| Povertà e culture della giustizia 
 
 
 Ota de Leonardis
 
 
 
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 Povertà e culture della
          giustizia
 Alcuni contributi dell’analisi
          economica
 Questo saggio appare sul numero 2/2000 della Nuova Serie della rivista
          Filosofia e Questioni Pubbliche diretta da Sebastiano Maffettone, e fa
          parte di un forum su Workfare e Welfare. Per ulteriori informazioni
          potete collegarvi al sito
          della Luiss Edizioni  o scrivere all'indirizzo e-mail edizioni@luiss.it
 
 Il solo epigramma permesso alla Miseria è quello di obbligare la
          Giustizia e la Beneficenza a ingiusti dinieghi.
 H. de Balzac
 
 Introduzione: il discorso della povertà
 
 La povertà è ricomparsa in forme vistose nel cuore metropolitano
          delle società ricche del mondo (per non parlar del resto) occupando
          la scena delle politiche sociali in tutti i regimi di welfare.
          Riaffiorano dal passato le immagini à la Dickens della
          «questione sociale» che ha storicamente accompagnato l’industrializzazione
          e la modernizzazione. Con la differenza tuttavia che queste immagini
          si vanno a collocare sullo sfondo dei «trenta gloriosi» anni dello
          sviluppo del welfare state in cui le promesse e le conquiste di piena
          occupazione, diritti e integrazione sociale relegavano la povertà in
          sacche residuali o nel ruolo di sottoprodotto di altri problemi
          sociali (malattia, vecchiaia, famiglie problematiche eccetera).
 
 La rinnovata centralità del tema della povertà trova senz’altro
          giustificazioni in riscontri statistici e argomenti esplicativi.
          Esauritasi rapidamente la fase nella quale essa sembrava ritornare
          come fenomeno postmaterialistico (una sorta di rigurgito del
          consumismo della società opulenta e «garantita»), la povertà torna
          ad ancorarsi a condizioni materiali di vita e problemi di reddito.
          Certo, la ricerca ne evidenzia i caratteri di multidimensionalità, l’addensarsi
          nel fenomeno di molteplici fattori di deprivazione di natura non
          soltanto economica (comprese le barriere etniche e i deficit
          culturali, informativi e di literacy); e riconduce la crescita
          del fenomeno al concorso di processi diversi: la fragilizzazione dei
          legami famigliari, peraltro esasperata dal sovraccarico di
          responsabilità e costi materiali di cura che pesa oggi sulle famiglie
          - per motivi diversi e in forme eterogenee che non è il caso di
          esaminare qui; le misure più o meno drastiche di contenimento della
          spesa pubblica e la connessa delegittimazione dell’impegno
          regolativo e redistributivo dell’intervento pubblico, che
          introducono restrizioni ed esclusioni di vario tipo nell’accesso a
          beni e servizi di welfare; la crisi del lavoro, in tutti i suoi
          molteplici aspetti: non soltanto il noto problema della disoccupazione
          strutturale, ma più al fondo la metamorfosi della condizione
          salariale con il diffondersi di forme di lavoro precarie e mal
          remunerate e di correlate condizioni di vulnerabilità e insicurezza
          sociale. Il concorso di questi diversi processi alimenta dinamiche di
          impoverimento, spirali o circuiti viziosi in cui questi processi si
          cumulano e si rafforzano a vicenda, e da cui diventa ogni volta più
          difficile uscire, determinando una perdita di quelle dotazioni o capabilities
          di base (anzitutto l’abitare, il nutrimento, la salute e l’istruzione
          di base) da cui dipende sia la fiducia in se stessi che l’integrazione
          nella comunità di appartenenza.
 
 Ma «povertà» è anche soltanto un nome, un modo di definire e di
          tematizzare i problemi oggetto delle politiche sociali. O meglio, la
          sua centralità rinvia a dati almeno tanto quanto rinvia a modi di
          definirli, classificarli e interpretarli, come viene del resto
          riconosciuto dalla riflessione più avvertita sulla ricerca empirica
          in merito: «piuttosto che studiare la povertà o l’esclusione
          sociale come status o condizioni “oggettive”, autoevidenti, sembra
          più fruttuoso analizzare come esse siano interpretate, riconosciute e
          socialmente definite - ad esempio come povertà “meritevole” o “non
          meritevole” - all’interno di una data società». Questo problema
          è centrale nelle politiche sociali di tutti i regimi di welfare,
          anzitutto in quanto è il tema chiave attorno a cui s’intrecciano
          gli argomenti, i discorsi pubblici, politici o esperti, e di senso
          comune, su quelle politiche. E dalla riflessione scientifica sulla
          vicenda storica dello sviluppo del welfare state abbiamo imparato che
          ciò che accade nel vocabolario con cui se ne parla ha implicazioni
          decisive nello strutturare i problemi e le soluzioni.
 
 In questa vena, intendo sostenere che il tema della povertà, via via
          che acquista importanza, trascina con sé una trasformazione del
          lessico e degli argomenti che punteggiano il discorso sul welfare: il frame
          che struttura le scelte, le pratiche e gli obiettivi del policy
          making, non meno che l’elaborazione scientifica, di ricerca e
          teorica.
 
 Utilizzerò dunque i modi di trattare questo tema come indizi per
          esplorare questo slittamento semantico che coinvolge e sconvolge più
          in generale i modi di parlare, di valutare e di fare nel campo del
          welfare. Per avviare il ragionamento indico a titolo esemplificativo
          qualche pista da seguire, accettabile peraltro solo in prima
          approssimazione. Il tema della povertà è associato alla formulazione
          dei target dell’intervento sociale in termini di bisogni più che di
          diritti, il che forse comporta il riferimento a destinatari di misure
          distributive più che ad attori che partecipano al conflitto
          democratico di definizione e riconoscimento di bisogni - e di beni -
          comuni. Inoltre, il riferimento alla povertà si alimenta sulle
          operazioni teoriche e pratiche di critica e semplificazione della
          griglia categoriale del welfare state che dava cittadinanza a
          portatori individuali di problemi sociali in quanto appartenenti a
          categorie sociali: la povertà taglia a traverso queste categorie e
          tendenzialmente è sans phrase, come direbbe Marx. Infine è un
          riferimento, quello alla povertà, indispensabile alla moralizzazione
          (e depoliticizzazione) del discorso sul welfare: se si tratta di
          poveri, nel discorso non è comunque più in gioco una questione di
          egemonia. Alle spalle dell’alternativa tra workfare e basic income c’è
          la povertà, non solo come problema target, come oggetto prioritario
          di intervento, ma almeno altrettanto come codice di definizione,
          classificazione, selezione e valutazione dei problemi oggetto di
          scelte, politiche e pratiche d’intervento sociale.
 
 Di questo slittamento semantico che accompagna l’emergenza della
          povertà esaminerò quattro aspetti che riguardano altrettanti nodi
          cruciali di una riflessione sul welfare, e sui suoi principi di
          giustizia, di natura sia analitica che normativa.
 
 a) Mostrerò anzitutto come il tema della povertà induca la
          riflessione sia empirica che normativa a concentrarsi su problemi di
          soglia, e segnalerò in proposito qualche implicazione. Il personaggio
          che attrae l’attenzione è l’abile povero, l’able-bodied poor;
 b) in secondo luogo analizzerò diversi aspetti e livelli di un
          effetto di moralizzazione (e depoliticizzazione) del discorso sul
          welfare che accompagna la tematizzazione della povertà. A cominciare
          dall’alternativa tra povero vittima o responsabile della sua
          condizione, che esclude la possibilità di riconoscerlo come attore
          potenziale; vedremo poi, nel prosieguo del ragionamento, come una
          strada per uscire da questa alternativa potrebbe essere esplorata
          seguendo quelle strategie di azione che ne perseguono la validazione -
          aggirando appunto i limiti sia della responsabilizzazione che del
          risarcimento;
 
 c) terzo, rifletterò sull’influenza del paradigma distributivo che,
          sulla scorta del tema della povertà, si esercita sulle questioni di
          giustizia in gioco nel welfare: facendo anzitutto diventare dirimenti
          criteri e scelte sull’equità, più che dilemmi e conflitti sull’eguaglianza;
          mostrerò cioè come l’equilibrio tra contributi e benefici, tra
          dare e avere, diventi l’unico gioco ammesso al vaglio di
          considerazioni di giustizia, con l’esclusione di considerazioni che
          invece riguardano, a monte, poteri e libertà esercitate nel
          deliberare a quale gioco giochiamo, e le diseguaglianze che vi si
          annidano;
 d) e infine mostrerò come gli argomenti sia di giustizia che di policy
          relativi alla povertà tendano ad eliminare dal ragionamento le
          questioni del «come» concretamente agiscano gli interventi sociali:
          il riconoscimento del peso delle articolazioni organizzative e
          istituzionali, delle culture e delle pratiche, e di ciò che vi si
          genera in termini di culture della giustizia. Esaminerò in proposito,
          brevemente, le misure di contrasto della povertà che chiamano in
          causa il terreno del lavoro - dell’inserimento lavorativo.
          Soprattutto per domandarmi se e a quali condizioni, su questo terreno,
          è possibile percorrere la via della validazione.
 
