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Il dilemma faustiano

Mario Pirani

 

Questo articolo è stato pubblicato su La Repubblica (www.repubblica.it) del 15 luglio

Vi è una parte notevole della sinistra che nutre un'inconscia nostalgia per l'opposizione, quel luogo ideale dove non si è obbligati a scontrarsi con la realtà sgradevole dei rapporti di forza, con le leggi del mercato, con i condizionamenti internazionali; ci si può, viceversa, inebriare di parole assolutamente coerenti, disegnare programmi geometricamente perfetti, indossare le vesti gratificanti del moralista. Per contro quanti (a mio avviso una minoranza) hanno assimilato una vocazione a governare, appaiono come esausti dal quotidiano contendere all'interno del loro stesso campo.

Appaiono incapaci di animare una progettualità di respiro condivisa dalla maggioranza dei cittadini, rassegnati ad affidare la loro incerta sopravvivenza più alla scacchiera politicistica, inintelligibile per la gente, che a scatti di fantasia capaci di sorprendere e coinvolgere una opinione pubblica, altrimenti distaccata e malmostosa.

Neppure la sconfitta elettorale, la caduta di Bologna, la ripresa di Berlusconi, l'exploit Bonino hanno provocato quel sussulto profondo di reattività, quella capacità di analisi collettiva, quella lucidità di critica, premesse indispensabili per affrontare con qualche possibilità di successo i due ultimi anni di legislatura e le elezioni regionali del 2000. Anzi, se osserviamo i più recenti episodi, questi non fanno che confermare la precedente diagnosi perdente.

La diatriba sulle pensioni ha solo riproposto, in termini più astiosi, una divergenza di fondo che non arriva a ricomporsi in un percorribile ridisegno complessivo del Welfare state. La discussione, poi, in casa Ds, sul rinnovamento e i compiti di quella organizzazione ha avuto risvolti quasi paradossali, giungendo a teorizzare come via salvifica un più accentuato distacco fra partito e governo. Quasi gli elettori fossero disposti a tagliare in due il giudizio e a non valutare assieme, nel successo o nell'insuccesso, partito e governo. Un'autentica stravaganza che vorrebbe camuffare gli irrisolti contrasti dietro la falsa maschera del pluralismo, con il risultato di proporre al pubblico una stridente cacofonia.

Infine cito un ultimo fatto e, cioè, la denuncia del presidente della Camera, Luciano Violante, dopo il suicidio di un disoccupato palermitano, contro "gli ostacoli burocratici che hanno finora impedito di spendere i 6000 miliardi che il Parlamento ha stanziato per i contratti d' area e i patti territoriali". Non era la prima volta che questo tipo di macroscopiche inadempienze viene denunciato, ma ha davvero senso indicarne il solo responsabile nella "lentocrazia burocratica"? Non è questo fenomeno il frutto della miriade di leggi e leggine, votate proprio dalle assemblee elettive nazionali, regionali e locali che la burocrazia applica, naturalmente esaltando la sua funzione nelle procedure che ne conseguono? E ancora: non sono questi lacci e lacciuoli anche il frutto delle rigidità del mercato del lavoro e delle troppe istanze della concertazione che, paradossalmente, "mangia" se stessa? O l'esito infausto del protezionismo corporativo che ingabbia tanta parte della società italiana?

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Per concludere: il più radicato ostacolo allo sviluppo nel nostro Paese, il tappo che fra l'altro soffoca sul nascere l'occupazione, è appunto un meccanismo di potere in cui un eccesso di presunta democrazia diffusa a tutti i livelli, con poteri di ricorrente veto e rinvio, si combina con una congerie di regolamentazioni di stampo statalistico o, comunque, pubblico che assai poco lasciano allo spontaneo dispiegarsi delle forze di mercato (tranne che queste non si inabissino nel sommerso e nel microcosmo imprenditoriale), allo spirito d'iniziativa dei singoli, alla dinamica propulsiva della liberalizzazione.

E qui il discorso si ricollega al male oscuro della sinistra. Essa è al governo ma i suoi "ordini" (ad esempio gli stanziamenti) non escono dalla stanza dei bottoni; ha fatto fronte con onore e arduo impegno a due scadenze di portata storica, l'euro e la guerra nell'ex Jugoslavia, ma non sembra che il credito conseguitone sia spendibile; è arrivata unita alla vittoria e nel breve spazio di qualche anno si ritrova frammentata e litigiosa, mentre la destra, baldanzosa e sostanzialmente unita, avanza sul proscenio. E' semplicemente ridicolo voler spiegare tutto ciò con lo spigoloso carattere del presidente del Consiglio o con i rancori personali del neopresidente della Commissione europea o, infine, con le impuntature estremistiche del segretario di Rifondazione. Si tratta al massimo di epifenomeni di un processo generale sottostante a tutto quel che siamo venuti fin qui dicendo. Questo processo è individuabile nell'idiosincrasia della sinistra italiana verso la modernizzazione del Paese. Né basta per saldare lo jato appellarsi a ogni piè sospinto a una non meglio precisata "innovazione", quasi fosse una nuova generazione di computer di cui dotare i partiti del defunto (e risorgibile?) Ulivo.

