Caffe' Europa
Attualita'



Il respiro corto del governo D'Alema

Marcello Messori

 

Questo articolo è stato pubblicato su L'Unità del 12 luglio

I contenuti del recente Dpef mi inducono ad alcune critiche che sono forse un po' diverse da quelle fin qui avanzate. Le mie perplessità derivano infatti dal salto che separa la parte del Dpef dedicata ai problemi strutturali che minano la competitività del sistema economico italiano e che ne vincolano le prospettive di crescita (il secondo e, per molti versi, il primo capitolo) dalla parte dedicata agli interventi di politica economica (il quarto capitolo).

La prima parte del Dpef è in sintonia con le analisi già offerte da studiosi e da istituzioni pubbliche (per esempio, il "Rapporto annuale" dell'Istat e la "Relazione annuale" dell'Antitrust). Essa sottolinea che il sistema economico italiano è stretto fra tre elementi: un modello di specializzazione tradizionale, che non si è evoluto nel tempo e che non è adeguato a reggere la competitività sui mercati internazionali in assenza di svalutazioni monetarie; un patto di stabilità, che preclude le facili e spesso distorsive soluzioni fondate su un indiscriminato rilancio della domanda interna; la forte competitività fra i Paesi aderenti all'Unione monetaria europea, che costituisce forse l'inevitabile passaggio per definire le gerarchie transnazionali su cui fondare nuovi rapporti di cooperazione e la costruzione di un sistema economico europeo. Com'è noto, la pressione di questi tre elementi implica che l'economia italiana:

1) abbia sistematicamente realizzato tassi di crescita inferiori a quelli, già bassi, registrati nell'Europa continentale; 2) prometta di continuare a crescere meno dei propri concorrenti anche durante la possibile ripresa ciclica dei prossimi mesi; 3) sia una seria candidata alle posizioni di coda nella gerarchia economica europea.

DALE01.jpg (14374 byte)

Un'analisi di questo tipo, rafforzata dal successivo esame dei pesanti vincoli quantitativi che tuttora gravano sul bilancio pubblico, suggerisce la necessità di interventi strutturali di politica economica. Viceversa, la parte del Dpef dedicata appunto alle linee d'intervento di policy non va al di là di generiche indicazioni rispetto a problemi cruciali quali la formazione e l'adeguamento tecnologico, l'ammodernamento delle infrastrutture, lo sviluppo dell'apparato economico, le politiche per l'occupazione. Vari commentatori hanno attribuito la debolezza di queste proposte al veto, posto dal sindacato, alla revisione del sistema previdenziale. Penso invece che la discussione sulla previdenza sia stata emblematica dei limiti che hanno finora condizionato le iniziative del governo in campo economico e sociale. Diversamente da quanto avvenuto in altri ambiti (per esempio: la politica estera, la riforma fiscale, le innovazioni nella pubblica amministrazione), in tale campo il governo ha eluso i problemi strutturali del "dopo euro" e ha privilegiato un'azione di corto respiro punteggiata dal lancio di ballon d'essai e dall'assunzione di impegni ambiziosi ma generici. Le (pur circoscritte) ipotesi di revisione previdenziale non sono state inserite in una proposta generale per il superamento degli squilibri, che pesano sul welfare italiano, ma sono state presentate come un segnale per forzare i tempi della riforma pensionistica. Ed è evidente che il capitolo della previdenza (così come quello della flessibilità del lavoro) non può essere risolutivo dei problemi di competitività e di equità dell'economia italiana.

Il carattere tattico dell'azione economica e sociale del governo potrebbe trovare conferma in molti altri esempi. Qui basti ricordare le posizioni assunte rispetto ai riassetti proprietari e di potere che stanno ridisegnando comparti cruciali dell'economia italiana e che ne condizioneranno la futura specializzazione produttiva e la connessa competitività internazionale. Il governo ha alternato segnali di estraneità, che non hanno evitato fallimenti del mercato, e segnali interventisti, che sono stati troppo episodici per legittimarsi come veicolo di regole trasparenti a favore di tutti gli attori economici privati.

Il punto è che le scelt e tattiche del governo rischiano di riproporre, nei fatti, un vecchio e superato modello di policy: la politica dei "due tempi", in cui i sacrifici di oggi dovrebbero essere compensati da una possibile crescita di domani. E date le gravi difficoltà del quadro macroeconomico italiano sopra ricordate e la connessa ragnatela di piccoli e di grandi privilegi che nel passato hanno frammentato la società italiana e che ancora oggi ostacolano la costruzione di "regole del gioco" condivise e universali, questa politica dei "due tempi" tende a tradursi in interventi socialmente iniqui ed economicamente inefficienti.

DALE03.jpg (19110 byte)

Quanto detto offre una spiegazione, tutta da verificare ma forte, dell'astensionismo e della connessa sconfitta elettorale che hanno colpito il partito della sinistra di governo. Solleva però anche un nuovo interrogativo: perché la politica economica e sociale del governo è costretta entro un orizzonte di breve periodo? Le spiegazioni, che rinviano all'eterogeneità della coalizione governativa o ai limiti della legge elettorale e che denunciano l'incapacità dei partiti politici di rispondere in modo razionale alle domande contraddittorie di una società frammentata e bloccata quale quella italiana, colgono una parte del problema ma non appaiono risolutive. Il punto è che si sono perse le coordinate di come sono fatte l'economia e la società italiane.

Le vecchie chiavi di interpretazione (il ruolo dei ceti medi e la connessa composizione sociale, le "tre Italie", le segmentazioni del mercato del lavoro, le diverse tipologie di piccolo-media impresa, il declino delle grandi imprese nazionali), che avevano ispirato le proposte di modernizzazione economica e sociale negli anni Settanta, andrebbero ridefinite e arricchite alla luce della nuova realtà. I pochi tentativi di aggiornare l'analisi dell'Italia sono stati invece soffocati da immagini semplificate dell'articolazione economica e sociale. La conseguenza è stata, appunto, una politica di corto respiro incapace di legare efficienza economica ed equità sociale al fine di sbloccare il sistema italiano e di incentivarne la competitività in Europa e nei mercati internazionali. Se i diversi attori di politica economica intendono avviare politiche strutturali e se i partiti riformisti vogliono svolgere la loro funzione di razionalizzazione delle domande economiche e sociali, è necessario tornare a capire come sono fatte l'economia e la società di un'Italia che si avvia a essere una regione dell'Europa.

 

Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti da fare? Scriveteci il vostro punto di vista cliccando qui

Archivio attualità

 


homearchivio sezionearchivio
Copyright © Caffe' Europa 1999

Home | Rassegna italiana | Rassegna estera | Editoriale | Attualita' | Dossier |Reset Online |Libri |Cinema | Costume | Posta del cuore | Immagini | Nuovi media |Archivi | A domicilio | Scriveteci | Chi siamo