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L'introduzione di Pasquale Chessa



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La vulgata storiografica

La monumentale opera di Renzo De Felice su Benito Mussolini e sul fascismo (almeno quindicimila pagine) è più nota che letta, più discussa che capita. Anche dagli storici di professione. Periodicamente processata per ragioni politiche, ideologicamente messa sotto accusa, raramente difesa con argomentazioni storiche. Una vulgata storiografica, politicamente aggressiva, culturalmente organizzata, giornalisticamente invasiva, ha cercato, nel corso di quasi trent’anni, di ridurre l’opera di De Felice a un unico punto di vista: la riabilitazione del fascismo. Il dibattito sul passato fascista (che tutto deve all’opera di De Felice, come ammettono anche i suoi critici più avveduti) si è così pian piano spostato dall’ambito storico al terreno politico, cioé dalla sostanza dei fatti alla forma delle opinioni.

L’idea che Mussolini fosse un "rivoluzionario (Mussolini il rivoluzionario si intitola il primo volume della biografia del Duce) e che il fascismo italiano nascesse dal socialismo massimalista non è mai stata confutata da seri studi documentali e archivistici (operazione peraltro storiograficamente inane) ma è stata sempre considerata politicamente scorretta dalla cultura storiografica dominante.
La distinzione fra fascismo-movimento e fascismo-regime, diventata pietra dello scandalo con la famosa Intervista sul fascismo a Michael Ledeen, ha riscosso un clamoroso dissenso ideologico (perchè comportava la distinzione fra fascismo e nazismo) ma nessuno in Italia si è provato a smontarla sul piano della documentazione storica (e i qualche modo anche le obiezioni di Mosse non entrano nel merito del problema: perchè il fascismo fu davvero una rivoluzione del ceto medio).

E anche la cosidetta "teoria del consenso" è sempre stata strumentalmente considerata alla stregua di una posizione filosofica invece che il risultato di un’approfondito lavoro sui documenti che nella biografia di Mussolini si svolge per centinaia di pagine e note.
Alla stessa stregua viene considerata la scelta obbligata di Mussolini di dar vita alla Repubblica di Salò per "patriottismo", costretto da Hitler che minacciava di mettere a ferro e fuoco l’Italia, non viene giudicata sulla base del punto di vista del Duce, valutando cioè la sua condizione umana, ma viene attribuita alla necessità del biografo di giustificare, al di là di ogni documentazione storica, il biografato oggetto dei propri studi. Naturalmente le testimoniane dirette e indirette sulle condizione psicologiche di Mussolini nel momento in cui fu liberato dalla prigione di Campo Imperatore e costretto a raggiungere Hitler malvolentieri, per essere di nuovo spinto in prima linea allo scopo di rispondere con fermezza al tradimento dell’Italia di Badoglio che con l’armistizio c’ercava di vincere la stessa guerra contro l’alleato con cui l’aveva già persa... ebbene queste testimonianze sono abbondanti e univoche.

Il primato della storia

Del primato della storia, sulle ragioni della politica e dell’ideologia, Renzo De Felice aveva fatto un metodo. Solo l’accertamento dei fatti (e la cosa non è ancora ovvia quando si parla di Mussolini e il Ventennio, di fascismo e resistenza, di 8 settembre e 25 aprile) può garantire una verità storica al di sopra delle parti. Le certezze ideali, le scusanti ideologiche e financo le valutazione etiche o le buone intenzioni politiche, hanno poco valore, e in ogni caso vengono solo dopo la ricostruzione di ciò che realmente è accaduto (raccontato così come accadde, non come si vorrebbe che fosse accaduto). Ecco il pernio della controversia defeliciana: la possibilità di riscrivere una storia d’Italia globale che comprenda allo stesso titolo e in un’unica prospettiva storica partigiani e saloini, combattenti e attendisti, guerra mondiale e guerra civile, Salò e Brindisi...

Di questo parlava lo storico Renzo De Felice, consapevole che non tutti facevano lo sforzo di capirlo.
Anzi, per la cultura italiana, il massimo sforzo, è stato quello di travisarlo. Per questo si decise di scrivere il libro intervista Rosso e Nero: per spiegare a chi cercava di capire ma anche a chi non aveva nessuna intenzione di ascoltare.

