Povertà e culture della giustizia
Ota de Leonardis
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giustizia
Alcuni contributi dell’analisi
economica
Questo saggio appare sul numero 2/2000 della Nuova Serie della rivista
Filosofia e Questioni Pubbliche diretta da Sebastiano Maffettone, e fa
parte di un forum su Workfare e Welfare. Per ulteriori informazioni
potete collegarvi al sito
della Luiss Edizioni o scrivere all'indirizzo e-mail edizioni@luiss.it
Il solo epigramma permesso alla Miseria è quello di obbligare la
Giustizia e la Beneficenza a ingiusti dinieghi.
H. de Balzac
Introduzione: il discorso della povertà
La povertà è ricomparsa in forme vistose nel cuore metropolitano
delle società ricche del mondo (per non parlar del resto) occupando
la scena delle politiche sociali in tutti i regimi di welfare.
Riaffiorano dal passato le immagini à la Dickens della
«questione sociale» che ha storicamente accompagnato l’industrializzazione
e la modernizzazione. Con la differenza tuttavia che queste immagini
si vanno a collocare sullo sfondo dei «trenta gloriosi» anni dello
sviluppo del welfare state in cui le promesse e le conquiste di piena
occupazione, diritti e integrazione sociale relegavano la povertà in
sacche residuali o nel ruolo di sottoprodotto di altri problemi
sociali (malattia, vecchiaia, famiglie problematiche eccetera).
La rinnovata centralità del tema della povertà trova senz’altro
giustificazioni in riscontri statistici e argomenti esplicativi.
Esauritasi rapidamente la fase nella quale essa sembrava ritornare
come fenomeno postmaterialistico (una sorta di rigurgito del
consumismo della società opulenta e «garantita»), la povertà torna
ad ancorarsi a condizioni materiali di vita e problemi di reddito.
Certo, la ricerca ne evidenzia i caratteri di multidimensionalità, l’addensarsi
nel fenomeno di molteplici fattori di deprivazione di natura non
soltanto economica (comprese le barriere etniche e i deficit
culturali, informativi e di literacy); e riconduce la crescita
del fenomeno al concorso di processi diversi: la fragilizzazione dei
legami famigliari, peraltro esasperata dal sovraccarico di
responsabilità e costi materiali di cura che pesa oggi sulle famiglie
- per motivi diversi e in forme eterogenee che non è il caso di
esaminare qui; le misure più o meno drastiche di contenimento della
spesa pubblica e la connessa delegittimazione dell’impegno
regolativo e redistributivo dell’intervento pubblico, che
introducono restrizioni ed esclusioni di vario tipo nell’accesso a
beni e servizi di welfare; la crisi del lavoro, in tutti i suoi
molteplici aspetti: non soltanto il noto problema della disoccupazione
strutturale, ma più al fondo la metamorfosi della condizione
salariale con il diffondersi di forme di lavoro precarie e mal
remunerate e di correlate condizioni di vulnerabilità e insicurezza
sociale. Il concorso di questi diversi processi alimenta dinamiche di
impoverimento, spirali o circuiti viziosi in cui questi processi si
cumulano e si rafforzano a vicenda, e da cui diventa ogni volta più
difficile uscire, determinando una perdita di quelle dotazioni o capabilities
di base (anzitutto l’abitare, il nutrimento, la salute e l’istruzione
di base) da cui dipende sia la fiducia in se stessi che l’integrazione
nella comunità di appartenenza.
Ma «povertà» è anche soltanto un nome, un modo di definire e di
tematizzare i problemi oggetto delle politiche sociali. O meglio, la
sua centralità rinvia a dati almeno tanto quanto rinvia a modi di
definirli, classificarli e interpretarli, come viene del resto
riconosciuto dalla riflessione più avvertita sulla ricerca empirica
in merito: «piuttosto che studiare la povertà o l’esclusione
sociale come status o condizioni “oggettive”, autoevidenti, sembra
più fruttuoso analizzare come esse siano interpretate, riconosciute e
socialmente definite - ad esempio come povertà “meritevole” o “non
meritevole” - all’interno di una data società». Questo problema
è centrale nelle politiche sociali di tutti i regimi di welfare,
anzitutto in quanto è il tema chiave attorno a cui s’intrecciano
gli argomenti, i discorsi pubblici, politici o esperti, e di senso
comune, su quelle politiche. E dalla riflessione scientifica sulla
vicenda storica dello sviluppo del welfare state abbiamo imparato che
ciò che accade nel vocabolario con cui se ne parla ha implicazioni
decisive nello strutturare i problemi e le soluzioni.
In questa vena, intendo sostenere che il tema della povertà, via via
che acquista importanza, trascina con sé una trasformazione del
lessico e degli argomenti che punteggiano il discorso sul welfare: il frame
che struttura le scelte, le pratiche e gli obiettivi del policy
making, non meno che l’elaborazione scientifica, di ricerca e
teorica.
Utilizzerò dunque i modi di trattare questo tema come indizi per
esplorare questo slittamento semantico che coinvolge e sconvolge più
in generale i modi di parlare, di valutare e di fare nel campo del
welfare. Per avviare il ragionamento indico a titolo esemplificativo
qualche pista da seguire, accettabile peraltro solo in prima
approssimazione. Il tema della povertà è associato alla formulazione
dei target dell’intervento sociale in termini di bisogni più che di
diritti, il che forse comporta il riferimento a destinatari di misure
distributive più che ad attori che partecipano al conflitto
democratico di definizione e riconoscimento di bisogni - e di beni -
comuni. Inoltre, il riferimento alla povertà si alimenta sulle
operazioni teoriche e pratiche di critica e semplificazione della
griglia categoriale del welfare state che dava cittadinanza a
portatori individuali di problemi sociali in quanto appartenenti a
categorie sociali: la povertà taglia a traverso queste categorie e
tendenzialmente è sans phrase, come direbbe Marx. Infine è un
riferimento, quello alla povertà, indispensabile alla moralizzazione
(e depoliticizzazione) del discorso sul welfare: se si tratta di
poveri, nel discorso non è comunque più in gioco una questione di
egemonia. Alle spalle dell’alternativa tra workfare e basic income c’è
la povertà, non solo come problema target, come oggetto prioritario
di intervento, ma almeno altrettanto come codice di definizione,
classificazione, selezione e valutazione dei problemi oggetto di
scelte, politiche e pratiche d’intervento sociale.
Di questo slittamento semantico che accompagna l’emergenza della
povertà esaminerò quattro aspetti che riguardano altrettanti nodi
cruciali di una riflessione sul welfare, e sui suoi principi di
giustizia, di natura sia analitica che normativa.
a) Mostrerò anzitutto come il tema della povertà induca la
riflessione sia empirica che normativa a concentrarsi su problemi di
soglia, e segnalerò in proposito qualche implicazione. Il personaggio
che attrae l’attenzione è l’abile povero, l’able-bodied poor;
b) in secondo luogo analizzerò diversi aspetti e livelli di un
effetto di moralizzazione (e depoliticizzazione) del discorso sul
welfare che accompagna la tematizzazione della povertà. A cominciare
dall’alternativa tra povero vittima o responsabile della sua
condizione, che esclude la possibilità di riconoscerlo come attore
potenziale; vedremo poi, nel prosieguo del ragionamento, come una
strada per uscire da questa alternativa potrebbe essere esplorata
seguendo quelle strategie di azione che ne perseguono la validazione -
aggirando appunto i limiti sia della responsabilizzazione che del
risarcimento;
c) terzo, rifletterò sull’influenza del paradigma distributivo che,
sulla scorta del tema della povertà, si esercita sulle questioni di
giustizia in gioco nel welfare: facendo anzitutto diventare dirimenti
criteri e scelte sull’equità, più che dilemmi e conflitti sull’eguaglianza;
mostrerò cioè come l’equilibrio tra contributi e benefici, tra
dare e avere, diventi l’unico gioco ammesso al vaglio di
considerazioni di giustizia, con l’esclusione di considerazioni che
invece riguardano, a monte, poteri e libertà esercitate nel
deliberare a quale gioco giochiamo, e le diseguaglianze che vi si
annidano;
d) e infine mostrerò come gli argomenti sia di giustizia che di policy
relativi alla povertà tendano ad eliminare dal ragionamento le
questioni del «come» concretamente agiscano gli interventi sociali:
il riconoscimento del peso delle articolazioni organizzative e
istituzionali, delle culture e delle pratiche, e di ciò che vi si
genera in termini di culture della giustizia. Esaminerò in proposito,
brevemente, le misure di contrasto della povertà che chiamano in
causa il terreno del lavoro - dell’inserimento lavorativo.
