Questo saggio appare sul numero 1 della Nuova Serie della rivista
Filosofia e Questioni Pubbliche. Per ulteriori informazioni potete
contattare Luiss Edizioni all'indirizzo e-mail edizioni@luiss.it
Come a suo tempo la polemica tra comunitarismo e liberalismo agli
inizi degli anni Ottanta, anche quella tra liberalismo e repubblicanesimo
nel corso del decennio successivo si presenta con contorni non del
tutto chiari. Qualcuno parla di paradigmi concorrenti, altri di
«discussioni in famiglia». Per alcuni si tratta dellaccentuazione
di elementi diversi (i diritti nel caso del liberalismo, la partecipazione
e la virtù civica nel caso del repubblicanesimo) allinterno
di una medesima concezione della filosofia politica, per altri ci
troviamo in presenza di elementi di discontinuità che fanno premio
rispetto a quanto è condiviso. Scopo di questo saggio è cercare
di chiarire quale sia il piano su cui una eventuale differenza vada
cercata e le reali proporzioni di questa differenza, posto che va
da sé che una pur minima differenza deve sussistere se esiste un
contenzioso del genere. Non mi sottrarrò però allimperativo
di prendere posizione, ma anzi anticipo fin da questo momento che
a mio avviso gli elementi di differenza sembrano a me del tutto
insufficienti per parlare di «paradigmi concorrenti».
Discorsi storici, discorsi teorici
Cominciamo con il delineare il piano del discorso che andiamo conducendo.
Esistono almeno due diversi modi, ciascuno perfettamente legittimo,
di rispondere alla domanda intorno ai rapporti tra liberalismo e
repubblicanesimo. Il primo è un modo che trova la sua collocazione
allinterno di un discorso storico. Posto che esistono
pochi dubbi sul fatto che la tradizione liberale sorge successivamente
a quella repubblicana, quali rapporti esistono fra esse? Dobbiamo
leggere nel liberalismo di Locke o di Kant un discorso che muove
dal seno di una più ampia tradizione e, nel segnalare la propria
autonomia e soprattutto nel conoscere una fortunata istituzionalizzazione
quantomeno negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, dimentica i suoi
debiti con la «casa madre»? È il liberalismo un repubblicanesimo
impoverito nella nozione di libertà, resa più esangue, ma che, istituzionalizzatosi
con maggiore successo anche grazie a questa particolarità, ha rinnegato
le sue origini? O si tratta piuttosto di una tradizione concorrente,
sorta agli inizi della modernità, che ha ben presto ridotto in condizioni
di marginalità istituzionale e accademica laltra tradizione,
un tempo fiorente?
Tra queste due alternative non saprei decidermi, soprattutto perché
trovo a me più congeniale un altro modo di porre la domanda, collocandola
allinterno di un gioco linguistico diverso, di tipo non storico
ma teorico. Comune alle due alternative fin qui menzionate
è lidea che la querelle tra liberalismo e repubblicanesimo
sia di tipo eminentemente storico: quale delle due tradizioni è
nata prima? quali vicissitudini hanno caratterizzato i rapporti
fra le due tradizioni? come possiamo immaginarci questi rapporti
in futuro?
Quando affrontiamo la domanda da un punto di vista teorico o di
filosofia politica, invece, questo genere di considerazioni recedono
in secondo piano rispetto a un altro nesso di problemi. Se accettiamo
lidea che il compito di un filosofo politico è quello di ricostruire,
allinterno di un linguaggio controllato, le intuizioni comuni
che in una società democratica si hanno intorno alla giustizia,
alla libertà, allobbligo politico, alla legittimità, alla
democrazia stessa, alla «giustificazione politica» e ad altri temi
pertinenti alla disciplina, allora dobbiamo chiederci se la ricostruzione
che va sotto il nome di «repubblicanesimo» riesca o meno a cogliere
determinate intuizioni che invece rimangono fuori dalla ricostruzione
che va sotto il nome di «liberalismo».
I rapporti che nel passato sono intercorsi fra queste due tradizioni,
il vettore del debito intellettuale, così come le vicissitudini
future presumibili di queste tradizioni appaiono meno decisive ai
fini del rispondere alla domanda se si tratti di varianti diverse
della stessa concezione o di concezioni concorrenti. Quello che
importa è se vi è qualcosa del dominio oggettuale che una non riesce
a cogliere o coglie in modo meno soddisfacente dellaltra.
La differenza fra i due punti di vista, storico e teorico, salta
agli occhi se si considera la rilevanza completamente diversa che
viene ad assumere, al loro interno, la questione della precedenza
temporale. Laddove da un punto di vista storico la precedenza
temporale della tradizione repubblicana rispetto a quella liberale
implicitamente reca con sé una qualche implicazione valutativa
non fossaltro per il carattere «originario» delluna
e «derivato» dellaltra da un punto di vista teorico
tale originarietà o derivatezza non influisce sulla capacità, caratteristica
di ogni singola tradizione, di calzare con più o meno precisione
con le intuizioni preteoriche pertinenti, capacità che è poi la
vera cosa importante da un punto di vista teorico.
Repubblicanesimo «politico», non «metafisico»
Ovviamente, quando parliamo della rispondenza del liberalismo o
del repubblicanesimo parliamo di tradizioni estremamente ampie e
al loro interno differenziate. Il libertarismo di Nozick
o Hayek è notevolmente diverso dal liberalismo di Kant o Rawls,
così come il repubblicanesimo di ascendenza aristotelica di Pocock
o Arendt è diverso da quello di derivazione romana e machiavelliana.