La retorica del purtuttavia

Rosso e Nero uscì in Italia, casualmente la data fu proprio l’8 settembre del 1995, seguito da un crescendo parossistico. La rassegna stampa occupa due volumi rilegati delle dimensioni di un tomo dell’enciclopedia Treccani. Per 15 giorni occupò stabilmente le prime pagine dei quotidiani. Scalò le classifiche dei bestseller fino al primo posto (battendo Ken Follet nella classifica generale, ma in quella particolare dedicata alla saggistica sopravanzando D’Alema e Veltroni). Fra tanto rumore, praticamente non ci fu un solo articolo a favore. Anche quelli più benevoli si rifugiavano, prima di concludere il loro ragionamento critico, dietro la retorica del "purtuttavia": "Sì, dobbiamo riconoscerlo, i documenti danno ragione a De Felice, purtuttavia..."

Giornalisti famosi come Indro Montanelli (anti-antifascista) e Giorgio Bocca (filo-antifascista) lanciarono dei veri e propri anatemi, dando la stura a un vero e proprio genere giornalistico che si può definire nella frase: adesso vi spiego io perchè De Felice ha torto. Ma se si va a vedere la sostanza di quel fiume mediatico si scopre che in realtà si parlava d’altro: della morte di Mussolini ucciso dagli inglesi, dei carteggi spariti fra Mussolini e Churchill, della riabilitazione del fascismo, dello sdoganamento del Msi, il partito neofacista che nel dopoguerra si riallacciava ai valori della Repubblica Sociale Italiana.

Se invece si scorre anche velocemente l’indice si scopre che il discorso di De Felice toccava i nervi soperti, ancora 50 anni dopo, di un passato che non passa. Si parla della crisi dell’8 settembre giorno dell’armistizio, considerato come termine tragico della storia dell’Italia del Novecento. Si affronta alla radice il problme della guerra civile, cercando di vederlo così come si svolse e non come i vincitori hanno cercato di raccontarlo. Non fu, infatti la Resistenza una guerra di popolo. La guerra civile fu combattuta da due minoranze. Il resto non fu né rosso né nero. Grigio piuttosto. La famosa zona grigia che tanta indignazione ha suscitato fra i puristi della storiografia filopartigiana. Centrale il ruolo dell’antifacismo comunista che di fatto, con i suoi storici, monopolizzò la vulgata resistenziale fondando la sua legittimazione politica nell’Italia del dopoguerra attraverso l’equivalenza fra democrazia e antifascismo.

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I valori della Resistenza, usati come pietra di fondazione di una nuova legittimità nazionale sono stati uno capolavoro politico di Palmiro Togliatti. Ma Togliatti, che la Resistenza non l’aveva fatta ché da Mosca dirigeva il comunismo internazionale, lo si può anche spiegare e capire, in nome del primato della politica, nella logica schmittiana amico-nemico, hostis-inimicus, considerando il contesto storico e politico in cui fu costretto ad agire. Non è un caso se la svolta di Salerno, che portò poi i comunisti al governo Badoglio e poi insieme a Bonomi, Parri e De Gasperi, fino al 1948, sia stata decisa direttamente da Stalin come hanno dimostrato i documenti studiati da Victor Zaslavskij e Elena Aga Rossi. Ciò che invece sorprende è la "lunga durata", o meglio la persistenza ideologica di una storiografia filoresistenziale sopravissuta, al di là del contesto che la legittimava, al solo scopo di proteggere il tessuto etico-politico che intorno ai valori della Resistenza si è voluto costruire. L’antifascismo come paradigma sovrastorico, incarnazione etica della democrazia, antidoto ai vizi ancestrali del paese, quel paese che del fascismo ha fatto l’autobiografia della nazione. Ecco così perchè anche solo l’idea di studiare e dibattere storiograficamente la consistenza di quei valori, diventa "oggettivamente" un attacco alla democrazia.

