L'omicidio di Milano/Quel rapinatore nella
cella accanto Adriano Sofri
Questo articolo è stato pubblicato su La Repubblica (www.repubblica.it) del 22 luglio
È strano scrivere un articolo, piuttosto che per dire qualcosa, per
spiegare che non si sa bene che cosa dire. Lo scrivo per questo.A Milano è stato
ammazzato un uomo, nel suo negozio di orefice, accanto a sua moglie. Ho visto il viso di
un suo figlio nei telegiornali. Nei confronti di questa tragedia provo la stessa pena che
prova ciascuno di voi. Dov'è la differenza? Nel fatto che uno dei due rapinatori era
stato scarcerato perché gravemente malato, per effetto di una legge appena votata, e ora
criticata, cui tengo moltissimo. E nel fatto che conosco quest'uomo, di quella conoscenza
fortuita ma speciale che deriva dalla galera comune. Per molti mesi è stato mio vicino di
cella.
La legge, votata alla fine con una lodevole unanimità, ma dopo un
cammino comprensibilmente tormentato, stabilisce che i malati di Aids, come si dice,
conclamato, debbano potersi curare fuori dal carcere, rispettando alcune rigide
condizioni. Qual è il motivo che ispira la legge? Uno più concreto, e cioè la pratica e
verificata impossibilità, in carcere, comprese le sezioni di alcune prigioni dedicate
ufficialmente a questo scopo, di ottenere i farmaci e le cure appropriate. Cosicché, la
reclusione sovrappone alla privazione della libertà e alle correnti mutilaimpersonale
condanna a morte.
C'è un motivo più di fondo, e cioè che la reclusione corporale è
essa stessa una malattia fisica e morale, e contraddice alla radice la speranza di
resistere a una malattia cui bisogna strappare una sopravvivenza. La spaventosa parola
"terminale" (spaventosa sempre, nella sua prepotente brutalità), in galera ha
un suono specialmente sinistro, trasformando ogni pena, anche la più breve, in un
anticipo di sepoltura. È insieme un ergastolo, e una sua spiccia abbreviazione.
Si sa come andarono le cose. Ai malati di Aids "conclamato"
veniva concessa la sospensione della pena perché si curassero fuori dal carcere, a casa o
in luoghi di accoglienza. Un gruppo di tre ex detenuti in queste condizioni compì alcune
rapine a Torino: fu ribattezzato "la banda dell'Aids". La loro impresa bastò a
far revocare la dilazione della pena a tutti i malati di Aids. Era un'impresa forse di
sfida, certo di disperazione, finita presto, con la morte di tutti e tre. Che nessuno
riferì, e che non cambiò la ritorsione grossista su tutti gli altri.
Per anni malati di Aids continuarono a languire e morire in carcere,
sempre sentendosi addossare le rapine della "banda dell'Aids". Finché
faticosamente, il parlamento riprese il filo di umanità e di civiltà che, da neanche un
mese, ha portato al voto finale della legge. La quale prevede fra i suoi vincoli la
decadenza quando il detenuto scarcerato commetta un altro reato: rimedio al vecchio
automatismo per cui i rapinatori torinesi venivano ogni volta rimessi in libertà, finendo
col valersi di una specie di immunità. Rimedio fin troppo rigido, forse, se si tien conto
delle condizioni di solitudine e di povertà disperata in cui molti escono di galera; e
che per loro il rientro in carcere equivale davvero a una sepoltura. Al tempo stesso, come
il maledetto avvenimento di Milano mostra, la misura è inutile quando la trasgressione
dello scarcerato è irreparabile, un omicidio. Questo è il punto che io stesso non so
superare: perché denigrare e addirittura sopprimere la legge è una barbarie, ma
l'effetto che ha avuto martedì a Milano è davvero irreparabile.
Né voglio ridurre la difficoltà sottolineando la pazzesca
sgangheratezza dell'azione che è finita nell'omicidio. Il motorino per i due esecutori,
l' autore della rapina fuori di sé per il panico e la maldestrezza, che non capisce che
gli stanno aprendo la porta e spara; e poi la cattura col motorino buttato a terra da un
calcio di un passante. Disgraziati, disperati. Certo, proprio per questo - si è visto -
pericolosi, perfino oltre la propria volontà. È vero anche, però, che chi protesta
contro le scarcerazioni "facili" dimentica che le persone, anche quelle che
vivono di reati, non possono essere chiuse in galera per sempre, ma solo per il tempo
delle loro pene. Che tornano fuori, e che non può che essere così.
