La
filosofia nella pittura
Reinhard Brandt con Pierpaolo Ciccarelli
Questa intervista fa parte dell’Enciclopedia multimediale delle
scienze filosofiche, un’opera realizzata da Rai-educational in
collaborazione con l’Istituto italiano per gli studi filosofici e
con il patrocinio dell’Unesco, del Presidente della Repubblica
Italiana, del Segretario Generale del Consiglio d’Europa.
L'obbiettivo è quello di diffondere nel mondo, tramite le nuove forme
d’espressione e comunicazione sociale consentite oggi dalla tecnica,
la conoscenza della filosofia nel suo svolgimento storico e nei
termini vivi della cultura contemporanea.
Per ulteriori informazioni potete visitare il sito Internet: www.emsf.rai.it
Professor
Brandt, come si legano filosofia e arti figurative, filosofia e
pittura?
La filosofia non è legata esclusivamente al linguaggio come suo
mezzo? Il discorso
filosofico non ricorre al
linguaggio come una mediazione necessaria?
Riflettiamo su che cos'è veramente la filosofia. Io direi che è la
visione critica e la verifica delle convinzioni e norme del nostro
pensare e agire con l'obbiettivo di trattenere ciò che è sostenibile
e di sostituire con qualcosa di meglio le norme e convinzioni non
sostenibili. In tal modo cominciarono i Presocratici e così credo
ancora oggi si filosofeggi laddove non si finisca in giochetti formali
o si voglia fissare come tali, in modo dogmatico, determinate
ideologie, religioni, convinzioni, opinioni e stabilirle attraverso la
filosofia. Quindi a parer mio la filosofia è un illuminismo critico
sul nostro orientamento con il fine o di conservare i propri
orientamenti oppure di sostituirli con dei nuovi. E questa riflessione
sui nostri principi del pensare e dell'agire è sempre connessa alla
parola. Così era presso i Presocratici, allora si discuteva, per via
orale si rendevano pubblici libri e saggi, si tenevano lezioni. E
nella filosofia c'è anche una forte tendenza contro il quadro. In
Cartesio, Kant e Hegel troviamo un'avversione contro il pensiero
immaginifico, e in John Locke abbiamo un'indicazione chiara che la
prosa filosofica debba evitare la metafora. Non si deve sfuggire in
pensieri barocchi pieni di immagini, ma attenersi alla precisione
concettuale. Perciò credo che la filosofia sia essenzialmente legata
all'interazione verbale e al discorso con se stessa. Riflettere
significa appunto parlare con se stessi, e in questo senso è vero che
la filosofia si presenta sempre in forma verbalizzata.
Può portarci un esempio di pittura
filosofica?
Secondo me una rappresentazione di Nicolas Poussin - intorno al 1650 -
è un ottimo esempio. Il dipinto, che si trova a Francoforte, si
intitola 'Paesaggio di un temporale con Piramo e Tisbe', e mostra una
natura irrequieta, mossa dal temporale. In lontananza, in questo
paesaggio così sublime e grandioso, si vede su un monte una rocca
colpita da un lampo già in fiamme e una mandria impaurita che scappa
allontanandosi dall'incendio. In primo piano si vede, disteso a terra,
Piramo morto. Tisbe si precipita su di lui e subito dopo -
l'osservatore sa già che questa scena è stata tratta da Ovidio - si
toglie la vita. Solo il lago, nel centro del quadro, è calmo e
immobile. La sua superficie non viene sfiorata dal vento e penso che
il messaggio del quadro sia che il pittore vuole documentare
l'imperturbabilità dell'anima. Anche il pittore ha raggiunto quella
tranquillità - in greco ataraxia o galene, la pace dell'anima -
ed è in grado di raffigurare l'irrequietezza del mondo e quella della
natura. Il pittore può anche rappresentare la passione degli animi
dei due amanti Piramo e Tisbe - che si autodistruggono - raffigurando
così la natura e gli uomini come fa con il lago in cui si
rispecchiano le case e gli alberi in movimento. In questo quadro,
secondo me, c'è un messaggio filosofico molto chiaro. Il quadro
stesso è di natura filosofica: Poussin era un neo-stoico e nella sua
opera riporta un insegnamento della Stoà sull'irrequietezza e sulla
possibilità per il filosofo di raggiungere la tranquillità.
Ciò significa che la
pittura può trasmettere
contenuti filosofici?
Sì, indipendentemente da ciò che si pensa al riguardo, è
inconfutabile che la pittura sia capace di trasmettere un messaggio
del genere. Al momento non dobbiamo occuparci di come questo sia
possibile. Penso però che il quadro intero e le sue singole parti
possano trasmettere una rappresentazione delle idee. Un quadro forse
non è in grado di arrivare ad essere raffigurazione della negazione
in sé, ma può contribuire nella rappresentazione figurativa all'idea
del nichilismo.
Può darcene un'esempio?
C'è un quadro di Juan de Ribera dal titolo 'Democrito', dove
Democrito è raffigurato con in mano un foglio bianco. Secondo me
l'interpretazione è molto chiara e cioè il filosofo dice che alla
fine non rimane niente, il mondo nella sua totalità è il nulla. Per
una cultura figurativa in grado di trasmettere contenuti filosofici,
la premessa è abbastanza complessa. Questo tipo di pittura si è
sviluppata in particolar modo nella prima età moderna, nel
Rinascimento e nel Barocco. Vedremo inoltre che ci sono quadri di
David e perfino di Max Klinger che premettono il filosofo come figura
ben precisa, di santo, di retore. Nelle statue antiche il filosofo
veniva raffigurato con una ruga sulla fronte: in tal modo qualsiasi
osservatore poteva immediatamente rendersi conto di chi fosse. Anche
nella pittura dell'età
moderna abbiamo delle convenzioni ben determinate secondo cui ci è
possibile riconoscere in Socrate, Seneca, Platone, Eraclito o
Aristotele il filosofo. Come ho già detto nell'800 questa tradizione
non ha più la stessa rilevanza che aveva nel Rinascimento e nel '600.
Abbiamo effettivamente un quadro di Klinger sulla figura del filosofo
e Masson ha anche raffigurato Eraclito, ma secondo me la fase della
raffigurazione dei filosofi e cioè quella filosofica ormai è finita.
Lei ritiene quindi che
questa tradizione figurativa relativa ai filosofi e alla filosofia si
sia interrotta?
Penso di sì. Esiste sicuramente anche dopo una filosofia
significativa che permette con nuovi mezzi e nuovi problemi di
riflettere sui principi del nostro pensare e agire. Ma ha perso la sua
capacità figurativa e per questo è a malapena possibile
rappresentare la filosofia odierna nella figura aristocratica di un
Platone e di un Aristotele o anche nell'atteggiamento di negazione di
un Diogene che vuol vivere nella botte criticando la cultura e la
civilizzazione. Durante il Rinascimento e fino al XVVI-XVIII secolo
c'erano invece figure come quelle di Democrito, Eraclito, Platone,
Aristotele, Seneca e Socrate, oppure, più in generale, quella del
filosofo come outsider.
C'è qualche elemento che
accomuna i filosofi
rappresentati dalla pittura?
Secondo me sì. In un certo modo varcano sempre il confine della
società umana, stanno al margine della città, al confine del paese,
della polis, sono quasi dei nomadi che apportano una critica
culturale, come Diogene o Democrito, oppure che si trovano in una
situazione di morte, come Seneca per Rubens, o che riflettono sulla
morte, come il Democrito di Salvator Rosa, di cui ci occuperemo più
da vicino. Un altro caso, che ho già nominato, è quello di Ribera
che raffigura Democrito come un filosofo giunto, al termine della sua
esistenza, a una posizione nichilistica. Sono comunque sempre
posizioni estreme, che riflettono l'essere umano nella sua totalità,
arrivando ad atteggiamenti definitivi.
In che modo, attraverso
un dipinto, si possono esprimere
non solo emozioni ma anche pensieri
filosofici?
E' molto utile al proposito citare un autore greco, Senofonte, che
oggi ha perso un po' del suo splendore e i cui scritti risultano
pedanti. Ma nelle sue 'Memorabilia', dove racconta la vita di Socrate,
c'è un passo che possiamo prendere come punto di partenza. Socrate,
in maniera stereotipata, pone al pittore Parasius la seguente domanda:
"Mio caro Parasius, la pittura è un'imitazione di ciò che si
vede? Perchè voi dipingete e imitate servendovi dei colori le cavità
e le alture, il chiaro e lo scuro, il duro e il morbido, il non
livellato e il piano, la gioventù e vecchiaia fisica" "Tu
dici la verità" replica il pittore Parasius. E poi Socrate fa
un'altra domanda: "E non imitate anche le qualità dell'anima, o
ciò che fa parte dell'animo non è raffigurabile?" Allora, con
sommo stupore, il pittore si accorge che anche le proprietà
dell'anima sono oggetto della pittura. Si può quindi constatare, come
dice Socrate, che il pittore è in grado di "fermare" i
momenti interiori, ad esempio l'atteggiamento con cui uno guarda un
altro, il modo in cui partecipa alla sua gioia.
E ora di nuovo una citazione: "Dal viso e dalle posizioni
dell'uomo trapela anche ciò che è elevato e nobile, inferiore e
dipendente, razionale e intelligente, malizioso e irragionevole."
Il pittore - secondo l'interpretazione di Socrate con il consenso di
Parasius - riporta determinate qualità spirituali, movimenti che si
percepiscono all'interno di noi stessi, le passioni e anche il
carattere. Il pittore può raffiguare tutto questo nei gesti, nella
mimica o anche nell'espressione del viso comunicando ciò che di per sé
non è visibile. Socrate avrebbe aggiunto anche che il pittore è in
grado di rappresentare i pensieri e le riflessioni di un individuo,
che però sono diversi dagli affetti, le emozioni, il carattere. Il
pittore rappresenta una riflessione astratta: ne abbiamo un esempio
calzante nelle stanze di Raffaello.
Nella 'La stanza della Signatura' viene raffigurata la famosa
'Scuola di Atene' in cui Socrate attira l'attenzione sulla sua mano e
le persone che lo circondano vedono il modo in cui lui rivolge le dita
verso l'alto.
Chi si è occupato di questo quadro e conosce Platone sa che il gesto
di Socrate fa riferimento a un passaggio ben preciso del dialogo
platonico. Il riferimento si trova nel 7° libro della 'Repubblica' di
Platone in cui Socrate tenta di portare un sensualista convinto come
Protagora ad ammettere che i sensi possono percepire determinate
qualità della mano, delle dita, ad esempio attraverso il senso del
tatto il duro e il morbido, attraverso la vista la lunghezza di un
dito. Dove invece i sensi sono completamente inadeguati è nel
confronto tra due lunghezze, il fatto cioè che un dito sia più lungo
dell'altro. Per questo si ha bisogno dell'intervento delle qualità
spirituali, quelle dell'intelletto. Ed è proprio quello che Socrate
vuole dimostrare in questo quadro, la necessità di una qualità umana
che vada al di là dai sensi. Così si ha la rappresentazione di un
pensiero ben preciso, quello della convinzione del sensualista che non
può restare sulle sue posizioni ma che invece deve superare con un
altro passo. Questo è un buon esempio, secondo me ricollegabile alla
rappresentazione di Senofonte e riassumibile così: il pittore non è
solo in grado di comunicare qualcosa di non visibile nel campo
affettivo e caratteriale ma anche riflessioni e idee.
