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Il saggio/Uguali e diversi davanti alla salute

Amartya Sen

 

Questo saggio e' apparso su "Keiron", la rivista di etica, scienza ed economia diretta da Ivan Cavicchi il cui sito e' in lavorazione a http://www.farmindustria.it/keiron.htm. Per ulteriori informazioni rivolgersi a russo@farmindustria.it oppure al numero 06-67580357

 Per pensare ai temi della salute nei termini di una definizione dell'idea di benessere è necessario fare alcune distinzioni. Innanzitutto, l'equità nella distribuzione delle cure sanitarie va tenuta ben distinta dall'equità della salute. L'argomento è filosofico e morale, e riguarda la discussione su ciò che riteniamo importante. Diversi filosofi mettono l'accento su diversi aspetti per definire l'eguaglianza. Si può adottare la posizione magnificamente esplorata e difesa da John Rawls e ritenere che contano i mezzi, le risorse, la libertà necessaria per conseguire il benessere. I filosofi possono porre l'accento, come fa Rawls, sui "beni principali", o sulle "risorse", come nel caso di Ronald Dworkin, oppure, come la maggior parte degli economisti, esclusivamente sul reddito.

Estendendo l'idea di reddito, si può pensare di includervi quella dell'opportunità di accesso alle cure sanitarie. Questo è un passo avanti anche rispetto agli approcci basati sui "beni principali" e sulle "risorse". E comunque permette di andare oltre il reddito, com'è pure nell'intenzione di Rawls. Ma il richiamo alle opportunità non basta, per quanto serva ad allargare l'idea dell'eguaglianza delle "risorse". L'equità della salute riguarda una questione ancora più fondamentale, e cioè il grado di salute effettivamente conseguito, tenuto conto che i bisogni sanitari sono diversi così com'è diversa per ogni persona la suscettibilità alla malattia. Si tratta di bisogni legati all'ambiente epidemiologico in cui ognuno vive, alla presenza o meno di fattori di contagio, di vettori di infezioni, ecc. Contano il fatto di abitare in una zona dove la malaria è endemica oppure no, e altre circostanze ancora come la probabilità di contrarre una malattia cronica, o di soffrire di insufficienza renale, e di tante altre patologie che richiedono una sorveglianza medica protratta.

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Se si assume il punto di vista dell'uguaglianza davanti alle cure, il legame con l'uguaglianza davanti alla salute non è affatto immediato. Possiamo fare la strada inversa, chiedere l'equità delle cure sanitarie e sostenere che la loro distribuzione è equa se e quando produce equità della salute. Ma questo non significa altro che esprimere l'equità della salute in unità di cure sanitarie: equivale a dire non già cure uguali per tutti, cure estese ugualmente a tutti, ma cure tali per cui tutti risultano avere uguali probabilità di godere di buona salute.

Questa, secondo me, è l'equità della salute. Non è importante esprimerla direttamente in questi termini, oppure indirettamente attraverso un'offerta diversificata di cure che alla fine risultano in tale equità. La differenza non sta qui: la posizione che parte dall'equità della salute è migliore perché ingloba non solo le cure, ma anche fattori come l'accesso a una buona alimentazione, l'epidemiologia sociale, l'inquinamento, le politiche sanitarie, la sicurezza sul lavoro, e altre considerazioni che possono essere molto importanti.

Una seconda distinzione che vorrei introdurre è quella tra prospettiva "internalista" ed "esternalista". Non sarò io a negare i meriti della prima. Le indagini degli antropologi ci hanno dato una visione della malattia e della salute che è quella del paziente stesso e diverge da quella di un medico o di un osservatore esterno.

Un economista tende di solito a mantenere un certo distacco dalla percezione soggettiva, a basarsi su dati e statistiche mediche, assumendo una posizione esterna che influisce sul modo di distribuire le risorse economiche. Le ricerche antropologiche invece sottolineano l'importanza delle sofferenza come caratteristica centrale della malattia. Nessuna statistica compilata in modo meccanico riesce a rendere conto di questa dimensione del malessere. Il dolore è troppo spesso una dimensione assente dal materiale empirico usato da chi prepara i programmi sanitari, decide dell'allocazione delle risorse o analizza i rapporti costi-benefici. D'altro canto, la percezione soggettiva può essere fortemente influenzata da ciò che viene considerato lo stato di salute normale.