Soprattutto per domandarmi se e a quali condizioni, su questo terreno,
è possibile percorrere la via della validazione.
Questioni di soglia: giustizia e giustezza
L’importanza acquisita dal tema della povertà nelle ricerche,
teorie e politiche del welfare trascina con sé, dicevo, una tendenza
a focalizzare l’attenzione su questioni di soglia. Questa tendenza
si manifesta in forme eterogenee e su registri discorsivi differenti e
a volte anche, in prima istanza, conflittuali. Per esempio un problema
di soglia viene evocato sia da discorsi che associano il tema della
povertà a quello dell’esclusione sociale, con intenti di critica
delle barriere che l’alimentano, sia da discorsi che lo associano a
principi e valutazioni di meritevolezza, con intenti di
responsabilizzazione degli interessati. È a questo secondo tipo di
versioni della soglia che farò qui soprattutto riferimento.
Inoltre, sono questioni di soglia quelle attorno a cui si concentrano
le ricerche empiriche, le rilevazioni e interpretazioni dei dati
statistici relativi alle condizioni di vita suscettibili di intervento
sociale e i connessi esercizi di misurazione della povertà, e per
estensione dei problemi sociali in generale. Si è sviluppato in
proposito sia un intenso impegno computazionale a sostegno di
politiche e misure operative di welfare, sia un dibattito sui criteri
di definizione della soglia e di misurazione rispetto ad essa, ad
esempio dello standard di vita e, reciprocamente, della soglia di
povertà. Un numero crescente di politiche sociali dipende da questi
criteri e da quegli esercizi di misurazione, a cominciare dalle
politiche means tested nelle quali l’accesso a beni e servizi
sociali viene subordinato alla certificazione di uno stato di bisogno.
In termini storico-culturali potremmo interpretare l’importanza
acquisita dai temi della povertà e della soglia di povertà come
portato di un processo di «americanizzazione» del discorso e delle
politiche del welfare, dell’influenza esercitata cioè dalla cornice
interpretativa corrispondente al modello «residuale» di welfare
affermatosi storicamente negli Stati Uniti: lo sviluppo del welfare
giustificato come «guerra alla povertà», e specularmente criticato
come sistema di «regolazione dei poveri». Questo frame ha
influenzato fortemente anche le riorganizzazioni introdotte nei regimi
di welfare europei che, pur nella loro eterogeneità, avevano un
termine di riferimento nel modello socialdemocratico dei «diritti di
cittadinanza». Certo, questa influenza è stata stemperata dallo
sforzo di connettere la povertà a processi di esclusione sociale,
sforzo dispiegato con buoni argomenti nelle stesse linee
programmatiche delle politiche comunitarie di «lotta alla povertà e
all’esclusione sociale». Grazie a questa connessione le questioni
di soglia si presentano in forme diverse, articolate in una
molteplicità di fattori eterogenei e fluidificate in processi
dinamici e radicati localmente. Ma pur con queste specificità anche
in Europa la forza di attrazione del tema della povertà non è senza
effetti, come vedremo più avanti.
In termini fenomenologici, potremmo ragionare sul peso e le ragioni di
una figura emergente nelle politiche, nelle pratiche e nei discorsi
sul welfare, quella dell’«abile povero». Si tratta in linea di
massima di persona la cui condizione di bisogno resta associata a
capacità di svolgere una vita attiva, dunque di lavorare e procurarsi
un reddito. Una persona bisognosa, che manca tuttavia di un requisito
conclamato - un handicap, una mancanza - che giustifichi quella
condizione. La figura del povero-eppure-abile funziona da riferimento
di fondo, per lo più implicito, per stabilire, in materia di scelte e
interventi sociali, se la condizione di povertà, lo stato al di sotto
della soglia, pertenga al soggetto interessato, come questione di
scelta, comportamento e responsabilità, oppure a condizioni sociali -
in primis il problema del lavoro - di cui questi è vittima. Il
povero-eppure-abile funziona da marker della soglia: è a un
passo dal superarla e per questo, e perché associa povertà e
abilità, questa figura condensa in sé motivi e argomenti sul welfare
in termini di soglia.
La configurazione sintattica e semantica dei temi del welfare in
termini di soglia, che si accompagna al problema della povertà,
comporta due corollari che a mio parere meritano di essere messi a
fuoco ed esplorati. Anzitutto il riferimento privilegiato a questioni
di soglia comporta una profonda revisione dei codici di definizione
delle materie sociali oggetto di scelte e interventi di welfare che
consiste, per dare una prima formulazione sintetica, in un’opera di
decategorizzazione. O quanto meno quest’opera ne costituisce un
aspetto rilevante. Vediamo di che si tratta.
Si può cominciare col rilevare che «povertà» è una nozione larga
e generica, soprattutto se confrontata con il ricco vocabolario di
classificazioni e categorie in cui erano suddivise (non di rado anche
compartimentate e frammentate) le materie sociali oggetto d’intervento
nei regimi maturi di welfare, di stampo più o meno universalistico.
Questo vocabolario consentiva di parlare non semplicemente di
povertà, bensì di malattia, vecchiaia, handicap, devianza; di
educazione, socializzazione, integrazione; di scuole, ospedali,
servizi sociali e così via. La tematizzazione della povertà, e la
prospettiva della soglia verso cui orienta l’attenzione, diluiscono,
depotenziano e tendenzialmente invalidano questa impalcatura
categoriale e insieme anche questo patrimonio culturale che essa bene
o male amministrava. Nella recente letteratura di modellistica e
classificazione dei regimi di welfare, il modello di welfare detto per
l’appunto categoriale costituisce una delle forme abortite o
degradate del modello puro, di tipo tendenzialmente universalistico.
La suddivisione dell’utenza e degli interventi per categorie dà
luogo, si sostiene, a forme diffuse di particolarismo, disparità di
trattamento, arbitrii, sprechi e vantaggi illegittimi eccetera. Si
tratta di critiche documentate e in prima istanza condivisibili, ma da
contestualizzare: per distinguere quanto meno le forme di
riconoscimento categoriale di diritti - di «soggetti tacitati»
anzitutto - come nel modello socialdemocratico, dalle forme
clientelari di casa nostra, che riproducono sudditanza e, secondo
alcuni, affondano le loro radici nel corporativismo fascista. Nel
frattempo però - imboccando a mio parere una scorciatoia - la ricerca
di forme d’intervento tendenzialmente universalistiche oggi sembra
privilegiare appunto la via della decategorizzazione, e puntare su
target e strategie d’intervento «trasversali», che abbracciano il
terreno decisamente meno strutturato delle misure di «lotta alla
povertà». Qui, guardando alle pratiche in cui si traduce questa
prospettiva, il quadro si fa confuso e frammentato e gli intenti non
selettivi e perequativi si rifrangono, senza emergere davvero, in una
molteplicità di soglie: per esempio la soglia - che diventa spesso
barriera - tra formazione professionale e lavoro. Vi ritornerò nell’ultimo
paragrafo. Ma bisognerebbe anche affrontare le retoriche buoniste
della solidarietà che, forti del loro rinnovato matrimonio con il
mercato nella formula del non profit, si alimentano sulla
decategorizazione della «lotta alla povertà» (qualunque intervento
è buono se rivolto ai bisognosi).