In questo modo lei introduce il primo esempio:
'La scuola di Atene' di Raffaello.
Il tema è proprio questo e vorrei per prima cosa criticare il titolo.
Il quadro, sin dalla fine del XVII secolo -la fonte non è conosciuta-
si chiama 'La scuola di Atene'. Dunque, sicuramente questo titolo non
è giusto, infatti ad Atene troviamo molte scuole filosofiche: il
Peripatos, l'Accademia di Platone ma anche le scuole ellenistiche. E
con una certa sicurezza si può supporre che in questo quadro non c'è
né uno stoico, né un epicureo e in più nell'affresco si vedono
filosofi e dotti, facilmente identificabili, mai stati ad Atene.
Quindi si può affermare che storicamente il titolo non è corretto.
Probabilmente è la soluzione di uno storico che, volendosi occupare
di questo dipinto e cercando un titolo, per togliersi dall'imbarazzo
propose questo che si è mantenuto fino ad oggi.
Ciò significa che il titolo attribuito all'affresco ne distorce il contenuto stesso?
Per un certo verso, sì. L'affresco, commissionato da Papa Giulio II,
sicuramente non vuole rendere una rappresentazione storica dello stato
di allora di una scuola di Atene. Non è certamente nell'interesse del
committente, e neanche in quello di Raffaello stesso, di comunicare
qualcosa di così lontano, di rappresentare con questo quadro qualcosa
di storico. Mentre in questo tipo di pittura murale si tratta di
riferimenti molti attuali, presenti. Quello che interessa, e lo si
capisce se si interpreta il quadro più da vicino, è di fortificare
una posizione di potenza ben precisa del Papa. Credo che non si debba
includere un'interpretazione in questa tradizione storicistica secondo
la quale l'affresco rappresenta una scuola storica di Atene, ma
bisogna interpretarlo in base alla situazione di allora. Tuttavia
ritengo che il titolo non debba essere cambiato. Dobbiamo solo avere
presente che il titolo essendo sbagliato ne distorce
il contenuto. Ma è stato sempre stampato così, milioni di
volte, e così è entrato nella tradizione e per questo non si
dovrebbe modificarlo. Anch'io, in seguito, parlerò di Scuola di
Atene, ma attenzione a non dimenticare che il titolo è sbagliato,
addirittura fuorviante.
Professor Brandt, qual è il tema del dipinto?
Prima di tutto bisogna ricordare che sicuramente il dipinto nella sua
totalità ha un unico tema penetrante e lo si può trovare
documentato. Ma si deve solamente spostare lo sguardo leggermente
verso l'alto e sul soffitto ci si trova un medaglione con una figura
di donna e due putti senza ali ma ben informati che su due tavole
dicono all'osservatore di che cosa si tratta e cioè: 'Causarum
cognitio', la cognizione delle cause. E dalla parte opposta
dell'affresco della Sala della Signatura, nella parte superiore della
cosiddetta 'Disputa', due putti -questa volta alati- tendono verso
l'alto il programma e il titolo della parte contraria e cioè : 'Divinarum
rerum notitia'. E chiaramente sussiste un collegamento tra i due
affreschi e perciò anche un indizio per il vero tema dell'affresco
erroneamente chiamato Scuola di Atene. Il divino è di grado più
elevato rispetto al secolare, la 'cognitio', la cognizione delle
cause, delle strutture causali si riferisce alla natura mentre la
cognizione del divino abbandona il mondo delle cause e si rifà alla
causa di tutto ciò che esiste e cioè a Dio. E il Papa è seduto in
questa Sala della Signatura come l'avvocato di Dio in un certo qual
modo nel centro, tra i due affreschi, come mediatore tra la sfera
terrena e quella divina. E quella terrena su cui torneremo subito ha
di certo un legame intimo con la religione cristiana. La filosofia
occupandosi delle cause dell'essere trova il suo compimento -secondo
l'intenzione del programma ecclesiastico- solamente nel credo
cristiano. Perciò penso che si debba partire dalla figura in alto. Il
titolo è 'Causarum cognitio' e bisogna tener a mente il legame tra
questo affresco e quello della Disputa.
Ciò significa quindi che tra la 'Scuola di
Atene' e la 'Disputa' esiste un'esistenziale corrispondenza? Un
reciproco rinvio?
Credo che sia essenziale per questo dipinto, per tutti veramente. Ce
ne sono altri due nella Sala della Signatura 'Parnaso' e 'La
giustizia' che non prendiamo in considerazione dato che di fatto non
si riferiscono alla rappresentazione di questi filosofi sotto il
titolo di 'Causarum cognitio'. Se osserviamo ancora una volta la
figura al di sopra dei due affreschi, della Disputa e di questa 'Cognitio
causarum' si può notare che la figura femminile della Teologia sopra
la cosiddetta Disputa ha un libro nella mano sinistra, sicuramente il
libro per eccellenza, la Bibbia. E dall'altra parte la Filosofia ha in
mano due libri di cui si possono leggere i titoli 'Moralis' e
Naturalis'. E questo doppio motivo, la dualità che possiamo osservare
dalla parte della Filosofia, della conoscenza del terreno, ebbene
questo doppio motivo emerge anche nei libri che nel centro dell'intero
dipinto hanno in mano Platone e Aristotele. Da un lato abbiamo Platone
con 'Timaios', cioè la filosofia della natura, quella matematica
mentre Aristotele con la sua 'Ethica' rappresenta la filosofia morale.
Sono titoli che si possono riconoscere esattamente e che come vedremo
alla fine di questa interpretazione sono veramente essenziali per
l'intera struttura del quadro di Raffaello.
Che cosa ci indicano Platone e Aristotele?
Platone con la mano destra indica verso l'alto. È sicuramente un
indizio per la sua posizione idealistica, per l'assunzione della reale
esistenza dell'ultrasensoriale. Dall'altra parte c'è Aristotele che
garantisce con la sua mano in qualche modo la realtà materiale,
indicando la realtà delle cose naturali. All'interno della filosofia,
secondo me, il dualismo dei due filosofi non è più da superare perché
la filosofia ha un aspetto ambivalente. Forse dirigendo lo sguardo
verso l'alto possiamo includere il fatto che nella cupola ci siano due
colonne e sono le uniche nell'intero dipinto. Tutti gli altri sono
sempre pilastri. In un punto ben preciso le colonne fanno vedere il
cielo aperto, attraverso loro è possibile vederlo, cielo aperto. Per
me questo è anche un indizio che il dualismo-insuperabile nella
filosofia-non debba essere portato anche nella Disputa, determinata
invece in effetti dall'unità cristiana, dall'essere unitario di Dio
nella Trinità. Così come abbiamo trovato dall'altra parte il libro
per eccellenza, qui abbiamo l'unica soluzione possibile di tutti i
problemi. La filosofia non è capace di tanto, ha un aspetto che
riguarda ciò che è morale, un'altro della 'philosophia naturalis'.
Ha un'ottica idealistica e al tempo stesso così legata alla realtà
degli oggetti e non È in grado di superare il contrasto. Così
interpreto l'affresco nella composizione totale della Sala della
Signatura. Volendosi occupare ancora più dettagliatamente credo che
sorga il pericolo -in cui per altro si è già incorsi fin d'ora- di
effettuare identificazioni delle singole figure. Ma in effetti se ne
possono identificare solo alcune e di quelle sicure anch'io vorrei
veramente riprenderne solo una e cioè Diogene il cinico, Diogene di
Sinope, chiaramente identificabile. Egli è sulla scala, la scala
intellectus come vedremo, davanti ad Aristotele e Platone, raffigurato
in qualche modo in un atteggiamento animalesco (cinico, infatti,
significa filosofo-cane) con una scodella vicino a lui. Ed essa è in
fondo nel quadro intero l'unico punto in cui ci si rifa' ad un bisogno
naturale. Quindi Diogene, il filosofo persiste sui bisogni naturali. E
credo che Raffaello o il gruppo di Giulio II che consigliò il pittore
durante la concezione del quadro, hanno presente un passaggio ben
preciso che fa parte della letteratura antica ed è il seguente testo
di uno storico della filosofia, Diogene Laerzio. In questo testo,
riguardo a Diogene il cinico, si legge: "Musicam vero et
geometriam et astrologiam ceteramque similia negligenda esse et
inutilia et quae minime necessaria." Cioè il Cinico ritiene
"completamente inutili e non necessari la musica, la geometria,
l'astrologia e cose del genere".
Il testo mostra che l'autore nominando la musica, la geometria,
l'astologia o l'astronomia ha in mente la Repubblica di Platone.
Infatti sono esattamente quelle discipline che Platone, nella
Repubblica, nomina per il filosofo come iter da seguire. La scala
intellectus è una graduazione della conoscenza, da Platone ritenuta
necessaria per raggiungere il gradino più elevato, cioè la
conoscenza dialettica delle idee. Naturalmente, Platone e Aristotele
l'hanno raggiunto. Nella Repubblica di Platone i gradini più in alto
sono ben marcati. Perciò con questa scala si è ripreso di nuovo un
passaggio preciso dell'opera platonica per poi tradurlo in figure, in
immagini. L'immagine di Diogene disteso sulla scala, che non vuole
salire, nel dipinto È un punto ben identificabile preso dall'antico
storico della filosofia, Diogene Laerzio. A mio avviso si riporta
un'idea di Raffaello o di Giulio II per la quale i due filosofi
aristocratici, Platone e Aristotele, dominano l'intera assemblea dei
dotti e dei filosofi. La conoscenza intera e tutta la filosofia deve
limitarsi all'interno della tradizione filosofica, dell'Accademia e
del Peripato, della filosofia platonica e quindi di quella
aristotelica. Resta però ancora dello spazio per un oppositore, colui
che ricusa tale forma di conoscenza, ovvero Diogene Laerzio. Comunque,
egli in mano ha sempre un libro quindi, c'è da parte sua l'impegno
verso una conoscenza letteraria. Ma l'attenzione resta su Platone e
Aristotele. E forse, osservandoli più attentamente, si dovrebbe anche
aggiungere che è evidente l'affinità con le raffigurazioni degli
apostoli Pietro e Paolo. In precedenza questo quadro è stato spesso
considerato come la rappresentazione di Pietro e Paolo, e Raffaello è
completamente cosciente di ciò. Platone e Aristotele prefigurano i
giovani più importanti per la chiesa. Anche questo quindi nella
composizione del quadro è di straordinaria rilevanza. Sono le
prefigurazioni dei due apostoli e quindi anche una parte di quella
pretesa della chiesa di forza e di spirito. David, nel 1787, riprenderà
un elemento cristiano, in tutt'altra forma. Non si intende
assolutamente una continuazione della fede cristiana bensì una
rottura, un superamento, una negazione. Qui invece è esattamente il
contrario; la raffigurazione dei due filosofi, Platone e Aristotele,
è come una prefigurazione della fede cristiana e quindi anche
dell'idea che una filosofia platonico-aristotelica, già di per se
stessa, è integrata nella dottrina cristiana.