 Questioni di soglia: giustizia e giustezza
 
 L’importanza acquisita dal tema della povertà nelle ricerche,
          teorie e politiche del welfare trascina con sé, dicevo, una tendenza
          a focalizzare l’attenzione su questioni di soglia. Questa tendenza
          si manifesta in forme eterogenee e su registri discorsivi differenti e
          a volte anche, in prima istanza, conflittuali. Per esempio un problema
          di soglia viene evocato sia da discorsi che associano il tema della
          povertà a quello dell’esclusione sociale, con intenti di critica
          delle barriere che l’alimentano, sia da discorsi che lo associano a
          principi e valutazioni di meritevolezza, con intenti di
          responsabilizzazione degli interessati. È a questo secondo tipo di
          versioni della soglia che farò qui soprattutto riferimento.
 
 Inoltre, sono questioni di soglia quelle attorno a cui si concentrano
          le ricerche empiriche, le rilevazioni e interpretazioni dei dati
          statistici relativi alle condizioni di vita suscettibili di intervento
          sociale e i connessi esercizi di misurazione della povertà, e per
          estensione dei problemi sociali in generale. Si è sviluppato in
          proposito sia un intenso impegno computazionale a sostegno di
          politiche e misure operative di welfare, sia un dibattito sui criteri
          di definizione della soglia e di misurazione rispetto ad essa, ad
          esempio dello standard di vita e, reciprocamente, della soglia di
          povertà. Un numero crescente di politiche sociali dipende da questi
          criteri e da quegli esercizi di misurazione, a cominciare dalle
          politiche means tested nelle quali l’accesso a beni e servizi
          sociali viene subordinato alla certificazione di uno stato di bisogno.
 
 In termini storico-culturali potremmo interpretare l’importanza
          acquisita dai temi della povertà e della soglia di povertà come
          portato di un processo di «americanizzazione» del discorso e delle
          politiche del welfare, dell’influenza esercitata cioè dalla cornice
          interpretativa corrispondente al modello «residuale» di welfare
          affermatosi storicamente negli Stati Uniti: lo sviluppo del welfare
          giustificato come «guerra alla povertà», e specularmente criticato
          come sistema di «regolazione dei poveri». Questo frame ha
          influenzato fortemente anche le riorganizzazioni introdotte nei regimi
          di welfare europei che, pur nella loro eterogeneità, avevano un
          termine di riferimento nel modello socialdemocratico dei «diritti di
          cittadinanza». Certo, questa influenza è stata stemperata dallo
          sforzo di connettere la povertà a processi di esclusione sociale,
          sforzo dispiegato con buoni argomenti nelle stesse linee
          programmatiche delle politiche comunitarie di «lotta alla povertà e
          all’esclusione sociale». Grazie a questa connessione le questioni
          di soglia si presentano in forme diverse, articolate in una
          molteplicità di fattori eterogenei e fluidificate in processi
          dinamici e radicati localmente. Ma pur con queste specificità anche
          in Europa la forza di attrazione del tema della povertà non è senza
          effetti, come vedremo più avanti.
 
 In termini fenomenologici, potremmo ragionare sul peso e le ragioni di
          una figura emergente nelle politiche, nelle pratiche e nei discorsi
          sul welfare, quella dell’«abile povero». Si tratta in linea di
          massima di persona la cui condizione di bisogno resta associata a
          capacità di svolgere una vita attiva, dunque di lavorare e procurarsi
          un reddito. Una persona bisognosa, che manca tuttavia di un requisito
          conclamato - un handicap, una mancanza - che giustifichi quella
          condizione. La figura del povero-eppure-abile funziona da riferimento
          di fondo, per lo più implicito, per stabilire, in materia di scelte e
          interventi sociali, se la condizione di povertà, lo stato al di sotto
          della soglia, pertenga al soggetto interessato, come questione di
          scelta, comportamento e responsabilità, oppure a condizioni sociali -
          in primis il problema del lavoro - di cui questi è vittima. Il
          povero-eppure-abile funziona da marker della soglia: è a un
          passo dal superarla e per questo, e perché associa povertà e
          abilità, questa figura condensa in sé motivi e argomenti sul welfare
          in termini di soglia.
 
 La configurazione sintattica e semantica dei temi del welfare in
          termini di soglia, che si accompagna al problema della povertà,
          comporta due corollari che a mio parere meritano di essere messi a
          fuoco ed esplorati. Anzitutto il riferimento privilegiato a questioni
          di soglia comporta una profonda revisione dei codici di definizione
          delle materie sociali oggetto di scelte e interventi di welfare che
          consiste, per dare una prima formulazione sintetica, in un’opera di
          decategorizzazione. O quanto meno quest’opera ne costituisce un
          aspetto rilevante. Vediamo di che si tratta.
 
 Si può cominciare col rilevare che «povertà» è una nozione larga
          e generica, soprattutto se confrontata con il ricco vocabolario di
          classificazioni e categorie in cui erano suddivise (non di rado anche
          compartimentate e frammentate) le materie sociali oggetto d’intervento
          nei regimi maturi di welfare, di stampo più o meno universalistico.
          Questo vocabolario consentiva di parlare non semplicemente di
          povertà, bensì di malattia, vecchiaia, handicap, devianza; di
          educazione, socializzazione, integrazione; di scuole, ospedali,
          servizi sociali e così via. La tematizzazione della povertà, e la
          prospettiva della soglia verso cui orienta l’attenzione, diluiscono,
          depotenziano e tendenzialmente invalidano questa impalcatura
          categoriale e insieme anche questo patrimonio culturale che essa bene
          o male amministrava. Nella recente letteratura di modellistica e
          classificazione dei regimi di welfare, il modello di welfare detto per
          l’appunto categoriale costituisce una delle forme abortite o
          degradate del modello puro, di tipo tendenzialmente universalistico.
 
 La suddivisione dell’utenza e degli interventi per categorie dà
          luogo, si sostiene, a forme diffuse di particolarismo, disparità di
          trattamento, arbitrii, sprechi e vantaggi illegittimi eccetera. Si
          tratta di critiche documentate e in prima istanza condivisibili, ma da
          contestualizzare: per distinguere quanto meno le forme di
          riconoscimento categoriale di diritti - di «soggetti tacitati»
          anzitutto - come nel modello socialdemocratico, dalle forme
          clientelari di casa nostra, che riproducono sudditanza e, secondo
          alcuni, affondano le loro radici nel corporativismo fascista. Nel
          frattempo però - imboccando a mio parere una scorciatoia - la ricerca
          di forme d’intervento tendenzialmente universalistiche oggi sembra
          privilegiare appunto la via della decategorizzazione, e puntare su
          target e strategie d’intervento «trasversali», che abbracciano il
          terreno decisamente meno strutturato delle misure di «lotta alla
          povertà». Qui, guardando alle pratiche in cui si traduce questa
          prospettiva, il quadro si fa confuso e frammentato e gli intenti non
          selettivi e perequativi si rifrangono, senza emergere davvero, in una
          molteplicità di soglie: per esempio la soglia - che diventa spesso
          barriera - tra formazione professionale e lavoro. Vi ritornerò nell’ultimo
          paragrafo. Ma bisognerebbe anche affrontare le retoriche buoniste
          della solidarietà che, forti del loro rinnovato matrimonio con il
          mercato nella formula del non profit, si alimentano sulla
          decategorizazione della «lotta alla povertà» (qualunque intervento
          è buono se rivolto ai bisognosi).
 