La guerra civile storiografica

"Per quanto riguarda il metodo De Felice riproduce, sul piano storiografico, quanto il populismo oligarchico di Fini e Berlusconi ha fatto sul piano politico: la svalorizzazione indefferenziata e sistematica, non argomentata razionalmente ma evocata emotivamente, dell’intero cinquantennio precedente , considerato irrimediabilmente minato dalla tabe ideologica". Marco Revelli, Le due destre, per Boringhieri.

"Se negli anni Ottanta si sono create le premesse del cosidetto sdoganamentodel Msi e dell’ambigua svolta di Fiuggi, questo è dipeso non in piccola parte dal lavoro compiuto dalla corrente revisionista italiana e tedesca e dai suoi volgarizzatori a livello di giornali e di tv" Nicola Tranfaglia, Un passato scomodo, per Laterza.
Il libro di Revelli e il libro di Tranfaglia (che lo confessa esplicitamentenella sua prefazione) sono stati scritti contro il successo di Rosso e Nero. Ma non perchè i due storici avessero qualcosa da aggiungere. Oppure per smontare la costruzione storiografica dell’intera opera di De Felice sulla base di nuovi documenti, nuove idee, nuove scoperte. Nient’affatto. È l’operazione politica costruita da De Felice, in questo caso il successo di Rosso e Nero, che vogliono combattere. De Felice è oggettivamente schierato col nemico, con esso si identifica fino al punto che per combattere la destra (tesi finale di Revelli) bisogna sconfiggere lo storico con la storia che racconta. C’è un retrogusto di marxismo volgare piuttosto che di determinismo dialettico in quell’oggettivamente che rimanda a una teoria della colpa del processo staliniano, mai teorizzata e sempre praticata.

Sconfiggere il "politico" De Felice, così appare molto facile. Il colpevole può essere subito scoperto. Tutto funziona alla perfezione, come un meccanismo a orologeria, come in un racconto poliziesco di Edgar Allan Poe. Solo che, come nella Lettera rubata, anche stavolta la verità non è nascosta, ma è davvero sotto gli occhi di tutti: il "politico" De Felice, in realtà, semplicemente non esiste. Perchè per De Felice ogni discorso storico deve esssere separato dal discorso politico, precedere ogni giudizio etico, morale o religioso... Rosso e Nero, perciò, non è un libro politico, anche se parla di politica. Non è un libro di attualità, anche se dice sul presente molto di più di quanto non dica la cronaca di oggi.... Il risultato dell’operazione appare allora in tutta la sua mostruosità. Nel senso del monstrum mitologico. Siccome nessuno può negare la qualità documentale della ricerca di De Felice (per il semplice fatto che chiunque voglia occuparsi di fascismo deve far riferimento alle ricerche del biografo di Mussolini , compresi tutti quelli che poi distorcono gli stessi documenti per dargli torto...), ecco che i De Felice diventano due: uno l’archivista "buono", tutto piegato sui suoi documenti, l’altro l’ideologo "cattivo", tutto dedito a diffamare l’antifascismo e perciò stesso nemico della democrazia.

De Felice è cattivo davvero

E invece no! C’è stato un solo De Felice. E sicuramente, era più "cattivo" che "buono". Sì, proprio cattivo! Nel senso che nulla concedeva alla diplomazia culturale. E pur di difendere le sue verità, fatte di documenti storici non di opinioni, era disposto a mettere in gioco la sua immagine pubblica. La procedura di delegittimazione, mi spiegava De Felice (riassumo a memoria) consisteva nell’attribuzione di un assioma semplice quanto semplificatorio (quindi falso), riducendo la complessità del suo discorso a una posizione manichea facile da smontare e smentire. Il tutto condito da sdegno etico e morale. Come in un sillogismo: De Felice studia Mussolini. Quindi De Felice condivide Mussolini. Mussolini è un fascista. Ergo De Felice è un fascista. (Breve inciso: anche D’Alema a suo modo è fascista. Nel libro di Revelli infatti le due destre sono una di D’Alema e l’altra di De Felice).

