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L’estetica del bello e del sublime

Remo Bodei con Silvia Calandrelli

 

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Questa intervista fa parte dell’Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, un’opera realizzata da Rai-educational in collaborazione con l’Istituto italiano per gli studi filosofici e con il patrocinio dell’Unesco, del Presidente della Repubblica Italiana, del Segretario Generale del Consiglio d’Europa.

L'obbiettivo è quello di diffondere nel mondo, tramite le nuove forme d’espressione e comunicazione sociale consentite oggi dalla tecnica, la conoscenza della filosofia nel suo svolgimento storico e nei termini vivi della cultura contemporanea.

Per ulteriori informazioni potete visitare il sito Internet:
www.emsf.rai.it 

Professor Bodei, è possibile una definizione del "bello"? Come è nata la trinità bello-buono-vero e perché oggi sembra a noi far parte quasi di una sorta di archeologia concettuale?

Innanzi tutto, bisogna abbandonare l’idea che vi sia un’unica definizione compatta di "bello" e che quindi si possa sapere attraverso dei canoni fissi che cosa sia bello: il concetto di bello dipende in primo luogo dalle varie civiltà; in secondo luogo, in ogni civiltà, ma soprattutto nella nostra, è frutto di una serie di stratificazioni, per cui il bello si potrebbe definire a grappolo, a costellazione, cioè prendendo e collegando fra di loro le varianti principali, le varie risposte che sono state date.

Il concetto di bello è unito, in molte civiltà, a quello di buono. Del resto il nostro termine stesso, "bello", deriva dal latino "bellus", che è un diminutivo dalla radice "duenulus bonulus", è cioè qualcosa di "buono in piccolo", di "mediamente buono". Del resto, sappiamo anche che in Grecia il termine "kalós" è "bello", ma si trova spesso in endiadi, cioè connesso con il termine "buono". Nel greco moderno, inoltre, "kalós" non vuol più dire "bello", ma "buono". Si potrebbe continuare: per esempio, il giapponese "yashi" implica "bello" e "buono". Ma in ogni cultura, più o meno, si attribuisce al bello un valore, quindi qualche cosa che merita di essere perseguito.

Nella civiltà occidentale, a partire dalle origini, in particolare dalla Scuola Pitagorica, nella Magna Grecia intorno al VI-IV secolo a.C., il concetto di bello si specifica ed entra in rapporto appunto al concetto di vero e al concetto di buono, formando quella che possiamo definire una "trinità". Nel senso che tutti questi valori, il bello, il buono e il vero, hanno come caratteristica la misura e questo dipende dalla religione e dall’arte greca. La religione greca della fase cosiddetta olimpica, è governata da Zeus, il cui genitivo in greco è "Diós", cioè il Dio della "dies", della "luce diurna", quello che stabilisce esattamente le proporzioni e che ha per così dire sottomesso, in una specie di colpo di stato divino, suo padre e le altre potenze, che sono state poi respinte nell’inferno, nel mondo sotterraneo, ed ha stabilito un dominio della forma.

Quindi la religione greca è molto legata all’idea di armonia, di proporzione, di limite e questa idea si trova anche nelle prime testimonianze. Ad esempio, nel Tempio di Apollo di Delfi c’è scritto che la misura è tutto; ogni aspetto della vita greca ha come ideale quello della misura: tanto il bello, quanto il vero, quanto il buono si basano appunto sulla misura. Se noi prendiamo la geometria pitagorica, sappiamo che possiamo costruire delle figure che sono, nello stesso tempo, vere, perché matematicamente basate, e belle. E così sappiamo che in Pitagora c’è una costruzione geometrica che stabilisce la lunghezza delle corde, quelle che noi chiamiamo "do", "mi" e "la", in modo che la lunghezza delle corde, quindi matematicamente stabilita e quindi vera, è anche bella come suono. La musica, d’altra parte, è l’unica arte in cui noi visibilmente ancora abbiamo quella che per i Greci era la proporzione di qualsiasi arte: ogni arte manteneva insieme l’esattezza e il pathos, quindi la verità e la bellezza.