 Ma anche le teorie e le proposte che sostengono forme di basic income
          partecipano di questa decategorizzazione: l’idea stessa di un
          reddito di base incondizionato rivendica uno statuto universalistico
          grazie al ricorso ad un parametro delle condizioni di vita semplice e
          parsimonioso, quello del reddito appunto. Intendo cioè sostenere che
          in tutte queste espressioni della decategorizzazione, eterogenee e
          anche potenzialmente conflittuali, si annida un problema di fondo. Con
          un’immagine di sintesi lo si potrebbe esprimere così: al delirio
          burocratico (ma se è per questo anche dei saperi e poteri
          tecnico-professionali) della moltiplicazione specialistica delle
          categorie si va sostituendo il delirio computazionale che traduce
          tutte le questioni in termini di misurazione. Pur appartenendo
          entrambi allo stampo dell’esprit de géométrie essi si
          differenziano su un punto strategico, sul piano dei processi di sensemaking
          che alimentano. Nella decategorizzazione si esercita una spinta alla
          riduzione e semplificazione ad una questione di soglia,
          tendenzialmente ad un unico confine, della molteplicità di confini in
          cui era strutturato il campo del welfare organizzato per categorie. Si
          tratta di riduzione della complessità, non foss’altro nel senso che
          attraverso questo processo vengono disattivate la pluralità delle
          sfere sociali, dei problemi e dei beni rispetto a cui si tratta di
          valutare ragioni e misure dell’intervento di welfare. Quella
          pluralità, per intenderci, che rende possibile l’eguaglianza
          complessa.
 
 Possiamo evidenziare questo problema di fondo in un altro modo. L’impianto
          categoriale del welfare storico, dei diritti sociali, si articolava
          sulla base della distinzione e definizione di alcuni beni comuni, l’accesso
          ai quali fosse da considerarsi come patrimonio di base della
          cittadinanza: tutela della salute, educazione di base, garanzie da
          rischi sociali eccetera. L’accesso ai servizi pubblici deputati a
          produrre questi beni non registrava caratteristiche della popolazione
          ma caratteristiche dei beni in questione: è la loro natura di beni
          comuni non la posizione dei destinatari che ne giustifica l’erogazione.
          E le corrispondenti questioni di giustizia si alimentavano sul ricco
          repertorio di temi e vocabolari specifici, locali, relativi alla
          definizione e al trattamento di quei beni, differenti. La
          decategorizzazione semplifica il discorso, e con ciò svuota e
          sterilizza la pluralità delle arene, dei temi, degli attori e dei
          conflitti, che dava spessore alla discussione e deliberazione
          pubbliche su fini e beni collettivi.
 
 Una precisazione forse è opportuna, a questo punto. Non sto
          rivalutando l’impianto categoriale del welfare state sul quale
          peraltro ho avuto modo di esercitare a lungo la mia attenzione
          critica: sto soltanto suggerendo che la decategorizzazione rischia di
          essere una scorciatoia troppo sbrigativa, che non lavora e non
          attrezza a lavorare sulla trasformazione dei confini (e delle
          istituzioni) da barriere a ponti, perché tende semplicemente ad
          azzerarli.
 
 In secondo luogo, la focalizzazione dell’attenzione su questioni di
          soglia, sul povero-eppure-abile e sul nesso tra povertà e abilità
          ricaccia nell’ombra, per così dire, il povero disabile, cioè i
          più svantaggiati, coloro che «stanno peggio» e ai quali non basta
          un passo soltanto per superare la soglia e accedere ad una normale
          vita di lavoro. E con ciò tendenzialmente rimuove le grandi questioni
          di giustizia con cui si è storicamente confrontata la costruzione del
          welfare. Sono, per intenderci, le questioni affrontate nel dibattito
          di teoria della giustizia, di nuovo intensificatosi nell’ultimo
          lustro in parallelo, non per caso, con la tematizzazione della «crisi
          del welfare state»: sull’eguaglianza, anzitutto, per esempio dell’accesso
          a beni primari commisurato (come nel «principio di differenza»
          formulato da Rawls) su coloro che «stanno peggio»; e
          complementarmente sulla «fondamentale diversità degli esseri umani»
          (per usare una formulazione di Sen). In questo dibattito è la
          disabilità - comunque formulata - che fa problema quanto basta per
          sottrarla al registro naturalizzante del destino e per tenere aperte
          tensioni e contraddizioni sui temi della giustizia.
 
 Questa rimozione del tema della disabilità trascina dunque con sé,
          ai margini dei discorsi sul welfare, i temi della diseguaglianza e
          dell’eguaglianza, gli argomenti a favore di principi e politiche
          redistributive in nome di alcuni presupposti di base, condivisi, della
          cittadinanza, in definitiva l’intero patrimonio culturale e politico
          della giustizia sociale come base di convivenza civile e di
          democrazia. Se al centro dell’attenzione ci sono gli abili poveri,
          allora i disabili (e perciò poveri, deprivati) tornano a
          rappresentare problemi e disgrazie che appartengono al registro del
          destino, socialmente irrilevante: problemi e disgrazie personali, che
          riguardano loro e il loro ambiente privato e che tutt’al più
          possono costituire l’oggetto su cui gli attori sociali esercitano
          scelte morali private; questioni di coscienza personali risolvibili
          con la beneficenza, non questioni pubbliche, materia di scelte e
          principi politici e di etica pubblica.
 
 Moralizzazione del discorso
 
 Un secondo aspetto della revisione sintattica e semantica delle
          questioni del welfare guidata dalla tematizzazione della povertà
          consiste in una forte spinta alla moralizzazione del discorso, che si
          associa ad un orientamento sia a soggettivare problemi e scelte, che a
          depoliticizzarle.
 
 Questa spinta risulta particolarmente evidente negli approcci sia
          scientifici che operativi che, concentrando per l’appunto l’attenzione
          sulla soglia in cui povertà e abilità sono compresenti, enfatizzano
          principi e obiettivi di responsabilità, indipendenza, self-reliance.
          Anzitutto, come rileva Goodin criticando gli argomenti in difesa di
          questo approccio sostenuti da Schmidtz, vi è all’opera un processo
          di «moralizzazione della dipendenza». Vediamo di che si tratta.
 
 Schmidz ripropone - con eloquenza quasi militante - gli argomenti
          centrali dello schieramento che negli ultimi venti anni ha criticato
          il welfare state sostenendone il ridimensionamento, e una radicale
          revisione dei presupposti di giustizia sociale su cui si basa. Come
          segnala il titolo del suo saggio, al centro c’è la questione della
          responsabilità individuale, o meglio la re-internalizzazione della
          responsabilità che il welfare state aveva esternalizzato nella government
          responsibility e nelle politiche redistributive. La società è
          una shared venture che richiede per «diventar migliore» il
          contributo di ciascun individuo. Soprattutto, essa richiede
          istituzioni che, come emblematicamente l’istituto della proprietà
          privata, mettano gli individui in grado di fornire questo contributo
          esercitando le loro capacità e le loro responsabilità nel perseguire
          i loro interessi privati. «Le istituzioni servono il bene comune
          inducendo comportamenti che servono il bene comune, cosa che fanno
          inducendo le persone a coltivare i loro giardini in modi che servono
          il bene comune» e, come viene più volte ripetuto, «per vie
          pacifiche e produttive».
 
 Questa prospettiva pone come cruciale un problema di equità, tra chi
          da un lato contribuisce a questa social venture, al progresso
          sociale, e chi invece non vi contribuisce pretendendo in più, come i
          beneficiari del welfare, di goderne i benefici. Certo, c’è chi non
          è proprio in grado di contribuire, a causa di una disabilità
          conclamata di cui non è responsabile: ma di costoro - di quelli che
          stanno peggio, per riprendere il punto precedente - il ragionamento di
          Schmidtz non si occupa.
 
 Il suo riferimento è infatti all’abile povero, che tende ad
          affidare la propria sopravvivenza ai sussidi di welfare, invece di
          lavorare, esternalizzando così appunto la propria responsabilità,
          irriducibilmente individuale, nel confronti della sua stessa vita.
          Più precisamente, il caso assunto come emblematico è quello delle
          «madri sole», le donne dei programmi di aiuto per famiglie
          monoparentali con minori a carico (lo storico AFDC) al centro delle
          politiche di welfare negli Stati Uniti. Questa figura è stata, ed è
          tutt’ora, l’obiettivo principale delle critiche moralizzatrici del
          welfare, individuata come responsabile al tempo stesso della
          lievitazione della spesa pubblica e della disgregazione della
          famiglia.
 
