Diamo rilievo alle diversità
Anne Phillips con Clementina Casula
Anne Phillips è Professore e Direttore al Gender Institute della London School of
Economics. Si è occupata soprattutto del legame tra democrazia e cittadinanza e
rappresentanza politica. Trai suoi libri Engendering Democracy (1991), Democracy and
Difference (1993), Which Equalities Matter? (1999). Al momento lavora su eguaglianza
sessuale e multiculturalismo.
Durante il XXmo secolo le donne hanno finalmente ottenuto il diritto di voto.
Quale ruolo hanno giocato i principi liberal-democratici nel raggiungimento di questo
traguardo?
L'eredità del liberalismo democratico è stata fondamentale per lo sviluppo di una teoria
e politica femminista. Ma si è sempre trattato di una relazione difficile, visto e
considerato che il femminismo è nato in seno al liberalismo, ma è nato critico. I
principi del liberalismo democratico, uguali diritti e uguaglianza politica, davanti alla
denuncia che le donne erano state escluse per così tanto tempo dalla loro
interpretazione, sono stati chiaramente un punto di forza notevole per le donne nella loro
campagna per l'inserimento sociale nel sistema democratico. Tuttavia - e questo è stato
al centro del primo pensiero femminista- ancora molto dopo aver ottenuto i diritti formali
in molte democrazie, le donne continuavano a sentirsi cittadini di seconda classe. Il
riconoscimento dell'uguaglianza formale non sembrava cambiare la condizione femminile né
nell'arena politica, né nella loro vita. Perciò le teorie femministe per lungo tempo
(fino alla fine degli anni '70) hanno agito seguendo l'idea che le donne dovevano
rivendicare certo i loro diritti politici ma che era chiaro che per arrivare a farsene
qualcosa sarebbe stato necessario associarvi tutta una serie di cambiamenti
socio-economici.
Quale ritiene sia stata la contestazione più radicale del pensiero femminista all'autorità
teorica del liberalismo democratico?
Inizialmente la critica femminista è stata abbastanza standard, molto simile a quella
socialista, ovvero una critica dei diritti formali, vuoti, del liberalismo democratico.
Successivamente si è evoluta in una critica più sostanziale che ha messo in discussione
il modo stesso in cui questi diritti sono stati concepiti. Questo sviluppo teorico, emerso
negli anni '70 e '80, segnò il punto in cui le femministe cominciarono a rendersi conto
che il problema non stava solo in condizioni socio-economiche non corrispondenti ai
diritti politici formali, ma che vi era piuttosto qualcosa nel modo in cui questa
eguaglianza e diritti politici erano stati concepiti che le escludeva per definizione. Si
è trattato di un periodo entusiasmante ed innovativo per lo sviluppo della teoria
femminista, che ha evidenziato come la stessa idea di Stato o la concezione di
cittadinanza fossero costruite su un modello maschile, o perlomeno - secondo una versione
più soft della tesi- che siamo stati incoraggiati a pensare alla cittadinanza in termini
astratti e asessuati, e questo processo di astrazione ha poi reso impossibile per le donne
cercare di operare come cittadini nel senso pieno. Da queste premesse teoriche è nato un
fertile dibattito all'interno del pensiero femminista sul ripensamento della relazione tra
eguaglianza e differenza che credo rappresenti uno dei contributi più innovativi del
femminismo nella teoria politica.
Eppure questa critica 'sostanziale' del femminismo arriva in un momento in cui non
sembra esserci modello alternativo a quello della democrazia liberale.
È vero, vi è oggigiorno una sorta di paradosso all'interno del femminismo, nel senso che
il momento in cui si sta accettando il fatto che la democrazia liberale è l'unica forma
di democrazia che ci è offerta coincide con quello in cui si sta mettendo sempre più in
discussione i modi in cui la democrazia liberale concepisce l'inserimento delle donne.
Questa contraddizione prima era meno evidente, perché negli anni '70 e '80 si faceva
distinzione tra liberalismo economico e liberalismo politico, nel senso che il liberalismo
come credo politico era associato con il rispetto per la diversità, per i diritti delle
minoranze, per l'eguaglianza politica, e non era necessariamente legato ad una cruda
ideologia di liberismo economico. Ma in alcuni casi si è portata questa divisione alle
estreme conseguenze, fino ad arrivare a concepire la politica come quasi totalmente
indipendente dall'economia. Credo che il femminismo sia nel complesso meno colpevole
rispetto ad altre tradizioni di radicalismo, ma ritengo che quella della riconsiderazione
delle diseguaglianze economiche sia la maggiore sfida per il futuro, da indirizzare sia
all'interno dei paesi industrializzati, che nei termini più generali di ridistribuzione
delle risorse dai paesi più ricchi a quelli più poveri.
