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L'intervento/Come smettere il vizio dello statalismo

Marco Vitale

 

Quella che segue è la relazione di Marco Vitale al convegno "Quale liberismo, quale mercato?" organizzato dal Centro internazionale studi Luigi Sturzo e dal Cidas - Comune di Asti, che si è tenuto ad Asti il 17 aprile 1999.
 

LUIGI EINAUDI (1874 - 1961)

Chi vuole la libertà

"La libertà di cui parlo non è quella della coscienza individuale la quale vive anche nelle galere e nei campi di concentramento e fa gli eroi ed i martiri ; ma è la libertà pratica dell’uomo comune, dell’italiano medio di esporre pubblicamente, senza timore, il proprio pensiero e di difenderlo contro gli avversari ; la libertà delle minoranze di far propaganda contro la maggioranza e di cercare di diventare maggioranza ; la libertà di esercitare o non esercitare quel qualunque mestiere o professione piaccia al singolo, senza altri vincoli od impedimenti fuor di quelli richiesti dal diritto altrui di non essere danneggiato dall’operato nostro ; la libertà di muoversi da luogo a luogo senza sottostare a vincoli che, quando ci sono, non sono nient’affatto diversi dal domicilio coatto o dalla servitù della gleba ; la libertà di dir corna del prossimo e del governo e massimamente di questo, nei giornali e sulle piazze; salvo a pagare il fio, con adeguate pene in denaro o in anni di carcere, delle proprie calunnie ed ingiurie.

Quali sono i mezzi atti ad attuare queste libertà e le altre scritte nelle costituzioni di tutti i popoli liberi ed anche nella nuova costituzione italiana ? Oggi è assai popolare ed accettata l’idea che le libertà civili e politiche, proclamate nelle carte dei diritti dell’uomo della fine del secolo XVIII non possano stare da sé, anzi non abbiano vita vera se non siano accompagnate da un’altra libertà, quella economica.

A che serve la libertà politica a chi dipende da altri per soddisfare ai bisogni elementari della vita ? Fa d’uopo dare all’uomo la sicurezza della vita materiale, dargli la libertà dal bisogno, perché egli sia veramente libero nella vita civile e politica, perché egli si senta davvero uguale agli altri uomini e libero dall’obbligo di ubbidire ad essi nella scelta dei governanti, nella manifestazione del pensiero e delle credenze. La libertà economica è la condizione necessaria della libertà politica" (Corriere della Sera 13 aprile 1948).

La libertà

"Gli economisti al servizio delle casseforti hanno trovato lo specifico toccasana : la libertà. Gli economisti si preoccupano della produzione in sé, dell’economia in sé, come automatismo di cause ed effetti, indipendentemente dalla vita degli uomini, dalla morte degli uomini. La libertà commerciale "in sé" spinge alla produzione, alla moltiplicazione dei beni, ma, nel periodo attuale, essa uccide gli uomini. La somma dei beni esistente nel globo attualmente, può essere sufficiente a non lasciar morire di inedia gli uomini, solo in quanto viene distribuita equamente, in quanto lo Stato ne limita i prezzi e ne impegna la destinazione.

La libertà significherebbe possibilità per i detentori della ricchezza di accaparrare per sé la maggior parte dei consumi e quindi di privarne completamente le masse povere : quanto più l’avvenire si presenta oscuro e incerto, tanto più il fenomeno dell’accaparramento sarebbe vasto e spaventoso. La libertà commerciale oggi, nelle condizioni attuali dell’economia mondiale, significherebbe la morte per fame del cinquanta per cento degli abitanti del mondo. Vivrebbe non chi lavora, ma solo chi ha proprietà privata e può investire nell’acquisto di cibi, di vestiti, di calzature, di sapone, di biancheria, di medicinali ingenti somme di danaro.

Gli economisti liberali hanno ragione astrattamente, sono dei criminali praticamente". ("L’Ordine Nuovo", 14 Giugno 1919)

Intervengo dopo le relazioni di illustri relatori ed amici che mi hanno lasciato ben poco spazio a disposizione. Parto dunque in salita, anche perché prendo le mosse da un titolo che non ho scelto io e che non mi piace. Cosa vuol dire : "Libertà economica : il problema è culturale" ? Tutto e niente. Mi sembra una di quelle frasi prive di senso, tipo : il problema è a monte od a valle, che caratterizzano il dire di chi non vuole o non ha nulla da dire. Il problema è culturale ? Certo, tutto è culturale, anche se dipende dalla definizione di cultura che adottiamo. La definizione di cultura che mi è sempre piaciuta di più è quella di un uomo d’affari americano che definì il concetto di cultura con le seguenti parole : "The way we do things over here ". Con questa definizione di cultura certamente il problema della libertà economica è culturale. Ma il problema è anche politico. E’ anche di potere. E’ anche istituzionale. E’ anche giuridico. E allora ?

