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La filosofia nella pittura


Reinhard Brandt con Pierpaolo Ciccarelli




Questa intervista fa parte dell’Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, un’opera realizzata da Rai-educational in collaborazione con l’Istituto italiano per gli studi filosofici e con il patrocinio dell’Unesco, del Presidente della Repubblica Italiana, del Segretario Generale del Consiglio d’Europa.

L'obbiettivo è quello di diffondere nel mondo, tramite le nuove forme d’espressione e comunicazione sociale consentite oggi dalla tecnica, la conoscenza della filosofia nel suo svolgimento storico e nei termini vivi della cultura contemporanea.

Per ulteriori informazioni potete visitare il sito Internet: www.emsf.rai.it


 

Professor Brandt, come si legano filosofia e arti figurative, filosofia e pittura?
La filosofia non è legata esclusivamente al linguaggio come suo mezzo?  Il discorso filosofico  non ricorre al linguaggio come una mediazione necessaria?


Riflettiamo su che cos'è veramente la filosofia. Io direi che è la visione critica e la verifica delle convinzioni e norme del nostro pensare e agire con l'obbiettivo di trattenere ciò che è sostenibile e di sostituire con qualcosa di meglio le norme e convinzioni non sostenibili. In tal modo cominciarono i Presocratici e così credo ancora oggi si filosofeggi laddove non si finisca in giochetti formali o si voglia fissare come tali, in modo dogmatico, determinate ideologie, religioni, convinzioni, opinioni e stabilirle attraverso la filosofia. Quindi a parer mio la filosofia è un illuminismo critico sul nostro orientamento con il fine o di conservare i propri orientamenti oppure di sostituirli con dei nuovi. E questa riflessione sui nostri principi del pensare e dell'agire è sempre connessa alla parola. Così era presso i Presocratici, allora si discuteva, per via orale si rendevano pubblici libri e saggi, si tenevano lezioni. E nella filosofia c'è anche una forte tendenza contro il quadro. In Cartesio, Kant e Hegel troviamo un'avversione contro il pensiero immaginifico, e in John Locke abbiamo un'indicazione chiara che la prosa filosofica debba evitare la metafora. Non si deve sfuggire in pensieri barocchi pieni di immagini, ma attenersi alla precisione concettuale. Perciò credo che la filosofia sia essenzialmente legata all'interazione verbale e al discorso con se stessa. Riflettere significa appunto parlare con se stessi, e in questo senso è vero che la filosofia si presenta sempre in forma verbalizzata.

Può portarci un esempio di pittura filosofica?

Secondo me una rappresentazione di Nicolas Poussin - intorno al 1650 - è un ottimo esempio. Il dipinto, che si trova a Francoforte, si intitola 'Paesaggio di un temporale con Piramo e Tisbe', e mostra una natura irrequieta, mossa dal temporale. In lontananza, in questo paesaggio così sublime e grandioso, si vede su un monte una rocca colpita da un lampo già in fiamme e una mandria impaurita che scappa allontanandosi dall'incendio. In primo piano si vede, disteso a terra, Piramo morto. Tisbe si precipita su di lui e subito dopo - l'osservatore sa già che questa scena è stata tratta da Ovidio - si toglie la vita. Solo il lago, nel centro del quadro, è calmo e immobile. La sua superficie non viene sfiorata dal vento e penso che il messaggio del quadro sia che il pittore vuole documentare l'imperturbabilità dell'anima. Anche il pittore ha raggiunto quella tranquillità - in greco ataraxia o galene, la pace dell'anima  - ed è in grado di raffigurare l'irrequietezza del mondo e quella della natura. Il pittore può anche rappresentare la passione degli animi dei due amanti Piramo e Tisbe - che si autodistruggono - raffigurando così la natura e gli uomini come fa con il lago in cui si rispecchiano le case e gli alberi in movimento. In questo quadro, secondo me, c'è un messaggio filosofico molto chiaro. Il quadro stesso è di natura filosofica: Poussin era un neo-stoico e nella sua opera riporta un insegnamento della Stoà sull'irrequietezza e sulla possibilità per il filosofo di raggiungere la tranquillità.

Ciò significa che la pittura può trasmettere contenuti filosofici?

Sì, indipendentemente da ciò che si pensa al riguardo, è inconfutabile che la pittura sia capace di trasmettere un messaggio del genere. Al momento non dobbiamo occuparci di come questo sia possibile. Penso però che il quadro intero e le sue singole parti possano trasmettere una rappresentazione delle idee. Un quadro forse non è in grado di arrivare ad essere raffigurazione della negazione in sé, ma può contribuire nella rappresentazione figurativa all'idea del nichilismo.

Può darcene un'esempio?

C'è un quadro di Juan de Ribera dal titolo 'Democrito', dove Democrito è raffigurato con in mano un foglio bianco. Secondo me l'interpretazione è molto chiara e cioè il filosofo dice che alla fine non rimane niente, il mondo nella sua totalità è il nulla. Per una cultura figurativa in grado di trasmettere contenuti filosofici, la premessa è abbastanza complessa. Questo tipo di pittura si è sviluppata in particolar modo nella prima età moderna, nel Rinascimento e nel Barocco. Vedremo inoltre che ci sono quadri di David e perfino di Max Klinger che premettono il filosofo come figura ben precisa, di santo, di retore. Nelle statue antiche il filosofo veniva raffigurato con una ruga sulla fronte: in tal modo qualsiasi osservatore poteva immediatamente rendersi conto di chi fosse. Anche nella pittura  dell'età moderna abbiamo delle convenzioni ben determinate secondo cui ci è possibile riconoscere in Socrate, Seneca, Platone, Eraclito o Aristotele il filosofo. Come ho già detto nell'800 questa tradizione non ha più la stessa rilevanza che aveva nel Rinascimento e nel '600. Abbiamo effettivamente un quadro di Klinger sulla figura del filosofo e Masson ha anche raffigurato Eraclito, ma secondo me la fase della raffigurazione dei filosofi e cioè quella filosofica ormai è finita.

Lei ritiene quindi che questa tradizione figurativa relativa ai filosofi e alla filosofia si sia interrotta?

Penso di sì. Esiste sicuramente anche dopo una filosofia significativa che permette con nuovi mezzi e nuovi problemi di riflettere sui principi del nostro pensare e agire. Ma ha perso la sua capacità figurativa e per questo è a malapena possibile rappresentare la filosofia odierna nella figura aristocratica di un Platone e di un Aristotele o anche nell'atteggiamento di negazione di un Diogene che vuol vivere nella botte criticando la cultura e la civilizzazione. Durante il Rinascimento e fino al XVVI-XVIII secolo c'erano invece figure come quelle di Democrito, Eraclito, Platone, Aristotele, Seneca e Socrate, oppure, più in generale, quella del filosofo come outsider.

C'è qualche elemento che accomuna i filosofi rappresentati dalla pittura?

Secondo me sì. In un certo modo varcano sempre il confine della società umana, stanno al margine della città, al confine del paese, della polis, sono quasi dei nomadi che apportano una critica culturale, come Diogene o Democrito, oppure che si trovano in una situazione di morte, come Seneca per Rubens, o che riflettono sulla morte, come il Democrito di Salvator Rosa, di cui ci occuperemo più da vicino. Un altro caso, che ho già nominato, è quello di Ribera che raffigura Democrito come un filosofo giunto, al termine della sua esistenza, a una posizione nichilistica. Sono comunque sempre posizioni estreme, che riflettono l'essere umano nella sua totalità,  arrivando ad atteggiamenti definitivi.

In che modo, attraverso un dipinto, si possono esprimere non solo emozioni ma anche pensieri filosofici?

E' molto utile al proposito citare un autore greco, Senofonte, che oggi ha perso un po' del suo splendore e i cui scritti risultano pedanti. Ma nelle sue 'Memorabilia', dove racconta la vita di Socrate, c'è un passo che possiamo prendere come punto di partenza. Socrate, in maniera stereotipata, pone al pittore Parasius la seguente domanda: "Mio caro Parasius, la pittura è un'imitazione di ciò che si vede? Perchè voi dipingete e imitate servendovi dei colori le cavità e le alture, il chiaro e lo scuro, il duro e il morbido, il non livellato e il piano, la gioventù e vecchiaia fisica" "Tu dici la verità" replica il pittore Parasius. E poi Socrate fa un'altra domanda: "E non imitate anche le qualità dell'anima, o ciò che fa parte dell'animo non è raffigurabile?" Allora, con sommo stupore, il pittore si accorge che anche le proprietà dell'anima sono oggetto della pittura. Si può quindi constatare, come dice Socrate, che il pittore è in grado di "fermare" i momenti interiori, ad esempio l'atteggiamento con cui uno guarda un altro, il modo in cui partecipa alla sua gioia.

E ora di nuovo una citazione: "Dal viso e dalle posizioni dell'uomo trapela anche ciò che è elevato e nobile, inferiore e dipendente, razionale e intelligente, malizioso e irragionevole." Il pittore - secondo l'interpretazione di Socrate con il consenso di Parasius - riporta determinate qualità spirituali, movimenti che si percepiscono all'interno di noi stessi, le passioni e anche il carattere. Il pittore può raffiguare tutto questo nei gesti, nella mimica o anche nell'espressione del viso comunicando ciò che di per sé non è visibile. Socrate avrebbe aggiunto anche che il pittore è in grado di rappresentare i pensieri e le riflessioni di un individuo, che però sono diversi dagli affetti, le emozioni, il carattere. Il pittore rappresenta una riflessione astratta: ne abbiamo un esempio calzante nelle stanze di Raffaello.  Nella 'La stanza della Signatura' viene raffigurata la famosa 'Scuola di Atene' in cui Socrate attira l'attenzione sulla sua mano e le persone che lo circondano vedono il modo in cui lui rivolge le dita verso l'alto.

Chi si è occupato di questo quadro e conosce Platone sa che il gesto di Socrate fa riferimento a un passaggio ben preciso del dialogo platonico. Il riferimento si trova nel 7° libro della 'Repubblica' di Platone in cui Socrate tenta di portare un sensualista convinto come Protagora ad ammettere che i sensi possono percepire determinate qualità della mano, delle dita, ad esempio attraverso il senso del tatto il duro e il morbido, attraverso la vista la lunghezza di un dito. Dove invece i sensi sono completamente inadeguati è nel confronto tra due lunghezze, il fatto cioè che un dito sia più lungo dell'altro. Per questo si ha bisogno dell'intervento delle qualità spirituali, quelle dell'intelletto. Ed è proprio quello che Socrate vuole dimostrare in questo quadro, la necessità di una qualità umana che vada al di là dai sensi. Così si ha la rappresentazione di un pensiero ben preciso, quello della convinzione del sensualista che non può restare sulle sue posizioni ma che invece deve superare con un altro passo. Questo è un buon esempio, secondo me ricollegabile alla rappresentazione di Senofonte e riassumibile così: il pittore non è solo in grado di comunicare qualcosa di non visibile nel campo affettivo e caratteriale ma anche riflessioni e idee.

