          programmi aumentano, più, infatti, aumentano i benefici cui si ha
          diritto non lavorando, dunque, più aumenta il costo di lavorare
          rispetto a oziare.
 
 La conseguenza, da un lato, è la creazione di quella che Weisbrod
          definisce un’inefficienza verticale nella distribuzione: vale a
          dire, accedono ai trasferimenti anche soggetti che poveri non sono.
          Più in particolare, l’inefficienza verticale deriva, in questo
          caso, da un problema di autoselezione, accedendo al programma i
          cosiddetti falsi positivi, ossia, «impostori» che si autorivelano
          come bisognosi pur avendo le abilità per lavorare. Il che rappresenta
          una violazione della più generale target efficiency, intendendosi
          per target efficiency una selezione dei destinatari coerente
          rispetto a quella desiderata. Dall’altro lato, è la creazione, per
          l’insieme dei soggetti coperti dai programmi, di vere e proprie
          trappole di disoccupazione o, quanto meno di povertà, qualora gli
          individui, pur lavorando, offrano meno lavoro di quanto offrirebbero
          in assenza dei trasferimenti, con effetti negativi in termini di
          prevenzione della povertà, anche sui figli. Emblematici, al riguardo,
          sono i dati sulla diminuzione delle remunerazioni per coloro che,
          usciti dal mercato del lavoro, vogliano rientrarvi. Le trappole, in
          quanto fonte del problema che le politiche dovrebbero attaccare,
          rappresentano un chiaro esempio di effetto perverso.
 
 Se, tradizionalmente, l’analisi economica si è concentrata sul
          ruolo degli incentivi e dei disincentivi, soprattutto negli ultimi
          anni, un’attenzione crescente va indirizzandosi all’influenza
          delle politiche sulla natura delle preferenze. Mi spiego meglio. L’analisi
          che fa leva sugli effetti di reddito e di sostituzione vale
          indipendentemente dalle preferenze dei singoli. L’assunto è che, se
          gli individui sono razionali e il lavoro implica disutilità e l’ozio
          utilità, allora politiche che diminuiscono i benefici derivanti dal
          lavoro saranno anche politiche che favoriscono la diminuzione dell’offerta
          di lavoro. Si tratta di una semplice valutazione costi-benefici, che
          vale per qualsiasi bene normale: se il prezzo di un bene diminuisce e
          aumenta quello di un altro, gli individui aumentano il consumo del
          primo e diminuiscono quello del secondo. A essere influenzato è
          essenzialmente il comportamento, non le preferenze.
 
 Le politiche potrebbero, però, influenzare anche la natura delle
          preferenze. Ad esempio, sapere che, qualsiasi sia il nostro
          comportamento, riceveremo sempre le risorse necessarie per vivere
          potrebbe, nel tempo, accrescere la disaffezione nei confronti del
          lavoro - in altri termini, potrebbe aumentare la disutilità del
          lavoro. L’etica del lavoro risulterebbe così indebolita a favore
          dello sviluppo di una cultura della dipendenza (dai trasferimenti),
          che perpetua essa stessa l’assenza di risorse cui le politiche
          dovrebbero sopperire. Non solo: a essere indotta potrebbe essere una
          più complessiva deresponsabilizzazione nei confronti dei costi delle
          scelte effettuate. Il che, di nuovo, varrebbe per tutti i
          trasferimenti, compresi quelli universali. I trasferimenti selettivi
          accentuerebbero, però, tale tendenza (proprio per l’effetto di
          sostituzione ad essi connesso). Aggiungo che più le preferenze
          vengono a modificarsi nelle direzioni indicate, più difficoltosa
          diventa la strada degli incentivi.
 