C’è un’altra cosa che mi piace ancor meno nel titolo che mi è stato assegnato. Ed è che dovrei parlare di libertà economica, come se questa fosse una specie distinta e specifica. Io non credo che si possa parlare di libertà economica in se stessa. Io credo che si possa e si debba parlare di libertà in senso globale, della quale la libertà economica , la libertà del fare, è componente essenziale. La libertà economica non esiste in modo duraturo e solido, se non viene radicata profondamente nella libertà senza specificazioni. Per questo, ad esempio, io sono tra quelli che si attendono una grossa crisi in Cina. E la libertà senza specificazioni non può esistere come fatto reale e duraturo se non si esplicita anche nella libertà di fare, anzi se non si radica in essa, perché per l’uomo il fare secondo talento, volontà, bisogni, ambizioni, capacità creativa, desideri, non è un fatto opzionale, è una proiezione essenziale della persona. Luigi Sturzo sarebbe d’accordo con questa impostazione, perché le sue riflessioni e le sue battaglie sulla libertà economica hanno sempre avuto un aggancio forte con la libertà senza specificazioni, con la dignità della persona, con la fede nello spirito creativo dell’uomo, con il valore dei principi democratici e della società aperta. La libertà, dunque, ivi compresa la libertà economica, come fatto morale e non come fatto tecnico. Noi dobbiamo stare strettamente agganciati a questi pilastri concettuali, perché se ci sganciamo da essi, e ci abbandoniamo alle pure tecniche economiche, rischiamo, ben presto, di perdere la rotta.

Rispetto al trentennio dello statalismo puro (anni ’60,’70,’80) negli anni ’90 lo schema statalista si è sbrecciato. Una parte significativa dell’apparato industriale e bancario italiano è stato effettivamente posto sul mercato. Un’altra parte è stata posta in uno stato ambiguo, che non è quello che vorremmo ma che, almeno, non è più statalismo puro, e soprattutto non è più terreno libero di scorribande di quelle bande partitiche che, nascondendosi dietro lo schermo del pubblico, avevano, in realtà, "privatizzato" per loro stessi e per i loro clan (soprannominati partiti) segmenti enormi dell’economia nazionale. La protezione e l’alibi dell’autarchia valutaria sono stati messi da parte e l’integrazione nell’economia europea e mondiale ha fatto un grande salto in avanti e, forse, è entrata nella fase del non ritorno. Anche lacune deregolamentazioni hanno almeno scalfito potenti monopoli pubblici. A capo di alcune di queste grandi aziende, che pur sono e restano superstatali, sono stati posti uomini che sanno cosa è il mercato e che meritano, almeno, una apertura di credito. Forse solo nel settore della sanità si sta marciando contro - corrente, con la crescente privatizzazione apparente delle cure e la contestuale statalizzazione della professione medica e, quindi, con la sua crescente umiliazione e distruzione. Nell’insieme, però, chi ha combattuto tutte le battaglie antistataliste, tutte le battaglie europeiste, tutte le battaglie antipartitiche, tutte le battaglie per tentare di elevare la morale pubblica, tutte le battaglie per la libertà di fare, può avere qualche motivo di soddisfazione, sempre che sia anche persona che sa apprezzare le semplici inversioni di tendenza ancorché modeste e che segua il principio che il meglio è nemico del bene.

Se questo è vero, perché allora continuiamo ad essere così inquieti e preoccupati ? A questa domanda io do una risposta articolata in sette punti.