In questo modo lei introduce il primo esempio: 'La scuola di Atene' di Raffaello.

Il tema è proprio questo e vorrei per prima cosa criticare il titolo. Il quadro, sin dalla fine del XVII secolo -la fonte non è conosciuta- si chiama 'La scuola di Atene'. Dunque, sicuramente questo titolo non è giusto, infatti ad Atene troviamo molte scuole filosofiche: il Peripatos, l'Accademia di Platone ma anche le scuole ellenistiche. E con una certa sicurezza si può supporre che in questo quadro non c'è né uno stoico, né un epicureo e in più nell'affresco si vedono filosofi e dotti, facilmente identificabili, mai stati ad Atene. Quindi si può affermare che storicamente il titolo non è corretto. Probabilmente è la soluzione di uno storico che, volendosi occupare di questo dipinto e cercando un titolo, per togliersi dall'imbarazzo propose questo che si è mantenuto fino ad oggi.


Ciò significa che il titolo attribuito all'affresco ne distorce il contenuto stesso?

Per un certo verso, sì. L'affresco, commissionato da Papa Giulio II, sicuramente non vuole rendere una rappresentazione storica dello stato di allora di una scuola di Atene. Non è certamente nell'interesse del committente, e neanche in quello di Raffaello stesso, di comunicare qualcosa di così lontano, di rappresentare con questo quadro qualcosa di storico. Mentre in questo tipo di pittura murale si tratta di riferimenti molti attuali, presenti. Quello che interessa, e lo si capisce se si interpreta il quadro più da vicino, è di fortificare una posizione di potenza ben precisa del Papa. Credo che non si debba includere un'interpretazione in questa tradizione storicistica secondo la quale l'affresco rappresenta una scuola storica di Atene, ma bisogna interpretarlo in base alla situazione di allora. Tuttavia ritengo che il titolo non debba essere cambiato. Dobbiamo solo avere presente che il titolo essendo sbagliato ne distorce  il contenuto. Ma è stato sempre stampato così, milioni di volte, e così è entrato nella tradizione e per questo non si dovrebbe modificarlo. Anch'io, in seguito, parlerò di Scuola di Atene, ma attenzione a non dimenticare che il titolo è sbagliato, addirittura fuorviante.

Professor Brandt, qual è il tema del dipinto?

Prima di tutto bisogna ricordare che sicuramente il dipinto nella sua totalità ha un unico tema penetrante e lo si può trovare documentato. Ma si deve solamente spostare lo sguardo leggermente verso l'alto e sul soffitto ci si trova un medaglione con una figura di donna e due putti senza ali ma ben informati che su due tavole dicono all'osservatore di che cosa si tratta e cioè: 'Causarum cognitio', la cognizione delle cause. E dalla parte opposta dell'affresco della Sala della Signatura, nella parte superiore della cosiddetta 'Disputa', due putti -questa volta alati- tendono verso l'alto il programma e il titolo della parte contraria e cioè : 'Divinarum rerum notitia'. E chiaramente sussiste un collegamento tra i due affreschi e perciò anche un indizio per il vero tema dell'affresco erroneamente chiamato Scuola di Atene. Il divino è di grado più elevato rispetto al secolare, la 'cognitio', la cognizione delle cause, delle strutture causali si riferisce alla natura mentre la cognizione del divino abbandona il mondo delle cause e si rifà alla causa di tutto ciò che esiste e cioè a Dio. E il Papa è seduto in questa Sala della Signatura come l'avvocato di Dio in un certo qual modo nel centro, tra i due affreschi, come mediatore tra la sfera terrena e quella divina. E quella terrena su cui torneremo subito ha di certo un legame intimo con la religione cristiana. La filosofia occupandosi delle cause dell'essere trova il suo compimento -secondo l'intenzione del programma ecclesiastico- solamente nel credo cristiano. Perciò penso che si debba partire dalla figura in alto. Il titolo è 'Causarum cognitio' e bisogna tener a mente il legame tra questo affresco e quello della Disputa.


Ciò significa quindi che tra la 'Scuola di Atene' e la 'Disputa' esiste un'esistenziale corrispondenza? Un reciproco rinvio?

Credo che sia essenziale per questo dipinto, per tutti veramente. Ce ne sono altri due nella Sala della Signatura 'Parnaso' e 'La giustizia' che non prendiamo in considerazione dato che di fatto non si riferiscono alla rappresentazione di questi filosofi sotto il titolo di 'Causarum cognitio'. Se osserviamo ancora una volta la figura al di sopra dei due affreschi, della Disputa e di questa 'Cognitio causarum' si può notare che la figura femminile della Teologia sopra la cosiddetta Disputa ha un libro nella mano sinistra, sicuramente il libro per eccellenza, la Bibbia. E dall'altra parte la Filosofia ha in mano due libri di cui si possono leggere i titoli 'Moralis' e Naturalis'. E questo doppio motivo, la dualità che possiamo osservare dalla parte della Filosofia, della conoscenza del terreno, ebbene questo doppio motivo emerge anche nei libri che nel centro dell'intero dipinto hanno in mano Platone e Aristotele. Da un lato abbiamo Platone con 'Timaios', cioè la filosofia della natura, quella matematica mentre Aristotele con la sua 'Ethica' rappresenta la filosofia morale. Sono titoli che si possono riconoscere esattamente e che come vedremo alla fine di questa interpretazione sono veramente essenziali per l'intera struttura del quadro di Raffaello.

Che cosa ci indicano Platone e Aristotele?

Platone con la mano destra indica verso l'alto. È sicuramente un indizio per la sua posizione idealistica, per l'assunzione della reale esistenza dell'ultrasensoriale. Dall'altra parte c'è Aristotele che garantisce con la sua mano in qualche modo la realtà materiale, indicando la realtà delle cose naturali. All'interno della filosofia, secondo me, il dualismo dei due filosofi non è più da superare perché la filosofia ha un aspetto ambivalente. Forse dirigendo lo sguardo verso l'alto possiamo includere il fatto che nella cupola ci siano due colonne e sono le uniche nell'intero dipinto. Tutti gli altri sono sempre pilastri. In un punto ben preciso le colonne fanno vedere il cielo aperto, attraverso loro è possibile vederlo, cielo aperto. Per me questo è anche un indizio che il dualismo-insuperabile nella filosofia-non debba essere portato anche nella Disputa, determinata invece in effetti dall'unità cristiana, dall'essere unitario di Dio nella Trinità. Così come abbiamo trovato dall'altra parte il libro per eccellenza, qui abbiamo l'unica soluzione possibile di tutti i problemi. La filosofia non è capace di tanto, ha un aspetto che riguarda ciò che è morale, un'altro della 'philosophia naturalis'. Ha un'ottica idealistica e al tempo stesso così legata alla realtà degli oggetti e non È in grado di superare il contrasto. Così interpreto l'affresco nella composizione totale della Sala della Signatura. Volendosi occupare ancora più dettagliatamente credo che sorga il pericolo -in cui per altro si è già incorsi fin d'ora- di effettuare identificazioni delle singole figure. Ma in effetti se ne possono identificare solo alcune e di quelle sicure anch'io vorrei veramente riprenderne solo una e cioè Diogene il cinico, Diogene di Sinope, chiaramente identificabile. Egli è sulla scala, la scala intellectus come vedremo, davanti ad Aristotele e Platone, raffigurato in qualche modo in un atteggiamento animalesco (cinico, infatti, significa filosofo-cane) con una scodella vicino a lui. Ed essa è in fondo nel quadro intero l'unico punto in cui ci si rifa' ad un bisogno naturale. Quindi Diogene, il filosofo persiste sui bisogni naturali. E credo che Raffaello o il gruppo di Giulio II che consigliò il pittore durante la concezione del quadro, hanno presente un passaggio ben preciso che fa parte della letteratura antica ed è il seguente testo di uno storico della filosofia, Diogene Laerzio. In questo testo, riguardo a Diogene il cinico, si legge: "Musicam vero et geometriam et astrologiam ceteramque similia negligenda esse et inutilia et quae minime necessaria." Cioè il Cinico ritiene "completamente inutili e non necessari la musica, la geometria, l'astrologia e cose del genere".  Il testo mostra che l'autore nominando la musica, la geometria, l'astologia o l'astronomia ha in mente la Repubblica di Platone. Infatti sono esattamente quelle discipline che Platone, nella Repubblica, nomina per il filosofo come iter da seguire. La scala intellectus è una graduazione della conoscenza, da Platone ritenuta necessaria per raggiungere il gradino più elevato, cioè la conoscenza dialettica delle idee. Naturalmente, Platone e Aristotele l'hanno raggiunto. Nella Repubblica di Platone i gradini più in alto sono ben marcati. Perciò con questa scala si è ripreso di nuovo un passaggio preciso dell'opera platonica per poi tradurlo in figure, in immagini. L'immagine di Diogene disteso sulla scala, che non vuole salire, nel dipinto È un punto ben identificabile preso dall'antico storico della filosofia, Diogene Laerzio. A mio avviso si riporta un'idea di Raffaello o di Giulio II per la quale i due filosofi aristocratici, Platone e Aristotele, dominano l'intera assemblea dei dotti e dei filosofi. La conoscenza intera e tutta la filosofia deve limitarsi all'interno della tradizione filosofica, dell'Accademia e del Peripato, della filosofia platonica e quindi di quella aristotelica. Resta però ancora dello spazio per un oppositore, colui che ricusa tale forma di conoscenza, ovvero Diogene Laerzio. Comunque, egli in mano ha sempre un libro quindi, c'è da parte sua l'impegno verso una conoscenza letteraria. Ma l'attenzione resta su Platone e Aristotele. E forse, osservandoli più attentamente, si dovrebbe anche aggiungere che è evidente l'affinità con le raffigurazioni degli apostoli Pietro e Paolo. In precedenza questo quadro è stato spesso considerato come la rappresentazione di Pietro e Paolo, e Raffaello è completamente cosciente di ciò. Platone e Aristotele prefigurano i giovani più importanti per la chiesa. Anche questo quindi nella composizione del quadro è di straordinaria rilevanza. Sono le prefigurazioni dei due apostoli e quindi anche una parte di quella pretesa della chiesa di forza e di spirito. David, nel 1787, riprenderà un elemento cristiano, in tutt'altra forma. Non si intende assolutamente una continuazione della fede cristiana bensì una rottura, un superamento, una negazione. Qui invece è esattamente il contrario; la raffigurazione dei due filosofi, Platone e Aristotele, è come una prefigurazione della fede cristiana e quindi anche dell'idea che una filosofia platonico-aristotelica, già di per se stessa, è integrata nella dottrina cristiana.
Ritengo che quest'incontro di dotti di diverse epoche e tendenze, stia a significare che la conoscenza è possibile solo all'interno del Platonismo e dell'Aristotelismo e che posizioni come quelle sostenute da Epicuro, non rappresentano nessuna possibile conoscenza. Inoltre con l'incontro dei dotti viene avanzata una pretesa enciclopedico- universale e con ciò sono avvertiti quei pensatori di scuola ellenistica, avvertiti di non abbandonare quest'immagine chiusa del mondo per entrare in una sfera che non appartiene più alla conoscenza accettata. Per questo credo che nell'incontro si avanza sì una pretesa enciclopedica, universale, ma anche quella esclusiva.

