Ma la terza via non è una sola Ralf Dahrendorf
Questo articolo è stato pubblicato su "La Repubblica" del 6
luglio
Fa piacere notare che in molti paesi si sia aperto un dibattito che
va "al di là della destra e della sinistra". La sua tematica è stata descritta
in vari modi, ma la designazione più corrente è la "terza via". I suoi
protagonisti hanno per lo più stretti rapporti con quello che in Gran Bretagna è
chiamato NewLabour, o anche "progetto Blair". Di fatto, il dibattito sulla
"terza via" è oggi l'unico progetto sul tappeto, il solo a indicare nuove
direzioni, in mezzo a una moltitudine alquanto confusa di tendenze e di idee. Alla base
dei miei commenti, seppure critici, c'è quindi un senso di apprezzamento per chi ha
lanciato questo progetto, e in particolare per il suo principale teorico, Anthony Giddens.
I commenti che vorrei fare sono quattro.
Un recente documento firmato da Tony Blair e da Gerhard Schroeder,
intitolato Europe, the Third Way - Die neue Mitte, si apre con la seguente, orgogliosa
dichiarazione: "I socialdemocratici sono al governo in quasi tutti i paesi
dell'Unione. Se la socialdemocrazia ha ricevuto nuovi consensi, è soltanto perché, pur
rimanendo fedele ai propri valori tradizionali, ha posto mano a una credibile opera di
rinnovamento delle proprie idee e di modernizzazione dei propri programmi. Se ha riscosso
nuovi consensi, è anche perché si impegna sia per la giustizia sociale che per il
dinamismo economico e la libera espansione della creatività e dell'innovazione".
E' stato forse incauto pubblicare questo documento a una settimana
dalle elezioni europee del 10-13 giugno. Pare che il testo abbia creato una certa
confusione, soprattutto tra i socialdemocratici tedeschi. E, soprattutto, quali che siano
i limiti e le carenze delle elezioni europee, il loro esito offre l'occasione di una
verifica dei "nuovi consensi" riscossi dalla socialdemocrazia. Il risultato è
eloquente: in sei paesi dell'Unione su quindici, (Belgio, Danimarca, Finlandia, Irlanda,
Italia e Olanda) i partiti socialdemocratici non hanno ottenuto più del 20% dei voti. In
Francia e nel Lussemburgo sono arrivati rispettivamente al 22 e al 23%. In Germania,
Grecia, Gran Bretagna, Austria e Svezia il voto socialdemocratico ha oscillato tra il 26 e
il 33%; in Spagna ha raggiunto il 35%, in Portogallo il 43%.
I socialdemocratici hanno conquistato la maggioranza relativa soltanto
in quattro paesi, tra cui la Francia, dove la frammentazione della destra ha consentito ai
socialisti di Jospin (anch'essi tutt'altro che uniti) di affermarsi come primo partito con
il 22%. Si potrebbe essere tentati a questo punto di esaminare la forza reale dei
socialdemocratici nei vari governi dell'Ue. Per quelli del Belgio e del Lussemburgo si
prevedono del resto cambiamenti imminenti. Ma il punto più importante è che in molti
paesi europei, vent'anni fa il voto popolare per la socialdemocrazia era due volte quello
attuale. Oggi questi partiti sono nettamente minoritari nella maggior parte degli stati;
persino in Gran Bretagna la solida maggioranza parlamentare di Blair è ingannevole, dato
che si basa su non più del 43% dei voti.
In termini di analisi elettorale, la tendenza reale, sottolineata dal
voto europeo, premia i partiti non tradizionali, molti dei quali non esistevano vent'anni
fa. Nella maggior parte degli stati, la somma dei loro voti supera quelli ottenuti dai
partiti socialdemocratici. La verità è che gli elettori sono confusi e incerti, e
finiscono per essere sballottati qua e là; ed è quindi difficile discernere una reale
tendenza verso una nuova cristallizzazione di orientamenti elettorali.
Ovviamente, malgrado, ciò è concepibile che le idee promosse da blair
e Schroeder ricevano un ampio sostegno. (Peraltro, potrebbero trovarlo presso altri
partiti, in misura forse anche maggiore che al proprio interno; e in effetti, Tony Blair
sembra andare d'accordo con il primo ministro conservatore spagnolo Aznar non meno che con
il suo collega socialista Jospin). Posso dire, senza voler rivendicare diritti di
precedenza e meno ancora di paternità, che alcuni dei concetti della "terza
via" non sono affatto dissimili dall'idea di fondo espressa nel rapporto di un
comitato che ho presieduto negli anni 1995-1996, denominato Wealth Creation and Social
Coehesion in a Free Society (Creazione di ricchezza e coesione sociale in una società
libera).