1. Il liberismo tattico

Il cambiamento che stiamo vivendo, con una indubbia diminuzione della componente statalista è, in grande misura, un fenomeno necessitato e tattico. Esso non è frutto di una scelta consapevole e strategica ma delle pressioni e dei vincoli, sempre più stingenti, che i mercati finanziari internazionali ci hanno imposto. Mai sarebbero state privatizzate le telecomunicazioni senza le pressioni europee ed americane. Mai si sarebbe parlato di un, sia pur molto parziale, ridimensionamento dell’ENEL e liberalizzazione del mercato elettrico senza le stesse ragioni e pressioni. E via dicendo. La nuova classe di governo ha capito la forza delle spinte internazionali verso la liberazione dell’economia e la sua parziale deregolamentazione e cavalca il modello di economia liberale, ma come mero fatto tattico, nell’ambito di una filosofia di fondo che resta quella della "gestione statale dei cittadini". Novack ha descritto con grande lucidità questo fenomeno,( che è generale) in "Questo emisfero di libertà" (LiberiLibri 1996) :

" Sono in primo luogo le idee che spingono e interessano questa nuova classe. Sebbene attratti storicamente dallo statalismo, molti dei suoi membri, negli ultimi anni, sono giunti a vederlo come un errore. Rifiutano l’idea che "progresso" significhi maggiore potere allo Stato. Invece, per loro, la nuova idea di progresso si basa sulla creatività di ogni singola persona - sull’iniziativa economica, sulla democrazia politica, e su un pluralismo di discussione aperta più attivo, energico e civile.

Così, anche nell’unione sovietica, "liberale" è diventato un termine positivo, e "liberalizzazione", "apertura", "privatizzazione", "iniziativa" e "intraprendenza" significano forze di progresso nuove e potenti, che hanno radici nell’ingegno e nell’immaginazione individuale.

Dato che la nuova classe è aperta a nuove idee, può benissimo preferire la libertà allo statalismo, "cercare la verità per mezzo dei fatti" (Deng Xiaoping) e imparare dalla realtà che la liberazione dei poveri si raggiunge meglio dando loro il potere di usare la propria grande creatività economica. La maggioranza dei poveri, in effetti, non è composta di proletari ma di micro-imprenditori che hanno bisogno di un sistema favorevole alla piccola impresa. Sono sempre di più gli intellettuali che, nel mondo, iniziano ad accorgersene, spesso in seguito al fallimento di altri metodi.

La nascita della nuova classe crea una situazione inedita per coloro che sono a capo delle imprese commerciali. Ciò perché l’arma della nuova classe sono le idee, idee che possono o dare forza al potere dello Stato tradizionale o, al contrario, dare nuova portata alla libertà economica....

Questa nuova classe ha in genere un acceso interesse materiale e ideologico per un governo forte e per la gestione statale degli altri cittadini. I suoi interessi si rivolgono meno alla classe lavoratrice classica, meno alla piccola impresa, meno alle grandi corporazione e più alla burocrazia, alle società e alle banche statali. Questa nuova classe è potente. Forma una nuova élite i cui membri principali sono non solo altamente istruiti ed abili nell’esporre idee e politica, ma anche molto potenti nell’indirizzare l’opinione pubblica. In altre parole, questa nuova classe è diventata, per molti versi, la classe più potente delle società moderne" (sottolineatura aggiunta).

E’ questa contraddizione, non facile da cogliere ed abilmente mascherata, tra recepimento tattico di tecnica e linguaggio dell’economia di mercato e filosofia di fondo, più che statalista ormai apertamente manipolatoria ed, al limite, abilmente totalitaria, il primo grande motivo di inquietudine.

2. L’infondata supremazia della componente pubblica

La riprova della fondatezza della preoccupazione di cui al punto 1 sta nel fatto che non si vede alcun segnale (nel pensiero, nel linguaggio, nelle leggi, nei regolamenti, nei comportamenti) in direzione della parità di diritti e doveri tra cittadini e portatori di responsabilità pubbliche. La nostra cultura resta pervasa dalla credenza puerile che tutto ciò che è pubblico si ponga, per ciò stesso, su un piano superiore. Il fatto che si tratti di un colossale falso storico, smentito da migliaia di evidenze contrarie, non riesce a scalfire questa credenza tribale. Eppure pubbliche erano le imprese e le banche dove si è annidato il peggiore malaffare del paese. Eppur pubblici sono, in genere, i peggiori servizi del paese. Eppure pubbliche sono le peggiori università ed i peggiori ospedali. Eppure pubblico, totalmente e disperatamente pubblico, è l’ordinamento giudiziario che, anche solo basandoci sulle relazioni annuali dei procuratori generali, rappresenta, probabilmente, il più clamoroso caso di denegata giustizia a livello di massa, di tutti i paesi sviluppati. E via dicendo.