 Si potrebbe obiettare che i programmi selettivi hanno, al loro
          interno, alcuni antidoti. Una prima possibilità è quella di
          abbassare al di sotto del 100 per cento il cosiddetto replacement
          rate - d’ora in avanti, il tasso di sostituzione - che
          rappresenta il rapporto fra quanto si ottiene se non si lavora e
          quanto si ottiene lavorando. Si sussidierebbe, così, il lavoro,
          permettendo a chi lavora di non perdere interamente il sussidio. Una
          tale considerazione porterebbe sia all’abbandono del reddito minimo
          non graduato - che ha un tasso di sostituzione del 100 per cento - sia
          a un contenimento nel numero dei programmi selettivi, nel
          riconoscimento che la presenza di più programmi selettivi potrebbe
          comportare tassi di sostituzione superiori all’unità.
 
 L’imposta negativa e il reddito minimo graduato sono già
          strutturati sulla base di un tasso di sostituzione inferiore al 100
          per cento, rendendo disponibile, per chi lavora, un reddito superiore
          a quello che si otterrebbe rinunciando a lavorare. Anche in questa
          prospettiva, però, gli effetti sul lavoro dipendono da quanto il
          tasso di sostituzione viene abbassato, vale a dire, dal valore di s,
          per l’imposta negativa, e di p, per il reddito minimo garantito.
          Tanto minori sono tali valori, tanto minori saranno i disincentivi a
          non lavorare, tanto meno diminuendo il trasferimento al crescere del
          reddito originario. Ad esempio, s eguale a 70 per cento implica che
          all’aumentare del reddito, il sussidio diminuisce del 70 per cento
          e, di converso, il reddito disponibile aumenta solo del 30 per cento.
          Se, invece, s diminuisse al 30 per cento, i valori sarebbero
          invertiti: il sussidio diminuirebbe solo del 30 per cento e il reddito
          disponibile aumenterebbe del 70 per cento.
 
 Una seconda possibilità, relativamente all’obiettivo di non
          disincentivare il lavoro da parte del coniuge con minore capacità di
          reddito, è quella di considerare, ai fini della prova dei mezzi, solo
          una percentuale del reddito da quest’ultimo guadagnato. Oppure, come
          avviene in Australia per i sussidi di disoccupazione, si potrebbe
          considerare il reddito del redditiere più basso solo qualora quello
          del redditiere più elevato ecceda un determinato ammontare.
          Addirittura, si potrebbe procedere alla individualizzazione della
          soglia.
 
 Ancora, si potrebbe obiettare che le considerazioni sopra esposte
          poggino su una concezione delle preferenze individuali, secondo cui l’unico
          beneficio del lavoro sarebbe il reddito prodotto. Nella prospettiva
          degli incentivi e dei disincentivi, la soluzione è, infatti, quella
          di sussidiare il lavoro, ossia, di incrementare la remunerazione del
          lavoro. Similmente, in quella dell’influenza dei trasferimenti sulle
          preferenze è la maggiore disponibilità di reddito a seguito dei
          trasferimenti, a intensificare la disutilità del lavoro. Il lavoro
          potrebbe, invece, essere fonte anche di utilità, a prescindere dal
          reddito a esso associato. Come sostiene Moffit, ad esempio, gli
          individui potrebbero essere interessati alla provenienza del reddito,
          preferendo un po’ meno reddito, ma originato nel mercato, rispetto a
          livelli più elevati, ma generati da trasferimenti pubblici ritenuti
          fonte di stigma. Se così fosse, le preferenze stesse attenuerebbero
          il peso dei disincentivi. Il che dovrebbe condurre a considerare con
          cautela gli eventuali comportamenti di non offerta di lavoro, dato
          che, a ostacolare il lavoro, anziché considerazioni di convenienza
          economica, potrebbero essere i vincoli cui sono soggetti gli
          individui, primi fra tutti quelli costituiti dalle responsabilità di
          cura.
 