 La relativa marginalità di questa figura nel dibattito europeo sul
          welfare è in prima istanza il punto su cui misurare le differenze
          alle quali già accennavo tra le due sponde dell’Atlantico nel
          trattamento del tema della povertà. In Europa le madri sole sono in
          genere non evidenziate, se non decisamente «invisibili» come in
          Italia: o sono assorbite nelle politiche di parità, come nei regimi
          nordeuropei; o viceversa sono immerse in un sistema familistico che ne
          registra l’esistenza in rapporto a condizioni «normali» di
          dipendenza dal capofamiglia, come nel welfare italiano (in cui resiste
          la figura della ragazza madre sfortunata, «sedotta e abbandonata»).
          Se tuttavia si guarda all’Italia si può intravedere un’area di
          problemi sociali che potrebbe candidarsi a svolgere un’analoga
          funzione simbolica nelle politiche contro la povertà: la crescente
          attenzione alla tenuta morale della famiglia, e il ricorso al
          parametro del «superiore interesse del bambino» per misurare questa
          tenuta - in termini dunque di responsabilità genitoriale - tendono ad
          alimentare un orientamento sanzionatorio e misure di tipo punitivo nei
          confronti delle famiglie più deprivate, e in particolare delle madri
          (sole o meno), che culminano nelle misure giudiziarie di sottrazione
          dei figli.
 
 Va in ogni caso tenuto presente che nell’argomentazione di Schmidtz
          l’obiettivo critico è quello di scandire la differenza tra
          produttivo e improduttivo (letteralmente) e tra deserving e undeserving
          poor: porre la questione morale della meritevolezza e
          stigmatizzare la dipendenza ingiustificata (dallo Stato) che pone il
          povero abile, in quanto welfare recipient, in una posizione
          pericolosamente affine a quella del free rider. La dipendenza
          viene associata ad opportunismo. Questo è il tenore degli argomenti
          critici nei confronti del welfare state.
 
 Sotto il profilo propositivo l’obiettivo complementare è quello di
          sostenere politiche e istituzioni che incoraggino le persone ad
          assumersi le loro responsabilità. Diciamo, genericamente, nella
          direzione del workfare, dell’investimento su programmi che inducano,
          con incentivi positivi o negativi, a entrare nel mondo del lavoro, in
          qualche modo, e a guadagnarsi un reddito purchessia.
 
 Più in generale l’idea di istituzioni e politiche looking-forward,
          che operano in modo da incentivare l’assunzione di responsabilità
          individuale, viene sviluppata lungo il sentiero tracciato dal
          riferimento privilegiato, come già dicevo, all’istituto della
          proprietà privata come prova storica del fatto che gli individui
          danno il meglio di sé per il bene comune quando coltivano i propri
          interessi, e se ne assumono responsabilmente i rischi. Rinviando ad
          una lettura standard, a stampo utilitarista, della tragedia dei beni
          comuni, Schmidtz propone le virtù di quelle forme di appropriazione
          che si esercitano su common pool goods, preservandone la
          condivisione dell’uso e delle responsabilità di cura e
          riproduzione. In particolare richiama in questa chiave l’esperienza
          delle friendly societies di epoca vittoriana, una via di mezzo
          tra le società di mutuo soccorso di matrice operaia, e le
          assicurazioni private di categoria.
 
 Gli argomenti contro questa prospettiva, sostenuti da Goodin nella
          pars destruens del suo contributo, appaiono in linea di massima
          convincenti. Decostruendo con un procedimento analitico le nozioni di
          dipendenza e di responsabilità cui ricorrono largamente i critici del
          welfare state, Goodin porta in luce la moralizzazione della dipendenza
          e la conseguente adesione ad una concezione della responsabilità come
          imputazione di colpa (blame responsibility): in definitiva la
          punitività delle politiche di welfare orientate a responsabilizzare.
 
 Anzitutto, come dicevo, l’attenzione posta prioritariamente sul
          povero abile e la madre sola - le cui condizioni di dipendenza non
          sono imputabili a cause di forza maggiore, come un handicap - comporta
          una sopravvalutazione eccessiva dei margini di scelta a disposizione
          degli interessati: in realtà essi non hanno alternative tra cui
          scegliere.
 
 Se ci si pone anzi dalla loro prospettiva, come Goodin ci invita a
          fare, e si guarda alle loro ragioni - come direbbe Boudon - si possono
          individuare prove a contrario di un comportamento responsabile. In
          particolare nel caso delle madri sole, c’è l’assunzione di
          responsabilità riguardo ai figli nel ricorso ai (comunque magri)
          benefici del welfare, in particolare una responsabilità rivolta al
          futuro. Viceversa, l’invito ad internalizzare la responsabilità, a
          non delegarla al welfare, al «governo», che viene rivolto alle madri
          sole attraverso gli incentivi all’indipendenza dei programmi di
          workfare, potrebbe rivelarsi un ipocrita rinvio della persona in
          questione ad altri tipi di dipendenza, familiare e familista, e con
          tutta probabilità patriarcale e sessista: dai genitori, dal padre del
          bambino, dalla benevolenza privata. Ammesso che ve ne siano davvero le
          condizioni, l’invito alla responsabilità e all’indipendenza in
          questo caso prelude allo spostamento da condizioni di dipendenza
          impersonale, e pubblica, a condizioni di dipendenza personale, tutta
          giocata dentro legami particolaristici e privati (nel senso anche di
          sottratti alla visibilità pubblica).
 
 In realtà, nel caso delle madri sole il ricorso ai benefici del
          welfare sembra indicare piuttosto quella capacità di «fare
          progetti» di solito apprezzata come indicatore di self-reliance ,
          e un tentativo di non dipendere dagli altri, nel proprio concreto e
          circoscritto contesto di vita. È chiaro inoltre che questo obiettivo
          non può eludere la domanda di quale responsabilità si tratti,
          rispetto a che cosa, con quale fine o con quale dovere morale (di
          nuovo con Goodin si pensi, rispetto al caso della madre sola, alla
          diversa responsabilità implicata laddove si tratti di guadagnarsi la
          vita oppure di accudire figli piccoli). Per non dire poi del fatto
          che, come rileva ancora Goodin con riferimento alla concessione
          condizionale di benefici, le misure rivolte a indurre l’assunzione
          di responsabilità sono particolarmente esposte al bias dell’arbitrarietà
          di coloro cui è delegata la scelta nei casi concreti.
 
 La moralizzazione della dipendenza consiste dunque, seguendo Goodin,
          nel caricare di un implicito giudizio morale l’identificazione di
          condizioni di bisogno che richiedono un aiuto sociale: un giudizio di
          meritevolezza orientato dal sospetto che la dipendenza sia volontaria,
          e dal conseguente principio della less eligibility. L’aiuto
          bisogna meritarselo, e deve comunque offrire meno risorse di quelle
          ottenibili accettando un lavoro remunerato pur che sia, in modo da
          disincentivare gli aspiranti e insegnar loro a cavarsela da soli.
 §
 In definitiva il principio della responsabilità incorre nella
          classica trappola dell’ingiunzione paradossale (sii responsabile,
          altrimenti…) che nega ciò che vorrebbe far esistere: le intenzioni
          dichiarate in partenza dai partigiani di questa prospettiva centrata
          sul richiamo alla responsabilità personale, anzitutto l’intenzione
          di superare il carattere paternalistico del welfare state, approdano
          ad un esito paradossale. L’autorità depositaria di questo giudizio
          di meritevolezza e del potere di esercitarlo, è ancor più
          letteralmente paternalistica, e patriarcale, del welfare state: è un’autorità
          che sorveglia il comportamento dei propri sudditi, potenzialmente
          irresponsabili, che li tratta come sospetti o li infantilizza come
          minus habens morali, che li depriva dello statuto pieno di attore
          sociale; è un’autorità che distribuisce premi e punizioni, con
          ciò alimentando una relazione di asservimento.
 