Abbiamo bisogno di uguaglianza. Il termine di uguaglianza è stato usato in tanti significati. Io lo uso in un significato ed in una prospettiva non comune da noi : quello dell’uguaglianza tra il pubblico ed il privato. E’ indispensabile smontare dalla nostra cultura, dai nostri comportamenti, dalle nostre leggi, dalla nostra testa, quella generale ed infondata supremazia del pubblico sul privato, che ancora è così dominante da noi. Chi svolge una funzione pubblica ha dei poteri di supremazia, fissati e regolati dalle leggi, sono necessari perché tale funzione possa svolgersi. Ma chi esercita una funzione pubblica non ha, personalmente, alcuna posizione di supremazia. Né la sua funzione, solo perché pubblica, è, per ciò stesso, superiore ad altre. Un’impresa pubblica non è, per il solo fatto di essere pubblica, migliore di una privata. Un direttore di un ufficio tecnico comunale, che deve dare dei nullaosta dai quali dipendono dei lavori non è, per ciò stesso, superiore ad un grande architetto che quei lavori ha progettato. Una macchina dei vigili urbani può fermare la mia macchina se commetto un’infrazione, ma non può, a sua volta, passare con il rosso. Un procuratore non può convocarmi come e quando vuole lui, senza quel preavviso che usiamo in tutte le relazioni civili e poi, magari, tenermi fermo ad attenderlo per ore.

Ognuno deve rispondere per quello che fa e per come lo fa, pubblico o privato che sia. E’ necessario allargare al pubblico la grande, profonda moralità del mercato. Anche l’esercizio del potere amministrativo deve rispondere per quello che produce ; per la qualità di quello che produce ; per il costo di quello che produce.

Forse la moderna teoria contrattualistica e le analisi della scuola americana della "public choice", ma ancor più l’osservazione empirica della complessità della società, della difficoltà dei problemi che dobbiamo affrontare, della pari dignità di tutte le energie positive che devono essere mobilitate per la buona società, dovrebbero farci capire quanto è urgente ed indispensabile che noi comprendiamo, interiorizziamo, utilizziamo i concetti che uno dei grandi economisti italiani, Francesco Ferrara, formulava nel 1884 in questi termini :

" L’ufficio del governare (è) una fra le migliaia di occupazioni, una delle tante industrie, uno de’ tanti mestieri che, prendendoli nel loro insieme, danno l’idea dell’attività sociale. Tutti quanti siamo, ... produciamo, permutiamo, consumiamo utilità più o meno incarnate in una materia... Da ciò, una classe di produttori, addetti a procurare quella tale utilità, che si chiama giustizia, ordine, tutela, in una parola governo... Se governare... è produrre, le innate leggi della produzione devono inesorabilmente regnare sul mestiere de’ governanti, quanto e come regnano su chi coltiva la terra e ne porta i frutti al mercato. L’utilità sociale che il Governo produca non può, da lui medesimo o da lui solo, estimarsi ; chi può misurarla, gradirla o rifiutarla, attribuirle un valore, sarà colui che la compri e la consumi, la nazione. Sì, noi, nazione - governata, siamo i soli a cui spetti il decidere se ella meriti quel prezzo che il produttore - governo, per mezzo delle imposte di cui ci aggrava, o delle privazioni a cui ci condanna, pretenda di farcela costare... Tale è la portata dell’espressione che noi usiamo, libertà economica".

Coerentemente con questa concezione Ferrara pensava ad una pubblica amministrazione finalmente spoglia da autorità non giustificata se non strettamente legata alla funzione, un’amministrazione obbligata a mettere continuamente in discussione se stessa, come tutti ; un’amministrazione pubblica "nella quale l’impiegato venda l’utilità del suo lavoro, e non viva da parassita ; sia apprezzato per quel che faccia, non riverito per il titolo che gli si affibbi ; duri quanto dura il bisogno del suo servigio, sia rivocabile senza appello, si abitui a trovare nella sua funzione un incarico temporaneo, ed affidi al mestiere, all’industria, alla potenza individuale di se medesimo la cura di non privarlo de’ mezzi opportuni alla vita ;... un sistema nel quale... il governo chieda, e l’individuo consenta, di prestare un servigio al pubblico".