 Non solo. In presenza di stigma, il problema dell’autoselezione
          potrebbe diventare quello opposto dei falsi negativi, ossia, di
          individui che si autoselezionano come non poveri, anche se, in
          realtà, sono poveri. Il risultato sarebbe, dunque, un altro problema
          di target efficiency, questa volta in termini di inefficienza
          orizzontale: vale a dire, esisterebbero poveri che non ricevono l’ammontare
          di risorse ritenuto desiderabile.
 
 L’insieme di queste osservazioni non appare, però, del tutto
          convincente. Gli antidoti connessi alla diminuzione del tasso di
          sostituzione non solo non sono privi di costi, ma neppure paiono in
          grado di neutralizzare i disincentivi. Diminuire s o p, come abbiamo
          visto, significa sussidiare il lavoro e ciò comporta un costo per l’erario,
          tanto maggiore quanto maggiore è la disutilità del lavoro.
          Addirittura, nell’ipotesi limite in cui la disutilità del lavoro
          sia superiore al valore del prodotto marginale del lavoro, sarebbe
          preferibile che i destinatari dei trasferimenti non lavorino, pena
          esborsi finanziari superiori ai benefici.
 
 Al tempo stesso, a parità di reddito soglia, la diminuzione di s o di
          p comporta, inevitabilmente, una diminuzione del reddito minimo. La
          soluzione, per evitare questa conseguenza, sarebbe quella di aumentare
          il reddito soglia. Il problema è che a ogni incremento nel livello di
          equilibrio corrisponde un aggravio sia del costo di finanziamento del
          programma sia dei pericoli di inefficienza verticale.
 Due sono le ragioni, a quest’ultimo riguardo. La prima è che
          aumenterebbero gli incentivi all’autoselezione da parte degli
          impostori. Il risultato finale potrebbe, addirittura, essere la
          diminuzione complessiva nell’offerta di lavoro, qualora l’incremento
          nell’offerta di lavoro da parte dei destinatari originari delle
          politiche sia insufficiente a compensare la diminuzione dell’offerta
          di lavoro da parte dei nuovi soggetti indotti a entrare nel programma
          dall’incremento del reddito soglia. Secondo Levy e Moffit, sarebbe
          questo l’esito delle politiche rivolte alle madri capofamiglia, a
          causa della rigidità nell’offerta di lavoro da parte di tale
          gruppo. Il che rappresenterebbe un altro effetto perverso, dato che un
          meccanismo teso a incentivare il lavoro verrebbe a produrne una
          diminuzione. La seconda è che ogni aumento del reddito soglia oltre
          il livello di povertà implica l’istituzionalizzazione stessa dell’inefficienza
          verticale, nel senso che l’accesso da parte dei non poveri sarebbe
          sancito dalle stesse disposizioni legali (anziché essere soltanto l’esito
          dei processi di autoselezione).
 
 Considerazioni simili si applicano alle misure rivolte a una qualche
          individualizzazione della soglia che ad altro non equivalgono se non a
          un aumento del reddito soglia. Nell’ipotesi della totale
          individualizzazione della soglia, verrebbero, altresì, a
          sottovalutarsi i vantaggi derivanti dalla comunanza delle risorse per
          chi vive in famiglia. Ancora, anche muovendosi nella direzione di una
          riduzione della cumulabilità dei trasferimenti selettivi, resta il
          fatto che anche un unico programma selettivo continuerebbe a essere
          inficiato dai disincentivi. Al tempo stesso, se è vero che il lavoro
          potrebbe essere fonte di utilità, a prescindere dal reddito, resta
          incontrovertibile che, soprattutto per i lavori a bassa
          qualificazione, l’eventuale utilità extrareddituale non appare, in
          media, in grado di contrastare i disincentivi al lavoro.
 