Ma anche le teorie e le proposte che sostengono forme di basic income
partecipano di questa decategorizzazione: l’idea stessa di un
reddito di base incondizionato rivendica uno statuto universalistico
grazie al ricorso ad un parametro delle condizioni di vita semplice e
parsimonioso, quello del reddito appunto. Intendo cioè sostenere che
in tutte queste espressioni della decategorizzazione, eterogenee e
anche potenzialmente conflittuali, si annida un problema di fondo. Con
un’immagine di sintesi lo si potrebbe esprimere così: al delirio
burocratico (ma se è per questo anche dei saperi e poteri
tecnico-professionali) della moltiplicazione specialistica delle
categorie si va sostituendo il delirio computazionale che traduce
tutte le questioni in termini di misurazione. Pur appartenendo
entrambi allo stampo dell’esprit de géométrie essi si
differenziano su un punto strategico, sul piano dei processi di sensemaking
che alimentano. Nella decategorizzazione si esercita una spinta alla
riduzione e semplificazione ad una questione di soglia,
tendenzialmente ad un unico confine, della molteplicità di confini in
cui era strutturato il campo del welfare organizzato per categorie. Si
tratta di riduzione della complessità, non foss’altro nel senso che
attraverso questo processo vengono disattivate la pluralità delle
sfere sociali, dei problemi e dei beni rispetto a cui si tratta di
valutare ragioni e misure dell’intervento di welfare. Quella
pluralità, per intenderci, che rende possibile l’eguaglianza
complessa.
Possiamo evidenziare questo problema di fondo in un altro modo. L’impianto
categoriale del welfare storico, dei diritti sociali, si articolava
sulla base della distinzione e definizione di alcuni beni comuni, l’accesso
ai quali fosse da considerarsi come patrimonio di base della
cittadinanza: tutela della salute, educazione di base, garanzie da
rischi sociali eccetera. L’accesso ai servizi pubblici deputati a
produrre questi beni non registrava caratteristiche della popolazione
ma caratteristiche dei beni in questione: è la loro natura di beni
comuni non la posizione dei destinatari che ne giustifica l’erogazione.
E le corrispondenti questioni di giustizia si alimentavano sul ricco
repertorio di temi e vocabolari specifici, locali, relativi alla
definizione e al trattamento di quei beni, differenti. La
decategorizzazione semplifica il discorso, e con ciò svuota e
sterilizza la pluralità delle arene, dei temi, degli attori e dei
conflitti, che dava spessore alla discussione e deliberazione
pubbliche su fini e beni collettivi.
Una precisazione forse è opportuna, a questo punto. Non sto
rivalutando l’impianto categoriale del welfare state sul quale
peraltro ho avuto modo di esercitare a lungo la mia attenzione
critica: sto soltanto suggerendo che la decategorizzazione rischia di
essere una scorciatoia troppo sbrigativa, che non lavora e non
attrezza a lavorare sulla trasformazione dei confini (e delle
istituzioni) da barriere a ponti, perché tende semplicemente ad
azzerarli.
In secondo luogo, la focalizzazione dell’attenzione su questioni di
soglia, sul povero-eppure-abile e sul nesso tra povertà e abilità
ricaccia nell’ombra, per così dire, il povero disabile, cioè i
più svantaggiati, coloro che «stanno peggio» e ai quali non basta
un passo soltanto per superare la soglia e accedere ad una normale
vita di lavoro. E con ciò tendenzialmente rimuove le grandi questioni
di giustizia con cui si è storicamente confrontata la costruzione del
welfare. Sono, per intenderci, le questioni affrontate nel dibattito
di teoria della giustizia, di nuovo intensificatosi nell’ultimo
lustro in parallelo, non per caso, con la tematizzazione della «crisi
del welfare state»: sull’eguaglianza, anzitutto, per esempio dell’accesso
a beni primari commisurato (come nel «principio di differenza»
formulato da Rawls) su coloro che «stanno peggio»; e
complementarmente sulla «fondamentale diversità degli esseri umani»
(per usare una formulazione di Sen). In questo dibattito è la
disabilità - comunque formulata - che fa problema quanto basta per
sottrarla al registro naturalizzante del destino e per tenere aperte
tensioni e contraddizioni sui temi della giustizia.
Questa rimozione del tema della disabilità trascina dunque con sé,
ai margini dei discorsi sul welfare, i temi della diseguaglianza e
dell’eguaglianza, gli argomenti a favore di principi e politiche
redistributive in nome di alcuni presupposti di base, condivisi, della
cittadinanza, in definitiva l’intero patrimonio culturale e politico
della giustizia sociale come base di convivenza civile e di
democrazia. Se al centro dell’attenzione ci sono gli abili poveri,
allora i disabili (e perciò poveri, deprivati) tornano a
rappresentare problemi e disgrazie che appartengono al registro del
destino, socialmente irrilevante: problemi e disgrazie personali, che
riguardano loro e il loro ambiente privato e che tutt’al più
possono costituire l’oggetto su cui gli attori sociali esercitano
scelte morali private; questioni di coscienza personali risolvibili
con la beneficenza, non questioni pubbliche, materia di scelte e
principi politici e di etica pubblica.
Moralizzazione del discorso
Un secondo aspetto della revisione sintattica e semantica delle
questioni del welfare guidata dalla tematizzazione della povertà
consiste in una forte spinta alla moralizzazione del discorso, che si
associa ad un orientamento sia a soggettivare problemi e scelte, che a
depoliticizzarle.
Questa spinta risulta particolarmente evidente negli approcci sia
scientifici che operativi che, concentrando per l’appunto l’attenzione
sulla soglia in cui povertà e abilità sono compresenti, enfatizzano
principi e obiettivi di responsabilità, indipendenza, self-reliance.
Anzitutto, come rileva Goodin criticando gli argomenti in difesa di
questo approccio sostenuti da Schmidtz, vi è all’opera un processo
di «moralizzazione della dipendenza». Vediamo di che si tratta.
Schmidz ripropone - con eloquenza quasi militante - gli argomenti
centrali dello schieramento che negli ultimi venti anni ha criticato
il welfare state sostenendone il ridimensionamento, e una radicale
revisione dei presupposti di giustizia sociale su cui si basa. Come
segnala il titolo del suo saggio, al centro c’è la questione della
responsabilità individuale, o meglio la re-internalizzazione della
responsabilità che il welfare state aveva esternalizzato nella government
responsibility e nelle politiche redistributive. La società è
una shared venture che richiede per «diventar migliore» il
contributo di ciascun individuo. Soprattutto, essa richiede
istituzioni che, come emblematicamente l’istituto della proprietà
privata, mettano gli individui in grado di fornire questo contributo
esercitando le loro capacità e le loro responsabilità nel perseguire
i loro interessi privati. «Le istituzioni servono il bene comune
inducendo comportamenti che servono il bene comune, cosa che fanno
inducendo le persone a coltivare i loro giardini in modi che servono
il bene comune» e, come viene più volte ripetuto, «per vie
pacifiche e produttive».
Questa prospettiva pone come cruciale un problema di equità, tra chi
da un lato contribuisce a questa social venture, al progresso
sociale, e chi invece non vi contribuisce pretendendo in più, come i
beneficiari del welfare, di goderne i benefici. Certo, c’è chi non
è proprio in grado di contribuire, a causa di una disabilità
conclamata di cui non è responsabile: ma di costoro - di quelli che
stanno peggio, per riprendere il punto precedente - il ragionamento di
Schmidtz non si occupa.
Il suo riferimento è infatti all’abile povero, che tende ad
affidare la propria sopravvivenza ai sussidi di welfare, invece di
lavorare, esternalizzando così appunto la propria responsabilità,
irriducibilmente individuale, nel confronti della sua stessa vita.