Un’amministrazione così concepita sarà anche capace di comprendere e rispettare profondamente le arti e mestieri, di rendersi conto che è solo se le arti e mestieri funzionano bene, nell’ambito di un patto civile accettabile, se le unità elementari della società (la famiglia, l’impresa ) sono equilibrate, sane e produttive e non oppresse e sul piede di guerra, che la comunità più larga, la "Polis", lo Stato, saranno in condizioni decenti. Tutto ciò è già chiarissimo in Aristotele che, all’inizio del libro primo del trattato sull’economia, scrive :

"Lo stato è un complesso di famiglie, di terre e di possedimenti sufficienti a vivere bene. Ed è evidente : che quando non riescono ad ottenere ciò, anche la comunità si sfascia. Inoltre è per questo scopo che gli uomini si associano... Di conseguenza è chiaro che l’amministrazione domestica è, per origine, anteriore alla politica... Bisogna dunque fare un’indagine sull’amministrazione domestica e qual è l’opera sua".

Dunque non può esserci comunità, associazione pubblica, stato, in buone condizioni, se in buone condizioni non sono le cellule elementari produttive. Ma l’associazione pubblica trae da questo energia e per questo deve, a sua volta, proteggere, tenere ordinate, indirizzare tali energie per scopi positivi e propri "allo scopo per cui gli uomini si associano".

Ma questo non si verifica se chi è titolare della funzione pubblica non conosce e non coltiva in se un profondo rispetto per chi esercita le arti e mestieri. E’ questo un passaggio di grande importanza in un paese dove l’amministrazione pubblica, troppo spesso, sembra, sulla scorta di antiche culture nobiliari, odiare i "villani" o gli "idioti" che esercitano le volgari arti e mestieri. Sotto questo profilo mi ha recentemente molto colpito, al museo egizio di Berlino, un testo antico che apparteneva ad un manuale di esercitazioni per la preparazione dei funzionari pubblici. E’ evidente in questo testo l’obiettivo di far sì che il funzionario pubblico conosca e rispetti la fatica del contadino, del produttore. Vorrei condividere con Voi questo bellissimo testo dal titolo. "La giornata di lavoro del contadino :

Ed ora vieni, che io ti mostri cosa ne è
del contadino, di questo così duro lavoro.
Quando l’acqua sale per l’annuale
inondazione del Nilo, egli viene tutto bagnato.
Se ne sta là ritto con i suoi attrezzi, tutto il giorno
affila come si deve gli arnesi per arare, la notte
arrotola corde. Persino l’ora del mezzogiorno
la trascorre lavorando e fa i suoi
preparativi, per andare nel campo.
Quando il campo si stende asciutto davanti a lui,
egli se ne va,
per andare a prendere un tiro di buoi.
Per molti giorni va dietro il mandriano...
Viene al suo campo e trascorre un periodo
di otto ore e ara, mentre il verme lo incalza.
E anche quando ha finito di seminare, passerà molto tempo prima che veda nascere verdi germogli.

(da un testo di esercizi per futuri funzionari statali, del 1150 circa a.C.)

Credo che la nostra amministrazione pubblica debba ricominciare esattamente da qui, dalla conoscenza e rispetto dei produttori dal rispetto della "giornata di lavoro del contadino".

Non esiste alcun segnale, a nessun livello, che si voglia imboccare seriamente, anche parzialmente, la via indicata, quasi un secolo fa, dal Ferrara. E questo è il secondo motivo di inquietudine che rende la nostra inquietudine sempre più giustificata, perché quello di cui abbiamo bisogno è soprattutto di un po’ di parità, di uguaglianza di diritti e di lavori tra chi lavora e chi amministra il paese.

3. Non c’è libertà di nessun tipo senza giustizia

Due anni fa, in India un grande industriale indiano mi diceva : L’india politica deve affrontare problemi enormi. Ma io sono ottimista. Perché credo che la formula federale ci aiuterà ad affrontare il risolvere questi problemi. Ma soprattutto perché vedo un ordinamento della giustizia molto solido ed indipendente ed una stampa libera ; e giustizia e stampa libera sono i due pilastri della convivenza democratica. Sino a che vedrò questi due pilastri a posto sarò tranquillo. Parole sagge.