 Proprio in questi effetti negativi risiede una delle ragioni
          principali a favore dei trasferimenti universali. Se è vero che
          questi ultimi inducono a una minore riduzione nell’offerta di lavoro
          da parte dei beneficiari, altrettanto è, però, vero che sono
          assillati dai disincentivi in capo a chi li finanzia, inducendo sulle
          imposte un effetto sostituzione negativo a danno della base imponibile
          tassata. Se questa consiste nel lavoro, il risultato è un aumento del
          costo del lavorare rispetto all’oziare, esattamente come avviene per
          i beneficiari dei trasferimenti selettivi - l’unica differenza è
          che l’aumentato onere è a carico di chi finanzia. Naturalmente, i
          disincentivi al lavoro posti in essere dalla presenza di imposte
          esistono anche nella prospettiva dei trasferimenti selettivi -
          necessitando anche tali trasferimenti di essere finanziati. Il punto
          è che i trasferimenti universali, implicando un costo finanziario
          superiore, ne accentuano l’entità.
 
 L’affermazione potrebbe risultare in contrasto con quanto sopra
          scritto relativamente all’identità fra imposta negativa e dividendo
          sociale e va chiarita. Se l’impatto distributivo è lo stesso, lo
          stesso dovrebbe, infatti, essere anche il costo finanziario. Il che
          è, sicuramente, vero. Esiste, però, una differenza che riguarda l’imposta
          al lordo del trasferimento, la quale rappresenta il parametro cui sono
          sensibili i contribuenti. Se è vero che, al netto del trasferimento
          (che avvantaggia tutti), l’onere dell’imposta è esattamente lo
          stesso, al lordo del trasferimento, tale onere è superiore nel caso
          del dividendo sociale (dovendosi finanziare appunto un trasferimento a
          favore di tutti). Tornando all’esempio numerico utilizzato nelle
          pagine precedenti, a parità di impatto distributivo, l’onere
          fiscale associato all’imposta negativa è pari a 400, mentre l’onere
          fiscale lordo associato al dividendo sociale è pari a 2000. Il che
          congiura a favore del contenimento di quest’ultimo. Ma, tale
          contenimento altro non significa se non il pericolo di inefficienze
          orizzontali, in questo caso, dovute alle disposizioni formali all’accesso
          ai programmi.
 
 Naturalmente, anche i trasferimenti selettivi sono soggetti a tali
          inefficienze orizzontali, ogniqualvolta il reddito minimo assicurato a
          chi non dispone di alcun reddito originario sia inferiore alla linea
          di povertà. Utilizzando la prospettiva di Beckerman, si consideri il
          grafico seguente dove i valori riportati sulle ascisse rappresentano
          la percentuale cumulativa delle famiglie e quelli sulle ordinate il
          livello di reddito disponibile; la linea tratteggiata rappresenta il
          reddito disponibile dopo i trasferimenti e quella in neretto il
          reddito originario. Il livello di reddito ORp rappresenta la linea di
          povertà, mentre ORs rappresenta il reddito soglia. H è la
          percentuale di famiglie con reddito al di sotto della linea della
          povertà. Un tale schema di trasferimenti genererebbe un’inefficienza
          orizzontale pari a A/A+B (l’area C+D/B+C+D rappresenterebbe, invece,
          l’inefficienza verticale e, più in particolare, il triangolo C, l’eccesso
          di trasferimenti nei confronti dei poveri e il triangolo D quello nei
          confronti dei non poveri).
 
 Inoltre, l’entità dell’impatto distributivo dipende da come l’impatto
          è misurato. Nelle valutazioni appena esposte, è implicita l’adozione
          del divario di povertà, ossia, di una misura centrata sulla distanza
          fra il reddito medio dei poveri e la linea di povertà. Se a rilevare
          fosse, invece, il numero dei poveri, un programma che includesse tutti
          i poveri, sarebbe comunque un programma efficiente dal punto di vista
          orizzontale. Ancora, altre misure potrebbero essere utilizzate, come l’indice
          di Sen, che richiede l’uso congiunto del divario di povertà, della
          conta dei poveri e dell’indice di Gini applicato alla distribuzione
          del reddito dei poveri o, ancora, altre misure, quali quelle che
          attribuiscono un peso maggiore alla riduzione della povertà a favore
          di chi sta peggio. Non solo. La minimizzazione della povertà è solo
          uno fra gli obiettivi dei trasferimenti redistributivi, le cui
          finalità potrebbero riguardare l’intera distribuzione dei redditi
          anziché i soli redditi dei più poveri.
 