Più precisamente, il caso assunto come emblematico è quello delle
«madri sole», le donne dei programmi di aiuto per famiglie
monoparentali con minori a carico (lo storico AFDC) al centro delle
politiche di welfare negli Stati Uniti. Questa figura è stata, ed è
tutt’ora, l’obiettivo principale delle critiche moralizzatrici del
welfare, individuata come responsabile al tempo stesso della
lievitazione della spesa pubblica e della disgregazione della
famiglia.
La relativa marginalità di questa figura nel dibattito europeo sul
welfare è in prima istanza il punto su cui misurare le differenze
alle quali già accennavo tra le due sponde dell’Atlantico nel
trattamento del tema della povertà. In Europa le madri sole sono in
genere non evidenziate, se non decisamente «invisibili» come in
Italia: o sono assorbite nelle politiche di parità, come nei regimi
nordeuropei; o viceversa sono immerse in un sistema familistico che ne
registra l’esistenza in rapporto a condizioni «normali» di
dipendenza dal capofamiglia, come nel welfare italiano (in cui resiste
la figura della ragazza madre sfortunata, «sedotta e abbandonata»).
Se tuttavia si guarda all’Italia si può intravedere un’area di
problemi sociali che potrebbe candidarsi a svolgere un’analoga
funzione simbolica nelle politiche contro la povertà: la crescente
attenzione alla tenuta morale della famiglia, e il ricorso al
parametro del «superiore interesse del bambino» per misurare questa
tenuta - in termini dunque di responsabilità genitoriale - tendono ad
alimentare un orientamento sanzionatorio e misure di tipo punitivo nei
confronti delle famiglie più deprivate, e in particolare delle madri
(sole o meno), che culminano nelle misure giudiziarie di sottrazione
dei figli.
Va in ogni caso tenuto presente che nell’argomentazione di Schmidtz
l’obiettivo critico è quello di scandire la differenza tra
produttivo e improduttivo (letteralmente) e tra deserving e undeserving
poor: porre la questione morale della meritevolezza e
stigmatizzare la dipendenza ingiustificata (dallo Stato) che pone il
povero abile, in quanto welfare recipient, in una posizione
pericolosamente affine a quella del free rider. La dipendenza
viene associata ad opportunismo. Questo è il tenore degli argomenti
critici nei confronti del welfare state.
Sotto il profilo propositivo l’obiettivo complementare è quello di
sostenere politiche e istituzioni che incoraggino le persone ad
assumersi le loro responsabilità. Diciamo, genericamente, nella
direzione del workfare, dell’investimento su programmi che inducano,
con incentivi positivi o negativi, a entrare nel mondo del lavoro, in
qualche modo, e a guadagnarsi un reddito purchessia.
Più in generale l’idea di istituzioni e politiche looking-forward,
che operano in modo da incentivare l’assunzione di responsabilità
individuale, viene sviluppata lungo il sentiero tracciato dal
riferimento privilegiato, come già dicevo, all’istituto della
proprietà privata come prova storica del fatto che gli individui
danno il meglio di sé per il bene comune quando coltivano i propri
interessi, e se ne assumono responsabilmente i rischi. Rinviando ad
una lettura standard, a stampo utilitarista, della tragedia dei beni
comuni, Schmidtz propone le virtù di quelle forme di appropriazione
che si esercitano su common pool goods, preservandone la
condivisione dell’uso e delle responsabilità di cura e
riproduzione. In particolare richiama in questa chiave l’esperienza
delle friendly societies di epoca vittoriana, una via di mezzo
tra le società di mutuo soccorso di matrice operaia, e le
assicurazioni private di categoria.
Gli argomenti contro questa prospettiva, sostenuti da Goodin nella
pars destruens del suo contributo, appaiono in linea di massima
convincenti. Decostruendo con un procedimento analitico le nozioni di
dipendenza e di responsabilità cui ricorrono largamente i critici del
welfare state, Goodin porta in luce la moralizzazione della dipendenza
e la conseguente adesione ad una concezione della responsabilità come
imputazione di colpa (blame responsibility): in definitiva la
punitività delle politiche di welfare orientate a responsabilizzare.
Anzitutto, come dicevo, l’attenzione posta prioritariamente sul
povero abile e la madre sola - le cui condizioni di dipendenza non
sono imputabili a cause di forza maggiore, come un handicap - comporta
una sopravvalutazione eccessiva dei margini di scelta a disposizione
degli interessati: in realtà essi non hanno alternative tra cui
scegliere.
Se ci si pone anzi dalla loro prospettiva, come Goodin ci invita a
fare, e si guarda alle loro ragioni - come direbbe Boudon - si possono
individuare prove a contrario di un comportamento responsabile. In
particolare nel caso delle madri sole, c’è l’assunzione di
responsabilità riguardo ai figli nel ricorso ai (comunque magri)
benefici del welfare, in particolare una responsabilità rivolta al
futuro. Viceversa, l’invito ad internalizzare la responsabilità, a
non delegarla al welfare, al «governo», che viene rivolto alle madri
sole attraverso gli incentivi all’indipendenza dei programmi di
workfare, potrebbe rivelarsi un ipocrita rinvio della persona in
questione ad altri tipi di dipendenza, familiare e familista, e con
tutta probabilità patriarcale e sessista: dai genitori, dal padre del
bambino, dalla benevolenza privata. Ammesso che ve ne siano davvero le
condizioni, l’invito alla responsabilità e all’indipendenza in
questo caso prelude allo spostamento da condizioni di dipendenza
impersonale, e pubblica, a condizioni di dipendenza personale, tutta
giocata dentro legami particolaristici e privati (nel senso anche di
sottratti alla visibilità pubblica).
In realtà, nel caso delle madri sole il ricorso ai benefici del
welfare sembra indicare piuttosto quella capacità di «fare
progetti» di solito apprezzata come indicatore di self-reliance ,
e un tentativo di non dipendere dagli altri, nel proprio concreto e
circoscritto contesto di vita. È chiaro inoltre che questo obiettivo
non può eludere la domanda di quale responsabilità si tratti,
rispetto a che cosa, con quale fine o con quale dovere morale (di
nuovo con Goodin si pensi, rispetto al caso della madre sola, alla
diversa responsabilità implicata laddove si tratti di guadagnarsi la
vita oppure di accudire figli piccoli). Per non dire poi del fatto
che, come rileva ancora Goodin con riferimento alla concessione
condizionale di benefici, le misure rivolte a indurre l’assunzione
di responsabilità sono particolarmente esposte al bias dell’arbitrarietà
di coloro cui è delegata la scelta nei casi concreti.
La moralizzazione della dipendenza consiste dunque, seguendo Goodin,
nel caricare di un implicito giudizio morale l’identificazione di
condizioni di bisogno che richiedono un aiuto sociale: un giudizio di
meritevolezza orientato dal sospetto che la dipendenza sia volontaria,
e dal conseguente principio della less eligibility. L’aiuto
bisogna meritarselo, e deve comunque offrire meno risorse di quelle
ottenibili accettando un lavoro remunerato pur che sia, in modo da
disincentivare gli aspiranti e insegnar loro a cavarsela da soli.
§
In definitiva il principio della responsabilità incorre nella
classica trappola dell’ingiunzione paradossale (sii responsabile,
altrimenti…) che nega ciò che vorrebbe far esistere: le intenzioni
dichiarate in partenza dai partigiani di questa prospettiva centrata
sul richiamo alla responsabilità personale, anzitutto l’intenzione
di superare il carattere paternalistico del welfare state, approdano
ad un esito paradossale. L’autorità depositaria di questo giudizio
di meritevolezza e del potere di esercitarlo, è ancor più
letteralmente paternalistica, e patriarcale, del welfare state: è un’autorità
che sorveglia il comportamento dei propri sudditi, potenzialmente
irresponsabili, che li tratta come sospetti o li infantilizza come
minus habens morali, che li depriva dello statuto pieno di attore
sociale; è un’autorità che distribuisce premi e punizioni, con
ciò alimentando una relazione di asservimento.