Fra gli Stati indiani, per esempio, il Kerala ha il tasso più elevato di longevità: l'aspettativa media di vita è di 70 anni (75 anni per le donne) rispetto alla media nazionale di 59 anni. Al contempo, nel Kerala il tasso di morbilità - malattie dichiarate e ricorsi all'assistenza sanitaria - è incredibilmente più elevato della media nazionale, ed è bassissimo nel Bihar dove l'aspettativa di vita è molto al di sotto della media per tutta l'India. Dobbiamo accettare questa autovalutazione come un criterio di buona e di cattiva salute e pensare che gli abitanti del Bihar abbiano conseguito una salute migliore di quelli del Kerala? O basarci sulle cifre della mortalità, confermate dalle rilevazioni dei medici e pensare esattamente il contrario?

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Credo che il punto di vista che assume che, se la gente non ha la percezione della propria morbilità o della propria malattia, vuol dire che sta bene e non ha problemi di salute, sia sbagliato. So che parecchi antropologi hanno adottato questa posizione e la ritengo fondamentalmente errata. Provo un immenso rispetto per l'antropologia, che ha avuto una grande influenza su di me, ma non è questo il modo di renderle giustizia. Perché no? Nel Bihar, c'è una scarsissima percezione della morbilità perché c'è una scarsissima conoscenza delle malattie, e scarsissime possibilità di cure mediche. Bisogna innanzitutto riconoscere che non è vero che gli abitanti del Bihar non stiano soffrendo. Sanno di avere mal di pancia, di avere la febbre e la malaria. Non credono di essere malati perché sono convinti che sia questa la condizione umana. La solita condizione umana, quella che loro conoscono: così come noi ci abituiamo al fatto che un giorno moriremo, si abituano al fatto che tra poco torneranno a soffrire di malaria. Ma commettono un errore epistemologico, fanno una diagnosi basata su un errore epistemologico. Sono state condotte molte indagini in quelle regioni arretrate, in cui si è chiesto agli intervistati "Se ci fosse un modo per curarvi, per prolungarvi la vita, sareste disposti a usarlo?". In molti casi la gente ha pensato che l'intervistatore alludesse a qualche magia. Ma alla domanda rispondeva comunque: "Sì, sarebbe meraviglioso". Anche gli abitanti dei villaggi più remoti sono risultati perfettamente razionali all'interno del proprio sapere. Non manca loro la capacità di pensare che non vogliono morire prematuramente, che non vogliono provare dolore. Manca la comprensione e la conoscenza di ciò che accade nel resto del mondo. Perciò insisto sulla distinzione tra la prospettiva internalista ed esternalista. Mentre riconosco il contributo della prima, credo che sia tuttavia da privilegiare quella esternalista se si vuole determinare lo stato di salute di una popolazione e i suoi bisogni sanitari.

La terza distinzione riguarda il reale conseguimento della salute e la capacità o meno di conseguirla. Questa dipende dalle reali opportunità delle persone, indipendente dal fatto che esse decidano di utilizzarle o meno. Se una persona beve o fuma smodatamente, si può affermare che gode delle stesse opportunità di tutti, infatti nessuno l'ha costretta a bere o a fumare: è stata una sua scelta. Se in conseguenza di ciò si ammala o addirittura muore prematuramente, non è certo perché aveva minori opportunità di conseguire una buona salute, ma perché non ha saputo usarle in modo sensato. La distinzione qui è tra l'equità nelle opportunità di conseguire la salute e l'equità della salute. Nell'insieme mi pare che se adottiamo il punto di vista delle capacità imbocchiamo la strada delle pari opportunità di salute e della libertà di farne o non farne uso.