Il problema chiave, che tutti gli Stati sono oggi chiamati a risolvere,
è quello della creazione di condizioni sostenibili di progresso economico in un contesto
di mercati globali, senza sacrificare la solidarietà di base, la coesione delle nostre
società e le istituzioni costituzionali garanti della libertà. La terminologia
utilizzata nei vari tentativi di rispondere a queste domande ci è ormai familiare.
Abbiamo bisogno di economie di mercato forti e competitive, e ciò è possibile solo
allentando i vincoli e liberando l'economia sul piano dell'offerta. Ma la società deve
anche includere tutti i cittadini, anziché escludere una fascia della popolazione
definendola "underclass".
La competizione individuale, per quanto utile all'economia, deve essere
temperata dalla solidarietà nei rapporti sociali. Il documento Blair-Schroeder usa in
questo senso una formula che mi sembra fuorviante, quando afferma: "Noi sosteniamo
un'economia di mercato, non una società di mercato". E' soltanto un lapsus, o
qualcosa di più? Se così fosse, il loro obiettivo sarebbe una società dirigista. Il
progetto rappresenterebbe allora un passo nella direzione di Singapore, volto a ridurre,
se non a mettere a repentaglio, il terzo elemento di un programma che aspira alla
quadratura del cerchio: conseguire tutti i suoi propositi in una società libera.
Anthony Giddens inquadra il compito di conciliare creazione di
ricchezza e coesione sociale nel contesto dei grandi cambiamenti indotti dalla
globalizzazione, dal "nuovo dialogo" con la scienza e la tecnologia, nonché
dalla trasformazione dei valori e delle scelte di vita. Quindi identifica sei aree di
attuazione della "terza via": 1) una nuova politica di rapporto diretto con la
cittadinanza, o "seconda ondata della democratizzazione"; 2) nuove relazioni
volte a "coniugare" Stato, mercato e società civile; 3) una politica economica
centrata sull'offerta, attraverso investimenti sociali, in particolare nel campo
dell'istru zione e dei progetti infrastrutturali; 4) una riforma fondamentale del welfare
attraverso la creazione di un nuovo equilibrio tra rischio e sicurezza; 5) un nuovo
rapporto con l'ambiente attraverso la modernizzazione ecologica"; 6) un forte impegno
per le iniziative transnazionali, in un mondo di "sovranità evanescente".
Ci sarebbe molto da dire su ciascuno di questi punti; e già molto è
stato detto in proposito, in numerosi libri e documenti. Il progetto è stato descritto
come una combinazione di economia neoliberale e politica sociale di stampo
socialdemocratico: una definizione probabilmente non del tutto corretta. In qualche modo,
la caratteristica chiave non dichiarata, ma implicita in questa impostazione, è il suo
ottimismo. Potrei definirla con la formula "oltre la globalizzazione":
l'accettazione delle esigenze dei mercati globali, con l'aggiunta di alcuni elementi
chiave finalizzati al benessere sociale.
Potrebbero esservi altri modi per descriverne i presupposti, ad esempio
con riferimento all'uso del concetto di "rischio". Ulrich Beck, uno dei
protagonisti della "terza via", ha dimostrato che se il rischio è opportunità,
è anche minaccia alla sicurezza; se invita allo spirito imprenditoriale, è anche una
condizione di incertezza. E si potrebbe fare lo stesso ragionamento a proposito della
flessibilità, altro concetto privilegiato da questa tesi.
E' forse su questo punto che la "terza via" ha di fatto
diviso i socialdemocratici. Il laburismo vecchio stile vede il rischio come minaccia e la
flessibilità come sinonimo di insicurezza, per cui si aggrappa alle antiche certezze. Il
New Labour, al contrario, pone l'accento sulle nuove opportunità dell'iniziativa
individuale, e sulla possibilità per ciascuno di promuovere il proprio benessere
affrontando nuove sfide. Qui appare evidente il motivo per cui la riforma del welfare è
il punto cruciale dei contrasti politici; e si comprende anche perché il New Labour possa
esistere in Gran Bretagna o in Olanda, ma non in molti altri paesi, dove sono piuttosto i
partiti della vecchia destra a tendere verso la neue Mitte, il nuovo centro. Dopo tutto,
l'alleanza tra Blair e Aznar non è poi tanto sorprendente.