 Ma non soltanto: come segnala Goodin, la moralizzazione della
          dipendenza introduce anche elementi sostativi di un modello normativo
          di buona società, di buona vita, peaceful and productive,
          appunto. Basti pensare, per cominciare, a come il giudizio di
          meritevolezza rinvii, in Schmidz anche esplicitamente, alla
          discriminante tra produttivo e improduttivo, senza che venga
          dichiarato e messo a tema rispetto a che cosa si misura la
          produttività (banalmente: la cura dei figli non viene fatta rientrare
          tra ciò che è assunto come produttivo, e questa esclusione non viene
          giudicata meritevole di una qualche giustificazione).
 
 Inoltre, in particolare nell’interesse per il caso delle madri sole
          si annida una propensione a interpretare la responsabilità come «blame
          responsibility», come imputazione di colpa. Una propensione, va
          detto, che si esprime nella logica del ragionamento - in particolare
          in ciò che vi è taciuto - al di là delle intenzioni dichiarate, e
          ripetute, di voler sostenere una forward-looking responsibility,
          una task responsibility, di contro appunto alla responsabilità
          del blame e della colpa, che è backward-looking. Come
          osserva Goodin18, l’assenza di responsabilità delle madri sole
          potrebbe rinvenirsi alla fin fine, risalendo indietro, soltanto nel
          concepimento (poiché anche la scelta di proseguire la gravidanza, la
          scelta di non abortire, è in realtà un denso grappolo di dilemmi e
          scelte morali, un’esperienza morale: per qualunque donna, in
          qualunque situazione, niente a che fare con l’irresponsabilità).
          Per la precisione, nel concepimento fuori dal matrimonio, e dall’integrazione
          in una vera famiglia. Con ciò la dipendenza viene stigmatizzata non
          soltanto per le sue valenze opportunistiche ma anche perché associata
          a comportamenti sessuali moralmente riprovevoli (naturalmente da parte
          delle donne soltanto). La moralizzazione della dipendenza si completa
          qui, dice Goodin, in una visione familista (familialist) della
          società.
 
 Ciò detto bisogna però anche segnalare che la spinta alla
          moralizzazione delle questioni in gioco nel welfare ha effetti forse
          più ampi e radicali, che non si esauriscono nell’influenza
          esercitata da questi sermoni moralisti su dipendenza e responsabilità
          che accompagnano le critiche neoliberiste del welfare. Anche la logica
          del ragionamento di Goodin, benché fin qui condivisibile, non riesce
          a sottrarsi del tutto: il suo povero non è colpevole ma vittima.
 
 Possiamo anzitutto rilevare che la spinta alla moralizzazione comporta
          una soggettivazione dei problemi e delle materie. Il campo del welfare
          si popola di figure stilizzate: il povero abile, la madre single, il
          povero meritevole eccetera. L’aggettivazione è carica di
          valutazioni morali, e ad essa corrisponde la personalizzazione delle
          questioni, diciamo la loro individualizzazione.
 
 L’attenzione viene cioè posta direttamente sui destinatari,
          candidati più o meno giustificati a interventi di aiuto, invece che
          sulle condizioni sociali e i contesti di vita in cui sono immersi, sui
          problemi sociali che incarnano, sui beni comuni, rilevanti per la
          collettività nel suo insieme, di cui si tratta di discutere e
          decidere. L’articolazione categoriale del welfare state che ho
          richiamato sopra, con la sua opera di oggettivazione,
          spersonalizzazione e forse anche di reificazione (la reificazione del
          malato nella malattia) ha costituito tuttavia un potente dispositivo
          di mediazione che consentiva da un lato di filtrare e di rispettare la
          vicenda personale dei destinatari e dall’altro di riconoscere lo
          statuto sociale - nel senso di: intersoggettivo - dei problemi di cui
          essi sono portatori e dei beni di cui abbisognano. Come già
          accennavo, di questi beni e di questi problemi si trattava, non della
          definizione dello status dei destinatari: in particolare se essi
          siano, come nella discussione tra Schmidtz e Goodin, responsabili o
          vittime della loro condizione di bisogno. Anche l’imputazione dello
          statuto di vittima - «vittima del mercato del lavoro», vittima dei
          costi sociali della crescita economica - non si sottrae del tutto a
          quest’opera di soggettivazione.
 
 La moralizzazione del discorso è in altre parole un risvolto
          complementare di una soggettivazione che tende a derubricare le
          questioni di giustizia del welfare, che sono questioni politiche e di
          etica pubblica, a giudizi e criteri di giudizio che pertengono alla
          morale privata. Cade la tematizzazione delle istituzioni, delle
          competenze e delle responsabilità istituzionali, come materia di
          conflitti e discussioni pubbliche, politiche - parte integrante del
          discorso sul welfare. E anche gli argomenti giustificativi degli
          interventi si adeguano a questo orientamento. Se i destinatari sono
          trattati come potenzialmente responsabili si tratta di distribuire
          premi e punizioni; se sono riconosciuti come vittime si tratta di
          distribuire risarcimenti; e la redistribuzione - che imponeva l’obbligo
          fiscale come principio di corresponsabilità e di condivisione di
          obiettivi comuni - parla oggi il linguaggio del dono e della
          solidarietà (verso i più bisognosi) che pertiene a questioni di
          coscienza e di morale personale, privata.
 
 Il paradigma distributivo
 
 Possiamo seguire ancora la discussione tra Schmidtz e Goodin sui
          principi di giustizia del welfare perché fornisce alcuni indizi anche
          di un terzo aspetto, appena emerso, della revisione semantica e
          sintattica in atto attorno alle questioni del welfare. Lo si può
          formulare così: l’attrazione esercitata dal tema della povertà,
          con le caratteristiche fin qui delineate, costringe il tema della
          giustizia dentro la cornice del paradigma distributivo. È un frame,
          quello distributivo, che nel campo del welfare ha radici più antiche,
          e intrecciate in profondità con la storia culturale della costruzione
          del welfare state: a cominciare dal fatto che la redistribuzione che
          ne ha costituito l’idea forza forse più influente riguardava
          risorse - ricchezza - prodotte altrove, da distribuire appunto secondo
          principi di perequazione.
 
 Tuttavia, tra distribuzione e redistribuzione c’è un passaggio di
          livello, un salto che conviene illuminare prima di esplorare queste
          inquietanti contiguità. Afferrando dunque in proposito il bandolo
          della discussione tra Schmidtz e Goodin, si potrebbe dire in prima
          approssimazione che mentre Schmidtz pone questioni di giustizia
          distributiva, Goodin ripropone principi e obiettivi di giustizia
          redistributiva. Guardando agli argomenti di cui si avvalgono nella
          discussione possiamo riconoscervi un grande spartiacque che rinvia a
          due concezioni profondamente diverse dei beni comuni. Il ragionamento
          di Schmidtz è guidato dalla ricerca di un equilibrio tra i contributi
          che gli individui forniscono, mentre sono intenti nei loro affari,
          alla produzione e riproduzione di beni comuni, e i benefici che essi
          ne possono legittimamente trarre. L’equità si misura dunque sulla
          giustezza che (in un certo senso come nel prezzo) consiste nell’equilibrio
          tra dare e avere, inscrivibile nella logica computazionale dell’economia
          o più in generale della razionalità del calcolo.
 
 Ma questo principio di equità distributiva, di per sé ragionevole,
          si rivela incompleto e inconsistente nel campo del welfare per almeno
          due ragioni. Da un lato, esso non tematizza problemi di
          giustificazione di chi sia deputato a compiere scelte distributive, e
          a che titolo lo sia, e di quali siano i criteri di misurazione dei
          contributi e dei benefici, dando per scontata la legittimità di un’autorità
          distributiva esterna e sovraordinata (l’autorità è politica, ma
          essendo la politica, come segnala Goodin, ridotta essa stessa ad arena
          di conflitti distributivi). D’altro canto, come si è visto, l’azione
          di quest’autorità tende a configurarsi come distribuzione di premi
          e punizioni, di incentivi e sanzioni (in senso anche giudiziario). In
          quanto fondata sull’imputazione di responsabilità, quest’autorità
          finisce per estendere al welfare i principi della giustizia
          retributiva. Disponiamo in proposito di una ragguardevole mole di
          ricerca empirica sulle forme concrete d’implementazione di politiche
          di «incentivi all’indipendenza», sufficiente a riconoscervi indizi
          di questa forma «retributiva», premiale, della giustizia sociale;
          ivi comprese le attitudini di polizia che traducono il mandato di
          controllo sulla meritevolezza dei beneficiari affidato alle agenzie di
          welfare.
 