Ancora per noi, anche nella musica dodecafonica, c’è sempre un rigore di carattere matematico, ma questo rigore non impedisce che la musica sia anche calda, per così dire, e non soltanto fredda. Per quanto riguarda il buono, forse è più difficile per noi da capire - ma se leghiamo l’idea di buono all’idea di misura, si intende non essere né troppo in qua né troppo in là di un determinato modello. Per esempio, nel caso del coraggio, il vero coraggio è quello che non si degrada per deficienza di coraggio in viltà o per eccesso di coraggio in temerarietà. Oppure, per quanto riguarda l’uso del denaro, la liberalità è il contrario di quello che è un deficit di liberalità, cioè avarizia, e di quello che è un eccesso di liberalità, cioè essere spendaccioni.

Noi abbiamo per tanto tempo costruito questo modello, che poi si è fissato in una forma precisa nel Medioevo durante la Scolastica; abbiamo creato questi valori che a noi sembrano desueti, perché ormai ne abbiamo perduto il significato. Però se riusciamo, guardando indietro, a ricostruire cos’è stato questo rapporto tra vero, bello e buono, questa trinità perde quei caratteri un po’ patetici, se vogliamo, un po’ ridicoli, che conserva per la nostra cultura che se ne è sbarazzata.

Noi, però, invece di guardare all’indietro, siamo costretti a guardare in avanti e a dedicarci al bello solo dopo averlo contestualizzato all’interno di un universo di valori più ampio. Ritorniamo alla disciplina che specificamente se ne è occupata, che è naturalmente l’estetica e partiamo da una premessa, ossia dal significato etimologico di "estetica". Estetica ha a che vedere, appunto, con sensazione, con "aísthesis". Ma è sempre stato così?

No. Direi che, per quanto a noi sembri assurdo, giacché ogni opera d’arte è fatta di qualcosa di sensibile - ad esempio i suoni in musica, i colori e le linee in pittura, qualcosa di sensibilmente ancor più materiale e pesante in architettura - tutta l’estetica antica, e in parte l’estetica medievale, considera la sensazione come una specie di detonatore di cariche emotive più alte, che conduce la bellezza sensibile, che per così dire scatena in noi la sensazione estetica, in direzione della bellezza intelligibile. Ciò che vale, per dirla coi termini di Platone, è ciò che non ha colore, "achrómatos", è la bellezza senza colore, senza linee, senza sapore; è appunto per questo che il bello e il vero coincidono: il bello è stato scarnificato e alla fine diventa una forma di esibizione sensibile delle idee.

Invece, con il Settecento, col filosofo tedesco Baumgarten, che per primo utilizza il termine "estetica" in una sua opera comparsa in due volumi nel 1750 e 1758, il terreno dell’estetica comincia a impadronirsi della dimensione del senso. I sensi - la vista, l’udito, qualche volta il tatto o anche il gusto - non rinviano più oltre se stessi. Essi non rimandano all’intelligibile ma, per così dire, all’interno del sensibile si rinvia tutta una serie di significati; sopratutto, essendo il sensibile non astratto, essendo cioè individualizzato, l’opera d’arte non si lega più alla riproducibilità all’infinito di un’idea - ad esempio variazioni sull’idea di triangolo o sull’idea di colonna - ma ogni opera è considerata a sé stante: l’arte, cioè, si individualizza. Detto in altri termini: per la prima volta l’arte non è più il grilletto che fa scoppiare questa nostra apertura nei confronti di un altro mondo; l’arte non ci introduce in un altro mondo che partecipa delle caratteristiche del divino, essa ci tiene anzi legati a questo mondo e ci fa vedere il fascino e l’ambiguità dei fenomeni che si succedono in questo mondo.

Soffermiamoci quindi su questi due aspetti e ritorniamo ancora al bello intelligibile. Introduciamo un altro concetto importante, quello di "canone estetico". Il bello intelligibile presuppone che vi siano, in qualche modo, dei canoni oggettivi di bellezza, che essa quindi, come lei già sottolineava, sia riconoscibile da tutti in base a misure o a calcoli. Questa concezione è rimasta a lungo dominante, in teoria se non in pratica, sino all’inizio dell’età moderna, quando è stata sostituita da un’idea di bellezza più vaga. Quali sono state, in particolare, le conseguenze di questo atteggiamento?