Nella "Repubblica" di Platone esiste una critica fondamentale dell'arte? Può introdurci al tema?

Sono convinto che Raffaello, e coloro che lo consigliarono durante la concezione del quadro o anche i filosofi del Rinascimento, sapessero esattamente che Platone, nella 'Repubblica', mosse una critica profonda alla poesia e alla pittura. Nel 10° libro troviamo che i poeti, in fondo,  e anche i quadri, ingannano; lo specchio inganna, il quadro pure. Produce apparenza e la 'Repubblica' o meglio ancora, la filosofia platonica in genere è contro l'apparenza. Essa vuole verità e esseri veri. Nel 10° libro viene mostrato come la pittura in verità sia ontologicamente qualcosa di pessimo rango. Le idee stanno in cima, poi ci sono gli oggetti reali. Si fa l'esempio del letto, di quello dipinto, quindi oggetto di un quadro, non è nemmeno questa realtà materiale inferiore bensì finge di essere tale. Il pittore non deve capire niente delle cose che dipinge, le può rappresentare nell'ignoranza assoluta, senza sapere nulla della forma o di come vengono prodotti certi oggetti, come un tavolo o una scarpa. Sono mancanze elencate da Platone e che lo portano ad emettere un verdetto cosÏ duro sulla poesia e sull'arte figurativa. E in un certo senso anche il pittore platonico si deve dire che tutto ciò che rappresenta, sì, tutto questo rappresentato non esiste. "La pittura fa parere quello che non è" perché anche in questo caso  la scala non è una scala e le persone raffigurate non sono persone. Tutto è apparenza. La domanda allora sarà: come si può comportare un platonico, come lo era indubbiamente Raffaello, con un tale verdetto sull'arte figurativa? Credo che a questo proposito il quadro proponga una soluzione.
Vorrei, però, partire dall’epitaffio del cardinale Bembo, persona molto intelligente, che si trova nel Pantheon sulla tomba di Raffaello: "Hic ille est Raffael, timuit cur sospite vinci daedala magna rerum et moriente mori." Allora questo è Raffaello. Quando era in vita la natura, la daedala magna reruma, somma creatrice delle cose, temette di venir sconfitta da lui e di morire dopo la sua morte. Come può Raffaello vincere la natura e come può la natura temere di morire con la morte dell'artista? Secondo me, il quadro ha una soluzione e risponde alla domanda di come un pittore platonico, in base al verdetto di Platone, possa esistere. Bisogna ritornare al quadro e infatti sotto la scala troveremo, a destra e a sinistra, due tavole. Su una ci sono dei simboli matematici, sicuramente segni pitagorici, quindi presumibilmente di Pitagora che si trova seduto sulla tavola. Non mi vorrei occupare di questi segni ma solamente dire che qui si trovano dei simboli matematici. Dall'altra parte c'è un'altra tavola con dei segni geometrici, una precisa figura geometrica. Quindi ci si può immaginare che sull'altro lato è raffigurato Euclide. Negli studi più recenti si è cercato di decifrare questi segni matematici, i dati aritmetici e geometrici. Numerosi sono gli studiosi che ci hanno lavorato, tra i quali ricordo l'italiana Simanetta Valtieri, il ricercatore tedesco Richard Fichtner e recentemente un altro italiano Quirino Mazzola. Ma indipendentemente dalle loro soluzioni, in parte controverse e oggetto di nuove discussioni, una cosa è certa: questi segni matematici contengono informazioni sulla costruzione della sala e dell'intero quadro. In altre parole, la matematica dà la proporzione spoglia e la struttura del quadro che è quindi organizzato matematicamente. Nelle sale, negli archi a volta, nei pilastri, nelle figure, dapperttutto si celano delle costruzioni matematiche, è certo. Prendendo l'interpretazione di Fichtner delle singole figure, possiamo vedere come tutte le linee del quadro siano perfettamente calcolate. Ritormando ancora una volta alla figura di Platone, non dimentichiamo che ha in mano un libro dal titolo 'Timaios'. 'Timaios' è un tardo dialogo di Platone in cui viene presentata la costruzione geometrica della natura con una forma precisa della teoria dell'atomo. Nei corpi platonici, gli atomi si uniscono in quantità determinate. Questo significa però che la geometria è la vera scienza della natura. E a questo punto, a mio avviso, si congiungono tutte le diverse componenti del quadro.  Platone- in veste di teorico della speculazione numerica, di un uomo con la tendenza a identificare le idee con i numeri- nella tradizione  del Pitagorismo dà un aiuto per come valutare l'arte allo stesso livello della natura e come può mantenerlo, essendo la natura concepita secondo principi matematici. Il dipinto si salva quindi con la matematica e nell'interpretarlo non si deve mettere da parte la matematica bensì prenderla sul serio. Perché con matematica allo stesso tempo si intende anche musica, astronomia ma significa pure, come nel 'Timaios', prendere in considerazione i principi della costruzione secondo cui si costruisce la verità. Dio è un matematico, un geometrico; per un platonico come Raffaello questo è per così dire il suo punto di partenza. Così nell'interpretazione, secondo me, si raccolgono le diverse componenti. Le due tavole che si riferiscono al 'Timaios'- dato che a mio parere non era ancora stato individuato- contengono un pensiero filosofico e cioè che il dipinto sta allo stesso livello della natura. Qui per me abbiamo un pezzo di filosofia. Seguendo tali indizi e prendendoli sul serio, così come si mostrano a noi, possiamo dire che nel quadro si fa filosofia.

La raffigurazione del pensiero filosofico avviene mediante il riferimento esplicito ai testi platonici. Ci sono altre forme di raffigurazione del pensiero filosofico che non facciano riferimento esplicito a testi scritti?

Un dipinto di Rembrandt, molto impressionante, dal titolo 'Aristotele e il busto di Omero', è un buon esempio della possibilità di un quadro di rappresentare una riflessione senza alcun riferimento a un testo scritto. Vediamo il filosofo che riflette nel suo studio; con la mano destra tocca il busto di Omero e con la sinistra una catena che pende dalle sue spalle; egli stesso indossa una veste dorata. Questa è la prima impressione del dipinto. Il titolo originale -dato al quadro da uno storico d'arte nel 1928, quando lo si presentò per la prima volta al pubblico- era: 'Aristotele in contemplazione del busto di Omero'. Questo titolo non è del tutto corretto: infatti lo sguardo del filosofo non si rivolge al busto, bensì in lontananza. Veramente non si tratta nemmeno della lontananza, ma del nulla esterno. È lo sguardo di colui che medita, è come se vedesse all'interno, è contemplazione di pensieri. Volendo interpretare il quadro bisogna partire da questa visione interna, da questo modo di vedere. Si deve far attenzione al fatto che la mano è sul busto di Omero; noi oggi sappiamo con certezza che si tratta di questo busto e che il filosofo in questione è Aristotele, così come sappiamo che la catena ha un medaglione. Su questo medaglione c'è il ritratto di Alessandro il Grande: abbiamo quindi il poeta più importante dell'ellenicità, il poeta per eccellenza, 'o poietes', come spesso viene nominato nella letteratura greca;  il più grande filosofo, almeno se ci fidiamo di Dante il quale dice: "il maestro di color che sanno”; e il più grande generale di tutti i tempi. Omero, Aristotele e Alessandro sono qui tutti e tre riuniti donando al quadro la più elevata dignità possibile.

Come possiamo entrare in questo pensiero filosofico?