In ragione del suo carattere positivo e orientato a sottolineare
soprattutto le opportunità del futuro, la tesi della "terza via" esercita una
grande attrattiva su coloro che non si sentono minacciati, e in particolare sulla nuova
"global class", che può sperare di trarre vantaggi dai cambiamenti nel campo
delle forze produttive. Perciò si potrebbe pensare che la "terza via" non abbia
molte probabilità di ispirare un movimento di massa, anche se in alcuni casi può
contribuire a far vincere le elezioni. E' una concezione forse un po' troppo elucubrata,
quasi elitaria, tanto che può attirare l'attenzione di un pubblico più vasto solo a
condizione di essere sostenuta da una predicazione quasi missionaria.
Tutto questo non può che apparire sconcertante a un popperiano
inveterato. A far sorgere i primi dubbi è il concetto stesso di "terza via": il
suo uso denota nei suoi protagonisti una curiosa assenza di consapevolezza storica, che in
ogni caso caratterizza le leadership del genere Clinton-Blair. Inoltre, il termine rivela
un malaugurato bisogno di ideologia unificata, o posta quanto meno sotto un'unica
etichetta. Mentre per converso, il significato della grande liberazione seguita alla
rivoluzione del 1989 è stato per molti di noi proprio quello della fine dell'era dei
sistemi. Ormai non si può più parlare di primo, secondo e terzo mondo, ma soltanto di
una pluralità di tentativi di rispondere alle necessità economiche, sociali e politiche,
oltretutto - dobbiamo ammetterlo - con gradi assai diversi di successo. La "terza
via" presuppone una concezione più hegeliana del mondo. I suoi esponenti sono
costretti a definirsi, più che attraverso il proprio peculiare complesso di idee, in
relazione agli altri; i quali, di conseguenza, spesso devono essere inventati, in modi a
volte anche caricaturali.
Il fatto è che in un mondo aperto le vie non sono soltanto due o tre,
ma centodieci (come ho avuto occasione di dire altrove): in altri termini, il loro numero
è indefinito. E questo è importante ai fini pratici della politica. L'interrogativo può
porsi dovunque allo stesso modo, dal momento che sorge da una situazione in larga misura
globale: come conseguire a un tempo la creazione di ricchezza e la coesione sociale,
nell'ambito di società libere?
Le risposte tuttavia sono plurime: esistono molti capitalismi, non solo
quello di Chicago; e molte democrazie, non solo quella di Westminster. La diversità non
è un optional per società ad alto livello culturale. E' un dato fondamentale per un
mondo che ha lasciato dietro di sé il bisogno di sistemi chiusi e onnicomprensivi. Di
fatto, si potrebbe dire che anche la politica portata avanti in nome della "terza
via" è tutt'altro che omogenea. Nessuno si aspetterebbe che il cancelliere Schroeder
trasformi la Germania in una seconda Gran Bretagna. A riforme compiute, il "modello
renano" resterà del tutto diverso da quello anglosassone, e nessuno dei due sarà
necessariamente un modello per altri paesi. In ogni caso molti - e non solo i più cinici
- hanno osservato che se si vuole definire la "terza via", la cosa migliore è
forse rifarsi a "quello che sta facendo Blair".
Quando postula l'elezione diretta del sindaco di Londra o la
privatizzazione delle ferrovie, o quando vuole arginare il fenomeno delle madri nubili
minorenni, tutto questo evidentemente fa parte della "terza via". Resta però
l'ombra di un dubbio: perché mai Blair e i suoi amici sentono il bisogno di infilare
tutto ciò in un unico canestro? E' forse troppo difficile convivere con le illimitate
opportunità offerte dal mondo del dopo-1989? O forse i leader della "terza via"
anelano, quanto meno sul piano mentale, a quella sicurezza che negano alla popolazione per
le esigenze concrete del vivere? Come dire che tutti devono saper rischiare, tranne chi
sta al vertice?
Queste domande conducono al quarto e più serio commento sull'attuale
dibattito politico. Ho letto la maggior parte delle pubblicazioni sulla tesi della
"terza via", e sono stato di volta in volta sempre più colpito dall'assenzauasi
totale, in tutti questi discorsi, saggi, opuscoli e libri, di una parola che anche quando
compare non occupa mai un posto centrale: la parola libertà.