 Certo, è, però, che se un obiettivo della redistribuzione è quello
          di garantire a tutti un livello minimo di reddito, concentrare le
          risorse al fine di diminuire il divario di povertà (anche attribuendo
          un peso maggiore alla posizione di chi sta peggio) appare, però,
          ragionevole e se ciò è ragionevole, i trasferimenti selettivi
          manifestano un vantaggio, in termini di efficienza orizzontale,
          rispetto ai trasferimenti universali.
 
 Sembriamo, allora, intrappolati in un’impasse. Se desiderosi
          di accentuare l’impatto distributivo, scegliamo trasferimenti
          selettivi, veniamo minacciati dai disincentivi al lavoro in capo ai
          destinatari, con effetti negativi in termini di inefficienza
          verticale, di creazione di trappole nonché di pericolo, nel tempo,
          dello sviluppo di una cultura della dipendenza. Se, per evitare tali
          problemi, adottiamo, invece, trasferimenti universali, siamo costretti
          a diminuire l’impatto redistributivo, dunque, a sopportare
          inefficienze orizzontali pena la diffusione dei disincentivi in capo a
          chi finanzia.
 
 Il ruolo del workfare
 
 Il workfare può aiutarci a uscire dall’impasse, permettendo
          di fare affidamento sul maggiore impatto redistributivo delle
          politiche selettive. Naturalmente, il workfare può essere introdotto
          all’interno anche dei trasferimenti universali - basti pensare, al
          sopra menzionato reddito di partecipazione, che rappresenta uno schema
          di workfare. Nella prospettiva selettiva, il workfare ha, però, il
          merito aggiuntivo di attaccare esattamente i problemi dell’inefficienza
          verticale, delle trappole e della cultura della dipendenza tipici di
          tale prospettiva.
 
 Per le osservazioni finora esposte, è stato sufficiente definire il
          workfare come l’introduzione di un obbligo al lavoro quale
          condizione per accedere ai trasferimenti da parte di chi è in grado
          di lavorare. Per valutare il possibile ruolo del workfare occorre,
          invece, considerare anche le modalità secondo cui il workfare può
          essere specificato. Al riguardo, assumo che esso possa richiedere la
          disponibilità sia a lavorare gratuitamente nel settore pubblico sia a
          lavorare per un salario, non importa se in ambito pubblico o privato,
          sia, perlomeno, a partecipare a programmi di formazione. In questo
          senso, il workfare ingloberebbe anche una parte delle cosiddette
          politiche attive del lavoro.
 
 Ciò premesso, rispetto alle inefficienze verticali, il workfare
          permette di concentrare il trasferimento sui soli soggetti le cui
          risorse siano al di sotto della linea di povertà considerata. L’essenza
          del workfare è, infatti, quella di introdurre nei trasferimenti
          quella disutilità del lavoro la cui assenza induce a rivelarsi come
          poveri individui che, invece, sono in grado di lavorare. Detto in
          altri termini, il workfare muta le convenienze: diminuendo la
          remunerazione implicita dei trasferimenti, induce a lavorare gli
          impostori prima attratti dall’opportunità offerta dai trasferimenti
          di eludere il costo del lavoro. Al tempo stesso, il workfare è
          incompatibile con l’offerta di lavoro nell’economia sommersa.
 