Bisogna partire dal fatto che lo sguardo si rivolge verso l'interno, rivelazione che ci arriva non dalla gestualità e nemmeno dalla mimica, bensì dal contatto delle mani con gli oggetti. Come per un cieco, la mano destra di Aristotele tasta il capo di Omero mentre quella sinistra la catena d'oro. Nell'interpretazione, secondo me, bisogna rivolgersi ad entrambi: al busto di Omero e alla catena d'oro di Alessandro. Per cominciare al meglio, possiamo prima di tutto trattare il busto di Omero interrogandoci sul suo significato. Va ricordato che il quadro è del 1653 e che Rembrandt è olandese. Oggi questi elementi non ricoprono più quel ruolo che avevano nello scontro culturale di allora, scontro di notevole intensità, in cui da una parte c’era Omero e dall'altra il poeta romano più importante, Virgilio. Rembrandt, scegliendo il busto di Omero, vuol dire che è contro Virgilio. Vorrei descrivere in poche parole come si è arrivati a questa situazione per conferire a tale pensiero la giusta forza e l'appoggio necessario. Nel Rinascimento esce un trattato di Scalliger 'Sulla poetica', scritto nel 1561, in cui si denuncia Omero, in una  maniera che oggi sarebbe impensabile, di non essere stato un grande poeta. I suoi eroi non si intendono molto di buone maniere e nemmeno di condotta eroica. Odisseo è un imbroglione che presso i Feaci incontra una principessa che fa il bucato; Achille piange da sua madre. Tutto questo è un comportamento indecoroso. Gli stessi quadri di Omero sono del tutto inopportuni. Per esempio, si vede un temporale in pieno inverno; il Giove di Omero, quindi, può anche in inverno ricorrere all'espediente del temporale, ma è contro natura. Perciò, come si può vedere, c'è una critica dopo l'altra. Al contrario, Virgilio porta questa lingua grossolana a diventare poetica grandiosa, veramente illuminante; i suoi quadri sono tutti corretti, i suoi eroi sanno comportarsi in modo razionale e hanno buone maniere. Questa stilizzazione di Virgilio contro Omero è un mezzo, per la corte francese, per considerarsi l'erede della cultura augustea. Allo stesso tempo ciò significa, anche per rafforzare la pretesa documentabile della Francia rispetto all'impero tedesco, che in Francia  di fatto c'è la vera eredità della cultura augustea, cioè del titolo di imperatore. La Francia è l'erede che si impadronisce della cultura latina respingendo la comprensione, appena in corso, verso quella greca; rimuovendola impone così, fondamentalmente, la lingua latina. Sopravvaluta Virgilio, il grande poeta, profeta e fondatore della cultura occidentale e lo fa diventare il poeta per eccellenza. Nei Paesi Bassi si fonda una cultura opposta. Nel 1575 l'università di Leida diventa un centro europeo per l'ellenicità. Justus Lipsius, lo studioso più importante della sua epoca, tra il XVI e il XVII secolo, intensifica lo studio del greco. Egli stesso si meraviglia di come sia possibile preferire Virgilio a Omero. Successivamente viene pubblicato un libro sulla geografia omerica; poi, nel 1656 ad Amsterdam, esce un'edizione molto importante dell'Iliade e dell'Odissea di Cornelius Schribelius. Ecco com'era considerato Omero a quell'epoca, nel 1650, nei Paesi Bassi; si verifica lo scontro culturale di una nazione cosciente contro i desideri dei signori di Francia. Ma si dimostra anche che la cultura non si piega all'uso del latino, da parte degli studiosi della Chiesa: è la cultura dello strato borghese incolto e del popolo contro il predominio del  potere del latino. Tutto ciò si cela nel busto di Omero e, osservando il quadro, secondo me lo si può riconoscere nella giusta maniera riconoscendo Omero e non Virgilio. Nel quadro bisogna anche considerare quel Virgilio in un certo senso non visibile per scoprire il significato di Omero, del poeta cieco, quindi legato ai primordi della cultura. Cieco anche nel senso che non si interessava di quel denaro così accecante e seducente, con cui le corti ricompensavano i cortigiani.

Fino adesso Lei ha analizzato il significato del busto di Omero. Cosa indica invece la catena d'oro?

Questa è l'altra parte. Il medaglione è ben visibile; storicamente è una riflessione del fatto che lo stesso Alessandro venne educato da Aristotele. Il padre di Aristotele infatti era medico alla corte del re della Macedonia, Filippo II, padre, a sua volta, di Alessandro. Aristotele quindi per un periodo fu in Macedonia come educatore di Alessandro. Poi Aristotele ritornò nella democratica Atene per fondare la sua scuola filosofica, il 'Lyceum'. Anch'egli, ed è ciò che il quadro mostra, è di fronte all'alternativa tra una vita semplice e quella di corte; tale alternativa - ossia da una parte la semplice vita democratica, il ritorno per così dire alla natura, all'espressione naturale, in un certo senso alla cultura popolare e, dall'altra, la vita di corte - è un'alternativa con cui l'intellettuale europeo si è confrontato molto presto. È noto che Platone sia stato due o tre volte alla corte di Siracusa, fatto che venne duramente censurato e criticato dal Socratismo di sinistra; si sa inoltre che Kant, in un punto preciso del saggio 'Sulla pace eterna' del 1795, scrisse ciò che segue: "Non ci si aspetti che i re facciano filosofia o che i filosofi diventino re e non è neanche da augurarselo visto che il possesso del potere inevitabilmente rovina il libero giudizio della ragione." Ciò che qui viene espresso è quello che nel XX secolo è diventato traumatico, per cui gli intellettuali di propria iniziativa hanno servito un leader, un duce cinico. Hanno preso le parti di Stalin in una 'proskynesis', atteggiamento questo richiesto ai cortigiani da parte di Alessandro dopo essere stato in Oriente, per cui si dovevano prostrare a terra. Questa è la 'proskynesis', cioè servire i signori e in tal modo, usando le parole di Kant, 'annientando il loro libero giudizio'. Quindi il contrasto tra la vita di corte e la semplicità, l'inclinazione a tutto ciò che è naturale, libero da una parte, e dall'altra l'inclinazione ai prìncipi e ai leader, è una vecchia alternativa europea esperita nel XX secolo ancora una volta in una forma così drammatica. Ed è la riflessione mostrataci da Rembrandt; Aristotele riflette e pensa alla domanda che determina la vita, cioè “Come devo vivere?” “Pos bioteon?” come già scrive Platone nel suo dialogo 'Georgias'; “Come bisogna vivere?” A quale delle due parti bisogna essere propensi? E le mani, nella loro gestualità e nel toccare gli oggetti, mostrano quell'alternativa che l'uomo deve affrontare.

Qual è il ruolo di Rembrandt, in questo quadro?

Secondo me Rembrandt, in un certo senso, si può identificare con Aristotele; ecco l'interesse che ha in questo quadro. Non è un interesse storico, quindi non vuole rappresentare, in una forma qualsiasi, Aristotele e il busto di Omero. Ma essi sono presenti in una tradizione culturale, sono una prova di determinate forze spirituali. Aristotele viene raffigurato in un dilemma attuale, nel confronto con Omero e Alessandro; da una parte quindi la vita semplice, la poesia della natura; dall'altra la cultura di corte. Anche il mantello, non solo la catena d'oro, testimonia la presenza della corte. Dai racconti de 'Le mille e una notte' sappiamo che i califfi ai loro sudditi, alla gente verso cui volevano dimostrarsi benevoli, regalavano dei mantelli o dei vestiti. In una epistola di Pietro Aretino, egli scrive che Carlo V vorrebbe fargli arrivare il mantello promesso. Allora abbiamo di nuovo un segno di quell'alternativa 'corte o vita naturale'; alternativa, davanti a cui stava anche Rembrandt, a cui prende parte. Per questo la raffigurazione di Omero, Aristotele e Alessandro diventa un scontro così attuale. Ciò che per Rembrandt stesso diventò un elemento di importanza vitale: cosa devo decidere? Secondo me lo si può vedere nella struttura del quadro e lo ritroviamo anche nella sua biografia. Nel dipinto dominano i colori, le figure sono eseguite con delle pennellate larghe: i colori e non la forma. La forma è, per così dire, la parte di Virgilio, quella della corte, di una cultura per cui il quadro è sotto il dominio della forma, sotto il dominio della forma, che detta alle figure come devono stare e conduce al fatto che i colori sono utilizzati per tracciare i contorni delle figure. Tra l'altro lo si ritrova anche in Senofonte e anche successivamente, sempre formulato in questo modo. C'è anche in Platone, che polemizza sui colori e sulla confusione da loro provocata; essi andranno bene per le donne e i bambini ma non per un intelletto colto. Sono concetti che ritroviamo anche in Adam Smith, l'economista che, in un punto ben preciso, assegna ai colori questo ruolo; o anche in Kant. Domina la forma. La forma, però, sta a significare il predominio del 'logos' rispetto al colore, colore che, a sua volta, da Rembrandt viene messo in primo piano in questo quadro, sicuramente ben fatto. Ma la composizione non è l'elemento che più si impone; è soprattutto quello che si ottiene tramite i colori, in queste pennellate larghe, plastiche quasi. Credo che l'osservatore di questo quadro filosofico possa seguire il movimento della mano destra e anche quello documentato nel quadro dal pittore per se stesso, come artista, vale a dire nell'alternativa tra Alessandro e Omero. Insieme a  Rembrandt, l'osservatore sta dalla parte di Omero.

Una interpretazione di un quadro di Salvator Rosa che raffigura Democrito, si intitola: “Democrito piange o ride?”; ci può dare la risposta a questa domanda?

E' vero, ho scelto questo titolo per l’interpretazione di un'incisione di Salvator Rosa di cui esiste, inoltre, un quadro a olio uguale a Copenaghen. Prima di tutto vorrei ancora una volta indirizzare la riflessione su che cosa esattamente succede, sul metodo dell'interpretazione. La domanda era: si può decidere se Democrito piange o ride? Credo di poter dimostrare che la domanda sia risolvibile. Andando contro degli studi recenti, io sono dell'idea che Democrito, come si osserva in quest'incisione, effettivamente rida. Ora voglio occuparmi brevemente della questione del metodo. Un metodo da me utilizzato, che a mio avviso si potrebbe definire dell'obiettività, vale a dire della non-soggettività. Non si tenta, in base a dei quadri o, analogamente anche a dei testi, di farsi venire in mente qualunque cosa in modo soggettivo, così come accade generalmente nell'ermeneutica più recente; ma si accetta, sia nel testo o, come in questo caso, in un quadro, che si tratti di un oggetto storico. Ciò significa che il primo passo deve essere di assicurarsi di quali dati storici si è in possesso per arrivare a capire quale significato abbiano le singole parti di un quadro così come il quadro intero: come abbiamo visto nella Stanza della Signatura di Raffaello, con la sicurezza del significato tramite il rinvio ai testi platonici certamente utilizzati da Raffaello. O anche in Aristotele, raffigurato con il busto di Omero, la catena di Alessandro, abbiamo tentato di conferire una sicurezza storica un po' più esauriente del significato di Omero intorno al 1650 nei Paesi Bassi: partendo da lì abbiamo cercato di conseguire l'intero quadro. Quindi credo si debba procedere in modo storico. Il secondo passo è di pensare attentamente, questo viene continuamente fatto, alla resa massima del significato, dell'interpretazione, così da arrivare ad una struttura compatta. Penso che non possiamo sottovalutare o sopravvalutare gli artisti di cui ci occupiamo. In questi quadri si unisce una cultura spirituale molto forte e presupponendo una notevole consistenza di interpretazioni non si corre il pericolo di interpretare l'artista alla leggera oppure di fantasticare cose da lui non volute. Ma ancora una volta ci si deve accertare, voglio dire che in un quadro è importante oltre alla certezza storica e alla certezza iconografica dei pezzi, che il quadro resti coerente; che si veda cioè che i quadri hanno un unico tema e che il significato dato alle singole parti rimanga coerente e che diventi per intero una semplice idea, una tematica.  Vorrei mettere in primo piano questi tre punti di vista sia in considerazione di quello presentato sia rispetto alle interpretazioni successive. Il tentativo è quello di avvicinarsi con l'idea dell'obiettivitá ai quadri e ai pensieri filosofici contenuti in essi, come qualcosa che deve essere interpretato, che si trova veramente e non si inventa.