Numerosi sono invece i riferimenti alla fratellanza, che in effetti è
uno dei temi centrali della "terza via". L'uguaglianza non è più un fine; al
suo posto compare il concetto di inclusione sociale, e più recentemente quello di
giustizia: due istanze che hanno tutta la mia simpatia. Ma la libertà? Senza alcun
dubbio, i protagonisti della "terza via" direbbero che essa è data per
acquisita, e quindi implicita in tutta la loro concezione. E infatti, la parola libertà
fa una breve apparizione nell'introduzione del documentoBlair-Schroeder, ove sono elencati
i valori "atemporali": "equità e giustizia sociale, libertà e pari
opportunità, solidarietà e responsabilità verso gli altri".
Mentre tra i valori temporali, la libertà non compare. E non a caso.
La "terza via" non persegue la società aperta, né la libertà. Di fatto, essa
presenta un tratto curiosamente autoritario, e non soltanto nell'applicazione pratica.
Quando Giddens parla di "seconda ondata della democratizzazione", quello che di
fatto ha in mente è lo smantellamento delle istituzioni democratiche tradizionali. I
parlamenti sono ormai obsoleti e vanno sostituiti dai referendum e da gruppi ad hoc, i
"Focus Groups".
Quanto alle riforme del welfare postulate dalla "terza via",
non solo esse prevedono il risparmio obbligatorio, ma insistono soprattutto sul massimo
rigore nel mettere al lavoro tutti, compresi gli handicappati e le madri nubili. Laddove
non è disponibile un normale impiego - per non parlare di quello desiderato - il lavoro
deve essere comunque imposto con la revoca del sussidio. Il documento Blair- Schroeder
contiene tra l'altro una formulazione curiosa: "Lo Stato non deve remare ma stare al
timone". In altri termini, non deve erogare aiuti ma stabilire la rotta. Perciò
smetterà di coprire le spese, e darà invece gli ordini sul da farsi. Certo, l'esperienza
britannica fornisce un'illustrazione preoccupante di ciò che questo potrebbe significare.
La questione riveste un'importanza cruciale in un periodo in cui le
tentazioni autoritarie sono in ogni caso già troppe. L'internazionalizzazione dei
processi decisionali e delle attività in genere comporta quasi invariabilmente una
perdita di democrazia. Le decisioni di guerra o di pace del Consiglio della Nato, quelle
del Fmi sulla Russia, e le stesse leggi emanate dal Consiglio dei ministri dell'Unione
europea non sono soggette ad alcun tipo di controllo democratico. E meno ancora lo è
l'arena "privata" delle transazioni finanziarie mondiali. D'altra parte,
raramente il decentramento promuove la democrazia e la libertà, soprattutto ai livelli
subnazionali, dove il più delle volte finisce per conferire maggior potere ad attivisti
più o meno militanti, piuttosto che alla cittadinanza, e rappresenta quindi un cedimento
ai nuovi nazionalismi di alcuni leader millantatori. Anche a livello nazionale, sia
l'impostazione dei problemi che le soluzioni contrastano con l'ordine liberale.
Tra i problemi, sono in primo piano quelli della legge e dell'ordine,
mentre le soluzioni prevedono una proliferazione di enti e organismi che sfuggono al
controllo civico. La sindrome di Singapore in effetti non è poi tanto lontana dalle più
diffuse tendenze, o se vogliamo anche preferenze: "Facciano pure quelli lassù,
purché ci lascino in pace!" Così la classe politica diventa una sorta di
nomenklatura che non viene più messa in discussione, a causa dell'apatia di molti; se poi
chi non è d'accordo viene zittito, nessuno più potrà far sentire la propria voce.
Non intendo dire che sia questa l'attuale applicazione pratica della
"terza via"; e di certo non è ciò che postulano i suoi teorici. Ma mi chiedo
se il curioso silenzio sul valore fondamentale di una vita degna di essere vissuta, il
silenzio sulla vecchia, antica libertà, non finirà involontariamente per fare di
quest'episodio politico un ulteriore elemento al servizio di uno sviluppo pericoloso. Se
al momento di costituire la "Commissione per la creazione di ricchezza e la coesione
sociale" ho insistito per far aggiungere a questa denominazione le parole "in
una società libera", pensavo certo a Beveridge ("Piena occupazione in una
società libera"), ma anche alla sindrome di Singapore. Nel dare vita al nuovo
progetto politico, oggi è più che mai importante porre l'accento sulla libertà, prima
ancora di affrontare i problemi dell'inclusione sociale e della coesione.
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