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La scoperta del repubblicanesimo «politico» e le sue implicazioni per il liberalismo


Alessandro Ferrara

 

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Questo saggio appare sul numero 1 della Nuova Serie della rivista Filosofia e Questioni Pubbliche. Per ulteriori informazioni potete contattare Luiss Edizioni all'indirizzo e-mail edizioni@luiss.it

Come a suo tempo la polemica tra comunitarismo e liberalismo agli inizi degli anni Ottanta, anche quella tra liberalismo e repubblicanesimo nel corso del decennio successivo si presenta con contorni non del tutto chiari. Qualcuno parla di paradigmi concorrenti, altri di «discussioni in famiglia». Per alcuni si tratta dell’accentuazione di elementi diversi (i diritti nel caso del liberalismo, la partecipazione e la virtù civica nel caso del repubblicanesimo) all’interno di una medesima concezione della filosofia politica, per altri ci troviamo in presenza di elementi di discontinuità che fanno premio rispetto a quanto è condiviso. Scopo di questo saggio è cercare di chiarire quale sia il piano su cui una eventuale differenza vada cercata e le reali proporzioni di questa differenza, posto che va da sé che una pur minima differenza deve sussistere se esiste un contenzioso del genere. Non mi sottrarrò però all’imperativo di prendere posizione, ma anzi anticipo fin da questo momento che a mio avviso gli elementi di differenza sembrano a me del tutto insufficienti per parlare di «paradigmi concorrenti».

Discorsi storici, discorsi teorici

Cominciamo con il delineare il piano del discorso che andiamo conducendo. Esistono almeno due diversi modi, ciascuno perfettamente legittimo, di rispondere alla domanda intorno ai rapporti tra liberalismo e repubblicanesimo. Il primo è un modo che trova la sua collocazione all’interno di un discorso storico. Posto che esistono pochi dubbi sul fatto che la tradizione liberale sorge successivamente a quella repubblicana, quali rapporti esistono fra esse? Dobbiamo leggere nel liberalismo di Locke o di Kant un discorso che muove dal seno di una più ampia tradizione e, nel segnalare la propria autonomia e soprattutto nel conoscere una fortunata istituzionalizzazione quantomeno negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, dimentica i suoi debiti con la «casa madre»? È il liberalismo un repubblicanesimo impoverito nella nozione di libertà, resa più esangue, ma che, istituzionalizzatosi con maggiore successo anche grazie a questa particolarità, ha rinnegato le sue origini? O si tratta piuttosto di una tradizione concorrente, sorta agli inizi della modernità, che ha ben presto ridotto in condizioni di marginalità istituzionale e accademica l’altra tradizione, un tempo fiorente?

Tra queste due alternative non saprei decidermi, soprattutto perché trovo a me più congeniale un altro modo di porre la domanda, collocandola all’interno di un gioco linguistico diverso, di tipo non storico ma teorico. Comune alle due alternative fin qui menzionate è l’idea che la querelle tra liberalismo e repubblicanesimo sia di tipo eminentemente storico: quale delle due tradizioni è nata prima? quali vicissitudini hanno caratterizzato i rapporti fra le due tradizioni? come possiamo immaginarci questi rapporti in futuro?

Quando affrontiamo la domanda da un punto di vista teorico o di filosofia politica, invece, questo genere di considerazioni recedono in secondo piano rispetto a un altro nesso di problemi. Se accettiamo l’idea che il compito di un filosofo politico è quello di ricostruire, all’interno di un linguaggio controllato, le intuizioni comuni che in una società democratica si hanno intorno alla giustizia, alla libertà, all’obbligo politico, alla legittimità, alla democrazia stessa, alla «giustificazione politica» e ad altri temi pertinenti alla disciplina, allora dobbiamo chiederci se la ricostruzione che va sotto il nome di «repubblicanesimo» riesca o meno a cogliere determinate intuizioni che invece rimangono fuori dalla ricostruzione che va sotto il nome di «liberalismo».

I rapporti che nel passato sono intercorsi fra queste due tradizioni, il vettore del debito intellettuale, così come le vicissitudini future presumibili di queste tradizioni appaiono meno decisive ai fini del rispondere alla domanda se si tratti di varianti diverse della stessa concezione o di concezioni concorrenti. Quello che importa è se vi è qualcosa del dominio oggettuale che una non riesce a cogliere o coglie in modo meno soddisfacente dell’altra. La differenza fra i due punti di vista, storico e teorico, salta agli occhi se si considera la rilevanza completamente diversa che viene ad assumere, al loro interno, la questione della precedenza temporale. Laddove da un punto di vista storico la precedenza temporale della tradizione repubblicana rispetto a quella liberale implicitamente reca con sé una qualche implicazione valutativa – non foss’altro per il carattere «originario» dell’una e «derivato» dell’altra – da un punto di vista teorico tale originarietà o derivatezza non influisce sulla capacità, caratteristica di ogni singola tradizione, di calzare con più o meno precisione con le intuizioni preteoriche pertinenti, capacità che è poi la vera cosa importante da un punto di vista teorico.