Non ha senso comparare teorie tanto disomogenee. Per fissare delle
distinzioni inizierò dal repubblicanesimo. Come hanno sottolineato
numerosi studiosi, è possibile parlare di due distinte forme di
repubblicanesimo. Entrambe pongono una nozione «ricca» di libertà
libertà come libertà di fare qualcosa e non soltanto
come libertà da qualcosa, libertà come esercizio di «virtù
pubblica» al centro della loro concezione della politica
e del vivere civile.
La versione aristotelica e arendtiana declina però questa centralità
della libertà allinterno di una visione etica comprensiva,
la quale asserisce la superiorità della vita activa rispetto
a quella contemplativa e la imprescindibilità del coinvolgimento
diretto negli affari politici della comunità come ingrediente della
vita buona per ogni essere umano. Parafrasando non senza
una venatura ironica la celebre espressione rawlsiana, potremmo
parlare in questo caso di «repubblicanesimo metafisico». La versione
romano-machiavelliana, invece, esalta la libertà del cittadino legando
lesercizio della virtù repubblicana alla necessità di difendere
quellordinamento giuridico e istituzionale che permette ai
singoli cittadini di godere in tutta sicurezza dei loro beni e diritti
individuali. Potremmo in questo caso parlare di repubblicanesimo
«politico».
Ora la tesi che intendo sostenere poggia sulla premessa, la cui
plausibilità darò qui per scontata, che quando si comparano tradizioni,
come peraltro qualunque cosa, non ha senso comparare entità fra
loro troppo eterogenee per livello di articolazione e specificità.
Se allinterno del campo repubblicano giustamente avvertiamo
la necessità di distinguere fra le due correnti sopra menzionate,
che senso ha comparare una sola di esse con un non meglio specificato
liberalismo considerato in toto? Il liberalismo è
a sua volta una tradizione assai composita, che include concezioni
effettivamente centrate sul concetto di libertà negativa intesa
come quella libertà che «inizia là dove la legge tace» e concezioni
che invece, come vedremo, accolgono una nozione di libertà assai
simile a quella difesa dal repubblicanesimo «politico». Lalternatività
del cosiddetto paradigma repubblicano è solo funzione di dove dirigiamo
lo sguardo comparativo allinterno del vasto panorama liberale.
Esiste cioè una vasta famiglia di teorie liberali, passando ora
dalla premessa alla sostanza della tesi, delle quali non è sensato
sostenere che siano distinte dal repubblicanesimo altro che da una
diversità di accenti, quale è dato rilevare allinterno di
ogni tradizione sufficientemente differenziata. Quanto meno, volendo
esporre la tesi in una forma più controllabile, potremmo dire che
la distanza registrabile fra le formulazioni proprie di autori rappresentativi
del repubblicanesimo «politico» e del liberalismo liberal
non sono certamente superiori alla distanza riscontrabile allinterno
del paradigma liberale fra autori come Rawls, Dworkin, Ackerman
da un lato, e autori come Nozick, Hayek, Popper dallaltro.
Per mostrare la plausibilità di questa tesi della convergenza prenderò
in esame una delle più note fra le recenti riproposizioni del cosiddetto
paradigma repubblicano in versione «politica» quella offerta
da Pettit nel suo recente libro Republicanism. A Theory of Freedom
and Government e in particolare mi soffermerò sulla dicotomia
fra due concezioni della libertà negativa, come libertà dallinterferenza
o come libertà dal dominio, che vengono presentate da Pettit come
tipiche rispettivamente della tradizione liberale e repubblicana.
Se questa dicotomia non riesce a mettere in luce alcuna differenza
plausibile fra le due tradizioni ciò costituirà un argomento a favore
della tesi secondo cui non ha molto senso vedere nella tradizione
repubblicana machiavelliana e in quella liberale liberal
due approcci concorrenti.
Alla fine sosterrò la tesi secondo cui dottrine politiche come
il liberalismo e il repubblicanesimo sono in realtà parassitarie
rispetto a più vaste teorie di sfondo, e quando queste dottrine
di sfondo variano anche le dottrine politiche di necessità devono
adeguarsi al mutato contesto. In particolare, la differenza che
da alcuni è concettualizzata come una differenza interparadigmatica
può essere più proficuamente intesa come la differenza fra un tipo
di liberalismo che risponde positivamente al mutare storico della
concezione di sfondo che noi abbiamo dellindividuo e alla
svolta linguistica, ossia alla concezione di sfondo che noi abbiamo
riguardo alla validità, e un tipo di liberalismo che continua a
poggiare sulla tradizionale visione atomistica dellindividuo
e della validità.
Pettit riassume così il nocciolo della differenza fra repubblicanesimo
e liberalismo:
La tradizione repubblicana condivide con il liberalismo lassunto
che sia possibile organizzare uno Stato e una società civile agibili
su una base che trascende parecchi steccati di ordine religioso
e altri steccati di tipo affine. In questa misura molti liberali
rivendicheranno il repubblicanesimo come una tradizione loro propria.
Ma il liberalismo, lungo i duecento anni della sua evoluzione e
nella maggior parte delle sue varianti, si associa con la concezione
negativa della libertà come assenza di interferenza e con lassunto
che non vi è nulla di intrinsecamente oppressivo nel fatto che alcune
persone godano del potere di dominare altri, a patto che non esercitino
tale potere e non sia probabile che lo esercitino. [...] Ritengo
che la maggior parte di coloro che si presentano come liberali
la maggior parte, non tutti concepiscono la libertà in chiave
negativa, come non interferenza; di certo non la concepiscono alla
maniera repubblicana come assenza di dominio.