Ritengo che quest'incontro di dotti di diverse epoche e tendenze, stia
a significare che la conoscenza è possibile solo all'interno del
Platonismo e dell'Aristotelismo e che posizioni come quelle sostenute
da Epicuro, non rappresentano nessuna possibile conoscenza. Inoltre
con l'incontro dei dotti viene avanzata una pretesa enciclopedico-
universale e con ciò sono avvertiti quei pensatori di scuola
ellenistica, avvertiti di non abbandonare quest'immagine chiusa del
mondo per entrare in una sfera che non appartiene più alla conoscenza
accettata. Per questo credo che nell'incontro si avanza sì una
pretesa enciclopedica, universale, ma anche quella esclusiva.
Nella
"Repubblica" di Platone esiste una critica fondamentale
dell'arte? Può introdurci al tema?
Sono convinto che Raffaello, e coloro che lo consigliarono durante la
concezione del quadro o anche i filosofi del Rinascimento, sapessero
esattamente che Platone, nella 'Repubblica', mosse una critica
profonda alla poesia e alla pittura. Nel 10° libro troviamo che i
poeti, in fondo, e anche
i quadri, ingannano; lo specchio inganna, il quadro pure. Produce
apparenza e la 'Repubblica' o meglio ancora, la filosofia platonica in
genere è contro l'apparenza. Essa vuole verità e esseri veri. Nel 10°
libro viene mostrato come la pittura in verità sia ontologicamente
qualcosa di pessimo rango. Le idee stanno in cima, poi ci sono gli
oggetti reali. Si fa l'esempio del letto, di quello dipinto, quindi
oggetto di un quadro, non è nemmeno questa realtà materiale
inferiore bensì finge di essere tale. Il pittore non deve capire
niente delle cose che dipinge, le può rappresentare nell'ignoranza
assoluta, senza sapere nulla della forma o di come vengono prodotti
certi oggetti, come un tavolo o una scarpa. Sono mancanze elencate da
Platone e che lo portano ad emettere un verdetto cosÏ duro sulla
poesia e sull'arte figurativa. E in un certo senso anche il pittore
platonico si deve dire che tutto ciò che rappresenta, sì, tutto
questo rappresentato non esiste. "La pittura fa parere quello che
non è" perché anche in questo caso
la scala non è una scala e le persone raffigurate non sono
persone. Tutto è apparenza. La domanda allora sarà: come si può
comportare un platonico, come lo era indubbiamente Raffaello, con un
tale verdetto sull'arte figurativa? Credo che a questo proposito il
quadro proponga una soluzione.
Vorrei, però, partire dall’epitaffio del cardinale Bembo, persona
molto intelligente, che si trova nel Pantheon sulla tomba di
Raffaello: "Hic ille est Raffael, timuit cur sospite vinci
daedala magna rerum et moriente mori." Allora questo è
Raffaello. Quando era in vita la natura, la daedala magna reruma,
somma creatrice delle cose, temette di venir sconfitta da lui e di
morire dopo la sua morte. Come può Raffaello vincere la natura e come
può la natura temere di morire con la morte dell'artista? Secondo me,
il quadro ha una soluzione e risponde alla domanda di come un pittore
platonico, in base al verdetto di Platone, possa esistere. Bisogna
ritornare al quadro e infatti sotto la scala troveremo, a destra e a
sinistra, due tavole. Su una ci sono dei simboli matematici,
sicuramente segni pitagorici, quindi presumibilmente di Pitagora che
si trova seduto sulla tavola. Non mi vorrei occupare di questi segni
ma solamente dire che qui si trovano dei simboli matematici.
Dall'altra parte c'è un'altra tavola con dei segni geometrici, una
precisa figura geometrica. Quindi ci si può immaginare che sull'altro
lato è raffigurato Euclide. Negli studi più recenti si è cercato di
decifrare questi segni matematici, i dati aritmetici e geometrici.
Numerosi sono gli studiosi che ci hanno lavorato, tra i quali ricordo
l'italiana Simanetta Valtieri, il ricercatore tedesco Richard Fichtner
e recentemente un altro italiano Quirino Mazzola. Ma indipendentemente
dalle loro soluzioni, in parte controverse e oggetto di nuove
discussioni, una cosa è certa: questi segni matematici contengono
informazioni sulla costruzione della sala e dell'intero quadro. In
altre parole, la matematica dà la proporzione spoglia e la struttura
del quadro che è quindi organizzato matematicamente. Nelle sale,
negli archi a volta, nei pilastri, nelle figure, dapperttutto si
celano delle costruzioni matematiche, è certo. Prendendo
l'interpretazione di Fichtner delle singole figure, possiamo vedere
come tutte le linee del quadro siano perfettamente calcolate.
Ritormando ancora una volta alla figura di Platone, non dimentichiamo
che ha in mano un libro dal titolo 'Timaios'. 'Timaios' è un tardo
dialogo di Platone in cui viene presentata la costruzione geometrica
della natura con una forma precisa della teoria dell'atomo. Nei corpi
platonici, gli atomi si uniscono in quantità determinate. Questo
significa però che la geometria è la vera scienza della natura. E a
questo punto, a mio avviso, si congiungono tutte le diverse componenti
del quadro. Platone- in
veste di teorico della speculazione numerica, di un uomo con la
tendenza a identificare le idee con i numeri- nella tradizione del Pitagorismo dà un aiuto per come valutare l'arte allo
stesso livello della natura e come può mantenerlo, essendo la natura
concepita secondo principi matematici. Il dipinto si salva quindi con
la matematica e nell'interpretarlo non si deve mettere da parte la
matematica bensì prenderla sul serio. Perché con matematica allo
stesso tempo si intende anche musica, astronomia ma significa pure,
come nel 'Timaios', prendere in considerazione i principi della
costruzione secondo cui si costruisce la verità. Dio è un
matematico, un geometrico; per un platonico come Raffaello questo è
per così dire il suo punto di partenza. Così nell'interpretazione,
secondo me, si raccolgono le diverse componenti. Le due tavole che si
riferiscono al 'Timaios'- dato che a mio parere non era ancora stato
individuato- contengono un pensiero filosofico e cioè che il dipinto
sta allo stesso livello della natura. Qui per me abbiamo un pezzo di
filosofia. Seguendo tali indizi e prendendoli sul serio, così come si
mostrano a noi, possiamo dire che nel quadro si fa filosofia.
La raffigurazione del pensiero filosofico avviene
mediante il riferimento esplicito ai testi platonici. Ci sono
altre forme di raffigurazione
del pensiero filosofico che non facciano riferimento
esplicito a testi scritti?
Un dipinto di Rembrandt, molto impressionante, dal titolo 'Aristotele
e il busto di Omero', è un buon esempio della possibilità di un
quadro di rappresentare una riflessione senza alcun riferimento a un
testo scritto. Vediamo il filosofo che riflette nel suo studio; con la
mano destra tocca il busto di Omero e con la sinistra una catena che
pende dalle sue spalle; egli stesso indossa una veste dorata. Questa
è la prima impressione del dipinto. Il titolo originale -dato al
quadro da uno storico d'arte nel 1928, quando lo si presentò per la
prima volta al pubblico- era: 'Aristotele in contemplazione del busto
di Omero'. Questo titolo non è del tutto corretto: infatti lo sguardo
del filosofo non si rivolge al busto, bensì in lontananza. Veramente
non si tratta nemmeno della lontananza, ma del nulla esterno. È lo
sguardo di colui che medita, è come se vedesse all'interno, è
contemplazione di pensieri. Volendo interpretare il quadro bisogna
partire da questa visione interna, da questo modo di vedere. Si deve
far attenzione al fatto che la mano è sul busto di Omero; noi oggi
sappiamo con certezza che si tratta di questo busto e che il filosofo
in questione è Aristotele, così come sappiamo che la catena ha un
medaglione. Su questo medaglione c'è il ritratto di Alessandro il
Grande: abbiamo quindi il poeta più importante dell'ellenicità, il
poeta per eccellenza, 'o poietes', come spesso viene nominato nella
letteratura greca; il più
grande filosofo, almeno se ci fidiamo di Dante il quale dice: "il
maestro di color che sanno”; e il più grande generale di tutti i
tempi. Omero, Aristotele e Alessandro sono qui tutti e tre riuniti
donando al quadro la più elevata dignità possibile.
Come possiamo entrare in
questo pensiero filosofico?
Bisogna partire dal fatto che lo sguardo si rivolge verso l'interno,
rivelazione che ci arriva non dalla gestualità e nemmeno dalla
mimica, bensì dal contatto delle mani con gli oggetti. Come per un
cieco, la mano destra di Aristotele tasta il capo di Omero mentre
quella sinistra la catena d'oro. Nell'interpretazione, secondo me,
bisogna rivolgersi ad entrambi: al busto di Omero e alla catena d'oro
di Alessandro. Per cominciare al meglio, possiamo prima di tutto
trattare il busto di Omero interrogandoci sul suo significato. Va
ricordato che il quadro è del 1653 e che Rembrandt è olandese. Oggi
questi elementi non ricoprono più quel ruolo che avevano nello
scontro culturale di allora, scontro di notevole intensità, in cui da
una parte c’era Omero e dall'altra il poeta romano più importante,
Virgilio. Rembrandt, scegliendo il busto di Omero, vuol dire che è
contro Virgilio. Vorrei descrivere in poche parole come si è arrivati
a questa situazione per conferire a tale pensiero la giusta forza e
l'appoggio necessario. Nel Rinascimento esce un trattato di Scalliger
'Sulla poetica', scritto nel 1561, in cui si denuncia Omero, in una
maniera che oggi sarebbe impensabile, di non essere stato un
grande poeta. I suoi eroi non si intendono molto di buone maniere e
nemmeno di condotta eroica. Odisseo è un imbroglione che presso i
Feaci incontra una principessa che fa il bucato; Achille piange da sua
madre. Tutto questo è un comportamento indecoroso. Gli stessi quadri
di Omero sono del tutto inopportuni. Per esempio, si vede un temporale
in pieno inverno; il Giove di Omero, quindi, può anche in inverno
ricorrere all'espediente del temporale, ma è contro natura. Perciò,
come si può vedere, c'è una critica dopo l'altra. Al contrario,
Virgilio porta questa lingua grossolana a diventare poetica grandiosa,
veramente illuminante; i suoi quadri sono tutti corretti, i suoi eroi
sanno comportarsi in modo razionale e hanno buone maniere. Questa
stilizzazione di Virgilio contro Omero è un mezzo, per la corte
francese, per considerarsi l'erede della cultura augustea. Allo stesso
tempo ciò significa, anche per rafforzare la pretesa documentabile
della Francia rispetto all'impero tedesco, che in Francia di fatto c'è la vera eredità della cultura augustea, cioè
del titolo di imperatore. La Francia è l'erede che si impadronisce
della cultura latina respingendo la comprensione, appena in corso,
verso quella greca; rimuovendola impone così, fondamentalmente, la
lingua latina. Sopravvaluta Virgilio, il grande poeta, profeta e
fondatore della cultura occidentale e lo fa diventare il poeta per
eccellenza. Nei Paesi Bassi si fonda una cultura opposta. Nel 1575
l'università di Leida diventa un centro europeo per l'ellenicità.