Repubblicanesimo «politico», non «metafisico»

Ovviamente, quando parliamo della rispondenza del liberalismo o del repubblicanesimo parliamo di tradizioni estremamente ampie e al loro interno differenziate. Il libertarismo di Nozick o Hayek è notevolmente diverso dal liberalismo di Kant o Rawls, così come il repubblicanesimo di ascendenza aristotelica di Pocock o Arendt è diverso da quello di derivazione romana e machiavelliana. Non ha senso comparare teorie tanto disomogenee. Per fissare delle distinzioni inizierò dal repubblicanesimo. Come hanno sottolineato numerosi studiosi, è possibile parlare di due distinte forme di repubblicanesimo. Entrambe pongono una nozione «ricca» di libertà – libertà come libertà di fare qualcosa e non soltanto come libertà da qualcosa, libertà come esercizio di «virtù pubblica» – al centro della loro concezione della politica e del vivere civile.

La versione aristotelica e arendtiana declina però questa centralità della libertà all’interno di una visione etica comprensiva, la quale asserisce la superiorità della vita activa rispetto a quella contemplativa e la imprescindibilità del coinvolgimento diretto negli affari politici della comunità come ingrediente della vita buona per ogni essere umano. Parafrasando non senza una venatura ironica la celebre espressione rawlsiana, potremmo parlare in questo caso di «repubblicanesimo metafisico». La versione romano-machiavelliana, invece, esalta la libertà del cittadino legando l’esercizio della virtù repubblicana alla necessità di difendere quell’ordinamento giuridico e istituzionale che permette ai singoli cittadini di godere in tutta sicurezza dei loro beni e diritti individuali. Potremmo in questo caso parlare di repubblicanesimo «politico».

Ora la tesi che intendo sostenere poggia sulla premessa, la cui plausibilità darò qui per scontata, che quando si comparano tradizioni, come peraltro qualunque cosa, non ha senso comparare entità fra loro troppo eterogenee per livello di articolazione e specificità. Se all’interno del campo repubblicano giustamente avvertiamo la necessità di distinguere fra le due correnti sopra menzionate, che senso ha comparare una sola di esse con un non meglio specificato liberalismo considerato in toto? Il liberalismo è a sua volta una tradizione assai composita, che include concezioni effettivamente centrate sul concetto di libertà negativa intesa come quella libertà che «inizia là dove la legge tace» e concezioni che invece, come vedremo, accolgono una nozione di libertà assai simile a quella difesa dal repubblicanesimo «politico». L’alternatività del cosiddetto paradigma repubblicano è solo funzione di dove dirigiamo lo sguardo comparativo all’interno del vasto panorama liberale. Esiste cioè una vasta famiglia di teorie liberali, passando ora dalla premessa alla sostanza della tesi, delle quali non è sensato sostenere che siano distinte dal repubblicanesimo altro che da una diversità di accenti, quale è dato rilevare all’interno di ogni tradizione sufficientemente differenziata. Quanto meno, volendo esporre la tesi in una forma più controllabile, potremmo dire che la distanza registrabile fra le formulazioni proprie di autori rappresentativi del repubblicanesimo «politico» e del liberalismo liberal non sono certamente superiori alla distanza riscontrabile all’interno del paradigma liberale fra autori come Rawls, Dworkin, Ackerman da un lato, e autori come Nozick, Hayek, Popper dall’altro.

Per mostrare la plausibilità di questa tesi della convergenza prenderò in esame una delle più note fra le recenti riproposizioni del cosiddetto paradigma repubblicano in versione «politica» – quella offerta da Pettit nel suo recente libro Republicanism. A Theory of Freedom and Government – e in particolare mi soffermerò sulla dicotomia fra due concezioni della libertà negativa, come libertà dall’interferenza o come libertà dal dominio, che vengono presentate da Pettit come tipiche rispettivamente della tradizione liberale e repubblicana. Se questa dicotomia non riesce a mettere in luce alcuna differenza plausibile fra le due tradizioni ciò costituirà un argomento a favore della tesi secondo cui non ha molto senso vedere nella tradizione repubblicana machiavelliana e in quella liberale liberal due approcci concorrenti.

Alla fine sosterrò la tesi secondo cui dottrine politiche come il liberalismo e il repubblicanesimo sono in realtà parassitarie rispetto a più vaste teorie di sfondo, e quando queste dottrine di sfondo variano anche le dottrine politiche di necessità devono adeguarsi al mutato contesto. In particolare, la differenza che da alcuni è concettualizzata come una differenza interparadigmatica può essere più proficuamente intesa come la differenza fra un tipo di liberalismo che risponde positivamente al mutare storico della concezione di sfondo che noi abbiamo dell’individuo e alla svolta linguistica, ossia alla concezione di sfondo che noi abbiamo riguardo alla validità, e un tipo di liberalismo che continua a poggiare sulla tradizionale visione atomistica dell’individuo e della validità.

Pettit riassume così il nocciolo della differenza fra repubblicanesimo e liberalismo:

La tradizione repubblicana condivide con il liberalismo l’assunto che sia possibile organizzare uno Stato e una società civile agibili su una base che trascende parecchi steccati di ordine religioso e altri steccati di tipo affine. In questa misura molti liberali rivendicheranno il repubblicanesimo come una tradizione loro propria. Ma il liberalismo, lungo i duecento anni della sua evoluzione e nella maggior parte delle sue varianti, si associa con la concezione negativa della libertà come assenza di interferenza e con l’assunto che non vi è nulla di intrinsecamente oppressivo nel fatto che alcune persone godano del potere di dominare altri, a patto che non esercitino tale potere e non sia probabile che lo esercitino. [...] Ritengo che la maggior parte di coloro che si presentano come liberali – la maggior parte, non tutti – concepiscono la libertà in chiave negativa, come non interferenza; di certo non la concepiscono alla maniera repubblicana come assenza di dominio.