 Viceversa il ragionamento di Goodin è guidato dalla ricerca di una
          perequazione tra gli individui nell’accesso ad alcune risorse di
          base che costituiscono una precondizione (non un premio) della
          partecipazione alla vita sociale. Si tratta a mio parere di uno
          spostamento decisivo: dalla distribuzione di benefici guidata da
          criteri di equità distributiva alla redistribuzione guidata da
          criteri di perequazione. In questo passaggio si condensa il salto di
          livello che consiste nell’ammettere la natura politica delle
          questioni in gioco e degli ambiti di discussione, conflitto e
          deliberazione in merito. Se si tratta di redistribuire emergono motivi
          e forme di conflitto sui fini, non sui mezzi, non riducibili dunque
          nello stampo del conflitto strumentale, distributivo.
 
 Tuttavia resta aperto il problema: redistribuzione di che cosa? Su
          questo quesito anche il ragionamento di Goodin, guidato da una chiara
          opzione redistributiva, presenta qualche ambiguità. Forse non è
          senza conseguenze il fatto di accettare il terreno di confronto scelto
          dall’avversario, che come dicevo attira l’attenzione su povertà e
          abilità, sul confine che separa la vittima dal soggetto morale (cioè
          responsabile), per l’appunto sul povero abile. Una conseguenza
          importante consiste a mio parere nel rischio che l’obiettivo
          redistributivo resti soffocato da logiche (e pratiche) distributive.
          In Goodin l’influenza dell’ottica distributiva traspare anzitutto
          dalla natura del bene oggetto di redistribuzione. Forse proprio
          perché l’attenzione è attratta dal povero abile, si tratta di
          (re)distribuire reddito, sotto forma di contributo monetario che
          integra o fa le veci del reddito da lavoro, carente o assente. Il bene
          in oggetto è, in parole povere, denaro (la modalità concreta non
          viene affrontata, eppure sarebbe importante). La ragione per cui
          questo bene, il reddito, viene distribuito è di tipo risarcitorio: si
          tratta di redistribuire le risorse della crescita economica per
          compensare le vittime di quella crescita, anzitutto coloro cui è
          negata, per espulsione o per esclusione, la possibilità di
          partecipare al gioco dei contributi/benefici. Ma se ciò che viene
          redistribuito è reddito, l’ottica distributiva esercita la sua
          influenza su alcuni terreni discriminanti.
 
 Anzitutto sulle politiche e le misure operative: in generale esse
          tendono a configurarsi come dispositivi di distribuzione di risorse
          prodotte altrove; e in particolare esse tendono a privilegiare la
          forma dei trasferimenti monetari invece che quella dell’erogazione
          di servizi. La ricerca sociologica ha mostrato le implicazioni di
          queste due alternative segnalando, con riferimento soprattutto al
          welfare all’italiana, come i trasferimenti monetari alimentino
          logiche particolaristiche, relazioni clientelari e paternalistiche (e
          patriarcali, o quanto meno mediate da rapporti famigliari) in cui s’instaurano
          legami di dipendenza personale che indeboliscono o smentiscono
          obiettivi redistributivi di tipo universalistico. I trasferimenti
          monetari - in quanto non remunerano prestazioni - tendono a prendere l’aspetto
          di elargizioni. Viceversa, la forma dell’erogazione di servizi, che
          non a caso viene riconosciuta come caratteristica dei regimi di
          welfare più vicini al modello universalistico, traduce e trasmette l’idea
          che certi beni (salute, educazione, sicurezza sociale eccetera) sono
          comuni, attengono alla qualità della convivenza civile; e che è per
          questa loro natura condivisa che l’accesso ad essi è
          incondizionato.
 
 In secondo luogo l’influenza dell’ottica distributiva si fa
          sentire nella definizione dei destinatari di queste politiche. Come
          abbiamo visto il principio della distribuzione di benefici non
          condizionati - lo stesso basic income - difeso da Goodin attribuisce
          ai destinatari lo statuto di vittime, prive di opzioni alternative e
          di capacità di scelta. Le implicazioni di questa definizione dei
          destinatari del welfare meritano di essere esplorate. Dicevo sopra che
          rispetto alla prospettiva distributiva à la Schmidtz, la messa
          a tema di un principio redistributivo comporta uno spostamento di
          livello delle questioni di giustizia in gioco nel welfare, al livello
          cioè delle scelte collettive: esse vertono su quali diseguaglianze
          siano socialmente ammissibili; sull’eguaglianza «di che cosa», e
          in quali sfere, o rispetto a quali risorse si tratta di perseguirla; e
          su quali beni siano da considerarsi patrimonio condiviso della
          collettività, la cui fruibilità per tutti e per ciascuno funzioni da
          parametro di una «società decente».
 
 Questo spostamento di livello consente dunque di riconoscere nella
          possibilità di partecipare alle discussioni e deliberazioni in merito
          a simili questioni uno di questi beni comuni, forse quello
          prioritario. E perciò implica l’attribuzione al destinatario dello
          statuto di attore (pubblico): in gioco nella scommessa redistributiva
          del welfare era una redistribuzione di poteri, non di beni.
 
 Invece, i destinatari di scelte e programmi distributivi - anche se
          con intenti compensativi, redistributivi - sono comunque parte del
          discorso nella veste per l’appunto di destinatari, recipients.
          Come handicappati davvero bisognosi, come poveri meritevoli, ma anche
          come vittime essi sono in una posizione passiva, di oggetto non di
          soggetto agente. Il principio distributivo - non importa se
          condizionato o meno, risarcitorio o premiale - presuppone una
          relazione asimmetrica e a senso unico tra chi dà e chi riceve, tra
          chi ha potere di disposizione su risorse da distribuire, e chi ha o
          non ha titolo (la meritevolezza o il risarcimento) per ottenerne.
 
 L’influenza della logica distributiva si fa insomma sentire - anche
          nelle intenzioni redistributive di Goodin - su un punto di fondo,
          discriminante: i cittadini interessati al welfare sono definiti,
          trattati - e poi alla fine anche si comportano - come destinatari
          passivi, a sovranità limitata, attori sociali dimezzati, deprivati
          del ruolo di autori delle scelte che li riguardano.
 
 In definitiva, il fatto di concentrare l’attenzione sul povero abile
          per definire e sostenere i propri principi di giustizia tende a
          ridurre questi ultimi a principi distributivi. L’opposizione tra le
          due prospettive proposte riguarda per l’appunto quali principi
          debbano informare le scelte distributive: se il principio
          pedagogico/retributivo della meritevolezza via imputazione di
          responsabilità, o il principio redistributivo della compensazione via
          attribuzione dello statuto di vittima. E questa riduzione esclude dal
          ragionamento questioni di giustizia che riguardano lo statuto
          politico, pubblico, degli attori sociali interessati e che s’intrecciano
          con questioni di potere e di autorità; il potere di distribuzione non
          è in discussione, né lo è l’asimmetria di potere tra chi
          distribuisce e chi riceve risorse: questioni che riguardano chi è
          attore di queste scelte distributive. Sono questioni di giustizia la
          cui rimozione implicata nell’impianto distributivo - di tipo
          contributivo, ma anche compensativo - costituisce un significativo
          indizio di una tendenza a depoliticizzare l’elaborazione sulla
          giustizia, a disattivarvi l’onere di misurarsi con la natura
          intrinsecamente conflittuale dei principi che essa tratta.
 
 Pratiche di giustizia
 
 Vorrei infine analizzare un ultimo aspetto dell’influenza che il
          tema della povertà esercita nel costruire il frame dei
          discorsi sul welfare: essa induce a dimenticare il grande peso che le
          pratiche sociali concrete del welfare esercitano nel realizzare o
          viceversa smentire i principi di giustizia perseguiti.
 
