Letti per voi/Kapuscinski: "Come il
video perse la guerra" Sandro
Scabello
Questo articolo e' apparso sul "Corriere della Sera" (www.corriere.it) di venerdi 11 giugno.
L'ultimo viaggio di tre mesi lungo il Nilo, attraverso Egitto, Sudan ed Etiopia, dove ha
raccolto materiale per il suo nuovo libro sull'Africa, ha rafforzato nel polacco Ryszard
Kapuscinski la convinzione che "la pace sul pianeta all'inizio del Terzo Millennio
dipenderà più che mai dalla conoscenza e dalla comprensione delle diverse culture dei
popoli". L'Africa: il grande, inestinguibile amore dello scrittore-reporter più
celebrato nel mondo che si ritrova ogni volta "affascinato dall'ospitalità, dai
colori, dalle ricchezze di un continente misterioso".
Il prossimo sarà il secolo del Nuovo Mondo e la conoscenza reciproca
delle varie culture sarà fondamentale per mantenere la pace. Kapuscinski non ha dubbi:
"Troppi popoli non si conoscono fra di loro, la gente non sa nulla del vicino, si
lascia guidare dagli stereotipi e dall'ignoranza, facilmente utilizzabili per seminare
odio e sfiducia, attizzare conflitti". Come sta accadendo nei Balcani. "Lì ogni
abitante definisce la propria identità in base all'odio verso l'altro, l'unico modo di
presentarsi assieme all'incapacità di guardare al futuro - spiega il grande viaggiatore
-. Cinquecento anni fa hanno bruciato il mio villaggio e non l'ho dimenticato. Sono
trascorsi cinque secoli e la mentalità non è cambiata, non si è compiuto un solo passo
in avanti. Ma chi ne discute? E' un problema che non risolveranno certo né le bombe né
gli aiuti umanitari, un esempio dei rischi che potremmo correre nel prossimo secolo se non
ci sforzeremo di comprendere le civiltà che non conosciamo, se non riconosceremo che il
nostro è un mondo multiculturale in cui le culture non sono alte e basse, ma tutte allo
stesso livello, anche se diverse fra loro".
Sessantasei anni, di cui la maggior parte trascorsi a raccontare
guerre, golpe e rivoluzioni, a scavare negli angoli più oscuri e caotici del globo,
Kapuscinski è autore di libri tradotti in tutto il mondo come La prima guerra del
football, Negus: splendori e miserie di un autocrate, Imperium, Lapidarium. Ex giornalista
dell'agenzia polacca Pap che abbandonò dopo il golpe del generale Jaruzelski e la messa
al bando di Solidarnosc, Kapuscinski non ama computer e telefonini, scrive a mano
corrispondenze e libri su spessi bloc-notes e, qualche rara volta, si concede l'uso di una
portatile svizzera fabbricata negli anni Trenta, un'Hermes Baby sepolta in mezzo a pile di
volumi e riviste.

Quanto durerà la pace nei Balcani?
"C'è vera pace oggi in Bosnia? Formalmente sì, ma in realtà a
regnare sono la stessa diffidenza, incomunicabilità di prima. Le conseguenze delle guerre
sono terribili. La guerra rappresenta la sconfitta dell'uomo e la sua incapacità di
vivere assieme agli altri. Non si tratta solo di riparare ponti e strade, ma di guarire le
ferite, a volte irreversibili, subite dalla psiche. Temo che se non si rifletterà a fondo
sulle cause reali della guerra, sulle origini dei provincialismi e dei nazionalismi, le
ostilità riprenderanno sotto un'altra forma".
Quale futuro vede per il Kosovo?
"A credere alla televisione, alla sua propaganda piuttosto
ingenua, i profughi torneranno nelle loro case. Non è vero: per chi emigra non c'è mai
ritorno. L'emigrazione ti sradica dalla tua terra, ti disperde nel mondo, ti fa dipendere
dagli aiuti internazionali. Ho passato tanti anni in Ruanda, Zaire, Somalia: chi scappava
non è più tornato a casa".