Dunque chi è liberale concepisce la libertà prevalentemente come assenza di interferenza con il proprio soggettivo volere, chi è repubblicano come assenza di controllo arbitrario – non necessariamente come presenza di «self-mastery», poiché anche nella concezione repubblicana della libertà permane una concezione della libertà negativa – sulla propria condotta, un controllo esercitato da chi è in una posizione di predominio rispetto a noi.

Se andiamo a guardare più da vicino che cosa significa libertà come assenza di dominio, scopriamo che essa presuppone «l’assenza di dominio in presenza di altre persone, non l’assenza di dominio ottenuta tramite l’isolamento» o, in altri termini, «l’assenza di dominio è lo status associato con il ruolo civile del liber» e «liberty is civil as distinct from natural freedom». E ancora «non domination» presuppone non già una casuale assenza di interferenza arbitraria con le mie scelte, ma un’assenza stabile e resilient di interferenza.

Una dicotomia di dubbia applicabilità: qualche controesempio

A mio avviso la dicotomia tra questi due concetti di libertà negativa non è però in grado di svolgere la funzione che Pettit le attribuisce. Non solo singoli autori contemporanei come Gaus e Raz rappresentano eccezioni, come lo stesso Pettit riconosce, ma un’intera area del liberalismo che è probabilmente la più rappresentativa e dinamica in questa fase storica non riesce ad essere agevolmente collocata all’interno di questa dicotomia. La dicotomia dei due concetti di libertà non è in grado cioè di separare con una qualche misura di plausibilità le due diverse aree del repubblicanesimo «politico» (tralascio per brevità di considerare quello «metafisico») e del liberalismo liberal, che pure dovrebbe separare.

Eviterò di considerare il caso di un autore di difficile collocazione come Habermas – il quale accoglie nella sua opera una notevole quantità di motivi liberali ma ha sempre mostrato una altrettanto notevole diffidenza verso il dichiarsi liberale tout court. Prenderò invece brevemente in esame alcuni aspetti dell’opera di Rawls, Dworkin e Ackerman per mostrare come nel loro caso ci troviamo in presenza di autori dichiaratamente liberali la cui idea di libertà non si lascia in alcun modo ricondurre alla nozione di «freedom from interference».

Prendiamo il caso di Rawls, sulla cui opera Pettit ha scritto, insieme a Chandran Kukhatas, un pregevole commentario. Se esaminiamo il paragrafo 32 di Una teoria della giustizia, vi troviamo una concettualizzazione della libertà che sembra calzare con lo schema di Pettit. Scrive Rawls:

La descrizione generale della libertà quindi ha la seguente forma: questa o quella persona (o persone) è libera (o non libera) da questo o quel vincolo (o insieme di vincoli) di fare (o non fare) questo o quello… Le persone hanno così la libertà di fare una cosa quando sono libere da certi vincoli che riguardano il farla o non farla, o quando il farla o non farla è protetto contro l’interferenza di altre persone.

Come è stato sostenuto, separare concettualmente la libertà dall’eguale distribuzione della libertà – come fa Rawls quando si pone la domanda «perché volere che la libertà sia egualmente distribuita?» – significa ammettere che possa aver senso parlare di libertà anche quando alcuni ne hanno di più e altri di meno. Mentre è proprio dell’idea repubblicana di libertà il presupporre che la libertà, intesa come libertà attraverso o tramite la legge e non come libertà dalla legge, non sussiste affatto per nessuno se non è distribuita egualmente. Si potrebbe abbandonare Una teoria della giustizia al suo destino concedendo che vi permane il riflesso di una concezione liberale atomistica, poi corretta in Liberalismo politico – un riflesso che è tradito appunto dal domandarsi perché dobbiamo volere che la libertà sia distribuita egualmente, come se la libertà preesistesse allo Stato e alla politica e questi potessero modificarne o lasciarne inalterata una naturale distribuzione.

Ma ritengo che non sia necessario. I critici repubblicani di Rawls forse guardano nel posto sbagliato. La struttura argomentativa di una teoria della giustizia è quella di un resoconto dei risultati di un esperimento mentale – la ben nota deliberazione nella posizione originaria, dietro il velo dell’ignoranza, riguardo alla struttura fondamentale della società. Il punto di vista della giustizia, di justice as fairness, è emulato dalla finzione del velo dell’ignoranza, dietro cui avviene la deliberazione dei decisori. Ma questo stesso punto di vista, che è quello a partire dal quale si discute poi della distribuzione egualitaria della libertà, poggia sull’assunto imprescindibile dell’eguale libertà dei decisori di determinare i futuri assetti distributivi della società. È nell’eguaglianza imprescindibile del loro status di «co-autori» della scelta riguardo alla struttura fondamentale – nell’ingiustificabilità del fatto che il parere di qualcuno pesi più di quello di qualcun altro in quella scelta – che va visto il «momento repubblicano» nel contesto di Una teoria della giustizia. Anche in Habermas, un autore che talvolta ha usato l’espressione «repubblicanesimo kantiano» per descrivere la propria posizione e comunque non ha mai accettato l’etichetta di «liberale», troviamo la finzione di un dialogo intorno a quali diritti è razionale concedersi reciprocamente da parte di consociati liberi ed eguali che hanno intenzione di regolare la loro vita comune secondo il diritto piuttosto che secondo l’equilibrio dei rapporti di forza. In questo dialogo anche i consociati e futuri concittadini habermasiani si devono porre il problema del «quantum» di libertà si possono concedere e come questa vada distribuita, ma sicuramente non per questo si può rimproverare a Habermas, né alcun commentatore repubblicano lo rimprovera, di avere una visione giusnaturalistica della libertà come preesistente alle leggi.