Dunque chi è liberale concepisce la libertà prevalentemente come
assenza di interferenza con il proprio soggettivo volere, chi è
repubblicano come assenza di controllo arbitrario non necessariamente
come presenza di «self-mastery», poiché anche nella concezione repubblicana
della libertà permane una concezione della libertà negativa
sulla propria condotta, un controllo esercitato da chi è
in una posizione di predominio rispetto a noi.
Se andiamo a guardare più da vicino che cosa significa libertà
come assenza di dominio, scopriamo che essa presuppone «lassenza
di dominio in presenza di altre persone, non lassenza di dominio
ottenuta tramite lisolamento» o, in altri termini, «lassenza
di dominio è lo status associato con il ruolo civile del liber»
e «liberty is civil as distinct from natural freedom». E ancora
«non domination» presuppone non già una casuale assenza di
interferenza arbitraria con le mie scelte, ma unassenza stabile
e resilient di interferenza.
Una dicotomia di dubbia applicabilità: qualche controesempio
A mio avviso la dicotomia tra questi due concetti di libertà negativa
non è però in grado di svolgere la funzione che Pettit le attribuisce.
Non solo singoli autori contemporanei come Gaus e Raz rappresentano
eccezioni, come lo stesso Pettit riconosce, ma unintera area
del liberalismo che è probabilmente la più rappresentativa e dinamica
in questa fase storica non riesce ad essere agevolmente collocata
allinterno di questa dicotomia. La dicotomia dei due concetti
di libertà non è in grado cioè di separare con una qualche misura
di plausibilità le due diverse aree del repubblicanesimo «politico»
(tralascio per brevità di considerare quello «metafisico») e del
liberalismo liberal, che pure dovrebbe separare.
Eviterò di considerare il caso di un autore di difficile collocazione
come Habermas il quale accoglie nella sua opera una notevole
quantità di motivi liberali ma ha sempre mostrato una altrettanto
notevole diffidenza verso il dichiarsi liberale tout court.
Prenderò invece brevemente in esame alcuni aspetti dellopera
di Rawls, Dworkin e Ackerman per mostrare come nel loro caso ci
troviamo in presenza di autori dichiaratamente liberali la cui idea
di libertà non si lascia in alcun modo ricondurre alla nozione di
«freedom from interference».
Prendiamo il caso di Rawls, sulla cui opera Pettit ha scritto,
insieme a Chandran Kukhatas, un pregevole commentario. Se esaminiamo
il paragrafo 32 di Una teoria della giustizia, vi troviamo
una concettualizzazione della libertà che sembra calzare con lo
schema di Pettit. Scrive Rawls:
La descrizione generale della libertà quindi ha la seguente forma:
questa o quella persona (o persone) è libera (o non libera) da questo
o quel vincolo (o insieme di vincoli) di fare (o non fare) questo
o quello
Le persone hanno così la libertà di fare una cosa
quando sono libere da certi vincoli che riguardano il farla o non
farla, o quando il farla o non farla è protetto contro linterferenza
di altre persone.
Come è stato sostenuto, separare concettualmente la libertà dalleguale
distribuzione della libertà come fa Rawls quando si pone
la domanda «perché volere che la libertà sia egualmente distribuita?»
significa ammettere che possa aver senso parlare di libertà
anche quando alcuni ne hanno di più e altri di meno. Mentre è proprio
dellidea repubblicana di libertà il presupporre che la libertà,
intesa come libertà attraverso o tramite la legge e non come libertà
dalla legge, non sussiste affatto per nessuno se non è distribuita
egualmente. Si potrebbe abbandonare Una teoria della giustizia
al suo destino concedendo che vi permane il riflesso di una concezione
liberale atomistica, poi corretta in Liberalismo politico
un riflesso che è tradito appunto dal domandarsi perché dobbiamo
volere che la libertà sia distribuita egualmente, come se la libertà
preesistesse allo Stato e alla politica e questi potessero modificarne
o lasciarne inalterata una naturale distribuzione.
Ma ritengo che non sia necessario. I critici repubblicani di Rawls
forse guardano nel posto sbagliato. La struttura argomentativa di
una teoria della giustizia è quella di un resoconto dei risultati
di un esperimento mentale la ben nota deliberazione nella
posizione originaria, dietro il velo dellignoranza, riguardo
alla struttura fondamentale della società. Il punto di vista della
giustizia, di justice as fairness, è emulato dalla finzione
del velo dellignoranza, dietro cui avviene la deliberazione
dei decisori. Ma questo stesso punto di vista, che è quello a partire
dal quale si discute poi della distribuzione egualitaria della libertà,
poggia sullassunto imprescindibile delleguale libertà
dei decisori di determinare i futuri assetti distributivi della
società. È nelleguaglianza imprescindibile del loro status
di «co-autori» della scelta riguardo alla struttura fondamentale
nellingiustificabilità del fatto che il parere di qualcuno
pesi più di quello di qualcun altro in quella scelta
che va visto il «momento repubblicano» nel contesto di Una teoria
della giustizia. Anche in Habermas, un autore che talvolta ha
usato lespressione «repubblicanesimo kantiano» per descrivere
la propria posizione e comunque non ha mai accettato letichetta
di «liberale», troviamo la finzione di un dialogo intorno a quali
diritti è razionale concedersi reciprocamente da parte di consociati
liberi ed eguali che hanno intenzione di regolare la loro vita comune
secondo il diritto piuttosto che secondo lequilibrio dei rapporti
di forza. In questo dialogo anche i consociati e futuri concittadini
habermasiani si devono porre il problema del «quantum» di libertà
si possono concedere e come questa vada distribuita, ma sicuramente
non per questo si può rimproverare a Habermas, né alcun commentatore
repubblicano lo rimprovera, di avere una visione giusnaturalistica
della libertà come preesistente alle leggi.