Torniamo all'incisione di Salvator Rosa con la raffigurazione di Democrito. Piange o ride?

 Dobbiamo tener a mente che presso gli antichi, e pure più tardi agli inizi dell'età moderna, esisteva una cultura del riso. Ci sono molti tipi di riso: quello omerico, quello beffardo; le risa degli auguri; le risa e le derisioni nei drammi: basta leggere l''Aiace'  di Sofocle per vedere in che modo, deridendolo, si feriva un eroe. Inoltre le forme raffinate del riso che abbiamo in Socrate, 'erema ghelasas' che poi viene ripreso da Cicerone: la forma del riso della serva tracia quando il filosofo finisce nel pozzo; anche qui si ride, il riso viene ripreso da tutta la letteratura. Si è quindi molto riflettuto sul riso: da Cicerone sappiamo che anche Democrito scrisse sul riso. Mi rifaccio a un passo contenuto nel 'De oratore' in cui Cicerone dice: "Quid sit ipse risus quo pactu consentitur ubi sit quomor existat atque itar e pente erompat ut eum cupientis tenere nequeamus et quo modo simulatara hoc venas oculo svultum ocupet vidarit Democritus" . Vale a dire: 'Ciò che il riso è di per sè, per come e dove viene provocato, come mai scoppia all'improvviso da non poter essere trattenuto anche volendo, come mai coinvolge contemporaneamente il nostro volto, il sangue e gli ochhi: Democrito avrà esaminato tutto questo'. Democrito, un filosofo nato nel 460 a.C. e morto nel 370 a.C., ha scritto presumibilmente un trattato sul riso e viene inoltre presentato come il filosofo del riso. Come al riso appartiene il pianto, alla commedia la tragedia, una storia della filosofia, incline agli aneddoti, ha associato a Democrito che ride Eraclito che piange. Sono figure ritrovabili fino alla tarda antichità. Giovenale, Seneca e altri autori contrappongono al Democrito sorridente  un Eraclito in lacrime: prima di allora questo non c'era ed è stato poi ripreso nella storia culturale europea fino al XVIII, per l'esattezza fino alla seconda metà del XVIII secolo, si trovano i termini 'ottimismo e pessimismo'. L'ottimista è un filosofo seguace dell'insegnamento di Leibniz; Voltaire scrive un 'Candido ou  dell'ottimismo'; il pessimismo è un concetto che fu contrapposto all'ottimismo, come il pianto di Eraclito. A questo punto termina la tradizione figurativa di Democrito e Eraclito. Ma con Salvator Rosa siamo ancora esattamente nel fulcro dell'idea dell'alternativa 'ridere o piangere delle attività umane'; Democrito va per la strada e ride del folle andirivieni delle persone, mentre Eraclito esce da casa e piange per gli uomini. Come ho già detto, Giovenale e Seneca presentano la stessa alternativa; Seneca, Montaigne e anche Kant, tutti e tre, sorprendentemente, danno il loro voto in favore di Democrito e non di Eraclito. Seneca lo afferma molto chiaramente e, a questo proposito, cito un passo di Seneca:"In hoc itaque flectendi sumus ut omnia vulgi vitia non in visa novis sed ridicula vidaentur et Democritum potius imitemur quam Heraclitum."Ciò significa:"Dobbiamo seguire piuttosto Democrito che Eraclito 'hic enim quotiens in publicum processerat flebat, ille ridebat’, perché l'uno, fin quando stava tra la gente, piangeva-quindi si parla di Eraclito-, l'altro invece -cioè Democrito- rideva; per Eraclito tutto era di una tale miseria mentre per Democrito una follia". Perciò meglio seguire Democrito, e così si segue la vita umana, la 'condition humanine', la 'conditio humana', considerandola ridicola. Anche Montaigne è della stessa idea e ne parla in un suo saggio su Democrito e Eraclito;  incredibilmente se ne parla anche in un appunto della lezione kantiana sull'antropologia. Il testo dice: "Meglio essere come Democrito che come Eraclito. Si consideri il mondo come un grande manicomio e un pianeta in cui gli uomini vengono a passare la quarantena per la loro pazzia. Si rida della pazzia umana, senza escludere sé stessi e solo allora si resterà amico di tutti gli uomini. Ridendo della pazzia umana al tempo stesso la si amerà, invece di tenere sempre il broncio e di diventare un misantropo”. Analizzando l'incisione di Salvator Rosa, vorrei introdurre in breve l’artista, riferendomi ad un volume intitolato "Civiltà del Seicento a Napoli" in cui c'è un accurato ritratto di Rosa, in cui si legge: " Salvator Rosa, nel XVII secolo è uno degli artisti più famosi in Italia; non era solo un pittore e calcografo ma con le sue Odi, Satire e il suo carteggio conquista un posto nella storia della letteratura. Studia a Roma con il pittore Josè de Ribeira, poi a Napoli con Aniello Falcone e più tardi a Firenze e a Roma. Cambia il modo di rappresentare del classicismo sottoponendo le figure e la passione ad una tematica filosofica e morale e così facendo segue Nicolas Poussin, da lui molto ammirato. La sua 'Weltanschauung' è stoica, e in molti dei suoi motivi egli. È un precursore della rappresentazione del pittoresco e del sublime del XVIII secolo. La sua pittura è strettamente legata alla poesia." La citazione è conclusa; ora vorrei leggere le due strofe, anzi i due versi aggiunti all'incisione, non nel dipinto ad olio di Copenaghen ma, ripeto, nell'incisione. I due versi sono: “Democritus omnium derisor” cioè “Democrito colui che deride tutto”, “in omnium fine defigitur”, “viene fissato o fermato alla fine di tutto”. E noi ci occuperemo di una domanda in particolare, cioè cosa significhi questo 'defigitur', per un motivo ben preciso. Nella storia dell'interpretazione di quest'incisione si è obbiettato che Democrito non è raffigurato che ride ma che piange. Una delle cause e delle motivazioni per una tale interpretazione, a mio avviso sbagliata, è nell'interpretazione e comprensione di 'defigitur'. Ma prima di tutto vorrei nominare l'autore più importante che ha creato quest'interpretazione, vale a dire Weisbach.In un suo studio fondamentale sul motivo 'Democrito-Eraclito' scrive che Rosa rappresenta Democrito 'in una rappresentazione del tutto inusuale'. Democrito ha uno sguardo e cito di nuovo "malinconico rivolto verso degli scheletri umani e animali. Il filosofo che ride qui è invece triste. La vista della caducità e della vanità del mondo terreno allontana il desiderio di ridere. In effetti questo è il ruolo altrimenti riservato a Eraclito ed è un'invenzione propria del Barocco. Per amore di un concetto spirituale e sottile, tutto viene capovolto e questo chiarisce che tipo fosse Salvator Rosa, bizzarro e presuntuoso, maniaco delle innovazioni e sempre a caccia dell'insolito." Qui abbiamo un giudizio molto duro su Rosa che, in un certo qual modo, da manierista, rompe volontariamenete quella tradizione altrimenti unanime secondo cui Democrito era il filosofo che ride e Eraclito quello che piange. Per fare uno scherzo, egli scambia i ruoli mettendo, al posto di Eraclito, un Democrito che paradossalmente piange. Anche Richard Wallace, in un libro fondamentale, un'opera classica sul pittore napoletano, riprende questo modo di vedere.
Wallace dice:"In the large Democrites-painting Rosa did just the opposite of what Seneca adviced. He upset the traditional interpretation of Democrites as the laughing philosopher and trasformed him into a wheeping Heraclitus who sits overwhelmed with grief and despair in the face of the futility and vanity of all things. As the edging's inscription proclaims", ossia 'Nel grande dipinto di Democrito, Rosa fa proprio il contrario di quello che Seneca aveva indicato. Capovolge l'interpretazione tradizionale del Democrito che ride e lo raffigura invece, come un Eraclito che piange, messo a confronto con l'inutilità e la vanità di tutte le cose, pieno di dolore e di disperazione'. Segue la traduzione inglese del verso: "Democrites the mocker of all things is here stopped by the ending of all things.This inversion of a well-established theme was the bold stroke on Rosa's part.", vale a dire: 'Democrito, lo schernitore di tutte le cose viene fermato alla fine di tutte le cose. Questo capovolgimento di un tema molto comune è il passo coraggioso compiuto da Rosa’. Ciò significa che Wallace riprende l'interpretazione secondo cui Democrito piange traducendo il 'defigitur' in 'he was stopped'. Questo dipinto della 'vanitas', la scena in cui Rosa fa apparire Democrito rappresenta la fine e l'eliminazione del riso e Democrito incomincia a piangere. Ecco quanto dicono i due interpreti più importanti riguardo all'incisione.

Io credo che si sbaglino e, guardando attentamente l'originale, si vede chiaramente che la posizione della bocca mostra che ride. Non è una bocca con gli angoli verso il basso, ma una bocca che ride. Prima di tutto vorrei esaminare il verso 'Democritus omnium derisor, in omnium fine defigitur'. Sono due enunciati di cui il primo è stato preso da Seneca. Nel 'De beneficiis' dice che Socrate è un 'derisor omnium', senz'altro 'maxime potentium', cioè soprattutto dei potenti. Rosa riprende solo un frammento della frase di Seneca, ma non viene attribuito a Socrate quanto invece a Democrito. Il secondo enunciato invece, la fine di tutte le cose, 'finis omnium' si trova nella Vulgata, precisamente nella lettera di Pietro. Perciò Rosa unisce due testi molto preziosi, da un lato Seneca e dall'altro la Bibbia, per arrivare al testo in questione. 'Defigitur' viene tradotto con ‘fermare, fissare, inserire, immobilizzare’. 'Defigi' significa pure ‘essere immobile, rigido’; una traduzione possibile è che Democrito si raggela di fronte alla scena del cimitero, tra le carcasse degli animali: nelle vicinanze c'é solo un unico essere in vita, una civetta sul muro che si vede sulla sinistra. Dal punto di vista linguistico è un'interpretazione plausibile, ma ci sono comunque altre due possibilità per tradurre e capire 'defigitur' senza difficoltà, per cui il filosofo senza dubbio può ridere. Una è quella secondo cui l'incisione, in un certo modo, dice di se stessa di fissare Democrito: 'defigere' quindi è l'azione di Rosa che fissa il filosofo: 'in omnium fine', cioè alla fine delle cose che qui significa nella scena di morte. L'altra possibilità è quella per cui il filosofo viene fermato sì, ma non nel senso che perde la voglia di ridere e poi si impietrisce. Sia la prima che la seconda sono contenute nel 'defigitur'.