In realtà, è possibile segnalare in Una teoria della giustizia anche altri elementi di dissonanza con l’attribuzione di una concezione della libertà come assenza di interferenza. Ad esempio, fra i beni primari troviamo incluse «le basi sociali del rispetto di sé». Come è possibile sostenere che l’idea di libertà come assenza di dominio, ovvero di soggezione all’arbitrio altrui ancorché non esercitato, sia aliena dall’impianto rawlsiano, se uno dei beni oggetto di attenzione nella discussione sullo schema distributivo cui informare la struttura fondamentale della società è dato proprio dai requisiti necessari perché ciascuno possa avere rispetto di se stesso?

In Liberalismo politico, poi, non vi è modo di avere alcun dubbio circa l’improponibilità di un’interpretazione che schiacci l’idea di libertà ivi presupposta sulla nozione di mera assenza di interferenza. Lo impedisce la stessa formulazione iniziale del problema a cui l’intero libro costituisce una risposta: come è possibile che esista e duri nel tempo una società stabile e giusta di cittadini liberi ed eguali profondamente divisi da dottrine religiose, filosofiche e morali incompatibili, benché ragionevoli?.

L’idea di eguale rispetto, che è sottesa anche alla concezione della libertà come assenza di dominio, appare qui inseparabile da tutta una serie di nozioni che sostengono l’architettura di Liberalismo politico. Basti citare l’idea di «equa cooperazione», il «dovere di comportamento civile» che lega i cittadini gli uni agli altri, obbligandoli a fornirsi reciprocamente delle giustificazioni, le idee di overlapping consensus e di ragione pubblica. Tutte queste nozioni poggiano su un nucleo normativo più profondo, per così dire, che Charles Larmore ha identificato nell’ideale dell’eguale rispetto. La transizione stessa dal modello rational choice sotteso a Una teoria della giustizia a quello del consenso per intersezione proprio di Liberalismo politico è spiegata da Larmore in termini di influenza di un soggiacente principio dell’eguale rispetto. Si tratta infatti di una transizione per nulla necessaria: dopotutto, osserva Larmore, potremmo legittimamente domandarci per quale motivo la risposta liberale a questa controversia [intorno ai presupposti atomistici tipici del liberalismo «metafisico»] debba prendere la forma di una riformulazione dei principi del liberalismo. Perché mai il liberalismo dovrebbe diventare «politico» nel senso inteso da Rawls e da me? Per quale motivo i liberali non dovrebbero puntare i piedi e, dopo aver fatto notare giustamente che nessuna concezione politica può essere compatibile con tutti i punti di vista, sostenere che il liberalismo si regge sul filo di una professione di fede individualista?.

Nella risposta sottesa alla formulazione «autonoma» (freestanding) di justice as fairness è possibile rinvenire la fedeltà di Rawls a quel «nucleo morale del pensiero liberale» che è dato dall’idea di eguale rispetto e dal requisito, ad essa conseguente, secondo cui i principi politici fondamentali dovrebbero essere accettabili razionalmente da parte di coloro che da essi verranno poi vincolati. Infatti, la ragione per cui consideriamo non giusta l’accettazione dei principi politici sulla base della forza non consiste nel fatto che l’uso della forza sia di per sé sempre ingiusto: altrimenti, come ci insegna Weber, la stessa idea di associazione politica, la quale sul proprio sfondo comprende sempre la possibilità dell’uso della forza, dovrebbe essere considerata intrinsecamente ingiusta. La ragione è piuttosto che il perseguire obbedienza tramite l’uso o la minaccia dell’uso della forza, senza entrare in qualche modo in contatto con la capacità dell’altra persona di pensare con la propria testa, o entrandovi in contatto solo nel senso limitato di una valutazione costi/benefici dei vantaggi dell’obbedire, equivale a trattare quella persona in un modo diverso, e sicuramente «demeaning», rispetto al modo in cui desideriamo essere trattati noi. Dunque, conclude Larmore, «rispettare un’altra persona come fine vuol dire esigere che i principi politici e i principi sottesi alla coercizione fisica siano altrettanto giustificabili agli occhi di quella persona quanto lo sono ai nostri». Tutto ciò esclude dunque un’interpretazione di Liberalismo politico che possa ridurre la nozione di libertà ivi implicita a quella della mera assenza di interferenza.

Infine, nel corso del suo scambio con Habermas del 1995, Rawls ha colto l’occasione per affinare alcuni dei suoi concetti principali e introdurne di nuovi, i quali ancora più fortemente risultano debitori nei confronti di una concezione ricca della libertà come assenza di dominio. Penso all’idea, ad esempio, di stabilità per le giuste ragioni – la quale poggia sul concetto di ragionevole consenso per intersezione – e che non avrebbe alcun senso se non presupponessimo forme della legittimità poltica che sono direttamente collegate al riconoscimento da parte dei cittadini in quanto liberi ed eguali e dotati tutti delle due facoltà morali. In conclusione, anche se tracce atomistiche permangono in Una teoria della giustizia, neppure limitatamente al contesto di quell’opera esse autorizzano un’attribuzione di Rawls alla schiera dei sostenitori della liberta come assenza di interferenza, mentre appena prendiamo in esame la produzione più recente di questo autore, un’interpretazione del genere appare gravemente fuorviante.