In realtà, è possibile segnalare in Una teoria della giustizia
anche altri elementi di dissonanza con lattribuzione di
una concezione della libertà come assenza di interferenza. Ad esempio,
fra i beni primari troviamo incluse «le basi sociali del rispetto
di sé». Come è possibile sostenere che lidea di libertà come
assenza di dominio, ovvero di soggezione allarbitrio altrui
ancorché non esercitato, sia aliena dallimpianto rawlsiano,
se uno dei beni oggetto di attenzione nella discussione sullo schema
distributivo cui informare la struttura fondamentale della società
è dato proprio dai requisiti necessari perché ciascuno possa avere
rispetto di se stesso?
In Liberalismo politico, poi, non vi è modo di avere alcun
dubbio circa limproponibilità di uninterpretazione che
schiacci lidea di libertà ivi presupposta sulla nozione di
mera assenza di interferenza. Lo impedisce la stessa formulazione
iniziale del problema a cui lintero libro costituisce una
risposta: come è possibile che esista e duri nel tempo una società
stabile e giusta di cittadini liberi ed eguali profondamente divisi
da dottrine religiose, filosofiche e morali incompatibili, benché
ragionevoli?.
Lidea di eguale rispetto, che è sottesa anche alla concezione
della libertà come assenza di dominio, appare qui inseparabile da
tutta una serie di nozioni che sostengono larchitettura di
Liberalismo politico. Basti citare lidea di «equa cooperazione»,
il «dovere di comportamento civile» che lega i cittadini gli uni
agli altri, obbligandoli a fornirsi reciprocamente delle giustificazioni,
le idee di overlapping consensus e di ragione pubblica. Tutte
queste nozioni poggiano su un nucleo normativo più profondo, per
così dire, che Charles Larmore ha identificato nellideale
delleguale rispetto. La transizione stessa dal modello
rational choice sotteso a Una teoria della giustizia
a quello del consenso per intersezione proprio di Liberalismo
politico è spiegata da Larmore in termini di influenza di un
soggiacente principio delleguale rispetto. Si tratta infatti
di una transizione per nulla necessaria: dopotutto, osserva Larmore,
potremmo legittimamente domandarci per quale motivo la risposta
liberale a questa controversia [intorno ai presupposti atomistici
tipici del liberalismo «metafisico»] debba prendere la forma di
una riformulazione dei principi del liberalismo. Perché mai il liberalismo
dovrebbe diventare «politico» nel senso inteso da Rawls e da me?
Per quale motivo i liberali non dovrebbero puntare i piedi e, dopo
aver fatto notare giustamente che nessuna concezione politica può
essere compatibile con tutti i punti di vista, sostenere che il
liberalismo si regge sul filo di una professione di fede individualista?.
Nella risposta sottesa alla formulazione «autonoma» (freestanding)
di justice as fairness è possibile rinvenire la fedeltà di
Rawls a quel «nucleo morale del pensiero liberale» che è dato dallidea
di eguale rispetto e dal requisito, ad essa conseguente, secondo
cui i principi politici fondamentali dovrebbero essere accettabili
razionalmente da parte di coloro che da essi verranno poi vincolati.
Infatti, la ragione per cui consideriamo non giusta laccettazione
dei principi politici sulla base della forza non consiste nel fatto
che luso della forza sia di per sé sempre ingiusto: altrimenti,
come ci insegna Weber, la stessa idea di associazione politica,
la quale sul proprio sfondo comprende sempre la possibilità delluso
della forza, dovrebbe essere considerata intrinsecamente ingiusta.
La ragione è piuttosto che il perseguire obbedienza tramite luso
o la minaccia delluso della forza, senza entrare in qualche
modo in contatto con la capacità dellaltra persona di pensare
con la propria testa, o entrandovi in contatto solo nel senso limitato
di una valutazione costi/benefici dei vantaggi dellobbedire,
equivale a trattare quella persona in un modo diverso, e sicuramente
«demeaning», rispetto al modo in cui desideriamo essere trattati
noi. Dunque, conclude Larmore, «rispettare unaltra
persona come fine vuol dire esigere che i principi politici e i
principi sottesi alla coercizione fisica siano altrettanto giustificabili
agli occhi di quella persona quanto lo sono ai nostri». Tutto ciò
esclude dunque uninterpretazione di Liberalismo politico
che possa ridurre la nozione di libertà ivi implicita a quella della
mera assenza di interferenza.
Infine, nel corso del suo scambio con Habermas del 1995, Rawls
ha colto loccasione per affinare alcuni dei suoi concetti
principali e introdurne di nuovi, i quali ancora più fortemente
risultano debitori nei confronti di una concezione ricca della libertà
come assenza di dominio. Penso allidea, ad esempio, di stabilità
per le giuste ragioni la quale poggia sul concetto di
ragionevole consenso per intersezione e che non avrebbe
alcun senso se non presupponessimo forme della legittimità poltica
che sono direttamente collegate al riconoscimento da parte dei cittadini
in quanto liberi ed eguali e dotati tutti delle due facoltà morali.