Come mai, a suo avviso, anche partiti con solide tradizioni socialiste sembrano
aver ormai accettato questa inevitabilità del liberismo economico?
Questo è in generale un momento di grande sfiducia sulle possibilità di azione della
gente all'interno dell'attuale economia globale, la quale pare imporre negli stati di
tutto il mondo un set molto simile di rigide regole economiche. Queste rendono molto
difficile per gli stati mantenere una struttura o nozione socialdemocratica piuttosto che
liberaldemocratica (di socialismo non parlo neanche). Ma la storia è fatta anche dagli
individui e non solo dalle forze economiche, perciò credo che uno dei maggiori obiettivi
ora sia quello di riacquistare fiducia sul fatto che quelle che decidiamo come nostre
priorità ed obiettivi possono e avranno un impatto sulla evoluzione futura di questioni
come eguaglianza e democrazia .
Quale via d'uscita può trovare il femminismo al paradosso nel quale è caduto?
Credo abbia già cercato di farlo derivando dalla propria critica teorica al liberalismo
una sorta di programma realistico per cambiare le pratiche della democrazia liberale. Un
esempio emblematico di quello che voglio dire è dato dal dibattito sulla rappresentanza
politica femminile, che io ritengo sia provocatorio verso molti dei presupposti liberali.
Infatti affermare che il sesso dei rappresentanti importa, che importa se sono uomini o
donne, è in totale contrasto con la tradizionale visione del pensiero liberale, per la
quale la politica è fatta di idee in concorrenza, e poco importano le caratteristiche
individuali delle persone che le portano avanti. È vero che questo dibattito viene
portato avanti all'interno della piattaforma della democrazia liberale, e per questo credo
possa sembrare una semplice politica riformista all'interno della struttura politica.
Quello che le critiche femministe più 'sofisticate' del liberalismo non vedono è che l'idea
della rappresentanza politica femminile è qualcosa di più che riconoscere uguali
opportunità per uomini e donne, ma è piuttosto il bisogno di riconoscere le identità di
gruppo all'interno della struttura politica.
Come è stato tradotto in termini pratici questo dibattito in Gran Bretagna?
La rappresentanza delle donne nel parlamento è stata ottenuta attraverso una politica
delle quote. Pare che Tony Blair stia considerando di introdurre dopo le prossime elezioni
una legge che renda legale questo sistema (all-woman shorlists, ossia liste elettorali
solo femminili, ndr) utilizzato per aumentare la proporzione di donne nel parlamento
inglese, che è stato dichiarato illegale da un tribunale del lavoro. Un gran numero di
donne, ben 120, è stato eletto con questo meccanismo alle elezioni del '97. Per le
prossime elezioni sono previste solo raccomandazioni che incoraggiano l'elezione di donne,
e la mia previsione è che il numero di donne elette diminuirà notevolmente.
Eppure i sostenitori del sistema di quote lo difendono proprio in quanto misura
temporanea.
Non vedo come possa essere temporanea, nel senso che ogni qualvolta una democrazia
retrocede nella parità politica tra donne e uomini significa che qualcosa nel sistema
funziona in una tale maniera da emarginare regolarmente le donne: come si può allora
definire il problema temporaneo? Però, pragmaticamente parlando, credo che per trovare
appoggio convenga presentare l'argomento a favore delle quote come una misura temporanea,
mettendo in evidenza l'incredibile sotto-rappresentazione delle donne in politica, segno
che un'adeguata rappresentanza non può essere ottenuta senza un'operazione politica che
la sostenga.
Argomenti a favore di un sistema di quote per le donne basati sull'apporto
esclusivo che può venire alla politica dal loro modo sostanzialmente differente
(emozionale, particolaristico, ecc.) di affrontare i problemi, facilitano o ritardano il
loro ottenimento?