 Ritorniamo, intanto, alla spinta a semplificare, a svuotare l’articolazione
          per categorie di beni, di competenze, servizi e tipi di utenza in cui
          si è dispiegato il welfare. Una spinta che influenza, come ho già
          segnalato, gli argomenti di giustizia che lavorano attorno a povertà
          e rapporto tra povertà e abilità: l’attenzione tende a
          concentrarsi su benefits a carattere monetario da distribuire -
          e sui criteri di distribuzione - più che sulla costruzione e sull’organizzazione
          di servizi, sull’onda anche della delegittimazione che li ha
          investiti in quanto «burocrazie». Sgombrato dunque il campo da
          questi ultimi restano solo i benefìci e i beneficiari, a contatto
          diretto, in una supposta coerenza lineare - senza problemi e conflitti
          sul vocabolario - tra beni erogati e bisogni o diritti onorati (come
          tra domanda e offerta). Ma con ciò si perde per strada il fatto che
          è proprio il terreno dei problemi e dei conflitti sul vocabolario
          quello in cui si giocano prioritariamente le questioni di giustizia,
          in materia di welfare, e che questo terreno deve essere alimentato,
          costantemente curato e arricchito di risorse argomentative. Le forme
          organizzative attraverso cui operano le misure di welfare, le pratiche
          sociali, i poteri istituzionali, gli attori in cui si articolano, sono
          per l’appunto il decisivo fattore di strutturazione e di
          alimentazione di questo terreno: un patrimonio collettivo - un bene
          comune di secondo ordine, come direbbe Donolo - impiegato nel generare
          costantemente significati (ivi compresi valori, norme e principi di
          giustizia), nel trasformarli o nel distruggerli.
 
 Attratti dal fascino della semplicità di una relazione non mediata
          tra beni e beneficiari che il riferimento privilegiato alla povertà
          esercita, si rischia di dimenticare che le pratiche s’infiltrano
          comunque dappertutto, con le loro valenze generative e normative,
          influenzando non soltanto la corrispondenza tra obiettivi e risultati
          - e i fenomeni definiti «conseguenze inattese» ed «effetti
          perversi» - ma più al fondo la definizione stessa degli obiettivi;
          non soltanto la soluzione di problemi sociali ma soprattutto la
          definizione sia del problema che della soluzione.
 
 È forse necessario ricordare qui che questo livello di analisi - che
          illumina le pratiche sociali, le strutture organizzative, le
          interpretazioni e i discorsi di cui è concretamente costituito il
          welfare, e in cui le questioni di giustizia sono embedded -
          poggia su di un importante patrimonio di teoria e ricerca che ha
          esplorato i processi generativi in atto nei modi concreti e locali in
          cui sono organizzati ed operano i programmi e i servizi di welfare; e
          che ha messo a fuoco l’influenza che esercitano le loro concrete
          forme organizzative nella costruzione sociale di cittadini (o invece
          di sudditi). Per esempio, la dipendenza dal welfare su cui insistono,
          come abbiamo visto, i sostenitori del principio di responsabilità, è
          un fenomeno ben noto a chi ha osservato il welfare state da questa
          prospettiva, ma connotato da una complessità di legami che non si
          lasciano ricondurre nella cornice di un incoraggiamento di
          comportamenti opportunistici e irresponsabili. Da questa prospettiva
          la dipendenza dei beneficiari del welfare si coniuga con pratiche che
          inducono invalidazione, più che deresponsabilizzazione. In proposito
          richiamo soltanto quel bandolo costituito dagli studi sui fenomeni di
          cronicità istituzionale, nei quali gli interventi sociali confermano
          e cronicizzano il problema trattato, plasmandolo a propria immagine e
          somiglianza: con «incentivi all’invalidità», con l’«etica
          della scarsità» che eroga benefici come premi, con dispositivi di
          scrematura (dei pertinenti, o dei «quasi adatti»), con relazioni di
          aiuto - siano esse fondate sull’autorità di un sapere specializzato
          o sul potere benevolo della carità - che destituiscono i beneficiari,
          li deprivano e li invalidano, con ciò appunto creando legami di
          dipendenza.
 
 In definitiva, il «come» sono organizzate e praticate le misure di
          giustizia sociale è dunque altrettanto importante del «chi» (i
          beneficiari) e del «che cosa» (i benefici che esse distribuiscono o
          redistribuiscono) perché illumina il lato generativo di queste
          misure. Si può tentare di esaminare da questa prospettiva le due
          posizioni di giustizia che abbiamo visto misurarsi sul terreno della
          povertà, in particolare analizzando le politiche, cui esse rinviano
          più o meno esplicitamente, che chiamano in causa il problema del
          lavoro. L’alternativa in prima istanza è tra politiche di workfare
          e basic income. Vediamo a grandi linee come esse si traducono
          operativamente e quali culture di giustizia generano.
 
 Nel caso del workfare la concessione di un contributo al reddito all’abile
          povero è condizionata alla sua disponibilità a partecipare, ad
          accettare il lavoro che gli/le viene offerto (di solito con un
          programma di formazione professionale). Ritroviamo qui, praticato, il
          corredo di criteri che accompagnano questo aiuto condizionale e lo
          ancorano all’obiettivo dell’assunzione di responsabilità:
          anzitutto il criterio della less eligibility, che si traduce
          nella «scarsità» del contributo così elargito e nel suo carattere
          temporaneo. La filosofia della responsabilizzazione, che come abbiamo
          visto dà l’impronta a questa alternativa, si traduce operativamente
          nella costruzione di apparati e procedure di controllo e selezione dei
          candidati. L’attenzione è focalizzata su questi ultimi, sulla loro
          meritevolezza, cioè sulla loro volontà e capacità di superare la
          soglia e integrarsi in una «normale vita lavorativa», come se il
          successo o insuccesso delle misure in questione fosse ad essi
          soprattutto imputabile. Rimane del tutto in ombra la questione delle
          caratteristiche del lavoro su cui verificare l’«indipendenza»
          incentivata dal contributo monetario; e vengono ignorate le
          circostanze concrete della vita delle persone interessate, le altre
          risorse di cui dispongono o di cui mancano, oltre al reddito, come
          materia non pertinente al contratto con loro.
 
 Questi aspetti vengono lasciati all’arbitrio interpretativo dei
          terminali operativi (che poi si tratti di street level bureaucracy o
          invece di agenzie private e di mercato più o meno non profit non è,
          anche questo, irrilevante). Nel quadro diversificato delle formule
          operative concrete e locali e del loro impatto si possono individuare
          alcune tendenze di fondo. Anzitutto, la traduzione operativa di queste
          misure è orientata più da scopi di controllo della meritevolezza che
          da obiettivi di efficacia degli aiuti. Inoltre, tende spesso a crearsi
          una strozzatura nel passaggio delle persone dalla condizione di
          beneficiari di un programma di welfare orientato all’inserimento
          lavorativo ad una vera e propria condizione lavorativa, come mostrano
          i dati sul basso tasso di successi nel passaggio dalla formazione
          professionale al lavoro. E ancora, la condizione lavorativa che
          eventualmente si raggiunge è di solito così misera che se da un lato
          comporta l’«indipendenza» dal welfare, dall’altro non comporta
          affatto l’uscita da uno stato di povertà: si tratta spesso soltanto
          di una reimmersione della persona in una condizione al di sotto della
          soglia della povertà, e al di sotto della soglia di visibilità
          pubblica
 
 Nel loro insieme le opportunità di lavoro tendono ad assumere valenze
          coercitive, riproducendo il carattere di obbligo - non di diritto -
          del lavoro, come nelle formule storiche originarie del workfare. E la
          responsabilità che prende forma in queste pratiche sociali assume i
          connotati della blame responsibility, poggia su un giudizio di
          colpevolezza backward-looking, e diventa imputazione di
          responsabilità. È questo il livello al quale viene riconosciuto al
          destinatario lo statuto di soggetto morale, responsabile delle proprie
          azioni. Questi è costantemente «in prova», sotto il profilo morale;
          ed è costantemente in bilico sulla china dell’immiserimento, sotto
          il profilo materiale. Nel migliore dei casi diventerà un buon
          suddito; più spesso diventerà invece davvero «colpevole», a
          conferma della profezia.
 