Qual è il significato del riso di Democrito?

Tornando al riso, che abbiamo visto possibile in base a tutti gli indizi sia dell'incisione e sia del verso, e rivolgendoci al significato, lo si ritrova senza problemi  indicato non solo nell'incisione come tale, ma anche nel libro e nella figura di Democrito.  Democrito è un filosofo che accetta solo la realtà dello spazio vuoto, degli atomi e del movimento: in altre parole, la realtà vera, la quintessenza di tutto l'essere è la struttura atomica del cosmo in uno spazio vuoto, con atomi in movimento. Davanti a lui c'è un libro, presumibilmente la sua opera sulla natura, trattata come la ritroviamo nella tradizione della storia della filosofia; l'atomista Democrito trova conferma della sua dottrina. Alla fine di tutte le cose c'è quello che lui ha sempre detto, e cioè quello che costituisce in realtá la natura: il mondo degli atomi, delle strutture atomiche prive di vita. Così il filosofo, sorridendo malinconicamente, riscopre la sua dottrina, alla fine di tutte le cose; egli, per così dire, sorride in accordo con la realtà. Ha scrutato la natura ridendo, dov'era possibile, della vita umana, della 'condition humaine’. Poteva riderci su, sapendo che gli uomini sono pazzi. Egli non si sorprende, bensì ride in accordo con la sua conoscenza e la sua visione. La scena dell'incisione è più ampia: non si tratta solamente della vita umana, della 'conditio humana', ma del cosmo intero; è il sorriso, il riso del filosofo che, nella sua teoria era già a conoscenza che la verità consiste nella futilità, nella scena degli scheletri. E se la civetta sul muro è saggia, anch'essa riterrà giusta la nostra interpretazione.

Professor Brandt, c'è un'altra raffigurazione del filosofo Democrito, quella di Juan de Ribeira. Può illustrarcene il contenuto filosofico?

Prima di tutto occupiamoci di quello che si vede: il vecchio filosofo, con indosso dei vestiti lacerati, sorride all'osservatore in una maniera difficile da decifrare e nelle mani ha un foglio di carta, bianco rivolto verso l'osservatore. All'altezza dei fianchi vediamo un tavolo, a destra una penna rivolta verso l'osservatore e non verso il filosofo, con un calamaio accanto. A sinistra si vede un libro a cui probabilmente, non è da attribuire un secondo significato. Il pittore con l'ausilio di pochi mezzi, secondo me, è riuscito a dare una forza interpretativa incredibile, senza che succeda niente, senza svolgere alcuna drammaticità. Davanti o dietro a quello che si vede, non c'è una scena da integrare in un preciso svolgimento; viene fatta filosofia con pochissimi mezzi, e cioè con il sorriso del filosofo, con il foglio bianco e la penna. Cosa rappresenta in verità il riso di Democrito? Esiste una tradizione, in Melantone e in altri autori, per cui Democrito è impazzito e perciò il suo riso è quello di un folle. Come lo dobbiamo interpretare? Secondo me dobbiamo incominciare dal foglio bianco. Esso sta a significare che il filosofo, alla fine della sua vita, al termine della sua esistenza è giunto all'idea di non scrivere più niente. Il nulla è il messaggio rivolto all'osservatore: il 'logos', la ragione non comprende più nulla e può rappresentare solo la negazione di se stessa e perciò anche l'interpretazione di Democrito stesso. Il 'logos' non si è allontanato solamente dal mondo, ma anche dal soggetto; il filosofo quindi, alla fine, è senza senno. La quintessenza è la negazione di tutto, il nulla. In questo quadro non si raffigura Socrate mentre, riportando l'oracolo, annuncia al mondo che sa di non sapere nulla, mettendo in tal modo in agitazione una 'polis', sebbene anch'egli sia preoccupato per la politica, essendo un cittadino di quella città. Democrito invece, non si considera più un cittadino, tanto meno dell'umanità; vive alla periferia della vita e della società come un nomade, vestito di stracci. È un outsider e da una tale posizione porge, a colui che vuole vedere, al singolare osservatore del quadro, proprio questo nulla.

Seguendo il Suo metodo interpretativo, può introdurci al significato filosofico del quadro di Rubens intitolato 'La morte di Seneca'?

Effettivamente è un metodo interpretativo un po' complesso. Ma richiamo alla mente quello che realmente vediamo in questo quadro. C'è un vecchio raffigurato in una vasca da bagno, con uno sguardo delirante rivolto verso l'alto. Alla sua sinistra ci sono pure due soldati e proprio in basso si vede un ragazzo che prende nota delle ultime parole del vecchio. È arrivato alla parola 'vir', sicuramente la parola era invece 'virtus'; e dall'altra parte- a destra per l'osservatore- si vede un dottore molto esperto che fa uscire il sangue dalle vene del vecchio, lasciandolo scorrere in una bacinella. Dal punto di vista estetico non è granché, perciò non ha riscosso molto successo tra gli storici d'arte. Ma invece, secondo me, osservando più attentamente i dettagli e perseguendo il pricipio dell'interpretazione, tramite l'idea dell'obbiettività, c'è alla base una riflessione filosofica da estrapolare. Innanzitutto vorrei indicare due o tre elementi contenuti nella rappresentazione, diciamo come materiale storico. Poi passeremo alla composizione del quadro e infine alle correnti di pensiero seguite da Rubens, un pittore che durante la fase di realizzazione del quadro, intorno al 1610, aderisce al Neo-stoicismo, di Justus Lipsius secondo il quale si univano insieme pensieri stoici e pensieri cristiani. Ecco qual è la corrente di pensiero trasmessa dal pittore nel quadro. Ma prima di tutto vorrei indicare  diciamo i 'requisiti' storici; il punto di partenza è un testo di Tacito, lo storico romano che raffigura l'orrore dell'epoca di Nerone e a proposito di Seneca scrive anche qualcosa. Tutto questo è contenuto negli 'Annali', libro XV, paragrafo 60. Egli appunto scrive: 'Sequitur caede Seneca', cioè dopo l'uccisione del console Platius, 'segue l'uccisione di Seneca'. Dopo che un tribuno comunica a Seneca che verrà ucciso, Nerone domanda al tribuno se Seneca voglia uccidersi da solo oppure no, e il tribuno gli risponde di non aver trovato alcun segno di paura, di tristezza nelle parole o nell'espressione di Seneca. E poi, così ci racconta Tacito, il tribuno riceve l'ordine di ritornare da Seneca ad annunciargli la sua morte. Segue la scena molto particolareggiata in cui Seneca, in presenza dei suoi amici, si toglie la vita. Gli amici lo esortano a rimanere forte e poi segue il passo:'Dove sono finiti tutti quegli insegnamenti di saggezza? Che fine ha fatto la ragione preparata in così tanti anni ad affrontare quella minaccia che è la morte?' Questa è la base delle numerose rappresentazioni della morte di Seneca nell'arte figurativa dell'età moderna, ma anche prima, alla fine del Medioevo e nel Rinascimento. Quella di Rubens ha il suo fondamento in una statua, oggi conservata al Museo del Louvre come la statua di un pescatore; all'epoca di Rubens era a Villa Borghese a Roma. Si suppose che si trattasse della statua di Seneca, per meglio dire di una rappresentazione figurativa della sua morte. Mancando le gambe, si pensò che la statua venisse messa in una vasca che doveva essere quella in cui Seneca si tolse la vita, perché a tale scopo egli infatti si mise nella vasca. Rubens sostituisce alla testa della statua quella di un'altra statua di Seneca, in suo possesso. È stata utilizzata quest'altra testa di Seneca: questo è il secondo requisito usato da Rubens nella sua rappresentazione. Il terzo requisito storico è quella tradizione che suppone Seneca cristiano. Esisteva un carteggio tra Seneca e san Paolo; già per Erasmo, però, era falso perchè il carteggio, nella forma in cui ci è pervenuto, non poteva rifarsi a del materiale storico. Ma anche lui è convinto che Seneca, nella sua 'Etica', avesse dei segni cristiani, perciò crede che sia da interpretare come un cristiano; anche la sua stessa morte è quella di un martire cristiano. Seneca venne raffigurato nella 'imitatio Christi', nell'imitazione della morte del figlio di Dio. Si vedono il perizoma e la lancia di Longino che controlla se Cristo viva ancora. Seneca qui viene raffigurato come cristiano, muore da martire cristiano. È un dato che per un pittore, agli inizi del Seicento, si presenta in questa forma; così allora si interpretava Seneca. Ecco dunque i requisiti storici da cui dobbiamo partire e che devono essere presi in considerazione. Esaminando la composizione del quadro, si osserva che a sinistra abbiamo la concentrazione spirituale, mentre a destra si raffigura la componente propriamente materiale. Vediamo il ragazzo, sicuramente è una ripresa del motivo del discepolo, che sta scrivendo le ultime parole di Socrate. Come ho già detto, si può leggere la parola 'vir' che peró si può completare in 'virtus'. Inoltre vediamo accanto a Seneca, due soldati che lo guardano in volto, ma allo stesso tempo, significa che ascoltano le sue parole. Quindi, a questo punto ha luogo un confronto spirituale con il filosofo. Si ascolta e si vede quello che il filosofo dice e dall'altra parte, si vede scorrere il sangue nel catino. Il movimento va verso il basso, non segue il movimento verso l'alto appunto ma verso il basso. Il dottore guarda verso il basso, verso il corpo. Ecco la parte della materialità. E forse non si esagera nell'interpretazione se si tiene presente che Seneca era famoso da un lato per le sue 'Epistulae morales' e dall'altro aveva scritto le 'Quaestiones naturalis'. E, detto questo, si possono ritrovare, riunite nel quadro, le due parti dell'effetto di Seneca. Consideriamo ora la lancia del centurione, a sinistra rispetto l'osservatore; se la prolunghiamo idealmente arriviamo alla punta della penna del ragazzo. Ciò significa che il pittore ci invita a prolungare la lancia e se lo facciamo verso l'alto, arriviamo a un punto sopra il quadro in cui, la linea della lancia si interseca con un'altra linea uguale ma questa volta solo pensata. E immaginandoci questa linea riflessa, essa ci porta esattamente alla fine delle spalle, lungo il braccio e perciò è di fatto anche prevista nel corpo di Seneca. E l'angolo acuto del triangolo va a finire sopra il quadro, proprio dove guarda Seneca. Lo sguardo di Seneca, ora lo possiamo dire, cerca di afferrare ciò che è trascendentale, invisibile. In questa interpretazione del martire, si rivolge alla realtà invisibile del Dio cristiano. Il quadro allora, è fatto in modo tale che rimanda dal visibile all'invisibile, dev'essere completato. La giusta interpretazione di questo quadro non deve terminare nel quadro stesso ma includere uno spazio figurativo che trascende ciò che è visibile, ma che ciò nonostante viene contrassegnato dal visibile stesso. Queste forme di inclusione, vale a dire di ciò che il visibile-comunque presente nel quadro- trascende, lo ritroviamo anche altre volte nella pittura contemporanea. Vorrei solo indicare la copertina del 'Leviathan' di Hobbes. Lì si ha la raffigurazione dello stesso Leviathan composto da numerosi corpi. Si rappresenta lo stato che include tutti gli uomini e li protegge, nella forma di un macro-uomo. E secondo la dottina di Hobbes, lo Stato riunisce in sè due poteri, quello spirituale e quello temporale, infatti si possono vedere il pastorale e la spada. E allungando queste due linee approdiamo ad un punto al di sopra della copertina, all'infuori del visibile. Ciò significa, che anche Hobbes dice che l'unitá del visibile si ottiene attraverso qualcosa di invisibile, e corrisponde esattamente ad una teoria contenuta nel Leviathan, secondo cui l'unione si ha in un punto che non è più terreno. Questa però è una creazione terrena. Il materialista Hobbes, diversamente da Rubens, pensa che l'idea è la rappresentazione del nostro intelletto, che noi creiamo.E la copertina fa proprio questo obbligandoci ad allungare tale linea. Si possono vedere molte altre linee che richiedono una costruzione esterna e che perciò completano ciò che è visibile internamente, tramite qualcosa di invisibile. Quindi credo che restiamo su un terreno sicuro spostando l'interpretazione al di là del quadro in qualcosa di invisibile e quindi facendo vedere esattamente dove si rivolge lo sguardo di Seneca in punto di morte. Questo è tutto, per quanto riguarda la composizione che, alla presenza appunto dell'invisibile nel quadro, ci ha portati sorprendemente al di fuori del quadro. Per comprendere meglio il significato del quadro all'epoca di Rubens, credo che sia molto importante ricordare quello che ho precedentemente accennato, e cioè che in Europa c'era una corrente di pensiero molto forte, soprattutto nei Paesi Bassi attorno alla figura di Justus Lipsius, che intensificava il Neo-stoicismo. Molti allora, diventavano stoici ma allo stesso tempo si credeva che l'etica stoica avesse bisogno di essere completata. Si pensava cioè che l'idea che la 'virtus' non andasse oltre se stessa fosse una chimera. Predicando solo la virtù alla fine il saggio non sa più perché egli compia le sue azioni. Che senso ha tutto ciò? Che significa la morte di Catone? È solo per la regolarità dell'etica stoica? E i teorici di allora provano a completare l'elemento stoico del comportamento rigorosamente morale, tramite una parte del Cristianesimo. Solo con il Cristianesimo l'etica stoica diventa vivibile, non è più- come per Blicken - una semplice chimera creata dall'uomo. Allora, c'è una tendenza fortissima a completare il patrimonio stoico attraverso la speranza cristiana. L'uomo può sperare che il bene che lui fa, è un bene anche per lui; e che nell'aldilà, se non c'è una ricompensa ci sarà almeno una riconciliazione con i suoi valori morali. Questi non sono stati semplicemente creati, sono invece ancorati alla speranza cristiana di un'altra vita per l'uomo. È un'idea molto forte quindi, che interessa moltissimo anche Rubens. Ed è il messaggio del quadro, cioè trasmette all'osservatore qualcosa della 'virtus', virtus però non nel senso romano bensì già quella di un martire cristiano. Ritroviamo un'interpretazione molto simile in Winckelmann a proposito del Laocoonte. Vorrei leggere il testo a tal proposito in cui Winckelmann nel 1750 dice le seguenti parole di Laocoonte, l'eroe greco: 'Il dolore fisico e la grandezza dell'anima sono distribuite con la stessa intensità per tutta la figura e sono valutati allo stesso modo. Laocoonte soffre è vero, ma come il Filottete di Sofocle' e cioè 'la sua infelicità ci tocca fino all'anima e ci auguriamo che questo grande uomo sia capace di sopportarla.' E continua dicendo:' La virtus di Laocoonte, la grandezza della sua anima, il suo eroismo lo si trova nella sofferenza provocata dai serpenti che prima uccidono i suoi figli e subito dopo uccidono anche lui.' Anche per Rubens la 'virtus' è la 'virtus' di un martire cristiano, ecco come viene interpretato Seneca. E l'osservatore viene esortato ad un'altra imitatio. All'inizio abbiamo visto che si trattava di un'imitatio della morte di Cristo. Anche in questo caso quindi, si tratta dell'esortazione a seguire la forza, nella sofferenza, del filosofo stoico. Questo per me, è il messaggio filosofico contenuto nel quadro.