Justus Lipsius, lo studioso più importante della sua epoca, tra il
XVI e il XVII secolo, intensifica lo studio del greco. Egli stesso si
meraviglia di come sia possibile preferire Virgilio a Omero.
Successivamente viene pubblicato un libro sulla geografia omerica;
poi, nel 1656 ad Amsterdam, esce un'edizione molto importante
dell'Iliade e dell'Odissea di Cornelius Schribelius. Ecco com'era
considerato Omero a quell'epoca, nel 1650, nei Paesi Bassi; si
verifica lo scontro culturale di una nazione cosciente contro i
desideri dei signori di Francia. Ma si dimostra anche che la cultura
non si piega all'uso del latino, da parte degli studiosi della Chiesa:
è la cultura dello strato borghese incolto e del popolo contro il
predominio del potere del
latino. Tutto ciò si cela nel busto di Omero e, osservando il quadro,
secondo me lo si può riconoscere nella giusta maniera riconoscendo
Omero e non Virgilio. Nel quadro bisogna anche considerare quel
Virgilio in un certo senso non visibile per scoprire il significato di
Omero, del poeta cieco, quindi legato ai primordi della cultura. Cieco
anche nel senso che non si interessava di quel denaro così accecante
e seducente, con cui le corti ricompensavano i cortigiani.
Fino adesso Lei ha analizzato il significato del busto di Omero.
Cosa indica invece la
catena d'oro?
Questa è l'altra parte. Il medaglione è ben visibile; storicamente
è una riflessione del fatto che lo stesso Alessandro venne educato da
Aristotele. Il padre di Aristotele infatti era medico alla corte del
re della Macedonia, Filippo II, padre, a sua volta, di Alessandro.
Aristotele quindi per un periodo fu in Macedonia come educatore di
Alessandro. Poi Aristotele ritornò nella democratica Atene per
fondare la sua scuola filosofica, il 'Lyceum'. Anch'egli, ed è ciò
che il quadro mostra, è di fronte all'alternativa tra una vita
semplice e quella di corte; tale alternativa - ossia da una parte la
semplice vita democratica, il ritorno per così dire alla natura,
all'espressione naturale, in un certo senso alla cultura popolare e,
dall'altra, la vita di corte - è un'alternativa con cui
l'intellettuale europeo si è confrontato molto presto. È noto che
Platone sia stato due o tre volte alla corte di Siracusa, fatto che
venne duramente censurato e criticato dal Socratismo di sinistra; si
sa inoltre che Kant, in un punto preciso del saggio 'Sulla pace
eterna' del 1795, scrisse ciò che segue: "Non ci si aspetti che
i re facciano filosofia o che i filosofi diventino re e non è neanche
da augurarselo visto che il possesso del potere inevitabilmente rovina
il libero giudizio della ragione." Ciò che qui viene espresso è
quello che nel XX secolo è diventato traumatico, per cui gli
intellettuali di propria iniziativa hanno servito un leader, un duce
cinico. Hanno preso le parti di Stalin in una 'proskynesis',
atteggiamento questo richiesto ai cortigiani da parte di Alessandro
dopo essere stato in Oriente, per cui si dovevano prostrare a terra.
Questa è la 'proskynesis', cioè servire i signori e in tal modo,
usando le parole di Kant, 'annientando il loro libero giudizio'.
Quindi il contrasto tra la vita di corte e la semplicità,
l'inclinazione a tutto ciò che è naturale, libero da una parte, e
dall'altra l'inclinazione ai prìncipi e ai leader, è una vecchia
alternativa europea esperita nel XX secolo ancora una volta in una
forma così drammatica. Ed è la riflessione mostrataci da Rembrandt;
Aristotele riflette e pensa alla domanda che determina la vita, cioè
“Come devo vivere?” “Pos bioteon?” come già scrive Platone
nel suo dialogo 'Georgias'; “Come bisogna vivere?” A quale delle
due parti bisogna essere propensi? E le mani, nella loro gestualità e
nel toccare gli oggetti, mostrano quell'alternativa che l'uomo deve
affrontare.
Qual è il ruolo di
Rembrandt, in questo quadro?
Secondo me Rembrandt, in un certo senso, si può identificare con
Aristotele; ecco l'interesse che ha in questo quadro. Non è un
interesse storico, quindi non vuole rappresentare, in una forma
qualsiasi, Aristotele e il busto di Omero. Ma essi sono presenti in
una tradizione culturale, sono una prova di determinate forze
spirituali. Aristotele viene raffigurato in un dilemma attuale, nel
confronto con Omero e Alessandro; da una parte quindi la vita
semplice, la poesia della natura; dall'altra la cultura di corte.
Anche il mantello, non solo la catena d'oro, testimonia la presenza
della corte. Dai racconti de 'Le mille e una notte' sappiamo che i
califfi ai loro sudditi, alla gente verso cui volevano dimostrarsi
benevoli, regalavano dei mantelli o dei vestiti. In una epistola di
Pietro Aretino, egli scrive che Carlo V vorrebbe fargli arrivare il
mantello promesso. Allora abbiamo di nuovo un segno di
quell'alternativa 'corte o vita naturale'; alternativa, davanti a cui
stava anche Rembrandt, a cui prende parte. Per questo la
raffigurazione di Omero, Aristotele e Alessandro diventa un scontro
così attuale. Ciò che per Rembrandt stesso diventò un elemento di
importanza vitale: cosa devo decidere? Secondo me lo si può vedere
nella struttura del quadro e lo ritroviamo anche nella sua biografia.
Nel dipinto dominano i colori, le figure sono eseguite con delle
pennellate larghe: i colori e non la forma. La forma è, per così
dire, la parte di Virgilio, quella della corte, di una cultura per cui
il quadro è sotto il dominio della forma, sotto il dominio della
forma, che detta alle figure come devono stare e conduce al fatto che
i colori sono utilizzati per tracciare i contorni delle figure. Tra
l'altro lo si ritrova anche in Senofonte e anche successivamente,
sempre formulato in questo modo. C'è anche in Platone, che polemizza
sui colori e sulla confusione da loro provocata; essi andranno bene
per le donne e i bambini ma non per un intelletto colto. Sono concetti
che ritroviamo anche in Adam Smith, l'economista che, in un punto ben
preciso, assegna ai colori questo ruolo; o anche in Kant. Domina la
forma. La forma, però, sta a significare il predominio del 'logos'
rispetto al colore, colore che, a sua volta, da Rembrandt viene messo
in primo piano in questo quadro, sicuramente ben fatto. Ma la
composizione non è l'elemento che più si impone; è soprattutto
quello che si ottiene tramite i colori, in queste pennellate larghe,
plastiche quasi. Credo che l'osservatore di questo quadro filosofico
possa seguire il movimento della mano destra e anche quello
documentato nel quadro dal pittore per se stesso, come artista, vale a
dire nell'alternativa tra Alessandro e Omero. Insieme a
Rembrandt, l'osservatore sta dalla parte di Omero.
Una interpretazione di un quadro di Salvator Rosa che raffigura Democrito, si intitola: “Democrito piange o ride?”; ci
può dare la risposta a questa domanda?
E' vero, ho scelto questo titolo per l’interpretazione di
un'incisione di Salvator Rosa di cui esiste, inoltre, un quadro a olio
uguale a Copenaghen. Prima di tutto vorrei ancora una volta
indirizzare la riflessione su che cosa esattamente succede, sul metodo
dell'interpretazione. La domanda era: si può decidere se Democrito
piange o ride? Credo di poter dimostrare che la domanda sia
risolvibile. Andando contro degli studi recenti, io sono dell'idea che
Democrito, come si osserva in quest'incisione, effettivamente rida.
Ora voglio occuparmi brevemente della questione del metodo. Un metodo
da me utilizzato, che a mio avviso si potrebbe definire
dell'obiettività, vale a dire della non-soggettività. Non si tenta,
in base a dei quadri o, analogamente anche a dei testi, di farsi
venire in mente qualunque cosa in modo soggettivo, così come accade
generalmente nell'ermeneutica più recente; ma si accetta, sia nel
testo o, come in questo caso, in un quadro, che si tratti di un
oggetto storico. Ciò significa che il primo passo deve essere di
assicurarsi di quali dati storici si è in possesso per arrivare a
capire quale significato abbiano le singole parti di un quadro così
come il quadro intero: come abbiamo visto nella Stanza della Signatura
di Raffaello, con la sicurezza del significato tramite il rinvio ai
testi platonici certamente utilizzati da Raffaello. O anche in
Aristotele, raffigurato con il busto di Omero, la catena di
Alessandro, abbiamo tentato di conferire una sicurezza storica un po'
più esauriente del significato di Omero intorno al 1650 nei Paesi
Bassi: partendo da lì abbiamo cercato di conseguire l'intero quadro.
Quindi credo si debba procedere in modo storico. Il secondo passo è
di pensare attentamente, questo viene continuamente fatto, alla resa
massima del significato, dell'interpretazione, così da arrivare ad
una struttura compatta. Penso che non possiamo sottovalutare o
sopravvalutare gli artisti di cui ci occupiamo. In questi quadri si
unisce una cultura spirituale molto forte e presupponendo una notevole
consistenza di interpretazioni non si corre il pericolo di
interpretare l'artista alla leggera oppure di fantasticare cose da lui
non volute. Ma ancora una volta ci si deve accertare, voglio dire che
in un quadro è importante oltre alla certezza storica e alla certezza
iconografica dei pezzi, che il quadro resti coerente; che si veda cioè
che i quadri hanno un unico tema e che il significato dato alle
singole parti rimanga coerente e che diventi per intero una semplice
idea, una tematica. Vorrei
mettere in primo piano questi tre punti di vista sia in considerazione
di quello presentato sia rispetto alle interpretazioni successive. Il
tentativo è quello di avvicinarsi con l'idea dell'obiettivitá ai
quadri e ai pensieri filosofici contenuti in essi, come qualcosa che
deve essere interpretato, che si trova veramente e non si inventa.