Al di là del gioco ironico c’è un esempio che calza a pennello. Nel saggio di Michele Sarfatti "Gli ebrei negli anni del fascismo" negli Annali della Storia d’Italia dell’Einaudi, si attribuisce a De Felice la mancata valutazione di un documento sull’istituzione dei campi di sterminio in Italia a cavallo del 25 luglio. Addirittura si fa intendere che De Felice abbia sottovalutato il faldone in questione. Allo scopo di negare le intenzioni di una presunta svolta in senso nazista della politica italiana della razza. Quindi De Felice ha torto: voleva nascondere un tratto di identità fra il nazismo e il fascismo. Naturalmente, per chi lo voglia, è facile scoprire che proprio quei documenti furono scoperti e citati da De Felice nel suo libro sulla Storia degli ebrei durante il fascismo del 1963. Ergo: l’obbiettivo non era storiografico (la verità storica sui documenti che prevedevano l’istituzione di campi di concentramento anche in Italia) ma ideologico (dimostrare che la distinzione fra nazismo e fascismo, era non solo infondata ma costruita per sorreggere un teorema politico: la difesa del Fascismo contro l’Antifascismo). Si sceglie cioè una tesi estrema: De Felice ha nascosto l’esistenza di campi di concentramento in Italia. Ergo De Felice è un negazionista come Faurisson!

Recentemente, proprio qualche giorno fa, il modello antidefeliciano si è arricchito di un’altra variante: l’appropriazione a posteriori. In un recentissimo articolo su Repubblica "La storia non è un farmaco" dell’11 dicembre del 1999, Giovanni De Luna, protagonista di primo piano della vulgata antidefeliciana, introducendo un convegno dedicato a Leo Valiani e al Partito d’Azione, quel partito che in Italia fu pernio della resistenza ma sparì nel dopoguerra, sopravanzato dai partiti di massa Dc e Pci-Psi: "Tanto per fare un esempio, il "consenso" al fascismo è stato sempre rivendicato come una propria scoperta dalla scuola defeliciana. Ma molti anni prima di De Felice, su quel consenso si era soffermata a lungo l’interpretazione azionista già implicita nella gobettiana "autobiografia di una nazione"... Ma il consenso non è sufficiente per giustificare un regime dittatoriale; e là dove in De Felice l’analisi assumeva i tratti di un marcato compiacimento, negli azionisti subentravano la pena e il disagio...".

Allonsanfan

Il professor Pierre Milza ha spiegato molto bene come stanno le cose nella sua esaustiva biografia di Mussolini (pag 551) che in italiano uscirà da Carocci.
Breve inciso: nel gennaio del 1995, quando Gianfranco Fini, saggio amministratore politico del neofascismo italiano in senso democratico, nella stazione termale di Fiuggi dettò le tesi della nuova destra, con l’idea di chiudere e superare l’esperienza neofascista, passando dal Msi ad Alleanza Nazionale, storicizzando la discendenza dal fascismo di Salò, sulla Repubblica Revelli e De Luna dichiararono che quelle tesi erano state scritte da Renzo De Felice. Naturalmente non era vero! Ma quando furono costretti a scrivere una lettere di rettifica contestualmente alla confessione della falsa informazione ribadirono che vero o non vero "oggettivamente" il pensiero di De Felice stava dietro quelle tesi).

Scrive il professor Milza, a proposito del consenso: "Renzo De Felice ha provocato un piccolo terremoto nell’Italia degli anni Settanta quando, facendo il contropelo a una storiografia dominante fortemente marcata dalla cultura dell’antifascismo, per primo affermò che dopo gli accordi con la Santa Sede ci fu, per cinque o sei anni un consenso intorno al regime e al suo capo".
De Felice, dice in pratica Milza, non pretendeva che l’adesione al fascismo fosse stata unanime, né che avesse preso la forma di una comunione fanatica fra il popolo italiano e il duce. Spiegava solamente che, tutto sommato, gli abitanti della penisola si erano accomodati con la dittatura mussoliniana, senza bisogno di giustificare il consenso con l’efficacia dell’apparato poliziesco e repressivo messo in campo dal Duce.

C’è un’immagine illuminante per capire quanto le idee di De Felice siano condivise al di sopra di ogni sospetto il ambito non strettamente storiografico: in un libro del 1996, Questo Novecento di Vittorio Foa, novant’anni da compiere, uno che c’era allora, antifascista non dogmatico, non uno storico ma un politico intellettualmente impegnato, un socialista, padre della patria per la sinistra progressista socialista, che parlando del suo apprendistato clandestino durante la dittatura, ricorda: "Al tempo del mio arresto nel 1935, durante la preparazione della guerra etiopica, il consenso popolare al fascismo mi sembrava di poterlo tagliare col coltello".