In conclusione, anche se tracce atomistiche permangono in Una
teoria della giustizia, neppure limitatamente al contesto di
quellopera esse autorizzano unattribuzione di Rawls
alla schiera dei sostenitori della liberta come assenza di interferenza,
mentre appena prendiamo in esame la produzione più recente di questo
autore, uninterpretazione del genere appare gravemente fuorviante.
Il caso di Dworkin è ancora più evidente. Non soltanto Dworkin
è lautore di Liberal Community , un saggio del 1989
in cui traccia i contorni di un liberalismo che include aspetti
di «republicanesimo civico», ma al centro della sua teoria del diritto
ha posto la nozione di eguaglianza intesa come eguale rispetto
una nozione dunque che entra in palese dissonanza con lidea
di libertà come assenza di interferenza.
In Liberal Community Dworkin intende prendere le distanze
tanto dal comunitarismo, inteso qui principalmente come lassunto
secondo cui esiste un primato normativo dellinteresse comune
nei confronti degli interessi individuali in tutte le sfere della
vita sociale, quanto dal liberalismo atomistico tradizionale, secondo
cui non esiste nulla che possa essere chiamato interesse della comunità
al di là della sommatoria di interessi individuali che coincidono
e si aggregano. Dworkin accetta la tesi secondo cui ogni comunità
politica ha una vita collettiva propria, qualitativamente peggiore
o migliore a seconda di certe scelte collettivamente compiute, ma
restringe lambito di questa vita comune alla sola sfera dellagire
politico, intesa in senso istituzionale (come insieme di
atti legislativi, giudiziari e di governo).
Questa posizione è illustrata da Dworkin in riferimento alla vita
collettiva di unorchestra. La vita collettiva di una comunità,
sostiene Dworkin, si limita allinsieme di quegli atti che
sono riconosciuti collettivi dalla coscienza comune e dalle pratiche
sociali vigenti. Per esempio, latto delleseguire una
sinfonia è solitamente concepito, tanto da parte dei partecipanti
(i musicisti dellorchestra) quanto da parte della comunità
più vasta degli ascoltatori, come un atto singolo compiuto da un
attore collettivo allinterno di una pratica musicale. In secondo
luogo, le azioni individuali che contribuiscono a costituire gli
atti collettivi di cui si compone la vita collettiva della comunità
devono essere coordinate non secondo il modello della convergenza
inintenzionale dei risultati, tipico del mercato, ma mediante la
concertazione delle intenzioni e dei piani di azione degli attori.
Infine, deve esistere una chiara corrispondenza fra le qualità richieste
per essere membro della comunità e la natura degli atti collettivi
che ne costituiscono la vita comune, come pure fra la natura di
questi atti collettivi e il tipo di vita collettiva che una comunità
conduce. Unorchestra da un lato seleziona come qualità rilevante
ai fini della appartenenza la competenza musicale, e dallaltro
vive una vita comune che è ristretta al solo momento dellesecuzione
musicale. Ne segue che la connessione fra qualità della vita individuale
e qualità della vita collettiva sussiste solo nellambito degli
atti collettivi che costituiscono lidentità della comunità.
E questo fa della posizione dworkiniana una posizione liberale.
Al tempo stesso si tratta però di un liberalismo indistinguibile
dal nocciolo valoriale che Pettit attribuisce al repubblicanesimo.
Dworkin infatti presenta il suo «liberalismo integrato» o «repubblicanesimo
civico di marca liberale» come una terza via fra lindividualismo
atomistico del primo liberalismo secondo il quale un
individuo «non considererà la sua vita meno riuscita se, a dispetto
dei suoi migliori sforzi, la comunità accetta una grande ineguaglianza
economica, o forme di discriminazione razziale, o altre forme di
discriminazione ingiusta, o limiti ingiusti alla libertà individuale»
e lintegralismo comunitarista per il
quale la qualità della vita individuale è minacciata da qualunque
deviazione dalle norme comuni. Fra questi due estremi si colloca
la posizione del liberale sensibile alla comunità il quale
«considererà la sua vita peggiorata [...] se vive in una comunità
ingiusta, indipendentemente da quanto egli tenti di renderla giusta».
Ma il cittadino liberale sensibile alla integrazione della comunità
avverte che il successo della sua vita dipende dal successo della
vita collettiva della comunità in un senso particolare. La
sua vita personale, cioè, non è influenzata negativamente da tutti
gli aspetti negativi o fallimentari della comunità, ma solo da quelli
che riguardano il suo soddisfare i criteri della giustizia: «Un
cittadino integrato accetta che il valore della sua vita dipende
dal fatto che la sua comunità riesca a trattare ciascuno in termini
eguali».
Troviamo qui presente in termini espliciti lidea repubblicana
secondo cui non vi è vera libertà per nessuno se non vi è, allinterno
di un ordinamento istituzionale, eguale libertà per tutti. Troviamo
anche pienamente presente la idea di eguale dignità di tutti i cittadini
e dunque anche, implicitamente, lidea che laddove questa eguale
dignità non sia riconosciuta nei fatti o peggio ancora non sia formalmente
istituzionalizzata, non può esservi libertà in senso pieno
dunque libertà come assenza di dominio, non come assenza di interferenza.
Nelle parole di Dworkin: la fusione di una moralità politica e dellinteresse
critico mi sembra essere la vera spina dorsale del repubblicanesimo
civico, la maniera importante in cui singoli cittadini dovrebbero
fondere interessi e personalità nella comunità politica. In questa
visione si afferma un ideale distintamente liberale, un ideale che
fiorisce solo allinterno di una società liberale.