In primo luogo, va detto che il modello prima descritto di bellezza legata alla misura implica anche che la bellezza sia calcolabile e che, essendo essa calcolabile ed oggettiva, a seguire determinate regole si può produrre il bello in architettura, in pittura, eccetera. Già gli antichi però, per quanto questa concezione fosse dominante, non la ritenevano l’unica, perché ci sono - e siamo qui a una definizione composita di bellezza - forme di bellezza legate, ad esempio, alla semplicità, come sostiene Plotino: il colore dell’oro o una stella sono belle senza armonia, cioè senza relazione ad altro. Oppure ci sono concezioni medioevali della bellezza, che verranno riprese da Heidegger nel nostro secolo, che hanno a che vedere con l’idea di "splendore". Del resto il tedesco "schön", che vuol dire "bello", dal verbo "scheinen", implica il "brillare", lo "splendore". Quindi la bellezza è legata a questa "claritas", a questa "luminosità".

Dunque questa concezione invece dominante e incentrata sull’idea di proporzione, di misura, di calcolabilità, di oggettività, comincia a entrare in crisi nel tardo Rinascimento, crisi conclamata nel Barocco. Ancora nel 1509, per esempio, Luca Pacioli nel libro De divina proportione, e poi tutta la scuola fiorentina neoplatonica, o meglio, neoplotiniana - Marsilio Ficino ed altri, che influenzano pittori come Botticelli, Raffaello, Michelangelo - sono legati a questa idea di divina proporzione e di misura. Ma già con il manierismo, e poi con il barocco, ci si accorge che la bellezza non coincide con l’ordine e con la regolarità, che c’è un qualcosa in più, che col linguaggio immediatamente tratto da Petrarca è chiamato "non so che" - Petrarca, a sua volta, lo assumeva da Agostino, da un altro contesto: "nescio quid".

C’è un "quid", un "non so che", che contribuisce a stabilire che cos’è il bello, qualcosa appunto che non è né calcolabile né misurabile, qualcosa che vi si aggiunge, che il genio dell’artista introduce. Quindi tutti i canoni precedenti in qualche modo saltano, perché non c’è più un criterio condivisibile a cui appellarsi. Bisogna avere quello che si chiamerà appunto "gusto".
Rispetto ai sensi nobili della vista e dell’udito, che sono capaci di misurare in metri o in cadenze o in altezza di suoni, il gusto è il più intimo dei nostri sensi: non è come il tatto, che implica il contatto, ma è un contatto dentro di noi, dentro una mucosa sensibile, come quella nel corpo del palato o, nel caso della bocca, della lingua. Quindi l’idea di gusto implica che ci sia un elemento soggettivo dominante e che, soprattutto, l’opera d’arte venga introiettata da chi giudica. Ma allora si tornerebbe al problema della bellezza legata all’arbitrio individuale, secondo i proverbi che abbondano nella bocca non solo del popolo ma anche dei cosiddetti dotti. Invece il gusto, noi sappiamo, può essere educato, e anzi tutta l’arte moderna e l’estetica stessa, in quanto disciplina, nascono proprio dalla necessità di educare il gusto, perché non è la stessa cosa una di quelle croste che si vendono lungo le strade nelle stazioni balneari, del vecchietto col fiasco in mano - che poi, fra l’altro, non è altro che una degradazione di un quadro di Cézanne - e un capolavoro riconosciuto, ad esempio un quadro di Giotto, oppure di Caravaggio.

Allora il problema è come si educa il gusto. I Musei, ad esempio, promuovendo certe opere, dichiarandole degne di essere esposte o respingendole, hanno stabilito degli standard del gusto. Tra l’altro è interessante perché, proprio a Roma, alla fine del Quattrocento, nasce, per così dire, virtualmente il primo Museo, quando viene regalata una collezione di bronzi alla Municipalità di Roma, intorno al 1470, tra cui la Lupa Capitolina. Ma a Roma proprio, esattamente nel 1733, c’è il primo Museo del mondo di antichità. Poi con Napoleone e con tutto il passaggio dalle collezioni principesche o ecclesiastiche private alle collezioni pubbliche nasce l’epoca dei Musei statali, che è più o meno parallela alla nascita delle Scuole di Belle Arti. Qui vale la pena fare un’altra riflessione: mentre prima era bella soltanto la natura e l’arte lo era di riflesso, in quanto capace di "mimesi", di imitazione o rispecchiamento della natura, a partire dal Seicento o più fortemente dalla metà del Settecento, l’arte, come del resto noi la concepiamo, è "bella". Bello non è tanto l’oggetto spontaneo, naturale, ma l’oggetto artificiale: il quadro, indipendentemente dal fatto che il suo referente sia un paesaggio che esiste o non esiste, una musica, indipendentemente dal fatto, come si dice della Sesta Sinfonia di Beethoven, se il primo movimento rappresenti una gita in campagna. L’arte non ha più a che vedere con un bello naturale, si autonomizza ed è regola a se stessa.