Parliamo del quadro che si trova al Prado, intitolato "Un filosofo". In una sua interpretazione lei parla dell' "illusione del quadro". In che senso "illusione"?

Dunque, prima di tutto parliamo del quadro. Fino ad ora è stato a malapena preso in considerazione. Lo troviamo menzionato nel catalogo del Prado ma per quanto mi risulta non esiste alcuna interpretazione. Per capirlo meglio bisogna sapere che fu dipinto da un olandese, Salomon Koninck, verso il 1635, evidentemente già sotto l'influenza dei primi quadri significativi di Rembrandt. E ha per tema, secondo me, effettivamente qualcosa che si può chiamare "l'illusione del quadro". Innanzitutto dovremmo richiamare alla mente la situazione del 1635 in cui il tema dell'illusione era presente in un modo per noi oggi difficilmente comprensibile, incantava gli uomini ma al tempo stesso li impauriva. Nel 1619 in una sua nota Cartesio scrisse: "Ut comoedi personam induunt, sic ego hoc mundi teatrum cunsgensurus larvatus prodeo". Ovvero: "Così come gli attori si travestono con una maschera , anch'io volendo entrare nel teatro del mondo, mi presento mascherato". Comincia così Cartesio nel gennaio del 1619 le sue Cogitationes privatae. Larvatus prodeo, porto una maschera. Come persona-'persona' già vuol dire maschera-mi presento sul palcoscenico del mondo. Ora possiamo direttamente fare un salto alla filosofia cartesiana in cui Cartesio elabora la concezione secondo la quale abbiamo sempre a che fare con idee. Con idee della coscienza quando percepiamo cose esterne, quando ci immaginiamo Dio. Si potrebbe persino dire che abbiamo delle idee anche quando immaginiamo noi stessi. Del mondo esterno, di Dio e di noi stessi, tutto ci viene trasmesso attraverso le idee, attraverso i concetti. Di conseguenza ci si può chiedere se quei concetti abbiano dopo tutto un contenuto obbiettivo. Non a caso il Cartesianesimo ebbe un effetto tale da venir sospettato di ateismo e scetticismo. Le idee già di per se stesse non danno alcuna garanzia che quello che ci si immagina in esse sia anche reale. Ciò vale successivamente anche per il "way of ideas" di John Locke che porta a un idealismo rigoroso e  anche allo scetticismo e all'ateismo. Tale connessione fu presto notata e bisogna tenerla a mente se si vuole riconoscere la forza dirompente della filosofia cartesiana. Bisogna anche rammentare che in Francia durante la fase di realizzazione di questo quadro furono scritte delle opere teatrali di un certo tipo, un fenomeno culturale questo abbastanza diffuso a quell'epoca. Ricordo un'opera di Georges Scudéry dal titolo "La comédie des comédiens", rappresentata per la prima volta nel 1635. Nel 1633 esce l'opera omonima di Gougenot e nel 1636 si rappresenta l'“Illusion comique" di Corneille, l'"Illusione comica". Quello che accomuna queste opere è qualcosa che già troviamo nell' "Amleto" di Shakespeare, ossia il teatro nel teatro. Si rappresenta teatro nel teatro. Viene prodotta un' illusione della realtà nel mondo del teatro già di per sè illusionistico. E con questa rappresentazione nella rappresentazione la realtà stessa viene esposta al sospetto di essere solo teatro in cui il pubblico, assistendo allo spettacolo seduto di fronte agli attori, alla fin fine prende parte solo al teatro del mondo. Questa è la suggestione emanata da tali opere. Non sappiamo mai se questo mondo è un sogno, se il mondo è solo un teatro di burattini a cui prendiamo parte. Siamo soltanto delle personae, maschere, come dice Cartesio che entrerà mascherato nel mondo? Un tale scetticismo, il sospetto che tutto sia solo apparenza e illusione è un pensiero molto potente, affascinante e inquietante allo stesso tempo che allora mosse gli animi e influenzò numerosissime opere teatrali e in tal modo tra l'altro anche il dipinto di Salomon Koninck. Per interpretare quest’ultimo bisogna rammentarsi di un secondo fenomeno di quei tempi cioè dobbiamo tener conto che nella pittura un motivo ricorrente era l'assunzione nel quadro stesso della tenda che nelle case borghesi di allora si metteva davanti ai quadri di valore perché non si rovinassero per via delle mosche o per qualcosa del genere. Così il quadro, quello di valore, nella casa borghese- come pure accadeva qualche volta in altre epoche precedenti- viene coperto da una tenda e quando ci sono visite o ad ore ben precise del giorno essa viene scostata. Molto presto i pittori la utilizzano come motivo pittorico dotando i loro quadri di una tenda dipinta e in tal modo creano l'illusione che si tratti di un quadro con una tenda in parte tirata. Quindi la tenda diventa un motivo pittorico e dà la stessa illusione e lo stesso sospetto che la realtà in verità sia solo realtà apparente, che lo spazio in cui ci si trova sia simile a quello del quadro che noi per l'appunto simuliamo. Di fatto abbiamo a che fare con un pezzo di tela bidimensionale. La prospettiva simula una realtà. Siamo in grado di vedere all'interno di questo spazio, spazio che non è reale. E la tenda dipinta sul quadro in un certo qual modo simula la realtá  di questa tenda e trascina nella finzione, nel sospetto di finzione la realtá dello spazio esterno. E con un tale motivo gioca il quadro di Koninck. Se lo esaminiamo attentamente vediamo nel centro il filosofo che medita in atteggiamento malinconico e allo stesso tempo guarda il singolare osservatore. Il filosofo stesso è mascherato con un costume, un tipico costume alla Rembrandt. Davanti a lui giacciono dei libri già scritti. Sta scrivendo però si ferma per osservare l'osservatore. I libri nascondono in un certo senso la realtà, raffigurata da un mappamondo di cui si vede la parte superiore. Sono ammucchiati uno sopra l'altro e usati come simbolo della vanitas, dell'inutilità. Ovverosia i fogli della vita, il libro della vita  è al tempo stesso il libro dei morti. I fogli cadono e poi vengono distrutti, come la vita stessa. Sullo sfondo ci sono due nicchie, in una c'è un teschio con gli occhi rivolti verso il filosofo in meditazione. Inoltre si vede una clessidra -il tempo che scorre- e un crocefisso come simbolo della morte. L' altra nicchia, rispetto a noi a sinistra, è vuota. Passando alla tenda è da fare  una constatazione sorprendente. C'è qualcosa in questo quadro che attira e che fin d'ora non è mai stato notato. La tenda simula prima di tutto, nella parte superiore del quadro, la tenda che normalmente copre l'intero quadro. Nella finzione quindi la si potrebbe tirare ancora di più verso sinistra coprendo in tal modo tutto il dipinto. Invece la tenda fa inverosimilmente un movimento. Viene meno alla logica dello spazio tridimensionale e si trova all'altezza del filosofo improvvisamente dietro di lui. Il filosofo quindi è davanti alla tenda. In tal modo essa separa la nicchia del teschio, della morte dal filosofo. Mentre il filosofo rivolge lo sguardo verso l'osservatore, costui nota guardando al di là del filosofo che l'altro nella meditazione tramite la tenda si crede separato dalla morte.  Di fatto, invece, la tenda non è una tenda che separa bensì è davanti all'intero quadro e il saggio, il filosofo che medita sulla morte o qualcos'altro si trova nello stesso spazio del teschio. A mio avviso, il quadro vuole compiere tale movimento. Per l'osservatore esterno il filosofo è in quello stesso spazio del quadro dove alle sue spalle si trovano le nicchie che in verità sono presenti per lui senza che lo sappia mentre l'osservatore nella meditazione viene portato a riflettere su se stesso e sa che tra breve si siederà al posto di colui che lo guarda e cioè davanti e contemporaneamente dietro alla tenda. Allora, lui sa di essere votato alla morte e sa anche che il flusso del tempo ha un certo effetto. La tenda cioè a cui egli non pensa assolutamente, che sta dietro di lui, che ora non è visibile, questa tenda calerà anche davanti a lui. Penso che il quadro voglia esprimere una tale forma di meditazione, di integrazione dell'osservatore filosofico legata al movimento della tenda. Vuole dare rilievo alla malinconia e al tempo e presentare il saggio come mediatore tra l'osservatore e la nicchia della morte. Secondo me questo è il vero significato del quadro e credo che osservandolo a sufficienza si noti che di fatto può eseguire questo movimento.