Al di là di questo pur importante articolo, però, va notato come
il tema dellassenza di dominio sia presente in tutta lopera
dworkiniana sotto forma di valore guida delleguaglianza. «Che
lo Stato parli con una sola voce a tutti i suoi cittadini» diventa
il principio che guida non soltanto la interpretazione costituzionale
valorizzare al meglio la Costituzione americana vuol dire
per Dworkin, in altri termini, esaltarne la dimensione intrinsecamente
egualitaria ma anche la istituzionalizzazione dei
diritti e fornisce una giustificazione non maggioritaria per la
democrazia. In Freedoms Law, ad esempio, la democrazia
stessa è posta non come una procedura valida di per sé, autogiustificantesi
per così dire, bensì come quella procedura che normalmente meglio
assicura la realizzazione di questo ideale di eguaglianza politica.
La concezione dworkiniana della democrazia include un riferimento
ancora più esplicito alla nozione di eguale rispetto. Spesso accusato
di abbracciare una specie di iperliberalismo caratterizzato dalla
priorità assoluta dei diritti rispetto allautogoverno democratico,
Dworkin ha di recente iniziato a sviluppare una concezione della
democrazia ispirata al valore delleguaglianza, da lui chiamata
la «concezione costituzionale della democrazia». Al centro di questa
concezione è una giustificazione della democrazia basata non tanto
sulla base delle nozioni classiche di autonomia pubblica, autodeterminazione
o autogoverno, quanto sulla idea di «equal concern and respect».
La democrazia è presentata come la forma di governo che ha maggiori
chance di tradurre in pratica lidea che lo Stato debba rivolgersi
con la stessa voce a tutti i suoi cittadini. La ragion dessere
della democrazia è per Dworkin il realizzare uno stato di cose in
cui «le decisioni collettive siano prese da istituzioni politiche
la cui struttura e composizione e le cui pratiche trattano tutti
i membri della comunità, in quanto individui, con eguale sollecitudine
e rispetto».
Il bersaglio è invece costituito qui dalle concezioni maggioritarie
della democrazia, secondo le quali la democrazia è una forma di
governo pensata in primo luogo al fine di poter prendere decisioni
collettive «che la maggioranza assoluta o relativa dei cittadini
approverebbe se pienamente informata e razionale» ma è chiaro
che la concezione dworkiniana entra in tensione anche con quella
idea di democrazia deliberativa, declinata con accenti diversi da
Habermas e Michelman, che fa ruotare il concetto di democrazia attorno
al perno dellautogoverno. La «concezione costituzionale» avanzata
da Dworkin parte invece dallassunto, che pure è presente anche
nella tesi habermasiana della complementarità di autonomia privata
e pubblica, diritti e autogoverno, ossia dallassunto secondo
cui in ultima analisi lideale delleguale rispetto non
è un esito dellautogoverno democratico ma, al contrario, è
la democrazia a costituire il migliore ordinamento politico disponibile
per una collettività di cittadini che desiderino ispirare la loro
convivenza politica alleguale rispetto reciproco. Il carattere
derivato della democrazia rispetto allideale delleguale
rispetto è ulteriormente messo in luce dal vantaggio che, secondo
Dworkin, si accompagna al suo concetto di democrazia e lo rende
preferibile a quello maggioritario.
Mentre infatti tutti quei casi in cui la regola della maggioranza
deve in qualche
modo cedere il passo a una diversa procedura decisionale costituiscono
altrettante difficoltà per la concezione maggioritaria in
quanto necessariamente essi si configurano come pur inevitabili
«carenze democratiche» o «lacune della democrazia» essi non
pongono alcun problema alla concezione costituzionale. Essa li accoglie
come casi in cui lideale sovraordinato che ispira la democrazia
è meglio servito da procedure decisionali che non sono maggioritarie.
Infine, persino in quegli scritti che maggiormente ricalcano il
cliché del pensiero liberale «astratto» e «astorico» gli
articoli sul tema delleguaglianza e delle sue diverse interpretazioni
troviamo unaccentuazione che contrasta con la dicotomia
di Pettit. Anche nel modello distributivo astratto dellasta
condotta sullisola lontana con gusci di conchiglie al posto
del denaro, il test che secondo Dworkin misura lequità della
distribuzione finale altro non è se non lassenza di invidia
di ciascuno per il gruppo di risorse di cui il vicino è entrato
in possesso attraverso lasta. E nellassenza di invidia
si riflette naturalmente lassenza di dominio.
Nel caso di Bruce Ackerman lideale delleguale rispetto
è sotteso sia al suo modello del dialogo limitato dai tre principi
di razionalità, coerenza e neutralità, sia alla sua concezione dualista
della politica costituzionale. Il «principio di razionalità»
che obbliga ogni titolare di una posizione di autorità a rispondere
ad ogni domanda intorno alla legittimità della sua posizione «fornendo
una ragione che spieghi per quale motivo lui ha più titolo a possedere
quella risorsa rispetto a chi pone la domanda» ovviamente
presuppone che lidea di mutuo ed eguale rispetto informi il
rapporto verticale fra governanti e governati. Unanaloga considerazione
vale anche per il rapporto orizzontale fra cittadini. Il «principio
di neutralità» proibisce ai partecipanti di giustificare le proprie
rivendicazioni di risorse in modi che implichino tanto che la loro
concezione del bene è superiore alle concezioni affermate da altri
cittadini, quanto che chi avanza la rivendicazione è intrinsecamente
superiore a qualunque altro concittadino. Non ci vuole un grosso
sforzo di analisi filosofica per comprendere che un principio siffatto
poggia sullassunto ancora più fondamentale secondo cui i cittadini
di una polis giusta possiedono il diritto ad uneguale
considerazione un diritto che non deriva, ma al contrario
è presupposto, da una conversazione guidata da principi intorno
alla distribuzione delle risorse.