Ed è esattamente per gli stessi motivi che io sono, al contrario, terribilmente inquieto. Negli ultimi tempi ho avuto modo di vedere più da vicino il funzionamento e il comportamento di parte significativa della nostra magistratura inquirente. Ne ho avuto orrore. E’ la prima volta che formulo questa tesi con tanta forza e se non lo ho fatto prima era perché recentemente ho avuto delle evidenze schiaccianti sulle quali ho una possibilità di giudizio assoluta, ma anche perché temevo di finire confuso con un partito e con una persona dalle quali sono, invece lontanissimo. Ma la situazione è ormai tanto grave da dover superare questi timori. Ormai è chiaro che nell’ambito di questa magistratura, per parte significativa dei suoi membri, l’obiettivo della giustizia o solo quello di rintracciare qualche scampolo di verità non interessa più a nessuno. Si tratta di fattori assolutamente secondari ed accidentali. Quello che conta è il potere, la notorietà, la possibilità di fare politica sia come magistrato che come politico di carriera sulle spalle della notorietà conquistata come magistrato. E’ un problema ormai terrificante. Io ho visto procuratori raccontare plateali bugie, ben sapendo che di questo si trattava, li ho visti giocare cinicamente con cose e uomini, anche con la vita di poveri cittadini del lavoro, per seguire i loro deliri di potere e notorietà, i loro teoremi, i loro pentiti in servizio permanente effettivo Cosa può fare un povero cittadino, un piccolo imprenditore, un dirigente, un professionista di fronte ad un magistrato inquirente che, cinicamente, dice delle bugie, ben sapendo che la sua parola vale di più di quella del povero cittadino, in un paese che vive ancora immerso nella credenza tribale che il pubblico sia, per natura, più buono, più onesto, più affidabile, più credibile ? Niente. E’ senza speranza. Verrà stritolato.

Anche perché la stampa è, per gran parte, servile, per gran parte corrotta, e per il resto drammaticamente superficiale. Allora con questa mancanza di giustizia (ormai pressoché assoluta tutti i settori in parte per inefficienza dell’organizzazione giudiziaria, in parte per cinica strumentalizzazione del potere giudiziario degli inquirenti) e con questa comunicazione falsa, manipolata e, quando va bene superficiale, dove vogliamo andare ? Di quale libertà andiamo cianciando ? Guai ai vinti. Questa è l’unica regola fondante del nostro Paese. Il nostro Paese è diventato il più feroce del mondo sviluppato. La nostra libertà di fare e di intraprendere sarà sempre subordinata alla benevolenza e tolleranza del procuratore di turno e della stampa di turno. Il giorno che un concorrente forte e spregiudicato vorrà bloccarci, basterà che abbia strumenti per influenzare ed indirizzare un aiuto procuratore locale ; per montare una campagna di stampa contro di noi ; per far fare qualche dichiarazione a qualche pentito in servizio permanente effettivo, e noi saremo distrutti. Non sono cose fantasiose. Io di vicende condite da questi ingredienti ne ho viste molte, da quella dell’olio Topazio della Chiari e Forti negli anni ’70, sino a casi recenti. L’unica differenza è che negli anni ’70 erano casi abbastanza rari. Ora sono molto frequenti. Come del resto lucidamente aveva colto Guido Piovene quando, nel 1966, riprese in mano il suo Viaggio in Italia del 1955, aggiungendovi alcune considerazioni tra le quali la seguente :

"Se dovessi rifare il mio Viaggio in Italia, direi che occorre liberarsi del tutto di quell’idea idillica dell’Italia, che coltivano ancora molti viaggiatori stranieri (e a cui, nel libro scritto, ho fatto concessioni anch’io). Sotto un involucro di sorriso e di bonomia, l’Italia è diventata il paese d’Europa più duro da vivere, quello in cui più violenta e più assillante è diventata la lotta per il denaro e per il successo. E’ anche il paese che sembra più politicizzato, con una riserva, che spesso è pseudopoliticizzato. Esiste infatti un impegno totale, che viene soprattutto dalla poca coscienza politica reale ; mancando i limiti segnati dai veri sentimenti, dalle convinzioni sincere, ci si butta un po’ a capofitto, trasportati dal meccanismo delle idee, dalla loro forza d’inerzia, dai richiami della convenienza... L’ingresso ritardato dell’Italia nella civiltà moderna, caduto però in un momento in cui prende impeto dalla situazione mondiale, porta nell’Italia d’oggi un avanguardismo generico, confuso, ma effettivo ; e, secondo la visuale, si può definirla altrettanto bene un paese ritardato e un paese di punta. Più moderno dei suoi vicini, se per moderno noi intendiamo un paese nel quale la vecchia civiltà si squaglia in maniera più rapida e dove più forte, sebbene non tutta cosciente, è la crisi. Certamente anche un paese oscuro a se stesso, nel quale tutti soffrono più malesseri che dolori, senza capirne con chiarezza il perché."