 Tale funzione di selezione, nel suo complesso, sarà tanto più
          accentuata quanto più lo schema di workfare è severo. Si considerino
          le disposizioni in materia di disponibilità a lavorare. È evidente
          che uno schema che preveda l’obbligo di lavorare gratuitamente nel
          settore pubblico, ad esempio, in attività di pulizia delle strade e
          dei parchi pubblici, con un tasso di remunerazione implicito (ossia,
          con un livello di trasferimenti) inferiore a quello di mercato, avrà
          un effetto di contenimento dell’autoselezione maggiore di un sistema
          dove la disponibilità a lavorare si può sostanziare nella sola
          iscrizione a istituti mal funzionanti di collocamento. Più in
          particolare, nella prima ipotesi, il workfare avrebbe una capacità di
          selezione in grado da fungere, come argomenta Fazzi, da test della
          volontarietà della disoccupazione. Il che non sembra, invece,
          possibile nella seconda ipotesi, a causa delle asimmetrie informative
          a danno degli operatori pubblici, che rendono difficile controllare se
          gli individui abbiano fatto tutti i possibili sforzi per trovare un
          impiego e per restare occupati. Ricordo come la severità, oltre a
          riguardare gli specifici programmi di lavoro, potrebbe riguardare
          anche le procedure di accesso ai trasferimenti.
 
 Rispetto, invece, alle trappole, il contributo del workfare sarebbe
          quello di favorire la prevenzione sul doppio piano della deterrenza e
          dell’offerta di opportunità di qualificazione del capitale umano,
          con effetti positivi, in entrambi i casi, sui diretti beneficiari dei
          programmi e sui loro figli. Cruciali, al riguardo, sono di nuovo le
          modalità secondo cui si concretizza il vincolo alla disponibilità a
          lavorare. Più queste sono severe - come nell’ipotesi sopra
          menzionata in cui a essere richiesta sia l’offerta di lavoro
          gratuito e di bassa qualità nel settore pubblico - più a essere
          enfatizzata sarebbe la funzione di deterrenza. Se la disponibilità a
          lavorare prevedesse, invece, la partecipazione ad attività formative,
          a essere privilegiata sarebbe l’offerta di opportunità di
          qualificazione del capitale umano. Inoltre, come argomenta, di nuovo,
          Fazzi, in una prospettiva di salari efficienza, ossia, di salari
          concepiti come strumento di induzione all’offerta di sforzo da parte
          del lavoratore, la deterrenza potrebbe esercitare effetti positivi
          anche sul livello complessivo dell’occupazione. L’assunto è che,
          in presenza di uno schema severo di workfare, i lavoratori saranno
          indotti a offrire più sforzo - per contenere i rischi di
          licenziamento - con il risultato di un abbassamento del salario
          efficienza e, con esso, della disoccupazione. In entrambe le
          specificazioni, il workfare potrebbe, altresì, favorire la
          prevenzione a seguito di una modificazione delle preferenze nella
          direzione di un maggior attaccamento al lavoro.
 
 Infine, accenno brevemente a un ultimo vantaggio del workfare che
          riguarda il piano politico. Vale a dire, se l’entità dei
          trasferimenti selettivi fosse limitata dalle resistenze dei più
          ricchi a redistribuire a favore dei più poveri, il workfare potrebbe
          contribuire a diminuire tali resistenze.
 
 Alcune questioni rimangono, però, aperte. Da un lato, molte delle
          argomentazioni appena esposte indicano strade alternative, che
          obbligano alla scelta. Ad esempio, è evidente il contrasto fra le due
          vie indicate ai fini della prevenzione. La deterrenza richiede di
          accentuare la disutilità del lavoro. Il che implica muoversi nella
          direzione opposta rispetto alla via della qualificazione del capitale
          umano. Come procedere, allora? Realizzando un workfare severo, come
          sostenuto dai conservatori morali, che plaudono a programmi di duro
          lavoro che rinforzano il controllo sociale, la disciplina lavorativa,
          lo stigma nei confronti di chi non lavora? Oppure, la direzione è
          quella dell’offerta di opportunità secondo modalità tese a
          favorire l’inclusione, come sostenuto dal New Labour?
 
