Innumerevoli sono le
infamie contro i diritti umani che i tanti regimi non democratici sparsi per il mondo
commettono quotidianamente. Per stare solo alle notizie più gravi di queste ultime
settimane, si va dalla Turchia - che sembra decisa a mandare a morte Ocalan, pensando
così di risolvere con un atto di feroce "giustizia" un suo gravissimo problema
politico - all'Iran, dove il regime islamico tiene sospesa la minaccia di una condanna
capitale su un gruppo di 13 cittadini ebrei accusati, senza il minimo fondamento, di
spionaggio a favore del "regime sionista" e del rappresentante
dell'"arroganza mondiale" (leggi gli Stati Uniti).
Di fronte a tutti questi casi si comprende bene come tener dietro a
ciascuno di essi con la stessa attenzione sia difficile per gli stessi media (i quali,
infatti, hanno dato molto spazio alla vicenda giudiziaria di Ocalan e quasi nessuno a
quella degli ebrei iraniani), ed ancor più sia difficile, naturalmente, per il singolo
osservatore, per la singola associazione, per il singolo esponente o partito politico.

Ma con il Kosovo è diverso, molto diverso. Il silenzio che in questi
giorni circonda quanto si viene a sapere dal Kosovo è incomprensibile o, per quel che si
capisce, francamente scandaloso. Per la semplice ragione, appunto, che il Kosovo non è la
Turchia o l'Iran: è il luogo, viceversa, su cui negli ultimi tre mesi s'è concentrata la
spasmodica attenzione di tutta l'opinione pubblica italiana, che sul Kosovo s'è divisa e
da quanto avveniva laggiù ha tratto lo spunto per importanti ed impegnative prese di
posizione politiche.
E' chiaro di quale silenzio sto parlando: di quello assordante in cui
vengono inghiottite le notizie sempre più frequenti e sempre più raccapriccianti, circa
la scoperta di stanze di tortura arredate con tutti gli strumenti del caso - nerbi, pugni
di ferro, elettrodi, sedie speciali per suppliziare i genitali dei prigionieri -; le
notizie del ritrovamento dovunque di decine di fosse comuni e di forni crematori adoperati
dai valorosi soldati serbi per far sparire i corpi delle loro vittime; le notizie di una
"pulizia etnica" - ora ne siamo certissimi - che ha fatto massiccio ricorso agli
stupri di massa, agli incendi, all'assassinio, alle violenze più spaventose.

Pulizia etnica che - come ha rivelato un rapporto del commissario per i
diritti umani dell'Onu, Mary Robinson, pubblicato il 1º giugno - ha riguardato
"anche i villaggi della Serbia meridionale, comprese le zone mai colpite da attacchi
Nato o quelle in cui non è mai stata segnalata la presenza di guerriglieri
dell'Uck".
Ebbene, di fronte alle prove inconfutabili della riedizione in scala
minore delle imprese della Gestapo andata in scena in Kosovo, di fronte alle immagini
delle fosse, dei teschi, delle camere di tortura, qual è stata la reazione di tutti
coloro che per settimane si sono sforzati di dimostrare che la guerra della Nato era un
errore e un crimine, che bombardamenti e repressioni serbe erano da considerare sullo
stesso piano e che insieme dovevano essere fermati per il bene di tutti, per il bene
supremo della "pace"?
Nulla, nessuna reazione, silenzio di tomba. Non si è dato neppure un
caso, uno solo, in cui qualcuno di quella folla di "pacifisti" sia stato colto
da un moto di resipiscenza, neppure uno che di fronte all'immagine della sedia per
martoriare i genitali sia stato assalito dal dubbio che forse il suo pacifismo ha
prolungato di qualche ora, o di qualche giorno, le sofferenze di un essere umano. Neppure
per un attimo, ad esempio, a Michele Santoro è venuto in mente di organizzare il bis
della sua celebre trasmissione dal ponte di Belgrado da una camera di tortura di Pristina;
neppure per un attimo Luigi Manconi o l'onorevole Giulietti o l'onorevole Bolognesi o le
altre decine di parlamentari del centrosinistra che già il 2 aprile reclamavano una
"tregua" in nome "dei sentimenti più veri e profondi del nostro
popolo", sono stati attraversati dal pensiero di aver preso un abbaglio che altri ha
pagato a caro prezzo. No, nulla di tutto questo è accaduto. Come se nulla fosse, Dario Fo
è pronto a far ascoltare di nuovo, alla prima occasione, la voce della sua alta
moralità, e Armando Cossutta non ha certo nascosto in fondo a un cassetto la foto che lo
ritrae mentre stringe la mano al criminale Milosevic durante la sua gita a Belgrado.