Può illustrarci il quadro di David intitolato 'La morte di Socrate', che fu dipinto negli anni immediatamente precedenti alla rivoluzione francese. Si tratta di un quadro rivoluzionario?

In un certo qual modo si ha il capovolgimento di tutti quei valori fin d'ora osservati nei dipinti. Dove c'è l'entrata si vede la continuità del motivo cristiano. Possiamo contare i discepoli di Socrate, sei a destra e sei anche a sinistra, cioè dodici. Questo significa che si rappresenta Socrate come assunzione di un motivo cristiano con i dodici discepoli. Cosa si intenda con questo numero è molto evidente, i dodici sono vicino a lui proprio prima della sua morte, prima che, quasi distrattamente, beva la coppa di cicuta e muoia. Allora, qui c'è chiaramente un parallelo tra la morte di Cristo e quella di Socrate e direi che vengono contemporaneamente confrontate in modo rivoluzionario. Infatti quello che accade in questo quadro non è l'integrazione della filosofia pagana in una 'Weltanschauung' cristiana e nemmeno la prefigurazione degli eventi cristiani bensì il congedo da essi. Il congedo e la fine del Cristianesimo. È possibile osservarlo ancora meglio confrontando le figure davanti ai nostri occhi con quelle dell'affresco di Raffaello con cui abbiamo incominciato. In quell'affresco ci sono Socrate, Platone e Aristotele. Ma nella loro fisicità sono da intendere come simboli. Carica simbolica che ci porta a non pensare che queste figure si possano muovere e che Aristotele potrebbe scendere dalla scala sulla quale sono concepiti nel loro movimento. Sono simboli, schemi con cui abbiamo a che fare, di per sè pensieri tronchi. Nel quadro di David è tutta un'altra cosa. Esso mostra il corpo massiccio di Socrate pieno di energia. Portatore di energia propria, mosso dalla propria dinamica. Il corpo è presente nella sua corporeità  e quando David raffigura la morte di Socrate nell'attimo prima di bere la coppa di cicuta allora è la scelta di un kairos, di un attimo favorevole nello svolgersi del movimento sottinteso e che possiamo vedere nel modo in cui lui conduce da destra verso sinistra. Un movimento sospeso nel momento in cui David in un certo qual modo coglie Socrate di sorpresa. Tutt'altro nell'affresco di Raffaello. Qui non c'è alcun movimento bensì l'eterna presenza delle forze spirituali a cui Giulio II teneva molto nel suo cosmo spirituale e terreno. Insomma qui c'è lo svolgersi di un movimento sospeso in quel attimo che potrebbe però riprendere dalla forza propria dei corpi, per come sono raffigurati, e che segna l'interruzione di un precedente movimento. Possiamo continuare. Guardiamo il gesto, quel gesto dimostrativo di Socrate e confrontiamolo con un altro gesto simile che possiamo vedere nella Disputa. Anche lì ritroviamo questa posizione dell'indice rivolto verso l'alto, raffigurato con la mano destra in un certo senso come il riflesso di Socrate. È esattamente lo stesso gesto eppure esprime tutta un'altra cosa. Il gesto nella Disputa rimanda ad una reale  trascendenza di fatto  fin troppo evidente. Il pittore osa addirittura raffigurare nel dipinto l'intera assemblea dei Santi. Anche Socrate indica verso l'alto ma non indica il 'cielo'. Infatti il suo gesto non si rifà a qualcosa di trascendentale ma è per così dire il gesto della virtù, della 'vertu' e a questo punto verrebbe da pensare all'imperativo categorico nuovamente ricordato da Socrate ai suoi discepoli che a loro volta dovrebbero dar prova delle loro virtù. Avevamo visto in precedenza che Seneca afferma che Socrate è il 'derisor omnium': Infatti non ha una grande considerazione della vita ateniese e cioè 'maxime potentium', ciò significa in particolar modo dei potenti. E così viene ricordato e in questo modo nella tradizione successiva viene introdotta di nascosto un'immagine di Socrate quasi come di un ribelle sociale. Si ribella contro la realtà sociale. Egli rivoluziona e perciò dalla prospettiva degli Ateniesi trova giustamente la morte essendosi rivoltato contro l'ordine esistente o disordine. Questo, secondo una certa tradizione, è Socrate e credo che David veda la figura del filosofo in base  a una tale tradizione. Un uomo che ricorda la virtù contro ciò che esiste e che vorrebbe un cambiamento dei rapporti attraverso la forza propria umana. Quindi si trova che il patrimonio delle idee cristiane viene ripreso, da un comandamento abbiamo qui l'imperativo categorico senza che si rimandi a un qualcosa di trascendentale. E credo che sia la cosa migliore tenere presente la figura hegeliana della 'Aufhebung', del ‘superamento’. In Hegel si supera il Cristianesimo, viene annientato ma viene anche riportato alla realtà in una nuova maniera e cioè come mostra David. Il vero nucleo del Cristianesimo è qualcosa di umano, per meglio dire solamente umano perché gli uomini hanno a che fare solo con se stessi, con le loro idee e con la loro efficacia. E a tal riguardo la morte di Socrate è un ritorno ad una visione non cristiana in cui però sbocca anche il Cristianesimo che come patrimonio spirituale è senz'altro da conservare e perciò credo che sia un quadro rivoluzionario, sbarazzandosi in un certo senso della religione cristiana e allo stesso tempo conservandola. Pur non essendo estraneo al Cristianesimo vuole introdurre l'inizio di una nuova era. Ma tiene conto della presenza , quella spirituale, del pensiero cristiano; presenza che accetta, trasforma, rappresenta una metamorfosi del Cristianesimo e ne è al tempo stesso la realizzazione radicale. Questo secondo me è il senso del quadro.

Nel quadro di Klinger, intitolato 'Il filosofo', è centrale il nesso tra riflessione e realtà e il reciproco rinvio tra riflessione e realtà. Può parlarcene?

Dunque, vorrei fare qualche cenno su questo quadro. È difficile da descrivere. Si vede un ragazzo che dorme e un paesaggio fluviale. Paesaggio che sul lato destro si innalza verso la montagna mentre su quello sinistro sembra formarsi una cascata. E accanto alla testa del dormiente si innalza la figura del ragazzo stesso. Allunga la mano quasi come Adamo nel dipinto michelangiolesco. Si avvicina un'altra mano, ma non è più Dio che qui incontra il ragazzo che riflette, ma è la sua stessa immagine riflessa. Si riflette la riflessione che si imbatte negli uomini stessi e credo che secondo Klinger la raffigurazione del filosofo voglia dire proprio questo e cioè l'incontro con se stesso, dell'uomo che riflette. È complesso, Klinger aveva letto attentamente Schopenhauer e sicuramente si interessava a Nietzsche. È difficile qui allacciarsi ai concreti pensieri schopenhaueriani. Anche se è molto allettante parlare del 'mondo come rappresentazione', al tempo stesso è molto difficile rendere produttivo questo ricorso alla filosofia schopenhaueriana o a determinati elementi dell'opera nietzschiana. Penso che si debba continuare col dire che la riflessione dell'uomo che filosofeggia si raffigura nel paesaggio onirico, nel paesaggio fluviale onirico e nell'incontro con se stesso e che qui la filosofia è ancora un'azione riflessa nella propria coscienza con la scoperta dei contenuti riflessivi non più tematizzati da Klinger.

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