Da Amendola a Bobbio

Ma in questa pagina di Milza c’è un’altra preziosa citazione che mette a posto molte cose: Giorgio Amendola. Fu proprio lui, l’esule in Francia, il protagonista dell’antifascismo e della Resistenza, il capo storico del comunismo nazionale (si potrebbe dire anche indigeno, nel senso che non veniva da Mosca come Togliatti), a togliere l’anatema dall’opera di De Felice. Fu lui, in occasione, delle celebrazioni per il trentennale del 25 anni fa,
Cito: "Riferendosi all’enfasi politica delle celebrazioni del trentesimo anniversario della Resistenza, Giorgio Amendola aveva sentito il bisogno di mettere le mani avanti polemizzando con alcune affermazioni che avevano caratterizzato quelle celebrazioni e che gli apparivano storicamente insostenibili, politicamente più di danno che di giovamento per l’affermarsi dell’egemonia della sinistra in genere e del Pci in particolare".

Questo è un brano dell’ultimo intervento di Renzo De Felice. Si tratta di una risposta a Norberto Bobbio, il filosofo azionista, emblema della sinistra liberal democratica italiana, non troppo amato dagli storici di sinistra, testa di turco per la destra vecchia e nuova (per esempio oggetto di quotidiana irrisione da parte del Foglio di Giuliano Ferrara), che aveva recensito, sulla prima pagina della Stampa di Torino, con molti dubbi e tante argomentazioni le tesi principali di Rosso e Nero. Uno dei pochi interventi critici scritti sine ira ac studio.
Bobbio, con De Felice qualche mese prima aveva partecipato a un confronto giornalistico, pubblicato su Panorama e sull’Unità, il giornale fondato da Antonio Gramsci, nella versione breve e nella versione lunga sulla rivista critica della sinistra Reset, in occasione del cinquantesimo anniversario della Resistenza italiana. Insomma Bobbio figurava come una specie di antidefeliciano per elezione. Fu un dibattito serrato. Conflittuale di fatto. Al nocciolo, per Bobbio, c’era l’idea che non bisognava disperdere i valori della Resistenza, che in ultima analisi il comunismo era diverso dal fascismo e dal nazismo, che i comunisti in Italia si trovarono fra i vincitori, il 25 aprile, schierati dalla parte della democrazia, che la data tragica per l’Italia non fu l’8 settembre 1943, giorno dell’armistizio, quando stato, governo, esercito, popolo si disfecero, ma il 10 giugno 1940, giorno in cui Mussolini costrinse l’Italia alla guerra...

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Tutto giusto, dal suo punto di vista. Solo che adesso rivivo quell’intervista come un arrocco impenetrabile messo in atto da un campione di scacchi imbattibile. Perchè sul Foglio, di qualche mese fas, intervistato da Pietrangelo Buttafuoco, uno dei pochi giornalisti italiani di destra bravi che provenga direttamente dalla destra, ha accettato di incontrare Bobbio che aveva deciso di confidarsi. "Mi vergognavo", gli ha confessato il filosofo torinese. "È stata una catastrofe tale la fine del fascismo che alla fine noi abbiamo dimenticato, anzi abbiamo rimosso. L’abbiamo rimosso perchè ce ne vergognavamo".

Merito al Foglio. E merito a Bobbio. E un po’ anche merito a De Felice. Senza la sua opera tutto ciò sarebbe impensabile. E merito anche ad Amendola. Rispondeva infatti Amendola a Piero Melograni nell’Intervista sull’antifascismo pubblicata da Laterza nel 1976: "Si vede il fascismo come un fenomeno che si ripete, come ci fosse una categoria universale del fascismo. Io respingo questa astrazione". Quest’affermazione ha dietro di sé un percorso di revisione storica che Amendola descrive così: "O si accetta un’impostazione che noi abbiamo superata, del fascismo come tappa obbligata dell’imperialismo prima della rivoluzione proletaria; oppure si accetta l’altra impostazione, dalla quale risulta il carattere specifico di ogni fascismo, quella che Togliatti chiamava "la via nazionale del fascismo", e in base alla quale il fascismo è visto di volta in volta come espressione di un determinato processo storico". Tertium non datur.