C'è una questione collegata a questa libertà. Quando una malattia richiede una quota consistente di risorse sociali, fino a che punto la responsabilità ricade sull'individuo o sulla società? Certi autori, come il giurista americano Richard Posner, sostengono che la società non deve nulla a chi rischia di contrarre l'Aids per via dei propri comportamenti. Io ritengo invece che non si debba essere così categorici. I poveri di Harlem o di altri quartieri depressi di New York hanno poche possibilità di sfuggire al contagio e hanno comportamenti che sono chiaramente influenzati da quelli del resto della comunità. Penso quindi che responsabilità individuale e responsabilità sociale siano per lo più inestricabili e che solo di rado la società possa decidere di lavarsene le mani, anche se sono ovviamente convinto della necessità di incoraggiare nei singoli dei comportamenti responsabili. Ciò richiede un delicato equilibrio tra incentivi e considerazioni di equità, un equilibrio che è d'altronde sempre difficile da raggiungere, in qualunque contesto sociale.

Questo ci porta a una distinzione alla quale tengo particolarmente. Di solito si pensa che il mio punto di vista sia prevalentemente quello dell'uguaglianza, a scapito di quello della libertà, e sono spesso frainteso. Ho scritto il saggio che si intitola "Uguaglianza di che cosa?" proprio perché mi preme non l'uguaglianza di per sé ma i suoi fini. Allo stesso modo, possiamo ritenere importante l'efficienza, non di per sé bensì in termini di reddito, di beni, di utilità, di libertà e così via. Vorrei quindi tenere unite equità ed efficienza: la loro combinazione ha un posto rilevante nella mia teoria generale delle capacità perché permette di non prende posizione a favore dell'equità o a favore dell'efficienza ma di valutarle entrambe in termini di capacità.

Resta però da decidere dell'equilibrio ottimale tra equità ed efficienza, e del modo migliore per controbilanciarle. Rispetto ai teorici della scelta sociale, ho da aggiungere soltanto che il trade-off tra l'una e l'altra non può essere riassunto nella formula che ne dà un economista. È stato osservato che la mia teoria delle capacità è incompleta, ma non sono d'accordo perché questa critica sottintende che una teoria è completa soltanto se non lascia nulla alla decisione democratica sulle questioni a proposito delle quali la gente ha il diritto di esprimersi e di contare. Penso invece che occorra chiarire gli ambiti della discussione, gli equilibri da raggiungere, i compromessi necessari, e lasciare la decisione al processo politico.

È una decisione non facile. Le nuove tecnologie mediche mettono a disposizione, per esempio, delle terapie per l'infertilità. Nella contea dove abito, il Cambridgeshire, il servizio sanitario non se ne fa carico perché non vuole sottrarre risorse ad altre terapie, come quelle oncologiche. Siccome il denaro non basta, ogni scelta implica una rinuncia, ma a che cosa? Siamo di fronte a un problema di equità e ritengo che la soluzione sia altrettanto difficile da raggiungere in Italia. La libertà di scelta è data anche dalla compresenza o meno di un sistema sanitario pubblico e di uno privato. Negli Stati Uniti, per esempio, il sistema è prevalentemente privato mentre in Canada è statale. Succede pertanto che molti canadesi ricchi attraversino la frontiera per farsi curare. Ed è inevitabile, così com'è inevitabile che i ricchi spendano somme favolose per comprarsi degli yacht e passare lunghe vacanze nel Mediterraneo o alle Bahamas. Non vedo alcun motivo evidente per cui le spese voluttuarie alle Bahamas sarebbero meno lecite di quelle per le cure mediche. Anzi, queste ultime avrebbero l'effetto secondario di invogliare molti giovani a intraprendere la carriera medica e di incitare i medici a procurarsi una formazione migliore. Perciò non ho mai ben capito l'argomento dell'efficienza usato contro la medicina privata, almeno finché quella pubblica è ampia e di buona qualità. In Gran Bretagna, è possibile utilizzarle entrambe.