Torniamo all'incisione di Salvator Rosa con la raffigurazione di
Democrito. Piange o ride?
Dobbiamo tener a mente che presso gli antichi, e pure più
tardi agli inizi dell'età moderna, esisteva una cultura del riso. Ci
sono molti tipi di riso: quello omerico, quello beffardo; le risa
degli auguri; le risa e le derisioni nei drammi: basta leggere
l''Aiace' di Sofocle per
vedere in che modo, deridendolo, si feriva un eroe. Inoltre le forme
raffinate del riso che abbiamo in Socrate, 'erema ghelasas' che poi
viene ripreso da Cicerone: la forma del riso della serva tracia quando
il filosofo finisce nel pozzo; anche qui si ride, il riso viene
ripreso da tutta la letteratura. Si è quindi molto riflettuto sul
riso: da Cicerone sappiamo che anche Democrito scrisse sul riso. Mi
rifaccio a un passo contenuto nel 'De oratore' in cui Cicerone dice:
"Quid sit ipse risus quo pactu consentitur ubi sit quomor existat
atque itar e pente erompat ut eum cupientis tenere nequeamus et quo
modo simulatara hoc venas oculo svultum ocupet vidarit Democritus"
. Vale a dire: 'Ciò che il riso è di per sè, per come e dove viene
provocato, come mai scoppia all'improvviso da non poter essere
trattenuto anche volendo, come mai coinvolge contemporaneamente il
nostro volto, il sangue e gli ochhi: Democrito avrà esaminato tutto
questo'. Democrito, un filosofo nato nel 460 a.C. e morto nel 370
a.C., ha scritto presumibilmente un trattato sul riso e viene inoltre
presentato come il filosofo del riso. Come al riso appartiene il
pianto, alla commedia la tragedia, una storia della filosofia, incline
agli aneddoti, ha associato a Democrito che ride Eraclito che piange.
Sono figure ritrovabili fino alla tarda antichità. Giovenale, Seneca
e altri autori contrappongono al Democrito sorridente
un Eraclito in lacrime: prima di allora questo non c'era ed è
stato poi ripreso nella storia culturale europea fino al XVIII, per
l'esattezza fino alla seconda metà del XVIII secolo, si trovano i
termini 'ottimismo e pessimismo'. L'ottimista è un filosofo seguace
dell'insegnamento di Leibniz; Voltaire scrive un 'Candido ou
dell'ottimismo'; il pessimismo è un concetto che fu
contrapposto all'ottimismo, come il pianto di Eraclito. A questo punto
termina la tradizione figurativa di Democrito e Eraclito. Ma con
Salvator Rosa siamo ancora esattamente nel fulcro dell'idea
dell'alternativa 'ridere o piangere delle attività umane'; Democrito
va per la strada e ride del folle andirivieni delle persone, mentre
Eraclito esce da casa e piange per gli uomini. Come ho già detto,
Giovenale e Seneca presentano la stessa alternativa; Seneca, Montaigne
e anche Kant, tutti e tre, sorprendentemente, danno il loro voto in
favore di Democrito e non di Eraclito. Seneca lo afferma molto
chiaramente e, a questo proposito, cito un passo di Seneca:"In
hoc itaque flectendi sumus ut omnia vulgi vitia non in visa novis sed
ridicula vidaentur et Democritum potius imitemur quam Heraclitum."Ciò
significa:"Dobbiamo seguire piuttosto Democrito che Eraclito 'hic
enim quotiens in publicum processerat flebat, ille ridebat’, perché
l'uno, fin quando stava tra la gente, piangeva-quindi si parla di
Eraclito-, l'altro invece -cioè Democrito- rideva; per Eraclito tutto
era di una tale miseria mentre per Democrito una follia". Perciò
meglio seguire Democrito, e così si segue la vita umana, la 'condition
humanine', la 'conditio humana', considerandola ridicola. Anche
Montaigne è della stessa idea e ne parla in un suo saggio su
Democrito e Eraclito; incredibilmente se ne parla anche in un appunto della lezione
kantiana sull'antropologia. Il testo dice: "Meglio essere come
Democrito che come Eraclito. Si consideri il mondo come un grande
manicomio e un pianeta in cui gli uomini vengono a passare la
quarantena per la loro pazzia. Si rida della pazzia umana, senza
escludere sé stessi e solo allora si resterà amico di tutti gli
uomini. Ridendo della pazzia umana al tempo stesso la si amerà,
invece di tenere sempre il broncio e di diventare un misantropo”.
Analizzando l'incisione di Salvator Rosa, vorrei introdurre in breve
l’artista, riferendomi ad un volume intitolato "Civiltà del
Seicento a Napoli" in cui c'è un accurato ritratto di Rosa, in
cui si legge: " Salvator Rosa, nel XVII secolo è uno degli
artisti più famosi in Italia; non era solo un pittore e calcografo ma
con le sue Odi, Satire e il suo carteggio conquista un posto nella
storia della letteratura. Studia a Roma con il pittore Josè de
Ribeira, poi a Napoli con Aniello Falcone e più tardi a Firenze e a
Roma. Cambia il modo di rappresentare del classicismo sottoponendo le
figure e la passione ad una tematica filosofica e morale e così
facendo segue Nicolas Poussin, da lui molto ammirato. La sua 'Weltanschauung'
è stoica, e in molti dei suoi motivi egli. È un precursore della
rappresentazione del pittoresco e del sublime del XVIII secolo. La sua
pittura è strettamente legata alla poesia." La citazione è
conclusa; ora vorrei leggere le due strofe, anzi i due versi aggiunti
all'incisione, non nel dipinto ad olio di Copenaghen ma, ripeto,
nell'incisione. I due versi sono: “Democritus omnium derisor” cioè
“Democrito colui che deride tutto”, “in omnium fine defigitur”,
“viene fissato o fermato alla fine di tutto”. E noi ci occuperemo
di una domanda in particolare, cioè cosa significhi questo 'defigitur',
per un motivo ben preciso. Nella storia dell'interpretazione di
quest'incisione si è obbiettato che Democrito non è raffigurato che
ride ma che piange. Una delle cause e delle motivazioni per una tale
interpretazione, a mio avviso sbagliata, è nell'interpretazione e
comprensione di 'defigitur'. Ma prima di tutto vorrei nominare
l'autore più importante che ha creato quest'interpretazione, vale a
dire Weisbach.In un suo studio fondamentale sul motivo 'Democrito-Eraclito'
scrive che Rosa rappresenta Democrito 'in una rappresentazione del
tutto inusuale'. Democrito ha uno sguardo e cito di nuovo
"malinconico rivolto verso degli scheletri umani e animali. Il
filosofo che ride qui è invece triste. La vista della caducità e
della vanità del mondo terreno allontana il desiderio di ridere. In
effetti questo è il ruolo altrimenti riservato a Eraclito ed è
un'invenzione propria del Barocco. Per amore di un concetto spirituale
e sottile, tutto viene capovolto e questo chiarisce che tipo fosse
Salvator Rosa, bizzarro e presuntuoso, maniaco delle innovazioni e
sempre a caccia dell'insolito." Qui abbiamo un giudizio molto
duro su Rosa che, in un certo qual modo, da manierista, rompe
volontariamenete quella tradizione altrimenti unanime secondo cui
Democrito era il filosofo che ride e Eraclito quello che piange. Per
fare uno scherzo, egli scambia i ruoli mettendo, al posto di Eraclito,
un Democrito che paradossalmente piange. Anche Richard Wallace, in un
libro fondamentale, un'opera classica sul pittore napoletano, riprende
questo modo di vedere. Wallace
dice:"In the large Democrites-painting Rosa did just the opposite
of what Seneca adviced. He upset the traditional interpretation of
Democrites as the laughing philosopher and trasformed him into a
wheeping Heraclitus who sits overwhelmed with grief and despair in the
face of the futility and vanity of all things. As
the edging's inscription proclaims", ossia 'Nel grande dipinto di
Democrito, Rosa fa proprio il contrario di quello che Seneca aveva
indicato. Capovolge l'interpretazione tradizionale del Democrito che
ride e lo raffigura invece, come un Eraclito che piange, messo a
confronto con l'inutilità e la vanità di tutte le cose, pieno di
dolore e di disperazione'. Segue
la traduzione inglese del verso: "Democrites the mocker of all
things is here stopped by the ending of all things.This inversion of a
well-established theme was the bold stroke on Rosa's part.", vale
a dire: 'Democrito, lo schernitore di tutte le cose viene fermato alla
fine di tutte le cose. Questo
capovolgimento di un tema molto comune è il passo coraggioso compiuto
da Rosa’. Ciò significa che Wallace riprende l'interpretazione
secondo cui Democrito piange traducendo il 'defigitur' in 'he was
stopped'. Questo dipinto della 'vanitas', la scena in cui Rosa fa
apparire Democrito rappresenta la fine e l'eliminazione del riso e
Democrito incomincia a piangere. Ecco quanto dicono i due interpreti
più importanti riguardo all'incisione.
Io credo che si sbaglino e, guardando attentamente l'originale, si
vede chiaramente che la posizione della bocca mostra che ride. Non è
una bocca con gli angoli verso il basso, ma una bocca che ride. Prima
di tutto vorrei esaminare il verso 'Democritus omnium derisor, in
omnium fine defigitur'. Sono due enunciati di cui il primo è stato
preso da Seneca. Nel 'De beneficiis' dice che Socrate è un 'derisor
omnium', senz'altro 'maxime potentium', cioè soprattutto dei potenti.
Rosa riprende solo un frammento della frase di Seneca, ma non viene
attribuito a Socrate quanto invece a Democrito. Il secondo enunciato
invece, la fine di tutte le cose, 'finis omnium' si trova nella
Vulgata, precisamente nella lettera di Pietro. Perciò Rosa unisce due
testi molto preziosi, da un lato Seneca e dall'altro la Bibbia, per
arrivare al testo in questione. 'Defigitur' viene tradotto con
‘fermare, fissare, inserire, immobilizzare’. 'Defigi' significa
pure ‘essere immobile, rigido’; una traduzione possibile è che
Democrito si raggela di fronte alla scena del cimitero, tra le
carcasse degli animali: nelle vicinanze c'é solo un unico essere in
vita, una civetta sul muro che si vede sulla sinistra. Dal punto di
vista linguistico è un'interpretazione plausibile, ma ci sono
comunque altre due possibilità per tradurre e capire 'defigitur'
senza difficoltà, per cui il filosofo senza dubbio può ridere. Una
è quella secondo cui l'incisione, in un certo modo, dice di se stessa
di fissare Democrito: 'defigere' quindi è l'azione di Rosa che fissa
il filosofo: 'in omnium fine', cioè alla fine delle cose che qui
significa nella scena di morte. L'altra possibilità è quella per cui
il filosofo viene fermato sì, ma non nel senso che perde la voglia di
ridere e poi si impietrisce. Sia la prima che la seconda sono
contenute nel 'defigitur'.