Ma non soltanto: come segnala Goodin, la moralizzazione della
dipendenza introduce anche elementi sostativi di un modello normativo
di buona società, di buona vita, peaceful and productive,
appunto. Basti pensare, per cominciare, a come il giudizio di
meritevolezza rinvii, in Schmidz anche esplicitamente, alla
discriminante tra produttivo e improduttivo, senza che venga
dichiarato e messo a tema rispetto a che cosa si misura la
produttività (banalmente: la cura dei figli non viene fatta rientrare
tra ciò che è assunto come produttivo, e questa esclusione non viene
giudicata meritevole di una qualche giustificazione).
Inoltre, in particolare nell’interesse per il caso delle madri sole
si annida una propensione a interpretare la responsabilità come «blame
responsibility», come imputazione di colpa. Una propensione, va
detto, che si esprime nella logica del ragionamento - in particolare
in ciò che vi è taciuto - al di là delle intenzioni dichiarate, e
ripetute, di voler sostenere una forward-looking responsibility,
una task responsibility, di contro appunto alla responsabilità
del blame e della colpa, che è backward-looking. Come
osserva Goodin18, l’assenza di responsabilità delle madri sole
potrebbe rinvenirsi alla fin fine, risalendo indietro, soltanto nel
concepimento (poiché anche la scelta di proseguire la gravidanza, la
scelta di non abortire, è in realtà un denso grappolo di dilemmi e
scelte morali, un’esperienza morale: per qualunque donna, in
qualunque situazione, niente a che fare con l’irresponsabilità).
Per la precisione, nel concepimento fuori dal matrimonio, e dall’integrazione
in una vera famiglia. Con ciò la dipendenza viene stigmatizzata non
soltanto per le sue valenze opportunistiche ma anche perché associata
a comportamenti sessuali moralmente riprovevoli (naturalmente da parte
delle donne soltanto). La moralizzazione della dipendenza si completa
qui, dice Goodin, in una visione familista (familialist) della
società.
Ciò detto bisogna però anche segnalare che la spinta alla
moralizzazione delle questioni in gioco nel welfare ha effetti forse
più ampi e radicali, che non si esauriscono nell’influenza
esercitata da questi sermoni moralisti su dipendenza e responsabilità
che accompagnano le critiche neoliberiste del welfare. Anche la logica
del ragionamento di Goodin, benché fin qui condivisibile, non riesce
a sottrarsi del tutto: il suo povero non è colpevole ma vittima.
Possiamo anzitutto rilevare che la spinta alla moralizzazione comporta
una soggettivazione dei problemi e delle materie. Il campo del welfare
si popola di figure stilizzate: il povero abile, la madre single, il
povero meritevole eccetera. L’aggettivazione è carica di
valutazioni morali, e ad essa corrisponde la personalizzazione delle
questioni, diciamo la loro individualizzazione.
L’attenzione viene cioè posta direttamente sui destinatari,
candidati più o meno giustificati a interventi di aiuto, invece che
sulle condizioni sociali e i contesti di vita in cui sono immersi, sui
problemi sociali che incarnano, sui beni comuni, rilevanti per la
collettività nel suo insieme, di cui si tratta di discutere e
decidere. L’articolazione categoriale del welfare state che ho
richiamato sopra, con la sua opera di oggettivazione,
spersonalizzazione e forse anche di reificazione (la reificazione del
malato nella malattia) ha costituito tuttavia un potente dispositivo
di mediazione che consentiva da un lato di filtrare e di rispettare la
vicenda personale dei destinatari e dall’altro di riconoscere lo
statuto sociale - nel senso di: intersoggettivo - dei problemi di cui
essi sono portatori e dei beni di cui abbisognano. Come già
accennavo, di questi beni e di questi problemi si trattava, non della
definizione dello status dei destinatari: in particolare se essi
siano, come nella discussione tra Schmidtz e Goodin, responsabili o
vittime della loro condizione di bisogno. Anche l’imputazione dello
statuto di vittima - «vittima del mercato del lavoro», vittima dei
costi sociali della crescita economica - non si sottrae del tutto a
quest’opera di soggettivazione.
La moralizzazione del discorso è in altre parole un risvolto
complementare di una soggettivazione che tende a derubricare le
questioni di giustizia del welfare, che sono questioni politiche e di
etica pubblica, a giudizi e criteri di giudizio che pertengono alla
morale privata. Cade la tematizzazione delle istituzioni, delle
competenze e delle responsabilità istituzionali, come materia di
conflitti e discussioni pubbliche, politiche - parte integrante del
discorso sul welfare. E anche gli argomenti giustificativi degli
interventi si adeguano a questo orientamento. Se i destinatari sono
trattati come potenzialmente responsabili si tratta di distribuire
premi e punizioni; se sono riconosciuti come vittime si tratta di
distribuire risarcimenti; e la redistribuzione - che imponeva l’obbligo
fiscale come principio di corresponsabilità e di condivisione di
obiettivi comuni - parla oggi il linguaggio del dono e della
solidarietà (verso i più bisognosi) che pertiene a questioni di
coscienza e di morale personale, privata.
Il paradigma distributivo
Possiamo seguire ancora la discussione tra Schmidtz e Goodin sui
principi di giustizia del welfare perché fornisce alcuni indizi anche
di un terzo aspetto, appena emerso, della revisione semantica e
sintattica in atto attorno alle questioni del welfare. Lo si può
formulare così: l’attrazione esercitata dal tema della povertà,
con le caratteristiche fin qui delineate, costringe il tema della
giustizia dentro la cornice del paradigma distributivo. È un frame,
quello distributivo, che nel campo del welfare ha radici più antiche,
e intrecciate in profondità con la storia culturale della costruzione
del welfare state: a cominciare dal fatto che la redistribuzione che
ne ha costituito l’idea forza forse più influente riguardava
risorse - ricchezza - prodotte altrove, da distribuire appunto secondo
principi di perequazione.
Tuttavia, tra distribuzione e redistribuzione c’è un passaggio di
livello, un salto che conviene illuminare prima di esplorare queste
inquietanti contiguità. Afferrando dunque in proposito il bandolo
della discussione tra Schmidtz e Goodin, si potrebbe dire in prima
approssimazione che mentre Schmidtz pone questioni di giustizia
distributiva, Goodin ripropone principi e obiettivi di giustizia
redistributiva. Guardando agli argomenti di cui si avvalgono nella
discussione possiamo riconoscervi un grande spartiacque che rinvia a
due concezioni profondamente diverse dei beni comuni. Il ragionamento
di Schmidtz è guidato dalla ricerca di un equilibrio tra i contributi
che gli individui forniscono, mentre sono intenti nei loro affari,
alla produzione e riproduzione di beni comuni, e i benefici che essi
ne possono legittimamente trarre. L’equità si misura dunque sulla
giustezza che (in un certo senso come nel prezzo) consiste nell’equilibrio
tra dare e avere, inscrivibile nella logica computazionale dell’economia
o più in generale della razionalità del calcolo.
Ma questo principio di equità distributiva, di per sé ragionevole,
si rivela incompleto e inconsistente nel campo del welfare per almeno
due ragioni. Da un lato, esso non tematizza problemi di
giustificazione di chi sia deputato a compiere scelte distributive, e
a che titolo lo sia, e di quali siano i criteri di misurazione dei
contributi e dei benefici, dando per scontata la legittimità di un’autorità
distributiva esterna e sovraordinata (l’autorità è politica, ma
essendo la politica, come segnala Goodin, ridotta essa stessa ad arena
di conflitti distributivi). D’altro canto, come si è visto, l’azione
di quest’autorità tende a configurarsi come distribuzione di premi
e punizioni, di incentivi e sanzioni (in senso anche giudiziario). In
quanto fondata sull’imputazione di responsabilità, quest’autorità
finisce per estendere al welfare i principi della giustizia
retributiva. Disponiamo in proposito di una ragguardevole mole di
ricerca empirica sulle forme concrete d’implementazione di politiche
di «incentivi all’indipendenza», sufficiente a riconoscervi indizi
di questa forma «retributiva», premiale, della giustizia sociale;
ivi comprese le attitudini di polizia che traducono il mandato di
controllo sulla meritevolezza dei beneficiari affidato alle agenzie di
welfare.
