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From: "Carlo Spagnolo"
spagnolo@datacomm.iue.it
Subject: Intervista a Foa
Date: Thu, 28 Oct 1999 23:30:07 +0200

 Carlo Spagnolo, Replica a Vittorio Foa

1. Condivido totalmente le motivazioni di fondo - promuovere una pace equa nella ex-Jugoslavia, avviare un piano di aiuti per i Balcani, e in generale favorire una redistribuzione delle risorse mondiali - che spingono Vittorio Foa ad enfatizzare il ruolo positivo del piano Marshall, ma ritengo che sul piano storico egli abbia ecceduto nella rivalutazione del piano americano, e che così facendo trascuri le implicazioni che una sua riproposizione avrebbe nei Balcani. Le nuove preoccupazioni per una pace equa, ma forse anche il clima revisionista lo inducono oggi a trascurare le ragioni che ieri lo portavano all’opposizione. È proprio la comunanza con quella coerenza critica che Foa non ha mai dismesso a spingermi a discutere le sue dichiarazioni.

2. Foa ha solo in parte ragione quando attribuisce al piano Marshall la funzione storica di aver "messo fine a una pratica millenaria, quella secondo la quale le guerre si fanno per sottomettere i vinti e farne poi pagare loro il prezzo." Dimentica che quello era un effetto delle due guerre mondiali, non del piano Marshall. La seconda guerra mondiale, in particolare, aveva trasformato in vinti anche i vincitori, tranne gli Stati Uniti. Nel 1945 la memoria di Versailles era troppo viva per portare ad una pace altrettanto punitiva. Era chiaro a tutti che Germania, Giappone e Italia non sarebbero stati in grado di pagare i danni provocati. La difficoltà di un pace equa stava a mio avviso nei termini opposti: se i paesi sconfitti avessero il diritto di tornare prima o poi a primeggiare nell’agone mondiale, o se non dovessero lasciare definitivamente il primato a chi li aveva sconfitti.

Al tavolo della pace, Molotov fu ben più favorevole alla riunificazione della Germania del suo collega americano Byrnes, nella convinzione di potervi estendere l’ influenza sovietica. Il problema della pace non era di sottomettere per sempre i vinti, ma piuttosto di capire se e quanto i paesi responsabili del conflitto avrebbero dovuto contribuire alla ricostruzione dei paesi da loro devastati nonchè se fosse necessario privarli dell’industria pesante per impedire la ripetizione delle loro politiche di potenza, come ad esempio proponeva il ‘piano Morgenthau’. Su tale questione "morale", oltre che politica, si aprì un contenzioso trasversale a tutti gli schieramenti, tanto più che dalla conferenza di Potsdam in poi gli USA misero in discussione il diritto sovietico a larghe riparazioni dalla Germania.

Anche sul piano economico, l’orientamento umanitario prevalse sin dalla liberazione. Già prima del piano Marshall - dal 1945 al 1946 - l’UNRRA, una speciale branca delle Nazioni Unite a cui partecipava anche l’URSS, distribuiva aiuti senza discriminazioni politiche a tutti i paesi bisognosi. L’UNRRA salvò milioni di persone, e di vinti, dalla morte per fame e permise i primi passi della ricostruzione. Con l’eliminazione quasi totale delle riparazioni a carico della Germania, il piano Marshall portò sì a compimento questa politica di benevolenza verso gli sconfitti, ma la snaturò escludendo le Nazioni Unite dalla sua gestione.

La "rivoluzionarietà" del piano Marshall consisteva non tanto in una nuova concezione dei rapporti coi vinti quanto nella riaffermazione dei valori del capitalismo liberale, scossi dalla crisi del ’29 e dalla guerra. La vera rottura dell’European Recovery Program (il nome ufficiale del piano Marshall), era rappresentata dall’ obiettivo di uno sviluppo capitalistico come condizione primaria della pace, escludendo perciò dal nuovo ordine tutti i paesi che il capitalismo rifiutassero. L’ERP metteva sotto questo profilo sullo stesso piano vinti e vincitori - qui Foa ha pienamente ragione - e suscitava proprio per questo risentimenti tra chi della guerra e del fascismo aveva più sofferto. Il piano Marshall anteponeva l’efficienza alla morale. Stava qui la sua forza, ma anche la sua debolezza.