 Similmente, se si propende per la via dell’offerta di opportunità,
          verrebbe ad ingenerarsi un altro trade off, questa volta, fra
          prevenzione e selezione, dato che più le politiche puntano su tale
          qualificazione, più coloro che avrebbero le abilità per guadagnare
          un reddito alternativo saranno incentivati a entrare nel programma.
          Anche in questo caso, come comportarsi: «errando dal lato della
          generosità» oppure da quello della severità? Ancora, come
          individuare i soggetti in grado di lavorare? Ad esempio, sono da
          includersi anche i soggetti con responsabilità di cura oppure no?
 
 Da un altro lato, la stessa realizzazione dei programmi di workfare
          richiede risorse finanziarie, che potrebbero rivelarsi ingenti. Basti
          pensare ai costi per le remunerazioni del personale, ai costi per l’acquisto
          di beni e servizi strumentali all’amministrazione del workfare,
          nonché ai costi connessi alle attività di formazione e alla
          creazione pubblica di posti di lavoro, qualora l’economia non sia in
          grado di generare una domanda sufficiente di lavoro. Non solo: nell’ipotesi
          dell’obbligo a lavorare per un salario, anche se l’economia
          generasse un numero «adeguato» di posti di lavoro, le remunerazioni
          offerte potrebbero rivelarsi assai lontane dalla linea della povertà.
          In tal caso, i trasferimenti, in termini di sussidio al salario,
          resterebbero ingenti. Di converso, se l’obbligo al lavoro fosse
          associato all’assunzione di un lavoro «gratuito» nel settore
          pubblico, diminuirebbe il tempo disponibile per eventuali impieghi
          privati, con un incremento nel divario di povertà, con un aumento
          conseguente nelle dimensioni della spesa per trasferimenti.
 
 Da un altro lato, ancora, il workfare potrebbe creare costi
          esterni per i lavoratori a bassa qualificazione precedentemente
          impiegati. Come argomentano Peck e Theodore, il workfare
          comporterebbe, infatti, la deregolamentazione del mercato del lavoro a
          bassa qualificazione, così creando costi per lavoratori, estranei al
          sistema dei trasferimenti, per le cui occupazioni competerebbero i
          destinatari del workfare. In questo senso, essi affermano, il workfare
          rappresenterebbe «l’analogo in termini di politiche sociali dei
          mercati flessibili del lavoro». Le conseguenze complessive potrebbero
          essere sia la disoccupazione - a seguito dello spiazzamento da parte
          degli individui coinvolti nei programmi di workfare - sia l’indebolimento
          delle tutele sindacali, con il risultato complessivo, oltre al
          peggioramento delle condizioni di lavoro, di una diminuzione delle
          remunerazioni. Ad esempio, secondo Solow, occupare 2/3 della
          popolazione adulta destinataria del programma americano di aiuto alle
          famiglie povere con i figli a carico implicherebbe, oltre a una
          maggiore disoccupazione fra i lavoratori estranei al sistema di
          workfare, una diminuzione delle remunerazioni reali fra il 3 e
          il 5 per cento. Aggiungo che l’eventuale disoccupazione per i
          lavoratori precedentemente occupati, oltre a rappresentare un altro
          esempio di effetto perverso, riguarderebbe proprio quei soggetti
          «virtuosi» - che lavoravano, anziché dipendere dal welfare.
 
 Da ultimo, una questione più specifica che riguarda le sole modalità
          di workfare che si sostanziano nel sussidio alle remunerazioni offerte
          nei confronti dei lavoratori a bassa produttività. La questione è
          che, benché spostati a livelli superiori di reddito, resterebbero
          presenti i disincentivi al lavoro che assillano i trasferimenti
          graduati di reddito. La ragione è che limitare i sussidi a
          determinati livelli salariali, significa ricreare i problemi connessi
          con il tasso di sostituzione. Non solo. Restando il sussidio collegato
          al reddito familiare, sarebbero in essere gli stessi disincentivi al
          lavoro nei confronti del coniuge più debole.
 