Qual è il significato del
riso di Democrito?
Tornando al riso, che abbiamo visto possibile in base a tutti gli
indizi sia dell'incisione e sia del verso, e rivolgendoci al
significato, lo si ritrova senza problemi
indicato non solo nell'incisione come tale, ma anche nel libro
e nella figura di Democrito. Democrito
è un filosofo che accetta solo la realtà dello spazio vuoto, degli
atomi e del movimento: in altre parole, la realtà vera, la
quintessenza di tutto l'essere è la struttura atomica del cosmo in
uno spazio vuoto, con atomi in movimento. Davanti a lui c'è un libro,
presumibilmente la sua opera sulla natura, trattata come la ritroviamo
nella tradizione della storia della filosofia; l'atomista Democrito
trova conferma della sua dottrina. Alla fine di tutte le cose c'è
quello che lui ha sempre detto, e cioè quello che costituisce in
realtá la natura: il mondo degli atomi, delle strutture atomiche
prive di vita. Così il filosofo, sorridendo malinconicamente,
riscopre la sua dottrina, alla fine di tutte le cose; egli, per così
dire, sorride in accordo con la realtà. Ha scrutato la natura
ridendo, dov'era possibile, della vita umana, della 'condition
humaine’. Poteva riderci su, sapendo che gli uomini sono pazzi. Egli
non si sorprende, bensì ride in accordo con la sua conoscenza e la
sua visione. La scena dell'incisione è più ampia: non si tratta
solamente della vita umana, della 'conditio humana', ma del cosmo
intero; è il sorriso, il riso del filosofo che, nella sua teoria era
già a conoscenza che la verità consiste nella futilità, nella scena
degli scheletri. E se la civetta sul muro è saggia, anch'essa riterrà
giusta la nostra interpretazione.
Professor Brandt, c'è
un'altra raffigurazione del filosofo
Democrito, quella di Juan de Ribeira. Può illustrarcene il contenuto filosofico?
Prima di tutto occupiamoci di quello che si vede: il vecchio filosofo,
con indosso dei vestiti lacerati, sorride all'osservatore in una
maniera difficile da decifrare e nelle mani ha un foglio di carta,
bianco rivolto verso l'osservatore. All'altezza dei fianchi vediamo un
tavolo, a destra una penna rivolta verso l'osservatore e non verso il
filosofo, con un calamaio accanto. A sinistra si vede un libro a cui
probabilmente, non è da attribuire un secondo significato. Il pittore
con l'ausilio di pochi mezzi, secondo me, è riuscito a dare una forza
interpretativa incredibile, senza che succeda niente, senza svolgere
alcuna drammaticità. Davanti o dietro a quello che si vede, non c'è
una scena da integrare in un preciso svolgimento; viene fatta
filosofia con pochissimi mezzi, e cioè con il sorriso del filosofo,
con il foglio bianco e la penna. Cosa rappresenta in verità il riso
di Democrito? Esiste una tradizione, in Melantone e in altri autori,
per cui Democrito è impazzito e perciò il suo riso è quello di un
folle. Come lo dobbiamo interpretare? Secondo me dobbiamo incominciare
dal foglio bianco. Esso sta a significare che il filosofo, alla fine
della sua vita, al termine della sua esistenza è giunto all'idea di
non scrivere più niente. Il nulla è il messaggio rivolto
all'osservatore: il 'logos', la ragione non comprende più nulla e può
rappresentare solo la negazione di se stessa e perciò anche
l'interpretazione di Democrito stesso. Il 'logos' non si è
allontanato solamente dal mondo, ma anche dal soggetto; il filosofo
quindi, alla fine, è senza senno. La quintessenza è la negazione di
tutto, il nulla. In questo quadro non si raffigura Socrate mentre,
riportando l'oracolo, annuncia al mondo che sa di non sapere nulla,
mettendo in tal modo in agitazione una 'polis', sebbene anch'egli sia
preoccupato per la politica, essendo un cittadino di quella città.
Democrito invece, non si considera più un cittadino, tanto meno
dell'umanità; vive alla periferia della vita e della società come un
nomade, vestito di stracci. È un outsider e da una tale posizione
porge, a colui che vuole vedere, al singolare osservatore del quadro,
proprio questo nulla.
Seguendo il Suo metodo interpretativo, può introdurci al
significato filosofico del quadro di Rubens intitolato
'La morte di Seneca'?
Effettivamente è un metodo interpretativo un po' complesso. Ma
richiamo alla mente quello che realmente vediamo in questo quadro. C'è
un vecchio raffigurato in una vasca da bagno, con uno sguardo
delirante rivolto verso l'alto. Alla sua sinistra ci sono pure due
soldati e proprio in basso si vede un ragazzo che prende nota delle
ultime parole del vecchio. È arrivato alla parola 'vir', sicuramente
la parola era invece 'virtus'; e dall'altra parte- a destra per
l'osservatore- si vede un dottore molto esperto che fa uscire il
sangue dalle vene del vecchio, lasciandolo scorrere in una bacinella.
Dal punto di vista estetico non è granché, perciò non ha riscosso
molto successo tra gli storici d'arte. Ma invece, secondo me,
osservando più attentamente i dettagli e perseguendo il pricipio
dell'interpretazione, tramite l'idea dell'obbiettività, c'è alla
base una riflessione filosofica da estrapolare. Innanzitutto vorrei
indicare due o tre elementi contenuti nella rappresentazione, diciamo
come materiale storico. Poi passeremo alla composizione del quadro e
infine alle correnti di pensiero seguite da Rubens, un pittore che
durante la fase di realizzazione del quadro, intorno al 1610, aderisce
al Neo-stoicismo, di Justus Lipsius secondo il quale si univano
insieme pensieri stoici e pensieri cristiani. Ecco qual è la corrente
di pensiero trasmessa dal pittore nel quadro. Ma prima di tutto vorrei
indicare diciamo i
'requisiti' storici; il punto di partenza è un testo di Tacito, lo
storico romano che raffigura l'orrore dell'epoca di Nerone e a
proposito di Seneca scrive anche qualcosa. Tutto questo è contenuto
negli 'Annali', libro XV, paragrafo 60. Egli appunto scrive: 'Sequitur
caede Seneca', cioè dopo l'uccisione del console Platius, 'segue
l'uccisione di Seneca'. Dopo che un tribuno comunica a Seneca che verrà
ucciso, Nerone domanda al tribuno se Seneca voglia uccidersi da solo
oppure no, e il tribuno gli risponde di non aver trovato alcun segno
di paura, di tristezza nelle parole o nell'espressione di Seneca. E
poi, così ci racconta Tacito, il tribuno riceve l'ordine di ritornare
da Seneca ad annunciargli la sua morte. Segue la scena molto
particolareggiata in cui Seneca, in presenza dei suoi amici, si toglie
la vita. Gli amici lo esortano a rimanere forte e poi segue il
passo:'Dove sono finiti tutti quegli insegnamenti di saggezza? Che
fine ha fatto la ragione preparata in così tanti anni ad affrontare
quella minaccia che è la morte?' Questa è la base delle numerose
rappresentazioni della morte di Seneca nell'arte figurativa dell'età
moderna, ma anche prima, alla fine del Medioevo e nel Rinascimento.
Quella di Rubens ha il suo fondamento in una statua, oggi conservata
al Museo del Louvre come la statua di un pescatore; all'epoca di
Rubens era a Villa Borghese a Roma. Si suppose che si trattasse della
statua di Seneca, per meglio dire di una rappresentazione figurativa
della sua morte. Mancando le gambe, si pensò che la statua venisse
messa in una vasca che doveva essere quella in cui Seneca si tolse la
vita, perché a tale scopo egli infatti si mise nella vasca. Rubens
sostituisce alla testa della statua quella di un'altra statua di
Seneca, in suo possesso. È stata utilizzata quest'altra testa di
Seneca: questo è il secondo requisito usato da Rubens nella sua
rappresentazione. Il terzo requisito storico è quella tradizione che
suppone Seneca cristiano. Esisteva un carteggio tra Seneca e san
Paolo; già per Erasmo, però, era falso perchè il carteggio, nella
forma in cui ci è pervenuto, non poteva rifarsi a del materiale
storico. Ma anche lui è convinto che Seneca, nella sua 'Etica',
avesse dei segni cristiani, perciò crede che sia da interpretare come
un cristiano; anche la sua stessa morte è quella di un martire
cristiano. Seneca venne raffigurato nella 'imitatio Christi',
nell'imitazione della morte del figlio di Dio. Si vedono il perizoma e
la lancia di Longino che controlla se Cristo viva ancora. Seneca qui
viene raffigurato come cristiano, muore da martire cristiano. È un
dato che per un pittore, agli inizi del Seicento, si presenta in
questa forma; così allora si interpretava Seneca. Ecco dunque i
requisiti storici da cui dobbiamo partire e che devono essere presi in
considerazione. Esaminando la composizione del quadro, si osserva che
a sinistra abbiamo la concentrazione spirituale, mentre a destra si
raffigura la componente propriamente materiale. Vediamo il ragazzo,
sicuramente è una ripresa del motivo del discepolo, che sta scrivendo
le ultime parole di Socrate. Come ho già detto, si può leggere la
parola 'vir' che peró si può completare in 'virtus'. Inoltre vediamo
accanto a Seneca, due soldati che lo guardano in volto, ma allo stesso
tempo, significa che ascoltano le sue parole. Quindi, a questo punto
ha luogo un confronto spirituale con il filosofo. Si ascolta e si vede
quello che il filosofo dice e dall'altra parte, si vede scorrere il
sangue nel catino. Il movimento va verso il basso, non segue il
movimento verso l'alto appunto ma verso il basso. Il dottore guarda
verso il basso, verso il corpo. Ecco la parte della materialità. E
forse non si esagera nell'interpretazione se si tiene presente che
Seneca era famoso da un lato per le sue 'Epistulae morales' e
dall'altro aveva scritto le 'Quaestiones naturalis'. E, detto questo,
si possono ritrovare, riunite nel quadro, le due parti dell'effetto di
Seneca. Consideriamo ora la lancia del centurione, a sinistra rispetto
l'osservatore; se la prolunghiamo idealmente arriviamo alla punta
della penna del ragazzo. Ciò significa che il pittore ci invita a
prolungare la lancia e se lo facciamo verso l'alto, arriviamo a un
punto sopra il quadro in cui, la linea della lancia si interseca con
un'altra linea uguale ma questa volta solo pensata. E immaginandoci
questa linea riflessa, essa ci porta esattamente alla fine delle
spalle, lungo il braccio e perciò è di fatto anche prevista nel
corpo di Seneca. E l'angolo acuto del triangolo va a finire sopra il
quadro, proprio dove guarda Seneca. Lo sguardo di Seneca, ora lo
possiamo dire, cerca di afferrare ciò che è trascendentale,
invisibile. In questa interpretazione del martire, si rivolge alla
realtà invisibile del Dio cristiano. Il quadro allora, è fatto in
modo tale che rimanda dal visibile all'invisibile, dev'essere
completato. La giusta interpretazione di questo quadro non deve
terminare nel quadro stesso ma includere uno spazio figurativo che
trascende ciò che è visibile, ma che ciò nonostante viene
contrassegnato dal visibile stesso. Queste forme di inclusione, vale a
dire di ciò che il visibile-comunque presente nel quadro- trascende,
lo ritroviamo anche altre volte nella pittura contemporanea. Vorrei
solo indicare la copertina del 'Leviathan' di Hobbes. Lì si ha la
raffigurazione dello stesso Leviathan composto da numerosi corpi. Si
rappresenta lo stato che include tutti gli uomini e li protegge, nella
forma di un macro-uomo. E secondo la dottina di Hobbes, lo Stato
riunisce in sè due poteri, quello spirituale e quello temporale,
infatti si possono vedere il pastorale e la spada. E allungando queste
due linee approdiamo ad un punto al di sopra della copertina,
all'infuori del visibile. Ciò significa, che anche Hobbes dice che l'unitá
del visibile si ottiene attraverso qualcosa di invisibile, e
corrisponde esattamente ad una teoria contenuta nel Leviathan, secondo
cui l'unione si ha in un punto che non è più terreno. Questa però
è una creazione terrena. Il materialista Hobbes, diversamente da
Rubens, pensa che l'idea è la rappresentazione del nostro intelletto,
che noi creiamo.E la copertina fa proprio questo obbligandoci ad
allungare tale linea. Si possono vedere molte altre linee che
richiedono una costruzione esterna e che perciò completano ciò che
è visibile internamente, tramite qualcosa di invisibile. Quindi credo
che restiamo su un terreno sicuro spostando l'interpretazione al di là
del quadro in qualcosa di invisibile e quindi facendo vedere
esattamente dove si rivolge lo sguardo di Seneca in punto di morte.