Il caso di Dworkin è ancora più evidente. Non soltanto Dworkin è l’autore di Liberal Community , un saggio del 1989 in cui traccia i contorni di un liberalismo che include aspetti di «republicanesimo civico», ma al centro della sua teoria del diritto ha posto la nozione di eguaglianza intesa come eguale rispetto – una nozione dunque che entra in palese dissonanza con l’idea di libertà come assenza di interferenza.

In Liberal Community Dworkin intende prendere le distanze tanto dal comunitarismo, inteso qui principalmente come l’assunto secondo cui esiste un primato normativo dell’interesse comune nei confronti degli interessi individuali in tutte le sfere della vita sociale, quanto dal liberalismo atomistico tradizionale, secondo cui non esiste nulla che possa essere chiamato interesse della comunità al di là della sommatoria di interessi individuali che coincidono e si aggregano. Dworkin accetta la tesi secondo cui ogni comunità politica ha una vita collettiva propria, qualitativamente peggiore o migliore a seconda di certe scelte collettivamente compiute, ma restringe l’ambito di questa vita comune alla sola sfera dell’agire politico, intesa in senso istituzionale (come insieme di atti legislativi, giudiziari e di governo).

Questa posizione è illustrata da Dworkin in riferimento alla vita collettiva di un’orchestra. La vita collettiva di una comunità, sostiene Dworkin, si limita all’insieme di quegli atti che sono riconosciuti collettivi dalla coscienza comune e dalle pratiche sociali vigenti. Per esempio, l’atto dell’eseguire una sinfonia è solitamente concepito, tanto da parte dei partecipanti (i musicisti dell’orchestra) quanto da parte della comunità più vasta degli ascoltatori, come un atto singolo compiuto da un attore collettivo all’interno di una pratica musicale. In secondo luogo, le azioni individuali che contribuiscono a costituire gli atti collettivi di cui si compone la vita collettiva della comunità devono essere coordinate non secondo il modello della convergenza inintenzionale dei risultati, tipico del mercato, ma mediante la concertazione delle intenzioni e dei piani di azione degli attori. Infine, deve esistere una chiara corrispondenza fra le qualità richieste per essere membro della comunità e la natura degli atti collettivi che ne costituiscono la vita comune, come pure fra la natura di questi atti collettivi e il tipo di vita collettiva che una comunità conduce. Un’orchestra da un lato seleziona come qualità rilevante ai fini della appartenenza la competenza musicale, e dall’altro vive una vita comune che è ristretta al solo momento dell’esecuzione musicale. Ne segue che la connessione fra qualità della vita individuale e qualità della vita collettiva sussiste solo nell’ambito degli atti collettivi che costituiscono l’identità della comunità. E questo fa della posizione dworkiniana una posizione liberale.

Al tempo stesso si tratta però di un liberalismo indistinguibile dal nocciolo valoriale che Pettit attribuisce al repubblicanesimo. Dworkin infatti presenta il suo «liberalismo integrato» o «repubblicanesimo civico di marca liberale» come una terza via fra l’individualismo atomistico del primo liberalismo – secondo il quale un individuo «non considererà la sua vita meno riuscita se, a dispetto dei suoi migliori sforzi, la comunità accetta una grande ineguaglianza economica, o forme di discriminazione razziale, o altre forme di discriminazione ingiusta, o limiti ingiusti alla libertà individuale» – e l’integralismo comunitarista – per il quale la qualità della vita individuale è minacciata da qualunque deviazione dalle norme comuni. Fra questi due estremi si colloca la posizione del liberale sensibile alla comunità il quale «considererà la sua vita peggiorata [...] se vive in una comunità ingiusta, indipendentemente da quanto egli tenti di renderla giusta». Ma il cittadino liberale sensibile alla integrazione della comunità avverte che il successo della sua vita dipende dal successo della vita collettiva della comunità in un senso particolare. La sua vita personale, cioè, non è influenzata negativamente da tutti gli aspetti negativi o fallimentari della comunità, ma solo da quelli che riguardano il suo soddisfare i criteri della giustizia: «Un cittadino integrato accetta che il valore della sua vita dipende dal fatto che la sua comunità riesca a trattare ciascuno in termini eguali».

Troviamo qui presente in termini espliciti l’idea repubblicana secondo cui non vi è vera libertà per nessuno se non vi è, all’interno di un ordinamento istituzionale, eguale libertà per tutti. Troviamo anche pienamente presente la idea di eguale dignità di tutti i cittadini e dunque anche, implicitamente, l’idea che laddove questa eguale dignità non sia riconosciuta nei fatti o peggio ancora non sia formalmente istituzionalizzata, non può esservi libertà in senso pieno – dunque libertà come assenza di dominio, non come assenza di interferenza. Nelle parole di Dworkin: la fusione di una moralità politica e dell’interesse critico mi sembra essere la vera spina dorsale del repubblicanesimo civico, la maniera importante in cui singoli cittadini dovrebbero fondere interessi e personalità nella comunità politica. In questa visione si afferma un ideale distintamente liberale, un ideale che fiorisce solo all’interno di una società liberale.

