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La riforma e le riforme

Federico Coen

 

È possibile che un grande paese cambi la propria Costituzione in tempo di pace? O, per essere più precisi, in mancanza di traumi epocali, di carattere bellico o rivoluzionario? L’esperienza storica europea suggerirebbe a questa domanda una risposta negativa: in Francia, la Costituzione della Quinta Repubblica aveva alle sue spalle la guerra d’Algeria; in Germania come nella stessa Italia le Costituzioni vigenti nascono dalle sconfitte subite nella seconda guerra mondiale; in Spagna e in Portogallo dal crollo dei regimi sanguinari di Franco e Salazar; in Russia e nei paesi dell’ex impero sovietico, c’è voluto appunto il crollo dell’impero. Fanno eccezione i paesi del Nord-Europa dove le monarchie hanno garantito, qui più qui meno, una sostanziale continuità istituzionale, ma nel caso della Gran Bretagna si potrebbe ricordare che l’instaurazione di un regime parlamentare è stato, tre secoli fa, il risultato della "gloriosa" Rivoluzione del 1688.

Dico questo non per scoraggiare quanti si impegnano nel tentativo di fare della riforma costituzionale uno dei temi centrali della fase finale di questa legislatura, ma solo per sottolineare l’estrema difficoltà dell’impresa e suggerire quindi alcune necessarie cautele, per non finire ancora una volta nelle secche di un dibattito a vuoto che si protrae da quasi vent’anni, e che neppure i traumi di Tangentopoli e del secessionismo della Lega sono serviti a far decollare. E la prima cautela sta nella scelta dell’organo deputato alla riforma, che nel contesto attuale non può certamente essere un’assemblea costituente: in tempo di pace, l’esistenza di un’assemblea di questo tipo operante a fianco e in concorrenza con il parlamento (duplicazione verificatasi in Italia nell’anomala situazione post-bellica) avrebbe effetti destabilizzanti. Del resto, tanto Berlusconi che Fini non nascosero nel 1996 e non nascondono oggi l’obiettivo di servirsi della costituente per rovesciare il risultato delle elezioni politiche.

È quindi inevitabile il ricorso all’art. 138 della Costituzione, con le complicazioni conseguenti, a cominciare dal vincolo della maggioranza di due terzi per non dover affrontare poi, materia per materia, la complessa procedura del referendum. Ma la complicazione maggiore, ricorrendo a questo metodo, sta nel pericolo che, procedendo a pezzi e a bocconi, si arrivi a confezionare alla nostra Repubblica una specie di vestito di Arlecchino in cui le stoffe adoperate dal sarto non si compongono in un disegno coerente. La proposta avanzata da Antonio Baldassarre, di una legge quadro contenente i principi ispiratori dei vari pezzi della riforma, legge che potrebbe essere sottoposta alle procedure dell’art. 138 e divenire quindi vincolante per le successive norme di attuazione, avrebbe probabilmente un effetto risolutivo; ma è ben difficile da realizzarsi, perché richiederebbe fin dall’inizio una convergenza politica molto ampia, come quella che invano si cercò di realizzare in Bicamerale.

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In ogni caso, e soprattutto nell’ipotesi che si debba procedere alla riforma materia per materia, è essenziale avere ben presente quali sono le necessarie connessioni tra i vari pezzi della riforma, il rapporto dialettico e non di mera giustapposizione che dovrà stabilirsi tra le differenti istituzioni in cui si articolerà l’edificio costituzionale, l’architettura insomma di questo edificio e non solo l’ingegneria delle sue singole componenti.

La prima e più importante connessione sta ovviamente nel rapporto fra forma dello stato e forma di governo. La scelta federalista, che rovescia il vecchio rapporto tra stato, regioni e comuni della ripartizione delle funzioni normative e amministrative, sottraendo al potere centrale gran parte delle sue attribuzioni attuali, consente e al tempo stesso richiede che le funzioni riservate allo stato siano esercitate in condizioni di efficienza e di stabilità ben maggiori di quelle tradizionali. Sotto questo profilo, l’abbinamento proposto dal governo D’Alema della riforma federalista, secondo le linee definite in Bicamerale, con il varo del governo di gabinetto all’inglese, che riduce drasticamente il numero dei ministri e colloca il premier in una condizione preminente (riforma Bassanini), si muove certamente nella direzione giusta.

A condizione però che un’analoga semplificazione dei processi decisionali al vertice dello stato sia estesa anche all’esercizio della funzione legislativa. Se non si riesce a superare il dualismo tra Camera e Senato, che rallenta seriamente e rende spesso problematica l’approvazione delle leggi nazionali, il rapporto tra centro e periferia rischia di naufragare nell’inefficienza e/o in una conflittualità endemica, e d’altra parte il primato del capo del governo – tanto più se eletto direttamente dal popolo – in condizioni di impotenza del parlamento, rischia di dare luogo a un’involuzione autoritaria. In altre parole, un governo nazionale forte e insieme un parlamento nazionale forte rappresentano il necessario contrappeso di un largo trasferimento di poteri dallo stato agli enti territoriali secondo il principio di sussidiarietà.

Solo se si comincia col fare chiarezza sulla costruzione di questi tre pilastri di un rinnovato edificio costituzionale – governo nazionale, parlamento nazionale, struttura e poteri degli enti territoriali – sarà possibile affrontare in modo non strumentale le riforme destinate a garantire un quadro accettabile di stabilità degli indirizzi di governo ai vari livelli: legislazione elettorale, investitura democratica del premier e del suo governo, attribuzione al capo dello stato di ruoli di politica attiva o di mera garanzia, e così via. Questioni essenziali anche queste, ovviamente, così come essenziale è il ripensamento dei principi generali in materia di amministrazione della giustizia. Ma, se si è costretti a procedere pezzo per pezzo, è pur necessario distinguere ciò che, almeno in ordine logico, viene prima da ciò che viene dopo; o, per ritornare al parallelo con gli edifici, distinguere i muri portanti dai tramezzi e dagli arredi. L’agitazione che da destra si va sviluppando sul c.d. presidenzialismo come questione pregiudiziale rivela, in questo contesto, il suo carattere demagogico e strumentale.

Come si è detto, l’impresa di varare la riforma costituzionale in questo scorcio di legislatura è indubbiamente ardua. Prudenza vuole, quindi, che non si perdano di vista le possibili riforme istituzionali – alcune da tempo in cantiere – che non richiedono la revisione della Costituzione. Un esempio da manuale è il recupero della giustizia civile, la cui paralisi è causa di un imbarbarimento senza fine della società italiana. Dalle poste alle ferrovie, gli esempi del genere potrebbero moltiplicarsi. E non è detto che nel bilancio di fine legislatura le riforme di questo tipo, destinate a incidere sulla nostra vita quotidiana, avranno un peso inferiore a quello della "grande riforma".

 

 

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