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Quando avevo 18 anni, sono stato curato in India per un cancro con una radioterapia e successivamente ho dovuto subire parecchi interventi chirurgici. Sono arrivato in Inghilterra con un'assicurazione privata e il mio medico curante mi ha dato questo consiglio: "Se le sue condizioni non fossero così serie, le suggerirei la medicina privata, ma potrebbe trattarsi di una forma recidiva di cancro e se fossi in lei userei il National Health Service". Probabilmente è vero ancora oggi che l'assistenza sanitaria di base fornita dal National Health Service britannico, e dalla sanità pubblica di altri Paesi, resta il fondamento dell'equità in campo sanitario. Questa equità si complica ulteriormente nel caso delle medicine alternative sull'efficacia delle quali, personalmente, rimango piuttosto scettico. È stata messa in discussione la prerogativa dello Stato di imporre uno stile medico univoco, per esempio quello occidentale, privando così i cittadini di una libertà di scelta. Ma la decisione non è dello Stato, che è soltanto il veicolo della conoscenza accumulata dalla comunità medica, di un sapere professionale. Noi accettiamo le direttive degli esperti in molti ambiti della vita, non soltanto in medicina. Se guidiamo un'automobile seguiamo delle regole. Se ognuno fosse libero di svoltare come e quando vuole o di passare con il rosso solo perché le strade gli sembrano sgombre, ci sarebbero più incidenti, come infatti sembrano dimostrare le statistiche. Possono sembrare regole troppo restrittive, ma il punto è che esprimono il sapere di esperti. Lo stato ne è il veicolo e - altra distinzione importante - non ne è l'arbitro. Nel contesto della sociologia contemporanea, alcuni autori guardano con scetticismo al sapere degli esperti. Preferiscono i saperi locali - i quali si accompagnano spesso a valori altrettanto locali - e affermano volentieri che lo Stato non dovrebbe intromettersi perché i governi possono sbagliare. Certi autori hanno per esempio sostenuto che l'imposizione in India del vaccino contro il vaiolo, nato dalla tradizione medica occidentale, sia stato un errore in quanto esisteva una precedente pratica medica per il vaiolo. È verissimo, tuttavia era una pratica molto meno efficace e a mio modo di vedere, quell'imposizione è stata un bene per la cittadinanza e pazienza se, come sostengono i critici, ha ostacolato la pratica della medicina locale.

Forse per un mio pregiudizio a favore della conoscenza e dell'illuminismo, qui come nel caso precedente dell'interpretazione da dare a certe ricerche antropologiche, credo che se una persona provvista di un'educazione e di una conoscenza maggiore rifiuta una certa posizione, non può sostenere poi che quella posizione rimanga comunque valida perché la accetterebbe se si trovasse in una condizione di conoscenza e di educazione minore e, mettiamo, ignorasse l'esistenza del vaccino contro il vaiolo. Non mi sembra un argomento accettabile perché non tiene conto di un'asimmetria reale tra l'essere educato e il non essere educato.

Ho usato la parola "illuminismo", correndo il rischio di venir criticato un'altra volta perché sarei troppo influenzato dall'illuminismo settecentesco. Ma si tratta di una critica piuttosto eurocentrica. L'Europa non è l'unico luogo dove sia esistito l'Illuminismo. C'è stato all'inizio della civiltà araba, tra il settimo e il decimo secolo. E per risalire qualche millennio indietro nel tempo, c'è stato in India. La parola Buddha significa "illuminato" nel senso di "illuminista" e il Buddha parla proprio del conseguimento del benessere, della ricerca di uno star meglio nel mondo. Decide di digiunare per vedere se giunge così a un miglioramento del proprio spirito, e arriva alla conclusione che non si può migliorare l'anima torturando il corpo. Spiega anche che la luce, intesa come "lumi", fa parte del sapere e aiuta a capire. L'Europa non ha il monopolio di quella luce. Anzi, vorrei ricordare che il Buddha era nato sulla frontiera tra il Bihar e il Nepal, e sono pronto a scommettere che se ci tornasse oggi la situazione non gli sembrerebbe affatto di benessere. Infatti, che cosa è successo al Buddha quando ha lasciato la sua famiglia e il suo regno? Per prima cosa, ha incontrato un ammalato che provava dolore. Non gli ha chiesto: scusi, lei ha per caso una percezione oggettiva della sua malattia? No, ha chiesto: Perché viviamo in un mondo in cui c'è tanta sofferenza? Poi ha incontrato un vecchio e ha chiesto: Perché la vecchiaia deve portare tanta afflizione? Infine ha visto un morto, e ha chiesto: Perché la condizione umana deve finire con la morte? Tutto ciò Buddha l'ha visto e detto osservando le cose dall'esterno.

 

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