Al di là di questo pur importante articolo, però, va notato come il tema dell’assenza di dominio sia presente in tutta l’opera dworkiniana sotto forma di valore guida dell’eguaglianza. «Che lo Stato parli con una sola voce a tutti i suoi cittadini» diventa il principio che guida non soltanto la interpretazione costituzionale – valorizzare al meglio la Costituzione americana vuol dire per Dworkin, in altri termini, esaltarne la dimensione intrinsecamente egualitaria – ma anche la istituzionalizzazione dei diritti e fornisce una giustificazione non maggioritaria per la democrazia. In Freedom’s Law, ad esempio, la democrazia stessa è posta non come una procedura valida di per sé, autogiustificantesi per così dire, bensì come quella procedura che normalmente meglio assicura la realizzazione di questo ideale di eguaglianza politica.

La concezione dworkiniana della democrazia include un riferimento ancora più esplicito alla nozione di eguale rispetto. Spesso accusato di abbracciare una specie di iperliberalismo caratterizzato dalla priorità assoluta dei diritti rispetto all’autogoverno democratico, Dworkin ha di recente iniziato a sviluppare una concezione della democrazia ispirata al valore dell’eguaglianza, da lui chiamata la «concezione costituzionale della democrazia». Al centro di questa concezione è una giustificazione della democrazia basata non tanto sulla base delle nozioni classiche di autonomia pubblica, autodeterminazione o autogoverno, quanto sulla idea di «equal concern and respect». La democrazia è presentata come la forma di governo che ha maggiori chance di tradurre in pratica l’idea che lo Stato debba rivolgersi con la stessa voce a tutti i suoi cittadini. La ragion d’essere della democrazia è per Dworkin il realizzare uno stato di cose in cui «le decisioni collettive siano prese da istituzioni politiche la cui struttura e composizione e le cui pratiche trattano tutti i membri della comunità, in quanto individui, con eguale sollecitudine e rispetto».

Il bersaglio è invece costituito qui dalle concezioni maggioritarie della democrazia, secondo le quali la democrazia è una forma di governo pensata in primo luogo al fine di poter prendere decisioni collettive «che la maggioranza assoluta o relativa dei cittadini approverebbe se pienamente informata e razionale» – ma è chiaro che la concezione dworkiniana entra in tensione anche con quella idea di democrazia deliberativa, declinata con accenti diversi da Habermas e Michelman, che fa ruotare il concetto di democrazia attorno al perno dell’autogoverno. La «concezione costituzionale» avanzata da Dworkin parte invece dall’assunto, che pure è presente anche nella tesi habermasiana della complementarità di autonomia privata e pubblica, diritti e autogoverno, ossia dall’assunto secondo cui in ultima analisi l’ideale dell’eguale rispetto non è un esito dell’autogoverno democratico ma, al contrario, è la democrazia a costituire il migliore ordinamento politico disponibile per una collettività di cittadini che desiderino ispirare la loro convivenza politica all’eguale rispetto reciproco. Il carattere derivato della democrazia rispetto all’ideale dell’eguale rispetto è ulteriormente messo in luce dal vantaggio che, secondo Dworkin, si accompagna al suo concetto di democrazia e lo rende preferibile a quello maggioritario.

Mentre infatti tutti quei casi in cui la regola della maggioranza deve in qualche

modo cedere il passo a una diversa procedura decisionale costituiscono altrettante difficoltà per la concezione maggioritaria – in quanto necessariamente essi si configurano come pur inevitabili «carenze democratiche» o «lacune della democrazia» – essi non pongono alcun problema alla concezione costituzionale. Essa li accoglie come casi in cui l’ideale sovraordinato che ispira la democrazia è meglio servito da procedure decisionali che non sono maggioritarie.

Infine, persino in quegli scritti che maggiormente ricalcano il cliché del pensiero liberale «astratto» e «astorico» – gli articoli sul tema dell’eguaglianza e delle sue diverse interpretazioni – troviamo un’accentuazione che contrasta con la dicotomia di Pettit. Anche nel modello distributivo astratto dell’asta condotta sull’isola lontana con gusci di conchiglie al posto del denaro, il test che secondo Dworkin misura l’equità della distribuzione finale altro non è se non l’assenza di invidia di ciascuno per il gruppo di risorse di cui il vicino è entrato in possesso attraverso l’asta. E nell’assenza di invidia si riflette naturalmente l’assenza di dominio.

Nel caso di Bruce Ackerman l’ideale dell’eguale rispetto è sotteso sia al suo modello del dialogo limitato dai tre principi di razionalità, coerenza e neutralità, sia alla sua concezione dualista della politica costituzionale. Il «principio di razionalità» – che obbliga ogni titolare di una posizione di autorità a rispondere ad ogni domanda intorno alla legittimità della sua posizione «fornendo una ragione che spieghi per quale motivo lui ha più titolo a possedere quella risorsa rispetto a chi pone la domanda» – ovviamente presuppone che l’idea di mutuo ed eguale rispetto informi il rapporto verticale fra governanti e governati. Un’analoga considerazione vale anche per il rapporto orizzontale fra cittadini. Il «principio di neutralità» proibisce ai partecipanti di giustificare le proprie rivendicazioni di risorse in modi che implichino tanto che la loro concezione del bene è superiore alle concezioni affermate da altri cittadini, quanto che chi avanza la rivendicazione è intrinsecamente superiore a qualunque altro concittadino. Non ci vuole un grosso sforzo di analisi filosofica per comprendere che un principio siffatto poggia sull’assunto ancora più fondamentale secondo cui i cittadini di una polis giusta possiedono il diritto ad un’eguale considerazione – un diritto che non deriva, ma al contrario è presupposto, da una conversazione guidata da principi intorno alla distribuzione delle risorse.