Ma Amendola già allora andava al di là del conservatorismo della vulgata di oggi: "Innanzitutto per reagire all’atmosfera celebrativa con cui si sono svolte le cerimonie del trentesimo anniversario della Resistenza, tendenti praticamente a presentare alle nuove generazioni la Resistenza come un fatto di unanimità nazionale, che non è; o di grande maggioranza, che non è. Nel senso che è un fatto di minoranza. Minoranza: certo, non le piccole sparute minoranze clandestine, ma pur sempre ancora minoranza".

Rosso, nero e grigio

Si tratta della tesi centrale di Rosso e Nero. Quella che più ha suscitato risentimenti ideologici e riprovazioni etiche, sdegni moralistici e anatemi politici. De Felice, analizzando una serie di rapporti inediti dell’esercito di Salò e le fonti dell’esercito tedesco, calcolò che, considerando parenti e amici, conoscenti e vicini, ebbero a che fare con la guerra civile al massimo 4milioni di persone, su 44milioni di italiani. Considerando che la vera guerra la fecero gli inglesi con gli americani contro i tedeschi, è difficile immaginare un grande sommovimento popolare a favore dei partigiani. Anche se intorno al 25 aprile e anche dopo il numero di partigiani aumentò dismisura, quasi a dar ragione a quell’aforisma popolare citato da Leo Longanesi ed Ennio Flaiano che contempla l’abitudine del popolo italiano di correre in soccorso ai vincitori.

"Per sua natura lo storico non può che essere revisionista. Il suo lavoro, infatti comincia dove finisce il lavoro di chi l’ha preceduto nella ricerca dei documenti, nella formulazione di nuove ipotesi, nella correzione di vecchi errori. Una ricostruzione storica che voglia avvicinarsi alla verità deve scegliere un punto di vista globale, ricostruire gli eventi con gli occhi di allora, per cercare di raccontare i fatti così come si presume siano accaduti. Solo una volta accertati i fatti si possono formare giudizi morali, opinioni politiche, valutazioni etiche". Ha scritto De Felice nella prefazione a Rosso e Nero. Rispondeva Bobbio sulla Stampa: "Il revisionista in senso buono è colui che, per amore della verità, accerta fatti nuovi per far progredire la ricerca storica; il revisionista in senso cattivo è colui che nega, per spirito di parte, fatti accertati".

Si chiedeva allora De Felice: "chi decide e sceglie fra ciò che è buono e ciò che è invece cattivo? Questa distinzione in realtà può essere giustificata solo attraverso un giudizio morale o una valutazione politica. Per la ricerca storica, invece, basata sulla conoscenza senza aggettivi, oggettiva nel metodo, la differenza fra buono e cattivo non può sussistere. Semmai, se proprio lo si vuole, "buono" è ciò che aggiunge conoscenza dei fatti e delle dinamiche che li hanno determinati, "cattivo" è tutto ciò che impedisce lo svilupparsi oggettivo della ricerca o peggio che nasconde e travisa i fatti sostituendoli con interpretazioni. Ma io rifuggo da ogni contrapposizione manichea".

Secondo De Felice i fatti parlano da soli, per lo storico che voglia studiarli senza nessun pregiudizio. I documenti, quindi, devono essere interpretati per ciò che dicono, esaminati considerando il punto di vista dei protagonisti nell’ordine temporale in cui sono nati. Il processo storico è per De Felice un’acquisizione continua.