Un altissimo silenzio, solo un altissimo silenzio, fa eco in Italia
alle agghiaccianti scoperte di cui giunge notizia dal Kosovo. È silenzioso Luciano
Canfora che ancora il 4 aprile - sull'Unità, il giornale del presidente del Consiglio se
non sbaglio - stigmatizzava "l'iniziativa criminale della Nato" e parlava delle
atrocità serbe come di "falsità strappalacrime"; e mantiene il più rigoroso
silenzio sulle fosse comuni e sulle camere di tortura anche Enzo Collotti, che sul
Manifesto assicurava che "nessun artificio retorico, nessun cinismo e nessuna
ipocrisia di politici e giornalisti possono convincerci che non si stia combattendo una
guerra di aggressione"; Enzo Collotti che chiedeva anche lui, naturalmente, la
cessazione immediata dei bombardamenti e che, con attento uso delle parole, non si
spingeva oltre i vaghi termini di "oppressione" e "sopraffazione" per
riferirsi alle gesta degli scherani di Milosevic.
Sì, le prove delle torture e dei crimini di massa perpetrati dai serbi
non sono fatte per interessare nessuno, qui in Italia, men che meno le donne e gli uomini
pensosi della pace e dell'umanità. Un distratto silenzio succede oggi agli allarmi e agli
appelli di appena tre mesi fa, quando si organizzava a Roma una grande manifestazione
all'insegna dello slogan "fermiamo la guerra" (e naturalmente era chiaro a tutti
quale).
"Far tacere le armi e riaprire le trattative di pace",
reclamavano pubblicamente in quelle ore Rita Levi Montalcini e Marina Salamon, Barbara
Pollastrini e Francesca Sanvitale, insieme all'Arci, all'Anpi, a Magistratura democratica
e ad altre centinaia e centinaia di sigle e di organizzazioni, dalla Fim, Fiom, all'Unione
inquilini, al Coordinamento donne di Todi. Come mai, mi chiedo, a neppure una di quelle
donne illustri o a quelle organizzazioni viene oggi in mente di reclamare pubblicamente
qualcosa, per esempio, che so, un processo esemplare per lo Stato Maggiore serbo?
È davvero un gran colpo d'occhio sui giornali di quel 3 aprile, la
quantità delle adesioni al corteo di Roma. In prima fila naturalmente anche i cristiani e
in particolare i cattolici: la Federazione delle Chiese evangeliche accanto alle Acli,
agli Scout, al Gruppo Abele, a Pax Christi, ai Beati costruttori di pace, agli studenti di
Azione cattolica, per una volta tutti disciplinati e obbedienti come si conviene alla
gerarchia e alla Segreteria di Stato. Anche loro, però, non sembrano oggi interessarsi
più di tanto a quanto accade in Kosovo, o meglio a quanto accadeva nei mesi scorsi,
mentre essi chiedevano come prima cosa lo "stop ai bombardamenti" e "nessun
atto di guerra dal territorio italiano". Anche per loro, non sia mai, nessun esame di
coscienza e men che meno nessuna richiesta di giustizia. Anche per loro, tra l'essere
accettati nei cortei che contano, tra i partiti e i gruppi che contano, e testimoniare la
verità, non sembrano esserci dubbi su da che parte stare.