Meno ovvia è la presenza implicita di un’idea di liberta come assenza di dominio nel quadro teorico che Ackerman sviluppa nei volumi della trilogia We the People . Ad un esame attento risulta tuttavia che, attraverso la mediazione della nozione di eguale rispetto, questa idea è presupposta dal quadro teorico di We the People in due diversi sensi. Nel primo senso, la troviamo collegata agli aspetti formali del processo di modifica costituzionale. Come Ackerman fa ripetutamente notare, la differenza che distingue le profonde innovazioni costituzionali perseguite in contesti diversi da Madison, Lincoln e Roosevelt dal tipo di rottura totale con l’ordine istituzionale precedente perseguita da Robespierre o Lenin sta nel persistere, tipico delle prime ma non della seconda, di una forte e incrollabile fedeltà all’idea che persino il mutamento istituzionale di ordine più elevato deve essere realizzato in maniera consensuale e deve essere giustificato con ragioni in grado di essere convincenti per tutti coloro che dal mutamento in questione sono in qualche modo affetti. Persino nei più oscuri momenti della trasformazione costituzionale – per esempio, quando i costituenti rinfocolavano le ambizioni presidenziali di politici locali al fine di accelerare il processo di ratifica della Costituzione americana nel 1787, oppure quando veniva usata la minaccia di esclusione dalla rappresentanza in Congresso per premere sulle assemblee legislative degli Stati del Sud al fine di indurle ad approvare il Tredicesimo emendamento – fu mai contemplato l’uso della forza bruta. Nonostante l’uso di forme tradizionali di pressione politica, veniva pur sempre preservata una fedeltà almeno formale all’ideale di un dialogo tra eguali legati fra loro da un rapporto di mutuo rispetto.

Il secondo senso in cui l’idea di libertà come assenza di dominio è sottesa al quadro teorico di We the People ha a che fare con gli aspetti sostanziali del processo di mutamento costituzionale al centro dell’attenzione di Ackerman. Il tema di fondo che unifica infatti i tre momenti salienti della Fondazione, della Ricostruzione e del New Deal come episodi della medesima narrazione è costituito dalla graduale costruzione dell’identità nazionale del popolo americano. L’abolizione del potere di veto attribuito ai singoli Stati dell’Unione dagli Articles of Confederation; la priorità, sancita dalla Ricostruzione, del carattere nazionale della cittadinanza rispetto a definizioni più restrittive e locali della cittadinanza stessa; e l’idea, propria del New Deal, di un diritto del governo ad intervenire nell’economia per il bene dell’intera comunità nazionale sono tessere di un unico mosaico in cui disegno è dato dal graduale superamento di una concezione ristretta della «polity» americana come federazione di «polities» locali organizzate in Stati sovrani, ossia dal graduale superamento di un «modus vivendi» in direzione di un corpo politico nazionale in cui ogni cittadino ha effettivamente egual peso. La stessa proposta ackermaniana di una Popular Sovereignty Initiative è giustificata da lui in base all’idea del conferire al voto di ogni singolo cittadino dell’Unione – che abiti nella popolosa California o nello scarsamente abitato Idaho – la stessa influenza nel determinare la volontà collettiva quando si tratti di scelte costituzionali. Da questo punto di vista emerge in piena luce il legame fra l’interpretazione ackermaniana della storia costituzionale americana, la sua proposta per una nuova procedura di emendamento della Costituzione, e l’idea di assenza di dominio, concretizzata in questo caso come idea di un’eguale influenza di ciascun cittadino sulla formazione della volontà democratica.

Un discorso analogo, che non è però possibile sviluppare qui, andrebbe fatto su Charles Larmore, filosofo liberale di una generazione più giovane dei precedenti, la cui proposta di un «liberalismo politico», nata in parziale polemica con il normativismo più accentuato di Una teoria della giustizia, poggia sulla nozione di «eguale rispetto», da lui definita «the moral heart of liberalism». Anche in questo caso l’ipotesi di un’affinità elettiva tra liberalismo e concezione della libertà come assenza di interferenza si dimostra infondata.

Ma soprattutto va considerato il fatto che la dicotomia «libertà come assenza di interferenza» versus «libertà come assenza di dominio» non riesce a funzionare neppure se i nostri riferimenti si spostano su figure liberali antecedenti alla nuova stagione inaugurata da Una teoria della giustizia. Figure come Dewey e Roosevelt risultano difficilmente classificabili sotto il titolo di liberali che identificano la libertà come mera assenza di interferenza. Per quanto riguarda Dewey, Liberalism and Social Action è un testo in cui viene articolata una nozione di individuo assai più ricca di quella tradizionalmente associata al liberalismo. Riferendosi alle correnti «idealistiche» interne al liberalismo britannico, Dewey ne loda il contributo sostenendo che esso ha favorito il tramonto dell’idea che la libertà sia qualcosa che gli individui hanno in loro possesso […] i nuovi liberali hanno coltivato l’idea che lo Stato ha il compito di creare istituzioni all’interno delle quali gli individui possono portare efficacemente a realizzazione le loro potenzialità.