La critica di Furet

François Furet, che di De Felice era un grande estimatore, non condivideva il grado zero dell’interpretazione nell’analisi storica del biografo di Mussolini. Così in un’intervista a Marina Valensise in morte di De Felice: "Il fascismo, dopo essere stato sconfitto, è stato oggetto di una condanna morale talmente forte che era estremamente difficile considerarlo da un punto di vista storico. Non voglio dire con questo che la condanna non fosse giustificata: lo era. Ma non al punto da arrivare alla censura di chi volesse guardare la questione con gli occhi dello storico. Renzo De Felice è stato uno dei rari studiosi che hanno avuto subito il coraggio, anzi, l’audacia intellettuale di esercitare le regole del mestiere di storico su un tema circondato da una forte passione collettiva. (...) Sì, De Felice diffidava delle teorie astratte, in cui sospettava una filosofia della storia, aperta o nascosta. Dopo il periodo marxista (che del resto non è una cattiva introduzione alla storiografia), era ritornato a un’epistemologia positivistica, fondata sulla scienza della costituzione dei fatti, la sola capace di rivelare la verità. In tal modo, aveva acquisito sul proprio tema di studio il controllo di un volume di conoscenze straordinario, a cui nessun altro storico è mai andato vicino. Ha dedicato poi un’attenzione scrupolosisissima al trattamento di questi dati, nell’intento di ricostruire la successione cronologica degli eventi, anziché proporne un’interpretazione causale. In fin dei conti, però, è la sua opera a far capire meglio che cosa è stato, nella realtà storica, il fascismo mussoliniano. L’ironia del successo di De Felice è che la sua modestia metodologica è stata il fondamento di una delle più grandi opere storiografiche sul XX secolo".

La nazione, le masse e la "nuova politica è il titolo del libro che sarà pubblicato in italiano con una prefazione di Giuseppe Galasso. George L. Mossse in un capitolo, pubblicato in anteprima dalla rivista italiana Nuova Storia contemporanea, diretta da Francesco Perfetti, uno dei suoi più stretti collaboratori, così parla di Renzo De Felice."Prima di tutto, De Felice liberò la visione del fascismo dal mito dell’antifascismo, rendendo possibile guardare al fascismo attraverso la comprensione del modo in cui i fascisti guardavano a loro stessi, vale a dire riuscì ad avere una visione di fondo del fascismo stesso... Come si può comprendere debitamente il pensiero di un particolare periodo storico, se prima non si cerca di entrare nella mentalità di quelli che l’hanno vissuto?"

Una penetrazione nel profondo della mentalità del fascismo in generale e in particolare della mentalità dei fascisti. Il fascismo fu una rivoluzione culturale. Il suo pernio era il nazionalismo. Il suo cemento l’ontologia del nemico. La sua forza totalizzante l’annullamento della distinzione liberale fra vita pubblica e vita privata. Per capire la sua storia bisogna saper comprendere e interpretare la concezione del mondo che fu alla base del suo successo.
L’esperienza fascista lascia nella storia dei paesi che l’hanno vissuta un desiderio di profonda rimozione, un torpore storico e culturale, come succede a una mente sconvolta da un insopportabile shock. Mosse ne deduce una regola storiografica tanto empirica (e un po’ approssimativa) quanto suggestiva: solo gli stranieri riescono a occuparsi della storia dei paesi che hanno vissuto nel consenso la dittatura fascista e la barbarie nazista: "Chi scrisse sulla Francia di Vichy? Non i francesi ma gli americani. Chi scrisse la prima biografia postbellica di Hitler? Un inglese di nome Bullock, che fu molto coraggioso nel rompere questo silenzio imbarazzante sul passato...". Il nazionalsocialismo tedesco, nonostante il progresso e l’abbondanza di studi e ricerche, non ha ancora la fortuna di aver trovato il suo De Felice. Ne consegue, e non credo sia un’interpretazione azzardata, che il caso De Felice cominci proprio da qui.

Ma De Felice era un fascista?