Nell’ambito di questa riflessione non possiamo non introdurre un altro concetto, antico, collegato naturalmente a quello di bello: il concetto di sublime. In che senso questo concetto si sviluppa nella cultura antica e cosa lo distingue nella cultura antica dalla sua concezione moderna?

Nella cultura antica il concetto di sublime si ritrova per la prima volta documentato - esisteva forse da prima - nel cosiddetto Pseudo-Longino, in un’opera appunto intitolata Del sublime. Il termine è interessante. In greco è Ïcow (hypsos), che vuol dire "ciò che è alto", ciò che ha carattere verticale. In latino "sublimen" ha due etimologie opposte: o "sub-limen", "altissimo", che sta sotto l’architrave della porta, o "sub-limo", "sotto il fango", cioè quelle cose abissali, nascoste da uno strato di bruttezza. Ad ogni modo, in entrambe i casi, nello Pseudo-Longino, che non si sa se sia del I secolo - alcuni l’hanno identificato con Petronio, l’autore del Satyricon, ma la cosa è improbabile - o forse del III secolo, il sublime è in rapporto al fruitore, cioè a colui che sente recitare o che assiste a spettacoli di carattere letterario. Quindi il sublime ha a che fare con l’effetto che un’opera d’arte produce su un animo nobile.

Il termine greco è interessante: megalofrosÊnh (megalophrosyne), che non si può tradurre "grandezza d’animo", piuttosto corrispondente, nella tradizione antica, a megalocux€a (megalopsychía), non è soltanto l’elemento della nobiltà, ma proprio l’elemento della verticalità, dell’altezza dell’uomo. Un’altezza quasi in senso letterale, perché io, dice lo Pseudo-Longino, nel sentire recitare o nel leggere l’Odissea o una tragedia di Sofocle, mi sento crescere su me stesso, mi sento pieno di un orgoglio così grande, che mi innalzo su me stesso, mi gonfio, come dire, di questo sentimento del sublime, come se l’opera d’arte l’avessi fatta io. Quindi le caratteristiche del sublime antico sono: innanzitutto il rapporto eminente con testi letterari, in secondo luogo un tipo di retorica che viene messa in opera, in terzo luogo - ed è la cosa più importante - che questa anima è tanto grande da poter abbracciare l’universo; la natura - dice lo Pseudo-Longino - ha fatto l’uomo così grande che può contenere in sé l’universo.

La differenza col sublime moderno - la traduzione di questo testo appare a Basilea, nel 1544 - è che il sublime moderno è caratterizzato invece da uno shock, quello shock dovuto alle scoperte di Copernico e poi di Galilei e di Newton: la terra non è al centro dell’universo, ma siamo in una specie, come diceva Pascal, di "sentina del mondo", in uno spazio buio, in un carcere. Quindi non solo la terra, ma anche l’uomo non conta di per se stesso.
Da qui la percezione dell’immensità dello spazio in cui siamo perduti, ma anche la percezione dell’immensità del tempo che la terra e l’uomo hanno: il Seicento è il periodo in cui si smette di credere al fatto, letteralmente inteso, che la terra e l’universo siano stati creati in sei giorni e al settimo giorno Dio si sia riposato. Fa la sua comparsa un senso di essere sperduti in un posto buio e vuoto. Finisce il criterio antico dello Pseudo-Longino: non sono io che posso abbracciare l’universo, è l’universo che mi abbraccia e mi riduce a un essere infinitesimo: se mi confronto con la grandezza dell’universo, con l’immensità del tempo e dello spazio, io non sono altro che un granello di polvere.

Abbiamo introdotto il concetto di sublime all’interno di questa riflessione sul bello. È il momento, a questo punto, di comprendere quando effettivamente sia stato distinto, il concetto di sublime, da quello di bello, proprio nella tradizione filosofica. Quando è avvenuta nettamente questa distinzione?

