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Soldi
pubblici per creare offerta privata?
Nadia Urbinati
Sono numerose le ragioni del dissenso con quanto leggo nella rubrica
che Caffè Europa dedica alle opinioni degli abitanti della Casa
delle Libertà . Mi soffermerò su una in particolare, quella
relativa alla campagna per la cosiddetta libertà della scuola, ovvero
per la proposta di dirottare soldi pubblici alle scuole private. Dario
Antiseri propone il “buono scuola” e lo fa appellandosi alla
libertà e, per toccare le corde dei sentimenti altruistici, alla
benevolenza nei confronti dei poveri. Ora, scrive Antiseri, solo i
ricchi hanno la possibilità di iscrivere i figli alle scuole private.
Per correggere questa ingiustizia, lo stato dovrebbe dare buoni scuola
alle famiglie per rendere tutti i cittadini uguali, ricchi o poveri
che siano.
In teoria il ragionamento non fa una piega. Sarebbe anzi sacrosanto se
nel nostro paese la realtà fosse davvero questa, se cioé il bene
educazione fosse distribuito inegualmente fra poveri e ricchi e se,
soprattutto, la scuola pubblica fosse la scuola pessima per chi non può
permettersi quella privata e migliore. Il fatto è però che quello di
Antiseri è un ragionamento valido in astratto o in un concreto che
non è quello della società italiana. Al contrario, in Italia, le
ragioni teoricamente egualitarie di Antiseri finirebbero per tradursi
nel loro esatto contrario. Vediamo perché.
In Italia, è un fatto, la scuola privata svolge un ruolo
assolutamente periferico, marginale e, soprattutto, senza le garanzie
di qualità che invece dà la scuola pubblica – quanti si iscrivono
nelle scuole private per aggirare lo scoglio delle scuole pubbliche?
In Italia, a tutt’oggi, salvo poche e isolate eccezioni
(strumentalmente usate come se fossero la regola), i genitori non
hanno nessun ragionevole interesse a iscrivere i figli in una scuola
privata.
Come l’amico Steven Lukes ricorda spesso ai colleghi inglesi
e americani, la possibilità di dare un’educazione ottima e pubblica
ai suoi tre figli è stata una delle ragioni che lo hanno indotto a
trasferirsi in Italia. Allora, a che cosa servirebbero i “buoni
scuola”? Se non servono a correggere una situazione di
diseguaglianza e carenza qualitativa, viene il sospetto che servano a
creare un mercato artificialmente. Un costume che l’imprenditoria
(libera) italiana conosce molto bene: con i soldi pubblici si crea
l’offerta privata.
La prima obiezione è dunque questa: il discorso di Antiseri, logico
in teoria, è illogico in relazione all’esperienza italiana, dove le
scuole private coprono circa il 5%
dell’offerta istruzione. A che scopo allora istituire il
“buono scuola”? Viene il sospetto che gli abitanti della Casa
delle Libertà vogliano usare il “buono scuola” come si usa
l’incentivo per la rottamazione, con la differenza peggiorativa che
le industrie automobilistiche ci sono, e sono una realtà
indubbiamente rilevante. Sul fatto che i privati vogliano investire
nell’istruzione non ho nulla da obiettare. Quello che mi colpisce
come liberale è lo “statalismo” degli abitanti della Casa delle
Libertá, il fatto cioé che vogliano creare un mercato usando i soldi
dei contribuenti italiani.
Un’obiezione finale e ancora di tipo empirico. Negli Stati Uniti,
Bill Clinton, otto anni fa, fece del “buono scuola” uno dei
cavalli di battaglia della sua campagna elettorale. Lo fece in nome
dell’eguaglianza di opportunità e quindi della libertà. Nel suo
paese aveva ottime ragioni per proporre i “buoni scuola” perché,
lì tradizionalmente le scuole pubbliche sono diventate scuole pessime
per i diseredati. I “buoni scuola” intendevano rimediare a quella
situazione di assoluta ingiustizia. Dopo otto anni, l’esito di
quella politica si è rivelato un disastro: prima di tutto perché ha
ancora di piú impoverito la finanza pubblica dirottando soldi verso
le scuole private – i “buoni scuola” servivano agli studenti per
“emigrare” dalla scuola di quartiere (l’unica scuola pubblica a
loro disposizione, visto che finanziata con le tasse di proprietà),
spesso pessima, a una scuola privata o a una scuola pubblica situata
in un altro quartiere e migliore perché più benestanti i
contribuenti che la finanziano.
Invece di migliorare le scuole pubbliche, coi “buoni scuola” le
sono state tolte risorse. La situazione è tanto disastrata che il
candidato Al Gore ha cambiato politica: non più i “buoni scuola”
ma il finanziamento alle scuole pubbliche per migliorarle. Una
sentenza recente (inizi di marzo) della Corte Suprema dello stato
della Florida dà un’altra buona ragione a Gore: finanziare con
soldi pubblici le scuole private (dunque, anche quelle religiose)
confligge con la Costituzione e la legge del “muro” tra stato e
chiesa, un principio fondamentale che serve a tutelare il pluralismo
religioso. In ogni caso, perfino nella patria del “buono scuola”,
il "buono scuola" si è rivelato disastroso e
controproducente.
Se questo è vero di un paese dove l’offerta scolastica privata è
forte, maggioritaria e, soprattutto, di qualità superiore rispetto a
quella pubblica, perché proporre il “buono scuola” in un paese
dove è vero l’esatto contrario? Questa domanda mi porta a pensare
che dietro la campagna per il “buono scuola” ci sia non
l’intenzione nobile dell’eguaglianza ma quella interessata di
creare artificialmente l’industria della scuola privata. Il dubbio
si accorda assai bene con la logica che la sigla “Casa delle Libertà”
suggerisce:
il termine “Casa” denota uno spazio privato, come le Libertà
che essa contiene.
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