Viceversa il ragionamento di Goodin è guidato dalla ricerca di una
perequazione tra gli individui nell’accesso ad alcune risorse di
base che costituiscono una precondizione (non un premio) della
partecipazione alla vita sociale. Si tratta a mio parere di uno
spostamento decisivo: dalla distribuzione di benefici guidata da
criteri di equità distributiva alla redistribuzione guidata da
criteri di perequazione. In questo passaggio si condensa il salto di
livello che consiste nell’ammettere la natura politica delle
questioni in gioco e degli ambiti di discussione, conflitto e
deliberazione in merito. Se si tratta di redistribuire emergono motivi
e forme di conflitto sui fini, non sui mezzi, non riducibili dunque
nello stampo del conflitto strumentale, distributivo.
Tuttavia resta aperto il problema: redistribuzione di che cosa? Su
questo quesito anche il ragionamento di Goodin, guidato da una chiara
opzione redistributiva, presenta qualche ambiguità. Forse non è
senza conseguenze il fatto di accettare il terreno di confronto scelto
dall’avversario, che come dicevo attira l’attenzione su povertà e
abilità, sul confine che separa la vittima dal soggetto morale (cioè
responsabile), per l’appunto sul povero abile. Una conseguenza
importante consiste a mio parere nel rischio che l’obiettivo
redistributivo resti soffocato da logiche (e pratiche) distributive.
In Goodin l’influenza dell’ottica distributiva traspare anzitutto
dalla natura del bene oggetto di redistribuzione. Forse proprio
perché l’attenzione è attratta dal povero abile, si tratta di
(re)distribuire reddito, sotto forma di contributo monetario che
integra o fa le veci del reddito da lavoro, carente o assente. Il bene
in oggetto è, in parole povere, denaro (la modalità concreta non
viene affrontata, eppure sarebbe importante). La ragione per cui
questo bene, il reddito, viene distribuito è di tipo risarcitorio: si
tratta di redistribuire le risorse della crescita economica per
compensare le vittime di quella crescita, anzitutto coloro cui è
negata, per espulsione o per esclusione, la possibilità di
partecipare al gioco dei contributi/benefici. Ma se ciò che viene
redistribuito è reddito, l’ottica distributiva esercita la sua
influenza su alcuni terreni discriminanti.
Anzitutto sulle politiche e le misure operative: in generale esse
tendono a configurarsi come dispositivi di distribuzione di risorse
prodotte altrove; e in particolare esse tendono a privilegiare la
forma dei trasferimenti monetari invece che quella dell’erogazione
di servizi. La ricerca sociologica ha mostrato le implicazioni di
queste due alternative segnalando, con riferimento soprattutto al
welfare all’italiana, come i trasferimenti monetari alimentino
logiche particolaristiche, relazioni clientelari e paternalistiche (e
patriarcali, o quanto meno mediate da rapporti famigliari) in cui s’instaurano
legami di dipendenza personale che indeboliscono o smentiscono
obiettivi redistributivi di tipo universalistico. I trasferimenti
monetari - in quanto non remunerano prestazioni - tendono a prendere l’aspetto
di elargizioni. Viceversa, la forma dell’erogazione di servizi, che
non a caso viene riconosciuta come caratteristica dei regimi di
welfare più vicini al modello universalistico, traduce e trasmette l’idea
che certi beni (salute, educazione, sicurezza sociale eccetera) sono
comuni, attengono alla qualità della convivenza civile; e che è per
questa loro natura condivisa che l’accesso ad essi è
incondizionato.
In secondo luogo l’influenza dell’ottica distributiva si fa
sentire nella definizione dei destinatari di queste politiche. Come
abbiamo visto il principio della distribuzione di benefici non
condizionati - lo stesso basic income - difeso da Goodin attribuisce
ai destinatari lo statuto di vittime, prive di opzioni alternative e
di capacità di scelta. Le implicazioni di questa definizione dei
destinatari del welfare meritano di essere esplorate. Dicevo sopra che
rispetto alla prospettiva distributiva à la Schmidtz, la messa
a tema di un principio redistributivo comporta uno spostamento di
livello delle questioni di giustizia in gioco nel welfare, al livello
cioè delle scelte collettive: esse vertono su quali diseguaglianze
siano socialmente ammissibili; sull’eguaglianza «di che cosa», e
in quali sfere, o rispetto a quali risorse si tratta di perseguirla; e
su quali beni siano da considerarsi patrimonio condiviso della
collettività, la cui fruibilità per tutti e per ciascuno funzioni da
parametro di una «società decente».
Questo spostamento di livello consente dunque di riconoscere nella
possibilità di partecipare alle discussioni e deliberazioni in merito
a simili questioni uno di questi beni comuni, forse quello
prioritario. E perciò implica l’attribuzione al destinatario dello
statuto di attore (pubblico): in gioco nella scommessa redistributiva
del welfare era una redistribuzione di poteri, non di beni.
Invece, i destinatari di scelte e programmi distributivi - anche se
con intenti compensativi, redistributivi - sono comunque parte del
discorso nella veste per l’appunto di destinatari, recipients.
Come handicappati davvero bisognosi, come poveri meritevoli, ma anche
come vittime essi sono in una posizione passiva, di oggetto non di
soggetto agente. Il principio distributivo - non importa se
condizionato o meno, risarcitorio o premiale - presuppone una
relazione asimmetrica e a senso unico tra chi dà e chi riceve, tra
chi ha potere di disposizione su risorse da distribuire, e chi ha o
non ha titolo (la meritevolezza o il risarcimento) per ottenerne.
L’influenza della logica distributiva si fa insomma sentire - anche
nelle intenzioni redistributive di Goodin - su un punto di fondo,
discriminante: i cittadini interessati al welfare sono definiti,
trattati - e poi alla fine anche si comportano - come destinatari
passivi, a sovranità limitata, attori sociali dimezzati, deprivati
del ruolo di autori delle scelte che li riguardano.
In definitiva, il fatto di concentrare l’attenzione sul povero abile
per definire e sostenere i propri principi di giustizia tende a
ridurre questi ultimi a principi distributivi. L’opposizione tra le
due prospettive proposte riguarda per l’appunto quali principi
debbano informare le scelte distributive: se il principio
pedagogico/retributivo della meritevolezza via imputazione di
responsabilità, o il principio redistributivo della compensazione via
attribuzione dello statuto di vittima. E questa riduzione esclude dal
ragionamento questioni di giustizia che riguardano lo statuto
politico, pubblico, degli attori sociali interessati e che s’intrecciano
con questioni di potere e di autorità; il potere di distribuzione non
è in discussione, né lo è l’asimmetria di potere tra chi
distribuisce e chi riceve risorse: questioni che riguardano chi è
attore di queste scelte distributive. Sono questioni di giustizia la
cui rimozione implicata nell’impianto distributivo - di tipo
contributivo, ma anche compensativo - costituisce un significativo
indizio di una tendenza a depoliticizzare l’elaborazione sulla
giustizia, a disattivarvi l’onere di misurarsi con la natura
intrinsecamente conflittuale dei principi che essa tratta.
Pratiche di giustizia
Vorrei infine analizzare un ultimo aspetto dell’influenza che il
tema della povertà esercita nel costruire il frame dei
discorsi sul welfare: essa induce a dimenticare il grande peso che le
pratiche sociali concrete del welfare esercitano nel realizzare o
viceversa smentire i principi di giustizia perseguiti.
