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Da: Silverio Tomeo silvtome@tin.it
A: caffeeuropa@caffeeuropa.it
Data: Lunedì, 22 maggio 2000 22:42
Oggetto: Centrosinistra e consociativismo


Dopo il 21 maggio e il 16 aprile, possiamo avere conferma della percezione che si va ormai chiudendo lo spazio riformista che pure si era aperto agli inizi degli anni '90: il nostro resta tuttora un paese a forte rischio di declino e di instabilità. Le catastrofiche elezioni regionali (per le sinistre e per i democratici riformisti) e il flop dei referendum (in primis quello sulla legge elettorale) suggellano l'idea di una coalizione di centrosinistra che non aveva reagito per tempo all'indomani delle elezioni europee di un anno fa, che aveva smarrito l'idea originale dell'Ulivo, non era stata innovativa nelle riforme istituzionali, che aveva dimostrato poco coraggio riformista nell'azione di governo e che adesso è in piena crisi di leadership, di idee, di programma, di identità.

«Probabilmente nessuna istituzione condiziona il paesaggio politico di un paese democatico più del sistema elettorale e dei partiti politici. E nessuna presenta altrettante varietà». Così si esprime il teorico della democrazia, l'americano Robert Dhal. Il paesaggio politico italiano brilla per l'incongruenza dei sistemi elettorali per le città, le provincie, le regioni e le due Camere. Il sistema dei partiti politici è differenziato in più di quaranta fomazioni, nate alcune per ricattare, altre per dissidenza, altre ancora per il finanziamento pubblico. Il sistema denominato sprezzantamente dal politologo Sartori come "Mattarellum" è un sistema misto, per tre quarti maggioritario e un quarto proporzionale, quanto basta per la partitocrazia di ritorno. Ora ci sarà la rincorsa al proporzionalismo, al tentativo di una terza forza di centro, una mini-DC pronta a un ruolo spregiudicato tra centrodestra e centrosinistra.

Un centrosinistra poco innovativo e ben poco riformista era facilmente destinato alla sconfitta. Prodi ha fatto bene, ma temeva l'innovazione istituzionale come rischio per il suo governo. D'Alema ha cercato di fare sul serio, ma nasceva con strani tutori, come Cossiga, e non da un risultato lettorale. Ad Amato non resta poi molto da fare: in pochi l'avrebbero votato nel '96 e in pochi lo voterebbero alle prossime elezioni politiche, con molta probabilità. Difficilmente il governo Amato potrà dare vita a una nuova legge elettorale, è già il suo problema di oggi e di domani quello di non perdere pezzi della risicata maggioranza che lo appoggia. Ma come si dovrebbe sapere, una legge elettorale ha un suo senso solo se rapportata a un versante istituzionale che riguarda la forma di governo e l'insieme di regole che una poliarchia moderna sa assegnarsi.

Siamo di fronte a una classe politica in gran parte ancora figlia del proporzionalismo e del consociativismo, per di più ancorata a quello che resta delle vecchie culture politiche. Una classe politica incapace di autoriforma. In questi anni recenti si è ridimensionato il debito pubblico, si è avviata la riforma della pubblica amministrazione. Soprattutto, l'Italia è entrata nel nucleo di testa della moneta unica europea. Poi si sono avviate mezze riforme, sulla scuola e sulla sanità, facili da rimettere in discussione verso il privato, come chiede il centrodestra. La riforma del Welfare è stata timida, osteggiata e ricattata. Ha rappresentato il terreno di scontro tra vari corporativismi. Sulla riforma del sistema televisivo nulla, nessun coraggio per una seria legge sul conflitto di interessi. Nella sinistra democratica perdura come cultura dominante il berlinguerismo. Nella sinistra alternativa e conflittuale perdura una concezione sostanzialistico-metafisica della rappresentanza, quando non l'estraneità a qualsiasi strategia di governo. Nei centristi dell'alleanza per quel governo che fu l'Ulivo sono corposamente presenti vecchie astuzie e culture democristiane, oltre che un clima di decomposizione.

Anche la destra italiana che preme per governare il paese si troverebbe, in caso di effettivo successo, di fronte a un sistema politico ossificato che non consente stabilità e governabilità a chi vince, come del resto accadde nel '94 con il governo Berlusconi. Peccato che questa destra non giungerebbe al governo, come in Spagna, dopo quasi quindici anni di modernizzazione. Avranno modo di ravvedersi, in ogni caso, quanti hanno scambiato Forza Italia per un partito liberale di massa. La sinistra italiana rischia facilmente di trovarsi in una situazione in cui ci vorranno anni per riformulare un progetto moderno di governo per il paese, come è accaduto in passato in Inghilterra e in Germania. Un centrodestra che assembla xenofobia, tradizionalismo cattolico, affarismo proprietario e aziendalistico, può presentarsi con slogan di innovazione ma, peggio ancora, può produrre sul serio una modernizzazione senza democratizzazione. Anche in Italia il conservatorismo potrebbe aver già superato la divisione tra una destra antistatalista e populista e una destra di mercato, tecnocratica ed élitista, altro che teoria delle due destre e delle due sinistre.

Si conferma clamorosamente inadeguata la via referendaria alla riforma della politica, troppo poche sono le rotture dall'interno del sistema dei partiti e purtroppo, anche nella sinistra alla weberiana etica dell'intenzione temperata dall'etica della responsabilità, si sostituisce spesso l'etica dell'appartenenza rafforzata dall'etica di bottega. La sinistra non è più il partito della speranza quando, come al Nord e nel caso dei nuovi ceti, è in caduta libera. Non basta, ormai, né tornare a una presunta base sociale in rapida trasformazione, né lavorare per i poteri forti che sono pronti a qualsiasi cambio di referente.




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