Questo è tutto, per quanto riguarda la composizione che, alla
presenza appunto dell'invisibile nel quadro, ci ha portati
sorprendemente al di fuori del quadro. Per comprendere meglio il
significato del quadro all'epoca di Rubens, credo che sia molto
importante ricordare quello che ho precedentemente accennato, e cioè
che in Europa c'era una corrente di pensiero molto forte, soprattutto
nei Paesi Bassi attorno alla figura di Justus Lipsius, che
intensificava il Neo-stoicismo. Molti allora, diventavano stoici ma
allo stesso tempo si credeva che l'etica stoica avesse bisogno di
essere completata. Si pensava cioè che l'idea che la 'virtus' non
andasse oltre se stessa fosse una chimera. Predicando solo la virtù
alla fine il saggio non sa più perché egli compia le sue azioni. Che
senso ha tutto ciò? Che significa la morte di Catone? È solo per la
regolarità dell'etica stoica? E i teorici di allora provano a
completare l'elemento stoico del comportamento rigorosamente morale,
tramite una parte del Cristianesimo. Solo con il Cristianesimo l'etica
stoica diventa vivibile, non è più- come per Blicken - una semplice
chimera creata dall'uomo. Allora, c'è una tendenza fortissima a
completare il patrimonio stoico attraverso la speranza cristiana.
L'uomo può sperare che il bene che lui fa, è un bene anche per lui;
e che nell'aldilà, se non c'è una ricompensa ci sarà almeno una
riconciliazione con i suoi valori morali. Questi non sono stati
semplicemente creati, sono invece ancorati alla speranza cristiana di
un'altra vita per l'uomo. È un'idea molto forte quindi, che interessa
moltissimo anche Rubens. Ed è il messaggio del quadro, cioè
trasmette all'osservatore qualcosa della 'virtus', virtus però non
nel senso romano bensì già quella di un martire cristiano.
Ritroviamo un'interpretazione molto simile in Winckelmann a proposito
del Laocoonte. Vorrei leggere il testo a tal proposito in cui
Winckelmann nel 1750 dice le seguenti parole di Laocoonte, l'eroe
greco: 'Il dolore fisico e la grandezza dell'anima sono distribuite
con la stessa intensità per tutta la figura e sono valutati allo
stesso modo. Laocoonte soffre è vero, ma come il Filottete di
Sofocle' e cioè 'la sua infelicità ci tocca fino all'anima e ci
auguriamo che questo grande uomo sia capace di sopportarla.' E
continua dicendo:' La virtus di Laocoonte, la grandezza della sua
anima, il suo eroismo lo si trova nella sofferenza provocata dai
serpenti che prima uccidono i suoi figli e subito dopo uccidono anche
lui.' Anche per Rubens la 'virtus' è la 'virtus' di un martire
cristiano, ecco come viene interpretato Seneca. E l'osservatore viene
esortato ad un'altra imitatio. All'inizio abbiamo visto che si
trattava di un'imitatio della morte di Cristo. Anche in questo caso
quindi, si tratta dell'esortazione a seguire la forza, nella
sofferenza, del filosofo stoico. Questo per me, è il messaggio
filosofico contenuto nel quadro.
Parliamo del quadro che
si trova al Prado, intitolato "Un filosofo". In una sua interpretazione lei parla dell' "illusione del quadro". In
che senso
"illusione"?
Dunque, prima di tutto parliamo del quadro. Fino ad ora è stato a
malapena preso in considerazione. Lo troviamo menzionato nel catalogo
del Prado ma per quanto mi risulta non esiste alcuna interpretazione.
Per capirlo meglio bisogna sapere che fu dipinto da un olandese,
Salomon Koninck, verso il 1635, evidentemente già sotto l'influenza
dei primi quadri significativi di Rembrandt. E ha per tema, secondo
me, effettivamente qualcosa che si può chiamare "l'illusione del
quadro". Innanzitutto dovremmo richiamare alla mente la
situazione del 1635 in cui il tema dell'illusione era presente in un
modo per noi oggi difficilmente comprensibile, incantava gli uomini ma
al tempo stesso li impauriva. Nel 1619 in una sua nota Cartesio
scrisse: "Ut comoedi personam induunt, sic ego hoc mundi teatrum
cunsgensurus larvatus prodeo". Ovvero: "Così come gli
attori si travestono con una maschera , anch'io volendo entrare nel
teatro del mondo, mi presento mascherato". Comincia così
Cartesio nel gennaio del 1619 le sue Cogitationes privatae. Larvatus
prodeo, porto una maschera. Come persona-'persona' già vuol dire
maschera-mi presento sul palcoscenico del mondo. Ora possiamo
direttamente fare un salto alla filosofia cartesiana in cui Cartesio
elabora la concezione secondo la quale abbiamo sempre a che fare con
idee. Con idee della coscienza quando percepiamo cose esterne, quando
ci immaginiamo Dio. Si potrebbe persino dire che abbiamo delle idee
anche quando immaginiamo noi stessi. Del mondo esterno, di Dio e di
noi stessi, tutto ci viene trasmesso attraverso le idee, attraverso i
concetti. Di conseguenza ci si può chiedere se quei concetti abbiano
dopo tutto un contenuto obbiettivo. Non a caso il Cartesianesimo ebbe
un effetto tale da venir sospettato di ateismo e scetticismo. Le idee
già di per se stesse non danno alcuna garanzia che quello che ci si
immagina in esse sia anche reale. Ciò vale successivamente anche per
il "way of ideas" di John Locke che porta a un idealismo
rigoroso e anche allo scetticismo e all'ateismo. Tale connessione fu
presto notata e bisogna tenerla a mente se si vuole riconoscere la
forza dirompente della filosofia cartesiana. Bisogna anche rammentare
che in Francia durante la fase di realizzazione di questo quadro
furono scritte delle opere teatrali di un certo tipo, un fenomeno
culturale questo abbastanza diffuso a quell'epoca. Ricordo un'opera di
Georges Scudéry dal titolo "La comédie des comédiens",
rappresentata per la prima volta nel 1635. Nel 1633 esce l'opera
omonima di Gougenot e nel 1636 si rappresenta l'“Illusion comique"
di Corneille, l'"Illusione comica". Quello che accomuna
queste opere è qualcosa che già troviamo nell' "Amleto" di
Shakespeare, ossia il teatro nel teatro. Si rappresenta teatro nel
teatro. Viene prodotta un' illusione della realtà nel mondo del
teatro già di per sè illusionistico. E con questa rappresentazione
nella rappresentazione la realtà stessa viene esposta al sospetto di
essere solo teatro in cui il pubblico, assistendo allo spettacolo
seduto di fronte agli attori, alla fin fine prende parte solo al
teatro del mondo. Questa è la suggestione emanata da tali opere. Non
sappiamo mai se questo mondo è un sogno, se il mondo è solo un
teatro di burattini a cui prendiamo parte. Siamo soltanto delle
personae, maschere, come dice Cartesio che entrerà mascherato nel
mondo? Un tale scetticismo, il sospetto che tutto sia solo apparenza e
illusione è un pensiero molto potente, affascinante e inquietante
allo stesso tempo che allora mosse gli animi e influenzò
numerosissime opere teatrali e in tal modo tra l'altro anche il
dipinto di Salomon Koninck. Per interpretare quest’ultimo bisogna
rammentarsi di un secondo fenomeno di quei tempi cioè dobbiamo tener
conto che nella pittura un motivo ricorrente era l'assunzione nel
quadro stesso della tenda che nelle case borghesi di allora si metteva
davanti ai quadri di valore perché non si rovinassero per via delle
mosche o per qualcosa del genere. Così il quadro, quello di valore,
nella casa borghese- come pure accadeva qualche volta in altre epoche
precedenti- viene coperto da una tenda e quando ci sono visite o ad
ore ben precise del giorno essa viene scostata. Molto presto i pittori
la utilizzano come motivo pittorico dotando i loro quadri di una tenda
dipinta e in tal modo creano l'illusione che si tratti di un quadro
con una tenda in parte tirata. Quindi la tenda diventa un motivo
pittorico e dà la stessa illusione e lo stesso sospetto che la realtà
in verità sia solo realtà apparente, che lo spazio in cui ci si
trova sia simile a quello del quadro che noi per l'appunto simuliamo.