Meno ovvia è la presenza implicita di unidea di liberta come
assenza di dominio nel quadro teorico che Ackerman sviluppa nei
volumi della trilogia We the People . Ad un esame attento
risulta tuttavia che, attraverso la mediazione della nozione di
eguale rispetto, questa idea è presupposta dal quadro teorico di
We the People in due diversi sensi. Nel primo senso, la troviamo
collegata agli aspetti formali del processo di modifica costituzionale.
Come Ackerman fa ripetutamente notare, la differenza che distingue
le profonde innovazioni costituzionali perseguite in contesti diversi
da Madison, Lincoln e Roosevelt dal tipo di rottura totale con lordine
istituzionale precedente perseguita da Robespierre o Lenin sta nel
persistere, tipico delle prime ma non della seconda, di una forte
e incrollabile fedeltà allidea che persino il mutamento istituzionale
di ordine più elevato deve essere realizzato in maniera consensuale
e deve essere giustificato con ragioni in grado di essere convincenti
per tutti coloro che dal mutamento in questione sono in qualche
modo affetti. Persino nei più oscuri momenti della trasformazione
costituzionale per esempio, quando i costituenti rinfocolavano
le ambizioni presidenziali di politici locali al fine di accelerare
il processo di ratifica della Costituzione americana nel 1787, oppure
quando veniva usata la minaccia di esclusione dalla rappresentanza
in Congresso per premere sulle assemblee legislative degli Stati
del Sud al fine di indurle ad approvare il Tredicesimo emendamento
fu mai contemplato luso della forza bruta. Nonostante
luso di forme tradizionali di pressione politica, veniva pur
sempre preservata una fedeltà almeno formale allideale di
un dialogo tra eguali legati fra loro da un rapporto di mutuo rispetto.
Il secondo senso in cui lidea di libertà come assenza di
dominio è sottesa al quadro teorico di We the People ha a
che fare con gli aspetti sostanziali del processo di mutamento
costituzionale al centro dellattenzione di Ackerman. Il tema
di fondo che unifica infatti i tre momenti salienti della Fondazione,
della Ricostruzione e del New Deal come episodi della medesima narrazione
è costituito dalla graduale costruzione dellidentità nazionale
del popolo americano. Labolizione del potere di veto attribuito
ai singoli Stati dellUnione dagli Articles of Confederation;
la priorità, sancita dalla Ricostruzione, del carattere nazionale
della cittadinanza rispetto a definizioni più restrittive e locali
della cittadinanza stessa; e lidea, propria del New Deal,
di un diritto del governo ad intervenire nelleconomia per
il bene dellintera comunità nazionale sono tessere di un unico
mosaico in cui disegno è dato dal graduale superamento di una concezione
ristretta della «polity» americana come federazione di «polities»
locali organizzate in Stati sovrani, ossia dal graduale superamento
di un «modus vivendi» in direzione di un corpo politico nazionale
in cui ogni cittadino ha effettivamente egual peso. La stessa proposta
ackermaniana di una Popular Sovereignty Initiative è giustificata
da lui in base allidea del conferire al voto di ogni singolo
cittadino dellUnione che abiti nella popolosa California
o nello scarsamente abitato Idaho la stessa influenza nel
determinare la volontà collettiva quando si tratti di scelte costituzionali.
Da questo punto di vista emerge in piena luce il legame fra linterpretazione
ackermaniana della storia costituzionale americana, la sua proposta
per una nuova procedura di emendamento della Costituzione, e lidea
di assenza di dominio, concretizzata in questo caso come idea di
uneguale influenza di ciascun cittadino sulla formazione
della volontà democratica.
Un discorso analogo, che non è però possibile sviluppare qui, andrebbe
fatto su Charles Larmore, filosofo liberale di una generazione più
giovane dei precedenti, la cui proposta di un «liberalismo politico»,
nata in parziale polemica con il normativismo più accentuato di
Una teoria della giustizia, poggia sulla nozione di «eguale
rispetto», da lui definita «the moral heart of liberalism». Anche
in questo caso lipotesi di unaffinità elettiva tra liberalismo
e concezione della libertà come assenza di interferenza si dimostra
infondata.
Ma soprattutto va considerato il fatto che la dicotomia «libertà
come assenza di interferenza» versus «libertà come assenza
di dominio» non riesce a funzionare neppure se i nostri riferimenti
si spostano su figure liberali antecedenti alla nuova stagione inaugurata
da Una teoria della giustizia. Figure come Dewey e Roosevelt
risultano difficilmente classificabili sotto il titolo di liberali
che identificano la libertà come mera assenza di interferenza. Per
quanto riguarda Dewey, Liberalism and Social Action è un
testo in cui viene articolata una nozione di individuo assai più
ricca di quella tradizionalmente associata al liberalismo. Riferendosi
alle correnti «idealistiche» interne al liberalismo britannico,
Dewey ne loda il contributo sostenendo che esso ha favorito il tramonto
dellidea che la libertà sia qualcosa che gli individui hanno
in loro possesso [
] i nuovi liberali hanno coltivato lidea
che lo Stato ha il compito di creare istituzioni allinterno
delle quali gli individui possono portare efficacemente a realizzazione
le loro potenzialità.