 Nel caso del basic income il rapporto tra povertà e lavoro si
          presenta in termini alternativi alla logica del workfare, come abbiamo
          visto anche nel confronto tra Schmidtz e Goodin: l’abile povero è
          vittima della crisi del lavoro, essendo dunque quest’ultimo semmai
          un diritto non onorato, non un obbligo; e il reddito erogato assume
          carattere non condizionato e compensativo. Questo orientamento sembra
          ispirare le politiche avviate in tutti i paesi europei con la formula
          dell’erogazione di benefici monetari ancorata a programmi di
          formazione professionale e disponibilità al lavoro, come nel caso
          capofila francese del reddito minimo d’inserimento. Tuttavia, la
          fisionomia operativa di queste politiche peraltro diversificate, e i
          loro esiti, sono ancora incerti. Esse da un lato riconoscono comunque
          il peso decisivo che il lavoro continua a rivestire non soltanto per l’autonomia
          materiale delle persone ma anche per il loro riconoscimento sociale:
          il reddito erogato non deve seguire le orme del sussidio
          assistenziale; e complementarmente al requisito della disponibilità
          al lavoro corrispondono diversi tipi di obbligazioni da parte degli
          enti pubblici contraenti, soprattutto il sostegno di servizi in
          materia di casa, asili nido eccetera.
 
 Ma le pratiche concrete in cui si traducono questi programmi lasciano
          trasparire la forza di attrazione esercitata, sul terreno del rapporto
          tra reddito e disponibilità al lavoro, dal contiguo mondo del
          workfare, con le implicazioni normative più sopra rapidamente
          richiamate. Tra l’altro, i richiami ad un «investimento» sul
          potenziale lavorativo dei beneficiari che ricorrono possono innescare
          pratiche e culture di selezione di coloro che «ce la possono fare»:
          il lavoro diventa allora un «premio». E anche in questo caso i tassi
          di successo in termini di inserimento lavorativo, e ancor più di
          uscita da condizioni di povertà, non sembrano entusiasmanti.
 
 Naturalmente, il quadro non è così univoco: nelle politiche e nelle
          pratiche di basic income confluisce altrettanto quel patrimonio di
          culture della cittadinanza che si è andato accumulando nel confronto
          con le disabilità, con i connotati che ho richiamato nel secondo
          paragrafo. In questa cornice, il reddito erogato viene agganciato a
          programmi che mirano alla validazione delle persone attraverso la
          costruzione delle condizioni nelle quali queste ultime possano
          esercitare le loro capacità (e responsabilità). Possiamo attingere a
          questo proposito a esperienze operative, concrete e locali, in materia
          di formazione e lavoro, che presentano caratteri opposti rispetto alla
          logica del workfare.
 
 Esse sono prioritariamente orientate non dall’imputazione di
          responsabilità ma dall’attribuzione di credito, in cui il
          riconoscimento dello statuto di soggetto morale responsabile delle
          proprie azioni al destinatario è implicito, presupposto, nel fatto
          stesso che gli si dà credito. Le forme del credito possono poi essere
          molto diverse. Può trattarsi di vero e proprio credito monetario come
          nella straordinaria esperienza del banchiere Yunus; può trattarsi, in
          forme più mediate, di credito morale di qualche tipo (per esempio
          «fiducia»), e di pratiche orientate a costruire le condizioni
          relazionali e organizzative che consentano di manifestarlo e di
          investirlo: per esempio attraverso forme di coinvolgimento e di
          cooperazione dentro progetti ed imprese condivise.
 Inoltre, l’orientamento al credito è associato ad una
          interpretazione della responsabilità assunta (taking
          responsibility), dell’indipendenza, come validazione: essa
          richiede altrettanto una «responsabilità collettiva», secondo l’espressione
          di Goodin, a curare che le condizioni sociali davvero favoriscano l’esercizio
          di responsabilità. Per esempio costruendo ponti che consentano di
          attraversare la mitica soglia, e popolino di interazioni significative
          il percorso che conduce al lavoro, o al reinserimento sociale; o
          ancora creando opportunità di lavoro nelle quali le persone coinvolte
          possano esercitare le loro capacità, ivi comprese le capacità di
          scelta, riappropriandosi così anche della capacità di progettare la
          propria vita (un requisito giudicato essenziale per misurare l’assunzione
          di responsabilità).
 
 Infine l’idea della validazione implica un processo - un percorso,
          appunto - condiviso con la persona interessata, che ne è l’artefice
          principale. Perciò da un lato essa richiede pratiche riflessive,
          capaci di apprendimento e di autocorrezione, con un basso tenore di
          certezze normative. E dall’altro essa evita il paradosso in cui,
          come abbiamo visto, incorre il discorso della responsabilità. Le
          risorse culturali e morali dei soggetti empirici concreti non soltanto
          non possono essere indotte o prodotte o ingiunte dall’esterno - per
          suscitarle occorrono strategie indirette - ma soprattutto esse hanno
          la proprietà di manifestarsi e di crescere attraverso l’uso. I
          beneficiari del welfare sono inclusi e coinvolti nel processo della
          loro validazione, attraverso forme organizzative e pratiche attente al
          dettaglio, che curano la qualità della relazione tra erogatore e
          beneficiario della prestazione perché valorizzi di quest’ultimo lo
          statuto di attore, riconosciuto per le capacità che sa e vuole
          esercitare invece che per i deficit, materiali o morali di cui è
          portatore. La minuzia quotidiana viene riconosciuta nel suo potenziale
          generativo.
 
 Come si può facilmente intuire, queste modalità di seguire la via
          del lavoro per innescare processi di validazione (e relativi esiti
          indiretti di responsabilizzazione) sono delicate, e richiedono un
          grado elevato di riflessività delle pratiche, come dicevo. Certo,
          anche per questo necessario rigore, queste formule operative restano
          marginali nel discorso corrente sulle politiche d’inserimento
          lavorativo e in genere di lotta alla povertà, e sui principi di
          giustizia cui si ispirano - discorso che è invece fortemente
          influenzato dall’approccio della responsabilità e dal modello del
          workfare. Tuttavia si possono studiare in proposito esperimenti
          davvero significativi che prima di finire nel dimenticatoio della
          storia potrebbero insegnarci qualcosa. Se non altro ci insegnano che
          ci sono dei modi di percorrere la via del lavoro con l’intento di
          rendere le persone indipendenti e capaci di fare progetti, che sono
          davvero diversi dalle soluzioni più o meno punitive, premiali e
          coercitive corrispondenti all’approccio della responsabilità.
 
 Come minimo esse insegnano che benefici monetari e inserimento
          lavorativo - e i modi in cui si coniugano insieme - possono essere di
          segno molto diverso, se non opposto, anche rispetto ai principi di
          giustizia che incarnano. E segnalano che certe differenze decisive si
          giocano sul terreno delle forme organizzative, delle culture e delle
          pratiche in cui queste misure concretamente si esplicano. Siamo così
          ritornati al punto di partenza del ragionamento sviluppato in questo
          paragrafo, all’invito ad affrontare questo livello di analisi. In
          proposito possiamo aggiungere un’ultima considerazione a margine.
          Questo livello di analisi invita a spostare l’attenzione fuori dal
          terreno puramente normativo dei principi di giustizia e a riconoscere
          che gli argomenti di cui si tratta sono comunque contaminati da
          considerazioni analitiche che riguardano le scelte concrete operate
          dagli attori deputati, e che appunto chiamano in causa le pratiche e
          le teorie-in-uso che le informano, le forme organizzative concrete che
          applicano quei principi e i processi di sensemaking che vi si
          generano, e così via: è su questo terreno analitico che si può
          discutere, per esempio, di che responsabilità si tratti quanto si
          afferma il principio di responsabilità.
 
 Forse nel caso del welfare questa contaminazione è inevitabile,
          intrinseca alle questioni di giustizia che vi sono in gioco, e
          richiede un confronto più serrato tra il livello normativo e quello
          analitico, tra i principi di giustizia e le pratiche di giustizia in
          cui essi sono embedded. In questo confronto è probabile che si
          faccia esperienza - intellettuale e pratica - dei limiti della
          giustizia: il terreno è ineludibilmente quello della giustizia
          locale, nel senso di Elster; e forse è inevitabile incontrarvi scelte
          tragiche, dilemmi insolubili e casi di sorte morale. Ma la cognizione
          del limite è decisiva, nel campo del welfare, perché la ricerca
          sulla giustizia ne riconosca il carattere di laboratorio fondamentale
          di vita pubblica, spazio di discorso, conflitto, costruzione e
          deliberazione cui sono sottoposte non soltanto le soluzioni operative
          ma anche i principi di giustizia cui s’ispirano.
 
 
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