 

4. Deregulation. Bisogna rifondare i fondamentali.

Un po’ di deregulation l’abbiamo avuta. Ma si tratta veramente di pannicelli caldi, che, in parte, sono delle autentiche prese in giro. E’ necessario un salto culturale ed operativo molto grosso, che abbia la capacità di pervadere e penetrare in tutti i principi e meccanismi di fondo dello Stato e del rapporto Stato - cittadini. Ognuno di noi ha paura del potere ed ha ragione di averne paura. Sulla scorta dell’esperienza sono arrivato a capire a fondo le ragioni del : "io non so niente, non ho visto niente, non ho sentito niente" tipicamente meridionale e siciliano. Il potere irresponsabile non merita e, forse, non vuole altra risposta. Perché per rispondere diversamente bisogna essere liberi cittadini, ma il potere irresponsabile non vuole dei liberi cittadini. Per questo li umilia continuamente. Perché rispondano : io non so niente, non vedo niente, non sento niente. Perché questa risposta è strumentale alla sopravvivenza del potere arbitrario ; è esattamente l’unica risposta che il potere arbitrario vuole (salvo comprare una diversa risposta dei pentiti).

E dunque bisogna ricostruire dalle fondamenta, ancorandoci a due principi basilari :

- Ogni attività non espressamente proibita dalla legge è totalmente libera, salvo il diritto altrui di non essere danneggiato dall’operato nostro ;

- Ognuno, a prescindere dal fatto che svolga attività privata o funzione pubblica, deve rendere conto di ciò che fa, esserne responsabile, esserne "accountable"

E’ secondo questi due principi fondamentali di una società civile, che dobbiamo smontare e rimontare l’intero nostro ordinamento. Oggi anche quando il potere politico, spinto dai cittadini e dalle necessità, assume decisioni di liberalizzazione, subito si mette in moto una catena difensiva che passa dagli alti burocrati dei ministeri, a quelli della Corte dei Conti, a quelli del Consiglio di Stato a quelli della Banca d’Italia, che subito isola e rende velleitario qualunque spunto di libertà, anche quando viene dal Governo, incatenando il tutto in meccanismi operativi e regolamentari capaci di bloccare ogni energia e volontà rinnovatrice, liberatrice e creatrice. Né il passaggio dei poteri alle regioni è la soluzione, atteso che le burocrazie regionali si muovano secondo gli stessi principi delle burocrazie centrali, solo ad un livello molto inferiore di competenza tecnico - professionale ed anche, ed è il colmo !, di moralità. Del resto in un Paese in cui il Sindaco e la Giunta di una grande città come Milano non è libera di mettere o non mettere una cancellata intorno ad un parco, è evidente che c’è qualcosa di molto grosso che non funziona, nei fondamentali. Poiché il meglio è nemico del bene prendiamoci, dunque, le varie bassanini, anche quando sono solo delle prese per i fondelli ma, nel frattempo, prendiamo atto che sono i fondamentali dello Stato e del nostro ordinamento giuridico che vanno ripensati e rifondati, e diffondiamo questa necessità in tutte le possibili sedi.

 