Ritorniamo, intanto, alla spinta a semplificare, a svuotare l’articolazione
per categorie di beni, di competenze, servizi e tipi di utenza in cui
si è dispiegato il welfare. Una spinta che influenza, come ho già
segnalato, gli argomenti di giustizia che lavorano attorno a povertà
e rapporto tra povertà e abilità: l’attenzione tende a
concentrarsi su benefits a carattere monetario da distribuire -
e sui criteri di distribuzione - più che sulla costruzione e sull’organizzazione
di servizi, sull’onda anche della delegittimazione che li ha
investiti in quanto «burocrazie». Sgombrato dunque il campo da
questi ultimi restano solo i benefìci e i beneficiari, a contatto
diretto, in una supposta coerenza lineare - senza problemi e conflitti
sul vocabolario - tra beni erogati e bisogni o diritti onorati (come
tra domanda e offerta). Ma con ciò si perde per strada il fatto che
è proprio il terreno dei problemi e dei conflitti sul vocabolario
quello in cui si giocano prioritariamente le questioni di giustizia,
in materia di welfare, e che questo terreno deve essere alimentato,
costantemente curato e arricchito di risorse argomentative. Le forme
organizzative attraverso cui operano le misure di welfare, le pratiche
sociali, i poteri istituzionali, gli attori in cui si articolano, sono
per l’appunto il decisivo fattore di strutturazione e di
alimentazione di questo terreno: un patrimonio collettivo - un bene
comune di secondo ordine, come direbbe Donolo - impiegato nel generare
costantemente significati (ivi compresi valori, norme e principi di
giustizia), nel trasformarli o nel distruggerli.
Attratti dal fascino della semplicità di una relazione non mediata
tra beni e beneficiari che il riferimento privilegiato alla povertà
esercita, si rischia di dimenticare che le pratiche s’infiltrano
comunque dappertutto, con le loro valenze generative e normative,
influenzando non soltanto la corrispondenza tra obiettivi e risultati
- e i fenomeni definiti «conseguenze inattese» ed «effetti
perversi» - ma più al fondo la definizione stessa degli obiettivi;
non soltanto la soluzione di problemi sociali ma soprattutto la
definizione sia del problema che della soluzione.
È forse necessario ricordare qui che questo livello di analisi - che
illumina le pratiche sociali, le strutture organizzative, le
interpretazioni e i discorsi di cui è concretamente costituito il
welfare, e in cui le questioni di giustizia sono embedded -
poggia su di un importante patrimonio di teoria e ricerca che ha
esplorato i processi generativi in atto nei modi concreti e locali in
cui sono organizzati ed operano i programmi e i servizi di welfare; e
che ha messo a fuoco l’influenza che esercitano le loro concrete
forme organizzative nella costruzione sociale di cittadini (o invece
di sudditi). Per esempio, la dipendenza dal welfare su cui insistono,
come abbiamo visto, i sostenitori del principio di responsabilità, è
un fenomeno ben noto a chi ha osservato il welfare state da questa
prospettiva, ma connotato da una complessità di legami che non si
lasciano ricondurre nella cornice di un incoraggiamento di
comportamenti opportunistici e irresponsabili. Da questa prospettiva
la dipendenza dei beneficiari del welfare si coniuga con pratiche che
inducono invalidazione, più che deresponsabilizzazione. In proposito
richiamo soltanto quel bandolo costituito dagli studi sui fenomeni di
cronicità istituzionale, nei quali gli interventi sociali confermano
e cronicizzano il problema trattato, plasmandolo a propria immagine e
somiglianza: con «incentivi all’invalidità», con l’«etica
della scarsità» che eroga benefici come premi, con dispositivi di
scrematura (dei pertinenti, o dei «quasi adatti»), con relazioni di
aiuto - siano esse fondate sull’autorità di un sapere specializzato
o sul potere benevolo della carità - che destituiscono i beneficiari,
li deprivano e li invalidano, con ciò appunto creando legami di
dipendenza.
In definitiva, il «come» sono organizzate e praticate le misure di
giustizia sociale è dunque altrettanto importante del «chi» (i
beneficiari) e del «che cosa» (i benefici che esse distribuiscono o
redistribuiscono) perché illumina il lato generativo di queste
misure. Si può tentare di esaminare da questa prospettiva le due
posizioni di giustizia che abbiamo visto misurarsi sul terreno della
povertà, in particolare analizzando le politiche, cui esse rinviano
più o meno esplicitamente, che chiamano in causa il problema del
lavoro. L’alternativa in prima istanza è tra politiche di workfare
e basic income. Vediamo a grandi linee come esse si traducono
operativamente e quali culture di giustizia generano.
Nel caso del workfare la concessione di un contributo al reddito all’abile
povero è condizionata alla sua disponibilità a partecipare, ad
accettare il lavoro che gli/le viene offerto (di solito con un
programma di formazione professionale). Ritroviamo qui, praticato, il
corredo di criteri che accompagnano questo aiuto condizionale e lo
ancorano all’obiettivo dell’assunzione di responsabilità:
anzitutto il criterio della less eligibility, che si traduce
nella «scarsità» del contributo così elargito e nel suo carattere
temporaneo. La filosofia della responsabilizzazione, che come abbiamo
visto dà l’impronta a questa alternativa, si traduce operativamente
nella costruzione di apparati e procedure di controllo e selezione dei
candidati. L’attenzione è focalizzata su questi ultimi, sulla loro
meritevolezza, cioè sulla loro volontà e capacità di superare la
soglia e integrarsi in una «normale vita lavorativa», come se il
successo o insuccesso delle misure in questione fosse ad essi
soprattutto imputabile. Rimane del tutto in ombra la questione delle
caratteristiche del lavoro su cui verificare l’«indipendenza»
incentivata dal contributo monetario; e vengono ignorate le
circostanze concrete della vita delle persone interessate, le altre
risorse di cui dispongono o di cui mancano, oltre al reddito, come
materia non pertinente al contratto con loro.
Questi aspetti vengono lasciati all’arbitrio interpretativo dei
terminali operativi (che poi si tratti di street level bureaucracy o
invece di agenzie private e di mercato più o meno non profit non è,
anche questo, irrilevante). Nel quadro diversificato delle formule
operative concrete e locali e del loro impatto si possono individuare
alcune tendenze di fondo. Anzitutto, la traduzione operativa di queste
misure è orientata più da scopi di controllo della meritevolezza che
da obiettivi di efficacia degli aiuti. Inoltre, tende spesso a crearsi
una strozzatura nel passaggio delle persone dalla condizione di
beneficiari di un programma di welfare orientato all’inserimento
lavorativo ad una vera e propria condizione lavorativa, come mostrano
i dati sul basso tasso di successi nel passaggio dalla formazione
professionale al lavoro. E ancora, la condizione lavorativa che
eventualmente si raggiunge è di solito così misera che se da un lato
comporta l’«indipendenza» dal welfare, dall’altro non comporta
affatto l’uscita da uno stato di povertà: si tratta spesso soltanto
di una reimmersione della persona in una condizione al di sotto della
soglia della povertà, e al di sotto della soglia di visibilità
pubblica
Nel loro insieme le opportunità di lavoro tendono ad assumere valenze
coercitive, riproducendo il carattere di obbligo - non di diritto -
del lavoro, come nelle formule storiche originarie del workfare. E la
responsabilità che prende forma in queste pratiche sociali assume i
connotati della blame responsibility, poggia su un giudizio di
colpevolezza backward-looking, e diventa imputazione di
responsabilità. È questo il livello al quale viene riconosciuto al
destinatario lo statuto di soggetto morale, responsabile delle proprie
azioni. Questi è costantemente «in prova», sotto il profilo morale;
ed è costantemente in bilico sulla china dell’immiserimento, sotto
il profilo materiale. Nel migliore dei casi diventerà un buon
suddito; più spesso diventerà invece davvero «colpevole», a
conferma della profezia.