 Anche a questo proposito, come comportarsi? Il workfare dovrebbe
          essere, comunque, mantenuto, nonostante il rischio dei costi appena
          menzionati o sarebbe preferibile abbandonarlo? Oppure, sarebbero da
          seguire vie intermedie, che combinano trasferimenti incondizionati a
          favore dei soggetti meno produttivi e trasferimenti vincolati al
          workfare?
 
 Quali conclusioni trarre?
 
 Rispetto alle domande presentate, non solo diventano essenziali le
          indagini empiriche, ma, laddove le politiche pubbliche ingenerano
          costi per determinati soggetti - siano essi i destinatari potenziali
          delle politiche o i potenziali finanziatori - l’analisi economica
          resta, inevitabilmente, muta. Le risposte possono derivare solo dalla
          riflessione etica e dai processi di scelta collettiva.
 
 Ciò nonostante, l’analisi economica appare insostituibile per
          allargare il quadro informativo entro il quale compiere le scelte,
          così, da un lato, mettendo in guardia l’etica da difese affrettate
          di assetti istituzionali che rischiano di rivelarsi assai più costosi
          di quanto atteso - i trasferimenti selettivi, come sopra indicato, non
          possono essere concepiti come equivalenti a trasferimenti universali
          su scala ridotta - e, dall’altro, obbligando a considerare domande
          altrimenti ignorate. Come abbiamo visto, la domanda se il workfare
          rappresenti o meno l’imposizione di una virtù è ben lungi dall’esaurire
          le questioni da affrontare nella scelta o meno a favore del workfare
          e, in caso affermativo, di quale workfare.
 
 L’analisi economica gioca, dunque, un ruolo centrale nel delineare l’humus
          appropriato nel quale articolare le scelte, mentre l’etica pubblica
          fornisce i criteri di scelta, nella consapevolezza dei costi e dei
          benefici dei diversi assetti resa, a sua volta, possibile dall’analisi
          economica. In questo senso e in termini generali, riflessione
          economica e riflessione etica appaiono entrambe centrali per un
          processo di raffinamento continuo dei processi di valutazione delle
          politiche pubbliche.
 
 Ultimo punto, prima di concludere. Il contributo dell’analisi
          economica in materia di workfare costituisce solo uno dei tasselli del
          quadro informativo necessario alla scelta fra selettività e
          universalità. A tale fine, molteplici sono le questioni addizionali
          che si pongono. Ad esempio, a militare contro la selettività
          potrebbero essere le difficoltà connesse alla verifica delle risorse
          possedute dai singoli. Al tempo stesso, la questione degli incentivi e
          dei disincentivi associati al gioco politico andrebbe più
          dettagliatamente analizzata. Ancora, la selettività potrebbe essere
          osteggiata, per gli effetti di divisione della collettività in due
          gruppi di cittadini ad essa inevitabilmente associati. Oppure, qualora
          si propendesse per la selettività e, in questo quadro, si optasse per
          l’utilizzazione di una soglia di risorse in qualche misura correlata
          al nucleo familiare, resta il problema di quali famiglie considerare.
 
 Anche rispetto ad alcune di queste questioni, l’analisi economica ha
          un contributo da offrire: basti pensare al tema delle difficoltà
          connesse alla verifica delle risorse possedute. Si tratta, però, di
          un tema che esula dagli scopi di questo articolo, i cui confini
          consistono nella presentazione del contributo dell’analisi economica
          alla sola valutazione del workfare.
 
 
 Articoli collegati:
 Povertà e culture della
          giustizia
 Alcuni contributi dell’analisi
          economica
   Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti
        da fare? Scriveteci il vostro punto di vista cliccando qui Archivio
        Attualita' |