Ma la stessa opera di Dewey The Public and its Problem non può essere intesa se non sullo sfondo di una concezione della libertà che non equivale alla semplice assenza di interferenza. La sfera pubblica, per usare una terminologia habermasiana, diventa importante solo se si assume che la libertà include un momento di assenza di dominio, che solo la presenza di un pubblico attento e vigile può rendere duratura.

Riguardo a Roosevelt, basterà citare soltanto un passo del suo famoso discorso di accettazione della nomination come candidato presidenziale, discorso tenuto alla convenzione democratica di Filadelfia del 1932, il quale anticipa alcuni degli argomenti che alcuni anni più tardi Roosevelt utilizzerà a difesa del New Deal sotto attacco da parte di una Corte suprema che interpretava, essa sì, la Costituzione sullo sfondo di una concezione laissez-faire della libertà. Roosevelt parla di libertà – libertà politica e libertà economica – e afferma:

La libertà richiede la possibilità di potersi guadagnare da vivere – da vivere in modo decente secondo gli standard del proprio tempo, da vivere in un modo che dia agli uomini non solo qualcosa di cui vivere, ma anche qualcosa per cui vivere. Per troppi di noi l’eguaglianza politica di cui una volta godevamo è stata svuotata di senso dalla diseguaglianza economica [...] per troppi di noi la vita non era più libera [al tempo della Grande Depressione]; la libertà non più reale; e non era più possibile perseguire la felicità. [...] Oggi noi ci impegniamo ad affermare che la libertà non è qualcosa che può essere lasciata a metà. Se al cittadino comune si garantiscono eguali opportunità nella cabina elettorale, gli si devono garantire eguali libertà anche sul mercato.

Se Roosevelt avesse inteso la libertà nel modo in cui Pettit ci invita ad attenderci che ogni liberale faccia, come mera assenza di interferenza, non ci sarebbe probabilmente stato alcun New Deal, per il semplice motivo che non vi sarebbe stata alcuna differenza fra il modo in cui il ceto imprenditoriale statunitense e la Corte suprema dei primi anni Trenta concepivano il liberalismo e il modo in cui Roosevelt stesso lo concepiva.

Andando ancora più indietro nel tempo, se analizziamo il cap. 3 del saggio di Mill Sulla libertà, vi troviamo implicita un’idea di libertà come possibilità di coltivare l’originalità ed unicità della personalità, la quale anche in questo caso non si lascia ridurre alla semplice assenza di interferenza: il realizzare le proprie potenzialità, a cui il massimo di libertà di espressione e il pluralismo culturale da essa generato contribuiscono, non è qualcosa che possa aver luogo all’interno di relazioni caratterizzate dal dominio e dall’arbitrarietà.

Conclusione

Ma è ormai inutile continuare l’elenco aggiungendo altri nomi. Ritengo plausibile sostenere che se una distinzione concettuale volta a cogliere il discrimine tra liberalismo e repubblicanesimo non riesce a rendere e a trovare adeguata applicazione in casi come quelli di Rawls, Dworkin, Ackerman, Larmore, Dewey, Roosevelt e John Stuart Mill, e in particolare non riesce a collocarli sul versante liberale del discrimine, esiste il dubbio ragionevole che vi sia qualcosa di radicalmente sbagliato in essa. Semplicemente, la distinzione tra liberalismo e repubblicanesimo non sembra riducibile a una diversa concezione della libertà. Ciò non vuol dire naturalmente che tale distinzione non possa essere tracciata su altre basi, ma non era questo lo scopo di questo saggio.

Concludendo, ho il sospetto che la differenza che più conta nella filosofia politica contemporanea sia quella fra tradizioni di pensiero che riescono ad accogliere una concezione del soggetto della politica che da atomistica si è fatta intersoggettiva – e dunque riescono a muoversi a loro agio sullo sfondo di una mutata costellazione delle scienze sociali, storiche e filosofiche. E accanto a questa giochi un ruolo importante anche un’altra differenza: quella fra tradizioni che accettano pienamente le conseguenze del «fatto del pluralismo» e rinunciano a un normativismo fondato su principi e punti archimedici e tradizioni che continuano a elaborare «standard universalistici» come se nulla di nuovo sotto il sole filosofico fosse apparso nel secolo che si sta chiudendo. Troviamo da un lato un repubblicanesimo aristotelizzante che fondamentalizza la partecipazione come forma di vita superiore e dall’altro liberalismi che invece fondamentalizzano il mercato e l’agire razionale rispetto allo scopo come unica sede della razionalità. Troviamo repubblicanesimi che accolgono invece pienamente il pluralismo, come quello di Michelman, e dunque possono fregiarsi del titolo di «repubblicanesimi politici» a pari titolo del liberalismo politico. Se prendiamo come riferimenti questi due assi, non c’è veramente nulla di sostanziale, almeno al momento, che ci spinga a dover considerare tradizioni concorrenti il repubblicanesimo «politico» di cui abbiamo parlato in apertura e il liberalismo liberal. Entrambi sono distanti anni luce tanto dal repubblicanesimo integralista quanto dal liberalismo liberista e, insieme a quell’altra corrente che va sotto il nome di democrazia deliberativa e di cui non abbiamo neppure accennato, formano l’area sicuramente più dinamica del pensiero politico contemporaneo.

 

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