Di fatto abbiamo a che fare con un pezzo di tela bidimensionale. La
prospettiva simula una realtà. Siamo in grado di vedere all'interno
di questo spazio, spazio che non è reale. E la tenda dipinta sul
quadro in un certo qual modo simula la realtá
di questa tenda e trascina nella finzione, nel sospetto di
finzione la realtá dello spazio esterno. E con un tale motivo gioca
il quadro di Koninck. Se lo esaminiamo attentamente vediamo nel centro
il filosofo che medita in atteggiamento malinconico e allo stesso
tempo guarda il singolare osservatore. Il filosofo stesso è
mascherato con un costume, un tipico costume alla Rembrandt. Davanti a
lui giacciono dei libri già scritti. Sta scrivendo però si ferma per
osservare l'osservatore. I libri nascondono in un certo senso la realtà,
raffigurata da un mappamondo di cui si vede la parte superiore. Sono
ammucchiati uno sopra l'altro e usati come simbolo della vanitas,
dell'inutilità. Ovverosia i fogli della vita, il libro della vita
è al tempo stesso il libro dei morti. I fogli cadono e poi
vengono distrutti, come la vita stessa. Sullo sfondo ci sono due
nicchie, in una c'è un teschio con gli occhi rivolti verso il
filosofo in meditazione. Inoltre si vede una clessidra -il tempo che
scorre- e un crocefisso come simbolo della morte. L' altra nicchia,
rispetto a noi a sinistra, è vuota. Passando alla tenda è da fare una constatazione sorprendente. C'è qualcosa in questo
quadro che attira e che fin d'ora non è mai stato notato. La tenda
simula prima di tutto, nella parte superiore del quadro, la tenda che
normalmente copre l'intero quadro. Nella finzione quindi la si
potrebbe tirare ancora di più verso sinistra coprendo in tal modo
tutto il dipinto. Invece la tenda fa inverosimilmente un movimento.
Viene meno alla logica dello spazio tridimensionale e si trova
all'altezza del filosofo improvvisamente dietro di lui. Il filosofo
quindi è davanti alla tenda. In tal modo essa separa la nicchia del
teschio, della morte dal filosofo. Mentre il filosofo rivolge lo
sguardo verso l'osservatore, costui nota guardando al di là del
filosofo che l'altro nella meditazione tramite la tenda si crede
separato dalla morte. Di
fatto, invece, la tenda non è una tenda che separa bensì è davanti
all'intero quadro e il saggio, il filosofo che medita sulla morte o
qualcos'altro si trova nello stesso spazio del teschio. A mio avviso,
il quadro vuole compiere tale movimento. Per l'osservatore esterno il
filosofo è in quello stesso spazio del quadro dove alle sue spalle si
trovano le nicchie che in verità sono presenti per lui senza che lo
sappia mentre l'osservatore nella meditazione viene portato a
riflettere su se stesso e sa che tra breve si siederà al posto di
colui che lo guarda e cioè davanti e contemporaneamente dietro alla
tenda. Allora, lui sa di essere votato alla morte e sa anche che il
flusso del tempo ha un certo effetto. La tenda cioè a cui egli non
pensa assolutamente, che sta dietro di lui, che ora non è visibile,
questa tenda calerà anche davanti a lui. Penso che il quadro voglia
esprimere una tale forma di meditazione, di integrazione
dell'osservatore filosofico legata al movimento della tenda. Vuole
dare rilievo alla malinconia e al tempo e presentare il saggio come
mediatore tra l'osservatore e la nicchia della morte. Secondo me
questo è il vero significato del quadro e credo che osservandolo a
sufficienza si noti che di fatto può eseguire questo movimento.
Può illustrarci il quadro di David intitolato 'La morte di Socrate', che fu dipinto negli anni immediatamente
precedenti alla rivoluzione francese. Si tratta di un quadro rivoluzionario?
In un certo qual modo si ha il capovolgimento di tutti quei valori fin
d'ora osservati nei dipinti. Dove c'è l'entrata si vede la continuità
del motivo cristiano. Possiamo contare i discepoli di Socrate, sei a
destra e sei anche a sinistra, cioè dodici. Questo significa che si
rappresenta Socrate come assunzione di un motivo cristiano con i
dodici discepoli. Cosa si intenda con questo numero è molto evidente,
i dodici sono vicino a lui proprio prima della sua morte, prima che,
quasi distrattamente, beva la coppa di cicuta e muoia. Allora, qui c'è
chiaramente un parallelo tra la morte di Cristo e quella di Socrate e
direi che vengono contemporaneamente confrontate in modo
rivoluzionario. Infatti quello che accade in questo quadro non è
l'integrazione della filosofia pagana in una 'Weltanschauung'
cristiana e nemmeno la prefigurazione degli eventi cristiani bensì il
congedo da essi. Il congedo e la fine del Cristianesimo. È possibile
osservarlo ancora meglio confrontando le figure davanti ai nostri
occhi con quelle dell'affresco di Raffaello con cui abbiamo
incominciato. In quell'affresco ci sono Socrate, Platone e Aristotele.
Ma nella loro fisicità sono da intendere come simboli. Carica
simbolica che ci porta a non pensare che queste figure si possano
muovere e che Aristotele potrebbe scendere dalla scala sulla quale
sono concepiti nel loro movimento. Sono simboli, schemi con cui
abbiamo a che fare, di per sè pensieri tronchi. Nel quadro di David
è tutta un'altra cosa. Esso mostra il corpo massiccio di Socrate
pieno di energia. Portatore di energia propria, mosso dalla propria
dinamica. Il corpo è presente nella sua corporeità e quando David raffigura la morte di Socrate nell'attimo
prima di bere la coppa di cicuta allora è la scelta di un kairos, di
un attimo favorevole nello svolgersi del movimento sottinteso e che
possiamo vedere nel modo in cui lui conduce da destra verso sinistra.
Un movimento sospeso nel momento in cui David in un certo qual modo
coglie Socrate di sorpresa. Tutt'altro nell'affresco di Raffaello. Qui
non c'è alcun movimento bensì l'eterna presenza delle forze
spirituali a cui Giulio II teneva molto nel suo cosmo spirituale e
terreno. Insomma qui c'è lo svolgersi di un movimento sospeso in quel
attimo che potrebbe però riprendere dalla forza propria dei corpi,
per come sono raffigurati, e che segna l'interruzione di un precedente
movimento. Possiamo continuare. Guardiamo il gesto, quel gesto
dimostrativo di Socrate e confrontiamolo con un altro gesto simile che
possiamo vedere nella Disputa. Anche lì ritroviamo questa posizione
dell'indice rivolto verso l'alto, raffigurato con la mano destra in un
certo senso come il riflesso di Socrate. È esattamente lo stesso
gesto eppure esprime tutta un'altra cosa. Il gesto nella Disputa
rimanda ad una reale trascendenza
di fatto fin troppo
evidente. Il pittore osa addirittura raffigurare nel dipinto l'intera
assemblea dei Santi. Anche Socrate indica verso l'alto ma non indica
il 'cielo'. Infatti il suo gesto non si rifà a qualcosa di
trascendentale ma è per così dire il gesto della virtù, della 'vertu'
e a questo punto verrebbe da pensare all'imperativo categorico
nuovamente ricordato da Socrate ai suoi discepoli che a loro volta
dovrebbero dar prova delle loro virtù. Avevamo visto in precedenza
che Seneca afferma che Socrate è il 'derisor omnium': Infatti non ha
una grande considerazione della vita ateniese e cioè 'maxime
potentium', ciò significa in particolar modo dei potenti. E così
viene ricordato e in questo modo nella tradizione successiva viene
introdotta di nascosto un'immagine di Socrate quasi come di un ribelle
sociale. Si ribella contro la realtà sociale. Egli rivoluziona e
perciò dalla prospettiva degli Ateniesi trova giustamente la morte
essendosi rivoltato contro l'ordine esistente o disordine. Questo,
secondo una certa tradizione, è Socrate e credo che David veda la
figura del filosofo in base a
una tale tradizione. Un uomo che ricorda la virtù contro ciò che
esiste e che vorrebbe un cambiamento dei rapporti attraverso la forza
propria umana. Quindi si trova che il patrimonio delle idee cristiane
viene ripreso, da un comandamento abbiamo qui l'imperativo categorico
senza che si rimandi a un qualcosa di trascendentale. E credo che sia
la cosa migliore tenere presente la figura hegeliana della 'Aufhebung',
del ‘superamento’. In Hegel si supera il Cristianesimo, viene
annientato ma viene anche riportato alla realtà in una nuova maniera
e cioè come mostra David. Il vero nucleo del Cristianesimo è
qualcosa di umano, per meglio dire solamente umano perché gli uomini
hanno a che fare solo con se stessi, con le loro idee e con la loro
efficacia. E a tal riguardo la morte di Socrate è un ritorno ad una
visione non cristiana in cui però sbocca anche il Cristianesimo che
come patrimonio spirituale è senz'altro da conservare e perciò credo
che sia un quadro rivoluzionario, sbarazzandosi in un certo senso
della religione cristiana e allo stesso tempo conservandola. Pur non
essendo estraneo al Cristianesimo vuole introdurre l'inizio di una
nuova era. Ma tiene conto della presenza , quella spirituale, del
pensiero cristiano; presenza che accetta, trasforma, rappresenta una
metamorfosi del Cristianesimo e ne è al tempo stesso la realizzazione
radicale. Questo secondo me è il senso del quadro.
Nel quadro di Klinger,
intitolato 'Il filosofo',
è centrale il nesso tra riflessione e realtà e il reciproco rinvio
tra riflessione e realtà. Può parlarcene?
Dunque, vorrei fare qualche cenno su questo quadro. È difficile da
descrivere. Si vede un ragazzo che dorme e un paesaggio fluviale.
Paesaggio che sul lato destro si innalza verso la montagna mentre su
quello sinistro sembra formarsi una cascata. E accanto alla testa del
dormiente si innalza la figura del ragazzo stesso. Allunga la mano
quasi come Adamo nel dipinto michelangiolesco. Si avvicina un'altra
mano, ma non è più Dio che qui incontra il ragazzo che riflette, ma
è la sua stessa immagine riflessa. Si riflette la riflessione che si
imbatte negli uomini stessi e credo che secondo Klinger la
raffigurazione del filosofo voglia dire proprio questo e cioè
l'incontro con se stesso, dell'uomo che riflette. È complesso,
Klinger aveva letto attentamente Schopenhauer e sicuramente si
interessava a Nietzsche. È difficile qui allacciarsi ai concreti
pensieri schopenhaueriani. Anche se è molto allettante parlare del
'mondo come rappresentazione', al tempo stesso è molto difficile
rendere produttivo questo ricorso alla filosofia schopenhaueriana o a
determinati elementi dell'opera nietzschiana. Penso che si debba
continuare col dire che la riflessione dell'uomo che filosofeggia si
raffigura nel paesaggio onirico, nel paesaggio fluviale onirico e
nell'incontro con se stesso e che qui la filosofia è ancora un'azione
riflessa nella propria coscienza con la scoperta dei contenuti
riflessivi non più tematizzati da Klinger.
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