E che tanti fra loro, compresi i due di cui si tratta, hanno passato in
galera una parte impressionante della loro vita; infine, che questo non li ha riavvicinati
alla convivenza sociale, ma li ha incattiviti e addestrati alla gratuità di vita e di
morte. Propria e altrui. Tanto più questo è vero dopo che la tossicodipendenza ha
devastato le radici del nostro patto sociale non scritto. La tossicodipendenza è il punto
d'avvio di tante carriere - anche delle due persone di cui parliamo - e la sua cura
dominante è il carcere. E anni di carcere non bastano a sventare l'overdose del primo
giorno di libertà. Vecchio problema e imputridito, perché nelle galere italiane si
trovano insieme i padri tossicodipendenti, quando sono sopravvissuti, e i figli
tossicodipendenti, e magari già la terza generazione.
Dirò poche cose sul mio vicino di cella: poche, perché molto non so,
e non vorrei essere indiscreto. In galera si sa troppo gli uni degli altri, anche a non
voler ascoltare racconti e dicerie. A me del resto piace ascoltare i racconti, sebbene mi
disgustino le dicerie. Si sa perché si vede, nell' animalesca esposizione di fisionomie,
sentimenti, malattie del corpo e dell'anima. Nella posta aperta e distillata in pubblico.
Nella coda alla fontana magica delle dannate terapie. Nel sangue che corre dai tagli,
nella promiscuità delle celle, dei cortili, delle tre docce alla settimana. Soprattutto
negli stanzoni dei "colloqui" dove si stringono gli uni sugli altri i familiari,
le madri, le mogli, i bambini, le persone di cui i detenuti sono più furiosamente gelosi,
e si urlano racconti e sentimenti come in un mercato all'ora di punta.
Al colloquio sono capitato più volte accanto al mio vicino: incontrava
sua sorella, una persona esile di cui si capiva l'amore e l'ansia per lui. Lui restava per
lo più in cella anche nelle ore aperte, perché è schivo, e perché non stava bene. Era
molto gentile e quasi affettuoso. Lo dico non perché pensi di giovargli, ma perché così
era. Finalmente uscì. Ricevetti qualche cartolina. Poi seppi che era tornato dentro.
Per una trasgressione stupida e un incidente, se non sbaglio: per aver
derogato agli obblighi domiciliari, e lo avevano preso perché era andato a sbattere con
l'auto. Finì nel carcere di Vasto. Ho ricevuto qualche cartolina anche da lì. Ecco:
basta a dire perché io sia così doppiamente triste per la tragedia di Milano. E anche
perché abbia letto con uno stupido sollievo che dei due, quello che era restato fuori sul
motorino era lui. Ho letto anche che l' hanno arrestato mentre bussava alla porta di casa
di sua sorella.
Ecco che cosa volevo dire. Perché parlo sempre del carcere e contro il
carcere, e mi sembrava un po' vigliacco non parlarne questa volta. Io non penso di sapere
come si limitino i delitti violenti. (So come non si limitano...). Non penso che "la
colpa sia della società". Le persone, comprese quelle con cui vivo da tanto tempo
qui dentro, in una prossimità senza paragoni nella vita di fuori, sono responsabili di
sé, e così vanno riconosciute, se si vuol dare loro una possibilità. La società, veda
lei.
Del resto, non è detto che una società migliore ridurrebbe
risentimenti e violenze. Sarebbe bello che si riducessero le vite spinte fino alla
disperazione. La malattia, anche quella "terminale" , non è lei, credo: la
disperazione viene da un'altra parte. Ci sono disgraziati per i quali la vita altrui non
vale il prezzo di una siringa. Ce ne sono altri per i quali è la loro stessa vita a non
valere più niente. Le persone esasperate dalla paura per la sicurezza propria e delle
proprie cose (delle proprie povere cose, magari: perché è la cosiddetta
microcriminalità a far paura alla gente comune, che ai grandi ladri non fa gola) hanno
ragione, o almeno molte ragioni: ma s'ingannano, credo, quando si pensano separati dai
"criminali" come da una distanza presa una volta per tutte.
Credevo che questa illusione sarebbe finita, dopo che la droga ha
invaso a occhi bendati le famiglie "normali" di ogni genere. Credevo che avrebbe
ricevuto un colpo forte, dopo che "tangentopoli" buttò in galera una quantità
esterrefatta di persone d'alto bordo. Non è stato così. Chi viene in galera deve sentire
in un altro modo. Non, grazie a Dio, sul dolore per l'assassinio di un orefice, per sua
moglie, i suoi figli. Però sugli "assassini" sì. Non è una differenza da
teorizzare. Ve la spiegherò così. Se avessero riportato qui dentro Luciano Carmeli, alla
cella qui a fianco, avrei preso un po' di cose, la macchinetta del caffè, il detersivo,
un po' di frutta, e gliel'avrei messa sul tavolino. Lui, credo, si sarebbe già buttato
sulla branda, col lenzuolo tirato su fino alla testa.
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