Tacitamente questa distinzione è avvenuta quando il bello, tra il Seicento e il Settecento, ha perso questa potenza, questa capacità di produrre uno shock ed è diventato una specie di ninnolo, cioè il bello che non mi crea turbamento, il bello inteso come "grazioso". Da qui l’esigenza di rivalutare il sublime, soprattutto di rivalutare quegli aspetti del mondo che prima facevano soltanto paura, ad esempio l’alta montagna, i deserti, le rovine; tutto ciò che prima era temuto ed evitato dagli uomini, ora diventa bello - tant’è che gli Inglesi andavano a Napoli a vedere le eruzioni del Vesuvio e stavano a distanza di sicurezza, ma non tanto lontano da non provare un certo fremito e un certo brivido.

C’è stata quindi nella seconda metà del Seicento e in tutto il Settecento questa sorta di attrazione fatale per tutto ciò che mi produce spavento; ma uno spavento moderato, controllabile rimanendo al sicuro: quindi guardo un mare in tempesta, un’eruzione vulcanica, guardo, come diceva Kant, delle grandi rocce pendenti sopra la mia testa e mi sembrano sublimi. Perché io non riesco, per così dire, ad abbracciarne il significato, perché mi intimidiscono.
Formalmente la distinzione tra bello e sublime viene esplicitata dal filosofo e uomo politico irlandese, che poi ha vissuto in Inghilterra, Edmund Burke, che scrive nel 1757 la Inquiry, l'Inchiesta sul bello e sul sublime. La distinzione è molto netta e verrà poi ripresa da Kant diventando classica: il bello è legato intanto al piacere, poi al sesso femminile, poi al sesso in generale, al piacere sessuale, e poi alla socialità. Quindi bello è ciò che ha grazia, che non turba, che attrae e che, soprattutto, mette gli uomini in rapporto fra di loro. Invece il sublime è legato alla paura, soprattutto alla morte, perché è ciò che minaccia la mia "self-preservation" - dice Burke - è legato alla mia "autoconservazione", è legato poi al sesso maschile, alla virilità ed in particolare all’assenza, alla privazione; quindi privazione di luce, il buio, privazione di forma, il deforme o l’informe, privazione di sentimento, e quindi noia o, ad esempio, distruzione fisica totale.

Kant ed Hegel hanno atteggiamenti opposti rispetto al concetto di sublime. In che senso sono in opposizione e soprattutto in che modo questa loro opposizione ha segnato il dibattito contemporaneo sul sublime e sul bello?

Per Kant il sublime è importante perché, come è noto, almeno dai manuali, due sono le cose sublimi: la legge morale in me e il cielo stellato sopra di me. Ma cosa vuol dire questo? Che il sublime è un rapporto che si stabilisce tra la ragione e l’immaginazione, un rapporto conflittuale: io cerco di capire le idee, ad esempio, la libertà morale o il mio posto nel mondo, ma non riesco a rappresentarmele in maniera precisa; così, ad esempio, distinguendo tra sublime matematico, che riguarda la grandezza - l’immensità dell’universo, quindi dei cieli stellati - e sublime dinamico, che riguarda le forze agenti nell’universo - l’eruzione vucanica, la tempesta nel mare - tutte le volte che io cerco di rappresentarmi questa immagine, quindi di renderla in termini razionali, l’immaginazione mi fugge.

La più bella illustrazione di quanto ora detto è la poesia di Leopardi L’Infinito: la vista è limitata dalla siepe, ma c’è, per così dire, un "buio oltre la siepe" che mi sfugge, che costringe l’immaginazione a inseguire questo al di là; oppure lo stormir di fronde attuali mi fa venire in mente le morte stagioni, in contrasto con la presente e viva stagione. E mi fingo - dice Leopardi - tutto questo scenario nel pensiero, "ove per poco il cor non si spaura". Appunto questa è la caratteristica del sublime: non è la paura allo stato puro, ma è "ove per poco il cuore non si spaura", perché io mi sottraggo, con uno scatto di orgoglio che ricorda lo Pseudo-Longino, a questa perdita di me stesso nel mondo infinito dello spazio e del tempo. E il naufragare, che è dolce in questo mare, dipende dal fatto che l’impossibilità di rappresentare, in forma sensibile, questa potenza infinita delle forze naturali, alla fine mi lascia in uno stato di snervata felicità, in quanto sono sbalzato dalla percezione all’immaginazione, dalla ragione che cerca di fissare le cose all’immaginazione che proteiformemente, cioè continuamente mutando, mi distrugge tutte le costruzioni che faccio.