5. Concezioni superate sull’occupazione e sul Mezzogiorno

L’abilità manipolatoria e mascheratrice è diventata, grazie al perfezionarsi delle tecniche di comunicazione e delle relative tecnologie, molto alta. Per questo non è facile leggere i fatti veri, attraverso la cortina fumogena della comunicazione manipolatoria che tutti ci avvolge. Bisogna andare per episodi, cogliere delle occasioni di comprensione quando la cortina fumogena, occasionalmente, si apre. Così è, ad esempio, sul tema del lavoro e dell’occupazione, E’ quando parla di questo tema cruciale che la classe di governo (intendo questa espressione in senso allargato includendovi i membri di governo, i vertici sindacali, i loro principali economisti organici, i loro comunicatori), non riesce più a mascherarsi ed evidenzia tutta l’arretratezza del suo pensiero e del suo apparato concettuale ed operativo. Tale verità viene ancora maggiormente messa a fuoco quando, nell’ambito di questo tema, si parla del Mezzogiorno. Il progetto Sviluppo Italia, la nuova superholding recentemente creata è quanto di più stolto, inutile, e pericoloso si potesse pensare, oggi, per il Mezzogiorno e sono meravigliato che persone responsabili e che conoscono bene tutto ciò, se ne siano rese complici. Il Mezzogiorno sta vivendo una fase difficile ma interessante ed importantissima. Per la prima volta, nell’Italia contemporanea, in ampie zone del Mezzogiorno è iniziato a soffiare, sia pur timidamente, lo spirito d’impresa e sta emergendo una classe di giovani moderna, impegnata, competente, che odia - giustamente, - la corruzione, lo spagnolismo., l’assistenzialismo, il centralinismo dei loro padri. Il Sud ha bisogno di libertà, di diritto, di responsabilità imprenditoriale, di amministratori pubblici trasparenti, di liberazione ed animazione di energie dal basso. E noi rispondiamo con uno schema antico di intervento programmatorio dal centro attraverso meccanismi desueti ed anche, societariamente ed aziendalmente, totalmente superati affidandone la guida a persona totalmente priva di esperienza sul campo e portatrice di idee astratte ed inquietanti.

6. Il ritorno della partitocrazia

Nel corso degli anni ’90 un’aria fresca e nuova è soffiata a partire dai comuni. La rottura della crosta partitocratica, frutto della volontà della cittadinanza e di alcune provvide innovazioni istituzionali, ha attratto alla guida dei comuni energie serie, professionali, responsabili. Gli effetti positivi di queste energie sono stati molto importanti e sarebbe essenziale che venissero consolidati e che evoluzioni nella stessa direzione venissero stimolate.

Ed, invece, chi come me viaggia molto ed ha la possibilità di vedere e sentire cosa succede in decine di comuni, grandi e piccoli, non può avere dubbi : i partiti, vecchi e nuovi, stanno dando vita ad un’operazione, determinata e lucida, per richiudere nuovamente il paese nella morsa partitocratica e per scoraggiare le energie personali e le competenze responsabili che centinaia di sindaci ed assessori, uomini pubblici ma non di partito, hanno donato alle loro città. La stagione degli assessori e sindaci che vengono dalle arti e professioni, forti solo della loro professionalità, deve finire ! e sta per finire. Questa è la parola d’ordine occulta che circola tra gli addetti ai lavori. E finirà, se la società, la cittadinanza non capirà ciò, non si serrerà al loro fianco, non reagirà.

7. La nostra responsabilità

E con l’ultima osservazione ho già introdotto l’ultimo punto. Alla base di tutti i sei punti precedenti vi sono ragioni profonde, storiche e culturali. Ma al fondo vi è soprattutto la nostra disattenzione sui temi della vita comune, la nostra scarsa consapevolezza che il diritto di cittadinanza non è un diritto concesso ma un diritto conquistato e sempre da difendere e riconquistare. E vi è anche la nostra scarsa capacità di autoregolamentazione. Ci lamentiamo del centralismo e dello statalismo, ma appena dobbiamo affrontare qualche problema serio subito invochiamo una disciplina legislativa o regolamentare. Nelle nostre professioni, nelle nostre arti e mestieri, nei nostri ospedali, dovunque, abbiamo sempre bisogno di una legge, di un regolamento, di un provvedimento per sapere cosa fare. Al limite dell’infantilismo. Io ho lavorato molto nel mondo professionale americano e l’ho sempre visto proteso a difendere l’autoregolamentazione, nella piena e lucida consapevolezza che è nel vuoto dell’autoregolamentazione che si inserisce prepotentemente lo statalismo e l’arbitrio del potere.

 

Conclusione

L’art. 271 del C.P. prevede la condanna sino a tre anni per chi svolga attività diretta a deprimere il sentimento nazionale. Poiché non vorrei che un aiuto procuratore, attribuendo a tale obiettivo il mio discorso, mi persegua a norma di tale articolo, magari arrestandomi in aula perché altrimenti ci sarebbe il rischio di inquinamento delle prove, mi affretto a proclamare che non è questo il mio scopo. Con le mie sofferte riflessioni critiche mi sono solo ripromesso di riflettere insieme a Voi su quanto lunga e difficile sia la strada che dobbiamo percorrere per incamminarci verso una società un po’ meno barbara : lungo il sentiero difficile ma luminoso della libertà responsabile.

 

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