Come esce l'Europa dalla guerra?
"Con un grande senso di colpa. Dopo la caduta del comunismo in
Europa si respirava un clima nuovo. L'89 è un anno di celebrazioni, si tengono ovunque
conferenze e convegni, ma le persone hanno paura di incontrarsi, ricordare, per non
ridestare vecchi rancori ed animosità. Noi europei eravamo così fieri di aver tratto le
"giuste conclusioni" dopo la fine della seconda guerra mondiale. La guerra in
Jugoslavia è la nostra vergogna".
E' d'accordo sul fatto che que sta volta l'informazione scritta,
più critica e interessante, si è presa una netta rivincita sulla Tv?
"Schiacciante, direi, quanto a supremazia intellettuale. Le
priorità sono diverse. Noi corrispondenti ci concentriamo sulla sostanza, sul merito dei
problemi, le Tv sugli aspetti tecnici. Noi discutiamo, formuliamo ipotesi, scenari. Loro
si preoccupano delle luci, del suono, se ci sono prese elettriche per i cavi, di come far
arrivare sul posto le telecamere, spedire le pellicole. Noi firmiamo il nostro pezzo e
siamo responsabili di quanto scriviamo, ma le immagini che appaiono alla CNN sono passate
attraverso sessanta filtri e cosa è rimasto del materiale inviato dall'operatore?".

Lei sostiene che, sotto l'influsso delle videocamere, la history viene
sostituita dalla story. Con quali conseguenze per l'informazione?
"Orrende. Non c'è futuro, il passato non esiste, tutto comincia
oggi, ogni avvenimento è sospeso nel vuoto. Prendiamo la tragedia del Ruanda, un dramma
che ha radici profonde, complesse. Che fa la tv? Mostra solo carneficine, africani nelle
vesti di assassini spietati che si muovono in un mondo assurdo. Ne esce un ritratto
dell'Africa popolata da cannibali e diavoli che uccidono senza motivo rafforzando un modo
di pensare irrazionale che si trasmette, con la forza della suggestione, da spettatore a
spettatore".
Questo modo di guardare la realtà come ha cambiato il lavoro
dell'inviato di guerra?
"Il problema principale è la concorrenza. Come greggi impazzite
le troupes televisive si catapultano tutte sullo stesso posto. Si spiano, si sorvegliano a
vicenda. Non è la notizia che conta, ma dove va il concorrente. Nel mondo accadono
migliaia di fatti, ma l'evento trasmesso da cento canali diversi è lo stesso. I pericoli
sono grandi perché a guardare la tv sono soprattutto persone che hanno scarsa
familiarità con gli avvenimenti internazionali e non riescono a valutare quanto viene
loro propinato".
Quella del giornalista-viaggiatore è una categoria in via
d'estinzione?
"Nei giornali le corrispondenze dall'estero hanno sempre meno
spazio, dominano le notizie locali e regionali. Viviamo una situazione paradossale. Da una
parte stiamo diventando un villaggio globale, disponiamo di un'infinità di dati sul
mondo, dall'altra la gente si interessa sempre di meno a ciò che accade al di là dei
confini nazionali. Forse la mente umana non è in grado di accettare un mondo così
grande, abbiamo l'abitudine di scartare le notizie che non ci riguardano direttamente. Ma
i giornalisti che scrivono i reportage letterari non stanno diminuendo. Giovani brillanti
e preparati si aggiungono alle vecchie generazioni. Le minacce vengono dalle moltitudini
di turisti che, per recuperare le spese di viaggio, inondano il mercato di libri
superficiali e dozzinali".
Internet e il giornale elettronico rappresentano un pericolo per la
carta stampata?
"Cinema, radio, televisione e ora Internet: è da cento anni che
la parola scritta è minacciata di morte. La cultura della lettura, il rito del giornale
acquistato al mattino all'edicola e letto in tram o in metropolitana è insostituibile. La
rivoluzione elettronica ha portato le velocità, ma anche la superficialità e non può
cancellare il commento, l'approfondimento, l'opinione del mio editorialista
preferito".
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