In epoca moderna, soprattutto nella filosofia americana e francese, con Harold Bloom e con Lyotard, il sublime ha goduto in questi ultimi vent’anni di una grande popolarità, nel senso che il sublime non è altro che il simbolo di tutti i nostri conflitti che non riusciamo a mediare e che quindi rappresentano questa nostra tendenza a cercare di uscire, in una situazione - dice Lyotard - del "postmoderno", da determinati limiti senza però riuscirci. Quindi, mentre il mondo moderno, per Lyotard, era caratterizzato da queste "meta-récits", cioè da queste specie di favole per adulti, per cui la storia tendeva sempre ad andare verso l’emancipazione dell’uomo, oggi a questi racconti non crede più nessuno, son diventate favole, ma da questi racconti non riusciamo a uscire. Siamo continuamente rimbalzati dal credere al non credere, dalla nostra immaginazione, che vorrebbe che ci fosse un’emancipazione del genere umano, alla ragione, che ci dice che sono tutte illusioni.

Recentemente però, possiamo dire, l’ideale della bellezza ha ripreso in qualche modo la sua autonomia - in parte, almeno - e la sua superiorità rispetto al concetto di sublime. Quali sono allora, schematicamente, le tendenze attuali a questo proposito?

C’è stata una forma di saturazione del sublime. Diciamo che il sublime ha avuto un dominio che è iniziato col protoromanticismo inglese, appunto nell’età di Burke, o poeticamente di Pope, di Ossian, di altri poeti o canti, ed è durato, grosso modo, fino alla seconda guerra mondiale, cioè ha accompagnato i periodi più tragici dell’Europa e del mondo. Oggi, per così dire, c’è una reazione di rigetto: il sublime sembra troppo impegnativo, ci disperde molto. Se il sublime ha avuto anche questa breve stagione di ritorno con Lyotard, o con Bloom, oggi la tendenza è ad avere un bello aproblematico, cioè c’è una certa stanchezza di sublime, ma anche di sperimentalismo nell’arte.

La tendenza che si può osservare è duplice. Da un lato l’arte europea, o comunque di tradizione europea, come quella degli Stati Uniti o persino dell’Australia, sta scoprendo l’arte di altre culture, ad esempio le culture africane, così come aveva scoperto l’arte giapponese alla metà dell’Ottocento, e mostra questa tendenza dell’arte alla globalizzazione, cioè a usare degli elementi che nascono da altri contesti e a metterli insieme. Si possono vedere le mostre, ad esempio in Francia, di quest’arte del Benin o del Congo o dello Zaire, in cui le tombe sono fatte a forma di Mercedes, tutte colorate, di cemento, in cui gli elementi dei colori locali, proprio il cromatismo, dato da tinture vegetali, viene associato a un materiale industriale come il cemento, in forme di glorificazione del defunto come ricco.

Queste cose non sono da prendere poco sul serio, perché rappresentano tendenze anche nell’arte cosiddetta avanzata. L’altro elemento, invece, che mi sembra di notare è questo ritorno del sacro: l’arte tende ad inglobare in sé quegli elementi di sacralità che aveva perso. In Occidente l’arte ha una grande tradizione del sacro, non soltanto l’arte greca o romana, ma soprattutto l’arte cristiana; almeno fino al Seicento, si può dire che l’arte era arte sacra. Oggi ritorna questa tendenza a rifare dell’arte, come dire, un surrogato più modesto e più tacito di quello shock che prima il divino produceva, quindi a ritrovare nell’oggetto artistico quell’aura, quell’elemento di sacralità che aveva perduto. L’arte cioè si sta impossessando di nuovo di questa forma di trasmissione di un messaggio e il messaggio è che l’oggetto artistico è una specie di finestra che ci spalanca la percezione di qualcosa che non conosciamo, di un abisso. È una porta schiusa dal sensibile all’ultrasensibile, ma un ultrasensibile che non viene dichiarato. Quindi non c’è passaggio dal bello sensibile al bello intelligibile; si resta nell’intelligibile, ma, per così dire, con una specie di emorragia del sensibile. Si sa che il sensibile non basta.



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