La modernizzazione che occorre al nostro Paese è ben altra cosa: essa consiste nel darsi istituzioni, regole, strutture politiche e amministrative in grado di correlarsi e stare al tempo con i livelli crescenti della tecnologia, con il ritmo incessante degli scambi internazionali, con un difficile confronto culturale, a un tempo di massa e specialistico. La mondializzazione è il contesto in cui siamo obbligati a muoverci. La rapidità di decisione e di esecuzione è condizione prioritaria della competitività. Il salto ha dei costi e non può essere gratuito. L'opposta alternativa sta nell'arroccarsi a difesa di oasi di benessere e di relativa sicurezza, conquistate in condizioni ormai superate, comunque non più alimentabili.

Sul piano più propriamente politico la scelta ripropone un' antinomìa che sembrava superata fra democrazia e libertà. La democrazia parcellizzata, permeante ogni grado di decisione, tradotta in potere politico che sovrintende lo svolgersi quotidiano della società civile, con tempi di decisione infinitamente lenti, sta diventando un ostacolo alla libertà dell'individuo: libertà d'intraprendere, di cambiare, di rischiare. Eppure la democrazia è, a un tempo, la condizione indispensabile per impedire che la società di mercato, come ben diceva Vargas Llosa su queste colonne, si disumanizzi e si trasformi in una giungla spietata dove sopravviverebbero soltanto i più forti.

Ma anche la democrazia, come il Welfare, va ridisegnata perché si concentri con efficacia e capacità rappresentativa sulla garanzia dei diritti fondamentali, su grandi scelte che il mercato non assicura, dalla difesa dell' ambiente alla salvaguardia delle minoranze di ogni tipo, sulle condizioni essenziali per assicurare pari opportunità per tutti. Tutto il resto - ed è moltissimo - va affidato al libero gioco del mercato, alla gestione amministrativa chiamata a rispondere secondo criteri meritocratici e di efficienza, all'iniziativa dei singoli, al volontariato.

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Se teniamo presente tutto ciò possiamo comprendere quali difficoltà politiche, sociali e psicologiche incontri una sinistra chiamata a misurarsi con la modernizzazione. E' una scelta che incide, infatti, su tutta la sua cultura passata (comunista, socialdemocratica e cattolica) e sui suoi insediamenti di appartenenza. Eppure, se vuole governare e non ripiegare nella confortevole ridotta dell'opposizione di principio, altra alternativa non è data. Forse, per affrontarla con qualche supporto meno alla moda dei saggi di sir Ralf Dahrendorf, mi permetterei di suggerire ai litigiosi leader del centro sinistra, compresi i dirigenti sindacali, di rileggersi il Faust di Goethe, "la prima e più bella tragedia dell'evoluzione", come scrive in uno stupendo saggio Marshall Berman (L'esperienza della modernità, ed. Il Mulino). Si ripercorrano i passaggi attraverso cui l'aspirazione romantica all'evoluzione autonoma dell'individuo, che ha guidato Faust nel corso della vita, con l'aiuto di Mefistofele, sfocia "nell'opera titanica dello sviluppo economico".

Goethe, infatti, sul finire della sua vita (e sul finire della stesura dell'opera durata sessant'anni, dal 1770 al 1831) è fortemente colpito dall'esplodere dell'economia americana, dal progetto del Canale di Panama, dalla corsa all'Ovest. Con preveggenza scrive che "su tutta la costa del Pacifico sorgeranno nuove città commerciali... mediatrici di grandi comunicazioni fra la Cina, le Indie orientali e gli Stati Uniti". Non nasce, quindi, da una fantasia malata il progetto grandioso che Faust sottopone a Mefistofele con grandi piani di bonifica, costruzione di porti artificiali, un'agricoltura intensiva, energia elettrica per attirare industrie emergenti, città future e nuovi insediamenti. Eppure la via del progresso non sarà paradisiaca. Quando il diavolo avrà accontentato Faust e l'Eldorado industrial-agricolo si stenderà ai suoi piedi, resterà un piccolo appezzamento di terreno com' era prima, occupato da una soave coppia di anziani, Filemone e Bauci, con la loro casetta, la cappella, il giardino. Sono lì da tempo immemorabile e offrono soccorso ai vagabondi e ai naufraghi. Ma essi divengono un'ossessione per Faust: "Quei vecchi là, dovrebbero andarsene.../ quei pochi alberi non miei/ il dominio del mondo mi guastano". Egli vorrebbe offrir loro un risarcimento in denaro o un'altra sistemazione ma i due non sanno che farsene. Chiede allora a Mefistofele di risolvere la questione e questi brucia la casetta e uccide i vecchi. Faust ne resta ipocritamente inorridito, ma la sua nefandezza sta ad indicare l'ineluttabile e lacerante contraddizione tra le esigenze dello sviluppo e la permanenza di quelle persone (sempre più numerose) che appaiono d'impaccio al progresso.

Non vorrei usare la citazione per un banale apologo, ma come non chiedersi se D'Alema e Cofferati riusciranno o meno a risolvere il dilemma: salvare Filemone e Bauci e affrontare, ad un tempo, la modernizzazione?

 

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