Nel caso del basic income il rapporto tra povertà e lavoro si
presenta in termini alternativi alla logica del workfare, come abbiamo
visto anche nel confronto tra Schmidtz e Goodin: l’abile povero è
vittima della crisi del lavoro, essendo dunque quest’ultimo semmai
un diritto non onorato, non un obbligo; e il reddito erogato assume
carattere non condizionato e compensativo. Questo orientamento sembra
ispirare le politiche avviate in tutti i paesi europei con la formula
dell’erogazione di benefici monetari ancorata a programmi di
formazione professionale e disponibilità al lavoro, come nel caso
capofila francese del reddito minimo d’inserimento. Tuttavia, la
fisionomia operativa di queste politiche peraltro diversificate, e i
loro esiti, sono ancora incerti. Esse da un lato riconoscono comunque
il peso decisivo che il lavoro continua a rivestire non soltanto per l’autonomia
materiale delle persone ma anche per il loro riconoscimento sociale:
il reddito erogato non deve seguire le orme del sussidio
assistenziale; e complementarmente al requisito della disponibilità
al lavoro corrispondono diversi tipi di obbligazioni da parte degli
enti pubblici contraenti, soprattutto il sostegno di servizi in
materia di casa, asili nido eccetera.
Ma le pratiche concrete in cui si traducono questi programmi lasciano
trasparire la forza di attrazione esercitata, sul terreno del rapporto
tra reddito e disponibilità al lavoro, dal contiguo mondo del
workfare, con le implicazioni normative più sopra rapidamente
richiamate. Tra l’altro, i richiami ad un «investimento» sul
potenziale lavorativo dei beneficiari che ricorrono possono innescare
pratiche e culture di selezione di coloro che «ce la possono fare»:
il lavoro diventa allora un «premio». E anche in questo caso i tassi
di successo in termini di inserimento lavorativo, e ancor più di
uscita da condizioni di povertà, non sembrano entusiasmanti.
Naturalmente, il quadro non è così univoco: nelle politiche e nelle
pratiche di basic income confluisce altrettanto quel patrimonio di
culture della cittadinanza che si è andato accumulando nel confronto
con le disabilità, con i connotati che ho richiamato nel secondo
paragrafo. In questa cornice, il reddito erogato viene agganciato a
programmi che mirano alla validazione delle persone attraverso la
costruzione delle condizioni nelle quali queste ultime possano
esercitare le loro capacità (e responsabilità). Possiamo attingere a
questo proposito a esperienze operative, concrete e locali, in materia
di formazione e lavoro, che presentano caratteri opposti rispetto alla
logica del workfare.
Esse sono prioritariamente orientate non dall’imputazione di
responsabilità ma dall’attribuzione di credito, in cui il
riconoscimento dello statuto di soggetto morale responsabile delle
proprie azioni al destinatario è implicito, presupposto, nel fatto
stesso che gli si dà credito. Le forme del credito possono poi essere
molto diverse. Può trattarsi di vero e proprio credito monetario come
nella straordinaria esperienza del banchiere Yunus; può trattarsi, in
forme più mediate, di credito morale di qualche tipo (per esempio
«fiducia»), e di pratiche orientate a costruire le condizioni
relazionali e organizzative che consentano di manifestarlo e di
investirlo: per esempio attraverso forme di coinvolgimento e di
cooperazione dentro progetti ed imprese condivise.
Inoltre, l’orientamento al credito è associato ad una
interpretazione della responsabilità assunta (taking
responsibility), dell’indipendenza, come validazione: essa
richiede altrettanto una «responsabilità collettiva», secondo l’espressione
di Goodin, a curare che le condizioni sociali davvero favoriscano l’esercizio
di responsabilità. Per esempio costruendo ponti che consentano di
attraversare la mitica soglia, e popolino di interazioni significative
il percorso che conduce al lavoro, o al reinserimento sociale; o
ancora creando opportunità di lavoro nelle quali le persone coinvolte
possano esercitare le loro capacità, ivi comprese le capacità di
scelta, riappropriandosi così anche della capacità di progettare la
propria vita (un requisito giudicato essenziale per misurare l’assunzione
di responsabilità).
Infine l’idea della validazione implica un processo - un percorso,
appunto - condiviso con la persona interessata, che ne è l’artefice
principale. Perciò da un lato essa richiede pratiche riflessive,
capaci di apprendimento e di autocorrezione, con un basso tenore di
certezze normative. E dall’altro essa evita il paradosso in cui,
come abbiamo visto, incorre il discorso della responsabilità. Le
risorse culturali e morali dei soggetti empirici concreti non soltanto
non possono essere indotte o prodotte o ingiunte dall’esterno - per
suscitarle occorrono strategie indirette - ma soprattutto esse hanno
la proprietà di manifestarsi e di crescere attraverso l’uso. I
beneficiari del welfare sono inclusi e coinvolti nel processo della
loro validazione, attraverso forme organizzative e pratiche attente al
dettaglio, che curano la qualità della relazione tra erogatore e
beneficiario della prestazione perché valorizzi di quest’ultimo lo
statuto di attore, riconosciuto per le capacità che sa e vuole
esercitare invece che per i deficit, materiali o morali di cui è
portatore. La minuzia quotidiana viene riconosciuta nel suo potenziale
generativo.
Come si può facilmente intuire, queste modalità di seguire la via
del lavoro per innescare processi di validazione (e relativi esiti
indiretti di responsabilizzazione) sono delicate, e richiedono un
grado elevato di riflessività delle pratiche, come dicevo. Certo,
anche per questo necessario rigore, queste formule operative restano
marginali nel discorso corrente sulle politiche d’inserimento
lavorativo e in genere di lotta alla povertà, e sui principi di
giustizia cui si ispirano - discorso che è invece fortemente
influenzato dall’approccio della responsabilità e dal modello del
workfare. Tuttavia si possono studiare in proposito esperimenti
davvero significativi che prima di finire nel dimenticatoio della
storia potrebbero insegnarci qualcosa. Se non altro ci insegnano che
ci sono dei modi di percorrere la via del lavoro con l’intento di
rendere le persone indipendenti e capaci di fare progetti, che sono
davvero diversi dalle soluzioni più o meno punitive, premiali e
coercitive corrispondenti all’approccio della responsabilità.
Come minimo esse insegnano che benefici monetari e inserimento
lavorativo - e i modi in cui si coniugano insieme - possono essere di
segno molto diverso, se non opposto, anche rispetto ai principi di
giustizia che incarnano. E segnalano che certe differenze decisive si
giocano sul terreno delle forme organizzative, delle culture e delle
pratiche in cui queste misure concretamente si esplicano. Siamo così
ritornati al punto di partenza del ragionamento sviluppato in questo
paragrafo, all’invito ad affrontare questo livello di analisi. In
proposito possiamo aggiungere un’ultima considerazione a margine.
Questo livello di analisi invita a spostare l’attenzione fuori dal
terreno puramente normativo dei principi di giustizia e a riconoscere
che gli argomenti di cui si tratta sono comunque contaminati da
considerazioni analitiche che riguardano le scelte concrete operate
dagli attori deputati, e che appunto chiamano in causa le pratiche e
le teorie-in-uso che le informano, le forme organizzative concrete che
applicano quei principi e i processi di sensemaking che vi si
generano, e così via: è su questo terreno analitico che si può
discutere, per esempio, di che responsabilità si tratti quanto si
afferma il principio di responsabilità.
Forse nel caso del welfare questa contaminazione è inevitabile,
intrinseca alle questioni di giustizia che vi sono in gioco, e
richiede un confronto più serrato tra il livello normativo e quello
analitico, tra i principi di giustizia e le pratiche di giustizia in
cui essi sono embedded. In questo confronto è probabile che si
faccia esperienza - intellettuale e pratica - dei limiti della
giustizia: il terreno è ineludibilmente quello della giustizia
locale, nel senso di Elster; e forse è inevitabile incontrarvi scelte
tragiche, dilemmi insolubili e casi di sorte morale. Ma la cognizione
del limite è decisiva, nel campo del welfare, perché la ricerca
sulla giustizia ne riconosca il carattere di laboratorio fondamentale
di vita pubblica, spazio di discorso, conflitto, costruzione e
deliberazione cui sono sottoposte non soltanto le soluzioni operative
ma anche i principi di giustizia cui s’ispirano.
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