Non condivido la posizione femminista che crede che le donne abbiano della società un
punto di vista più vero o autentico, o che la cultura che hanno generato sia più
cooperativa, comprensiva, eccetera: trovo questa posizione estremamente problematica. Anch'io
credo che le donne in politica facciano veramente una differenza, perché uomini e donne
sono stati costruiti diversamente e le decisioni prese da un gruppo composto da uomini e
donne saranno diverse da quelle prese da un gruppo composto da soli uomini. Ma ritengo che
sia scorretto giustificare la loro rivendicazione dell'uguaglianza sulla base di una sorta
di superiorità morale: anche se fossimo moralmente inferiori avremmo pur sempre diritto
all'eguaglianza! Ammetto anche che c'è una differenza tra i modi in cui uomini donne
agiscono, i tipi di priorità che essi hanno, i modi in cui si mettono in relazione le une
con gli altri, sarebbe straordinario se non fossimo diversi: ma bisogna dare rilevanza a
queste diversità in quanto riflesso del fatto che siamo creature sociali e viviamo in
società dove agli uomini e alle donne sono tuttora riservate posizioni ben diverse. Per
questo bisogna stare attenti a non ricadere nelle distorsioni e nel sentimentalismo insito
in certe posizioni delle correnti sulla cultura femminile, che screditano il femminismo,
rendendolo un facile bersaglio per gli avversari.
Ma raccomandare di votare una donna solo per il fatto che è donna, non rischia di
distogliere l'attenzione da quelle che veramente possono essere i suoi programmi e
posizioni politiche?
Certo una democrazia nella quale votiamo un rappresentante solo perché è uomo o solo
perché è una donna sarebbe molto preoccupante, vorrebbe dire svuotare la politica del
dinamismo e vitalità di idee che le sono proprie. Ma altrettanto preoccupante mi sembra
una democrazia nella quale il processo decisionale è interamente dominato da uomini. Le
coordinate all'interno delle quali ora dobbiamo essere rappresentati sono molte, e
includono in maniera cruciale quella di quanto sia una diversa esperienza essere donna. Il
discorso è molto vicino a quello su come garantire uguale rappresentanza alle minoranze
etniche, le cui priorità vengono spesso escluse dal dibattito politico. Avere anche
questa forma di rappresentazione, oltre a quella più tradizionale data dal partito
politico, non è una critica della rappresentatività, della quale non si può fare a meno
nelle democrazie moderne, ma della visione che la riduce alla sola condivisione degli
ideali politici. Prima forse era più semplice potere raggruppare tutte le posizioni nelle
categorie di destra e sinistra. Ma se pensiamo a campagne come quella sull'aborto, dove si
è visto che l'appoggio alle donne è venuto da aree diverse, ci rendiamo conto che siamo
in un periodo dove vi è una molteplicità di preoccupazioni e dobbiamo pensare in modo
più creativo ad assicurare che esse vengano rappresentate adeguatamente. Insomma, certo
non propongo di sostituire la dicotomia destra/sinistra con quella uomini/donne; voglio
piuttosto sottolineare il crescente bisogno di dare riconoscimento alla differenza.
Le donne che militano in associazioni per i diritti della donna spesso
sottolineano come le femministe o le donne in politica appartengano comunque ad un
ristretta élite privilegiata, che spesso non ha neanche idea di quelle che veramente sono
le condizioni e le problematiche delle donne meno abbienti. Come risponde a queste
critiche?
Alcune delle porte che sbarravano la strada alle donne sono state aperte nei termini di
accesso all'istruzione superiore, agli impieghi professionali, e per un gruppo altamente
selezionato di donne ai parlamenti e alle legislature. Si è rivelato più semplice fare
questo che occuparsi della povertà, del superlavoro e della diseguaglianza che continuano
ad essere una realtà per una grande percentuale di donne. Questa constatazione porta
giustamente a mettere in discussione se le campagne femministe che hanno dominato l'arena
politica siano state mal indirizzate, oppure se abbiano fallito nel procurare adeguati
meccanismi per migliorare le condizioni che altre donne affrontano. Ma credo che le
critiche che ne derivano siano parzialmente ingiuste, nel senso che le possibilità di
cambiare le condizioni socioeconomiche in relazione alle donne senza che si abbia una voce
all'interno della arena politica, o senza sfidare la struttura sociale, mi sembrano zero.
Detto questo, riconosco che vi è il rischio che si abbia un certo successo in superficie,
nel livello alto, senza filtrare nelle radici, senza avere un impatto significativo negli
altri livelli della società. Ma credo questa sia una preoccupazione condivisa da molte
delle donne che oggi si occupano di tematiche femministe.
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