3. Oltre a questa divergenza interpretativa "storiografica", ci sono nel discorso di Foa tre lievi imprecisioni che, di per sè secondarie, mi paiono indicative di una sottovalutazione delle implicazioni politiche degli aiuti Marshall, che andrebbero tenute presenti anche per il piano nei Balcani. Primo, dire che i soldi americani "dovevavano essere spesi in funzione della ricostruzione dei paesi sconfitti" potrebbe trarre in inganno il lettore. Gli aiuti del piano Marshall ricompensarono soprattutto i vincitori europeo-occidentali per il loro consenso alla ricostruzione rapida della Germania. I principali beneficiari degli aiuti furono la Gran Bretagna e la Francia in cifre assolute, l’Olanda pro-capite. Italia e Germania furono terze ex-equo in cifre assolute. Le ragioni politiche, non ultima l’anticomunismo, predominavano su quelle economiche.

Secondo, Foa nota che la "domanda esterna" prodotta dagli aiuti può essere nell’interesse economico dei donatori, aggiungendo che un "equivalente odierno del piano Marshall potrebbe essere uno dei mezzi decisivi per riavviare l’economia". Tale concezione egoistica degli aiuti è un’arma a doppio taglio, perché suscita aspettative e legittima le lobbies interne a scapito dei paesi da assistere. La pressione dei gruppi d’interesse americani, uno dei punti deboli del piano Marshall, fu contenuta grazie al ‘pericolo rosso’; ma oggi? La posizione egoistica avrebbe pienamente senso se l’Unione Europea si impegnasse ad assumere a proprio carico il benessere delle popolazioni balcaniche, ma è davvero quello che vogliamo?

Terzo, attribuire una comunanza di vedute tra "i tecnici americani" e "le idee della sinistra" durante l’ERP suona autoassolutorio. I tecnici americani a cui Foa fa riferimento appoggiavano politiche riformiste basate su modelli di consumo, relazioni industriali e ideali politici che nè la DC nè l’estrema sinistra condividevano, e che oggettivamente poco si adattavano alla cultura e al grado di sviluppo del nostro paese. Non spetta a me rammentare a Foa che il piano Marshall proponeva un modello di società e combatteva il comunismo.

4. C’è inevitabilmente una diversa visione tra chi gli eventi li ha vissuti e chi li ha solo studiati. La prima è più ricca e vitale, la seconda più fredda. Tuttavia una visione del passato proiettata sul presente senza mediazioni può distorcere la percezione dei nostri compiti. Foa mette acutamente in guardia contro una ripetizione meccanica del piano Marshall, notando le differenze dei contesti, ma non si spinge abbastanza avanti nella critica. Ho la sensazione che Foa, mentre rivaluta il piano Marshall, lo interpreti ancora con le categorie del 1947, solo mutate di segno. Nell’ argomentazione risuonano le tesi, di matrice zdanoviana, che riducevano gli aiuti ERP ad una necessità dell’economia americana e ad un atto di aggressione ‘imperialista’. Con tale erronea interpretazione la sinistra italiana perse di vista il carattere espansivo del modello statunitense e si condannò alla subalternità. Riconoscendo implicitamente l’errore di allora, Foa sembra però adesso vedere solo luci là dove prima erano solo ombre.

La guerra in Kossovo ha aperto una fase estremamente delicata per tutta l’Europa, che sollecita un’analisi più sfumata. La sinistra europea vuole oggi fare del modello americano uno strumento per la propria espansione? Vogliamo riprodurre nella ex-Jugoslavia, senza neanche avere consapevolezza delle sue implicazioni politiche, l’ operazione egemonica del piano Marshall? Ci rendiamo conto che rischiamo di riproporre, sotto forme inedite, una nuova guerra fredda, orientata alla ricerca di un nuovo nemico antiliberale e anticapitalista?

Se ritenessimo di creare una sfera di influenza dell’Unione Europea nei Balcani - il che potrebbe persino essere una scelta razionale se necessaria ad evitare nuovi drammi - dovremmo formulare i nostri obiettivi politici e riformisti in termini di diritti di cittadinanza e di strumenti per conseguirli (senza limitarci a favorire la crescita economica e instaurare il libero mercato) e solo in base ad essi precisare gli strumenti economici. Invertire l’ordine è fonte di grave confusione e di sicuri conflitti, oltre che di una rinnovata subalternità. Forse c’è bisogno di un mito per nutrire i progetti del riformismo, ma è bene che si abbia coscienza di quante ambiguità il mito possa essere portatore, per non incorrere nei Balcani in nuovi errori.

 

 

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