Ma la stessa opera di Dewey The Public and its Problem non
può essere intesa se non sullo sfondo di una concezione della libertà
che non equivale alla semplice assenza di interferenza. La sfera
pubblica, per usare una terminologia habermasiana, diventa importante
solo se si assume che la libertà include un momento di assenza di
dominio, che solo la presenza di un pubblico attento e vigile può
rendere duratura.
Riguardo a Roosevelt, basterà citare soltanto un passo del suo
famoso discorso di accettazione della nomination come candidato
presidenziale, discorso tenuto alla convenzione democratica di Filadelfia
del 1932, il quale anticipa alcuni degli argomenti che alcuni anni
più tardi Roosevelt utilizzerà a difesa del New Deal sotto attacco
da parte di una Corte suprema che interpretava, essa sì, la Costituzione
sullo sfondo di una concezione laissez-faire della libertà.
Roosevelt parla di libertà libertà politica e libertà economica
e afferma:
La libertà richiede la possibilità di potersi guadagnare da vivere
da vivere in modo decente secondo gli standard del proprio
tempo, da vivere in un modo che dia agli uomini non solo qualcosa
di cui vivere, ma anche qualcosa per cui vivere. Per
troppi di noi leguaglianza politica di cui una volta godevamo
è stata svuotata di senso dalla diseguaglianza economica [...] per
troppi di noi la vita non era più libera [al tempo della Grande
Depressione]; la libertà non più reale; e non era più possibile
perseguire la felicità. [...] Oggi noi ci impegniamo ad affermare
che la libertà non è qualcosa che può essere lasciata a metà. Se
al cittadino comune si garantiscono eguali opportunità nella cabina
elettorale, gli si devono garantire eguali libertà anche sul mercato.
Se Roosevelt avesse inteso la libertà nel modo in cui Pettit ci
invita ad attenderci che ogni liberale faccia, come mera assenza
di interferenza, non ci sarebbe probabilmente stato alcun New Deal,
per il semplice motivo che non vi sarebbe stata alcuna differenza
fra il modo in cui il ceto imprenditoriale statunitense e la Corte
suprema dei primi anni Trenta concepivano il liberalismo e il modo
in cui Roosevelt stesso lo concepiva.
Andando ancora più indietro nel tempo, se analizziamo il cap. 3
del saggio di Mill Sulla libertà, vi troviamo implicita unidea
di libertà come possibilità di coltivare loriginalità ed unicità
della personalità, la quale anche in questo caso non si lascia ridurre
alla semplice assenza di interferenza: il realizzare le proprie
potenzialità, a cui il massimo di libertà di espressione e il pluralismo
culturale da essa generato contribuiscono, non è qualcosa che possa
aver luogo allinterno di relazioni caratterizzate dal dominio
e dallarbitrarietà.
Conclusione
Ma è ormai inutile continuare lelenco aggiungendo altri nomi.
Ritengo plausibile sostenere che se una distinzione concettuale
volta a cogliere il discrimine tra liberalismo e repubblicanesimo
non riesce a rendere e a trovare adeguata applicazione in casi come
quelli di Rawls, Dworkin, Ackerman, Larmore, Dewey, Roosevelt e
John Stuart Mill, e in particolare non riesce a collocarli sul versante
liberale del discrimine, esiste il dubbio ragionevole che vi sia
qualcosa di radicalmente sbagliato in essa. Semplicemente, la distinzione
tra liberalismo e repubblicanesimo non sembra riducibile a una diversa
concezione della libertà. Ciò non vuol dire naturalmente che tale
distinzione non possa essere tracciata su altre basi, ma
non era questo lo scopo di questo saggio.
Concludendo, ho il sospetto che la differenza che più conta nella
filosofia politica contemporanea sia quella fra tradizioni di pensiero
che riescono ad accogliere una concezione del soggetto della politica
che da atomistica si è fatta intersoggettiva e dunque riescono
a muoversi a loro agio sullo sfondo di una mutata costellazione
delle scienze sociali, storiche e filosofiche. E accanto a questa
giochi un ruolo importante anche unaltra differenza: quella
fra tradizioni che accettano pienamente le conseguenze del «fatto
del pluralismo» e rinunciano a un normativismo fondato su principi
e punti archimedici e tradizioni che continuano a elaborare «standard
universalistici» come se nulla di nuovo sotto il sole filosofico
fosse apparso nel secolo che si sta chiudendo. Troviamo da un lato
un repubblicanesimo aristotelizzante che fondamentalizza la partecipazione
come forma di vita superiore e dallaltro liberalismi che invece
fondamentalizzano il mercato e lagire razionale rispetto allo
scopo come unica sede della razionalità. Troviamo repubblicanesimi
che accolgono invece pienamente il pluralismo, come quello di Michelman,
e dunque possono fregiarsi del titolo di «repubblicanesimi politici»
a pari titolo del liberalismo politico. Se prendiamo come riferimenti
questi due assi, non cè veramente nulla di sostanziale, almeno
al momento, che ci spinga a dover considerare tradizioni concorrenti
il repubblicanesimo «politico» di cui abbiamo parlato in apertura
e il liberalismo liberal. Entrambi sono distanti anni luce
tanto dal repubblicanesimo integralista quanto dal liberalismo liberista
e, insieme a quellaltra corrente che va sotto il nome di democrazia
deliberativa e di cui non abbiamo neppure accennato, formano larea
sicuramente più dinamica del pensiero politico contemporaneo.