"La Resistenza è stata un grande evento storico. Nessun "revisionismo" riuscirà mai a negarlo". "La costituzione della Repubblca sociale italiana é all’origine dela guerra civile che ha insanguinato il nord "occupato" e ha condizionato la successiva storia d’Italia... Credo che la Rsi abbia raggiunto una parte degli obbiettivi che si era prefisso Mussolini. Ma nel conto dei costi e benefici, il prezzo pagato è stato troppo salato".
Sono tratte da Rosso e Nero queste citazioni dal sapore antirevisionista. Perchè revisionista, nel senso in cui lo è Ernst Nolte, e i qualche modo, François Furet, (perchè anche il Passato di un’illusione è un libro che ordina i fatti secondo un’interpretazione che collega fra loro idee casue e de effetti) o anche Hillberg, De Felice non lo è mai stato. Tanto meno negazionista (e per tutti si cita Faurisson). Se si pensa al suo lavoro in profondità sulla Storia degli ebrei durante il fascismo il primo studio in Europa, di così grande rilevanza storiografica non si può nemmeno pensare a un "giustificazionismo" truccato da "relativismo"...
La taccia di revisionismo, facendo leva sull’accezione negativa che ne ha dato il marxismo contro Bernstein, Stalin contro Tito, Mao contro Krusciov, serve ad applicare infatti quel paradigma politico che molto corso ha avuto nella politica italiana, per cui criticare la Resistenza equivarrebbe ipso facto a fare il gioco dei fascisti.

Nella risposta a Bobbio, vedi supra, De Felice chiude così la questione: "Ma allora, discutere la vicenda resistenziale non può intendersi come il sintomo del desiderio inconfessato di "sbarazzarsi dell’antifascismo". Studiare gli effetti dell’8 settembre sull’intera popolazione italiana non significa dimenticare gli effetti catastrofici (per il regime, ma anche per il paese) dell’entrata in guerra di Mussolini e dell’Italia il 10 giugno del 1940. Documentare da vicino, per la prima volta con un intento puramente storiografico, il funzionamento di Salò non può essere interpretato come un passo verso l’equiparazione fra Resistenza e Repubblica sociale. Distinguere fra gli assassini come Koch, i militari come Borghese, gli uomini come Gentile non può essere interpretato come mero giustificazionismo. Analizzare la natura dell’attendismo popolare, interpretare l’atteggiamento morale della cosidetta "zona grigia" (né rossa né nera) non vuol dire automaticamente negare la funzione storica di chi ha combattuto dalla parte della democrazia. Il fatto è che il dibattito sull’antifascismo non muove oggi da quello sul fascismo ma dalla riconsiderazione (memoria) dello sviluppo storico dell’Italia. Ridurre tutto alla contrapposizione fra Resistenza e Salò, fra fascismo e antifascismo non corrisponde alla realtà dei fatti così come la ricerca storica va lentamente ma inesorabilmente documentando".

De Felice non aveva la pretesa di fondare una scuola. Non pensava di avere un metodo da imporre. E non pretendeva di imporre nemmeno i risultati delle sue ricerche. Uno dei suoi allievi più prestigiosi, per esempio, Emilio Gentile, seguiva e segue nello studio del Novecento italiano, strade percorsi diveris. Perchè De Felice era anche capìace di cambiare idea, come proprio Gentile scrive nella rivista Journal Contemporary History in morte del suo professore: "Per esempio ha cambiato il suo punto di vista sul problema del totalitarismo fascista. Il lavoro di De Felice è stato sottoposto a un cambiamento sostanziale ache se lui inizialmente ha sempre negato che il fascismo era in qualsiasi modo un regime totalitaro, d’accordo con Hanna Harendt , è venuto ad accettare una forma di totalitarismo nel fascismo. Però in molti aspetti la sua analisi del totalitarismo è rimasta rudimentale: non era sempre chiara e definita coerentemente".

Non è senza ironia che De Felice in privato il suo primo critico fu il suo maestro Delio Cantimori e l’ultimo il suo allievo Emilio Gentile.
Rosario Romeo (il grande storico del Risorgimento italiano, autore di una definitiva biografia di Camillo Benso conte di Cavour) riteneva che "un paese idealmente separato dal proprio passato, è un paese in crisi di identità". Questa ricostruzione storica, capace di saldare la faglia epocale, non c’è ancora stata. Quando c’è stata è stata sommersa dalla diatriba ideologica, che ha portato con sè la diffusione di una mitologia politica in cui nessuno più crede, che mette in dubbio ogni ricostruzione storica e persino la storia in quanto tale.

Ecco lo scopo più profondo a cui deve cercare di arrivare una rilettura globale di Renzo De Felice: riaprire i conti della cultura storica di questo paese, non solo pensando di sciogliere i grovigli del presente con una nuova interpretazione del passato, ma con l’idea di saldare la faglia epocale che ci separa da un passato.

 

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