"I seminari
di Dissent & Reset ad Abano Terme"
DOSSIER 1998
Atti del Convegno Internazionale
sul Pensiero Politico:
"Nuove sfide politiche:
quale futuro per il Welfare State?"
16-17 Ottobre
1998
Sala del Grand Hotel Orologio
Teatro Congressi "Pietro dAbano"
Abano Terme
(PD)
a cura di Clementina Casula
Indice
Prefazione:
- Cesare Pillon e Mauro Donolato
Introduzione:
- Pericoli e Possibilità per la Sinistra*, Mitchell Cohenp
- La Politica ed il confronto tra Destra e Sinistra, Giancarlo Bosetti
I a sessione- Vi è una "terza via" tra la socialdemocrazia ed
il neoliberalismo?
- Il Mito della Terza Via*, Jeff Faux
- Prolegomena al dibattito sulla Terza Via*, Michele Salvati
II a sessione: Quali politiche di welfare per genere e famiglia?
- Genere, Famiglia e Welfare in Europa*, Chiara Saraceno
- Paradigmi Familiari e Diritti delle Donne nel Welfare State
Italiano*, Franca Bimbi
- La Famiglia: che cosa vogliamo veramente?*, Michael Rustin
IIIa sessione: Nuove sfide politiche: quale futuro per il
Welfare State?
- Lo stato sociale in America: problemi attuali e oltre*, Peter Edelman
- Precarietà e mercato del lavoro. Una critica a medio termine delle risposte
politiche disponibili*, Claus Offe
Hanno partecipato ai seminari interni e alla sessione pubblica:
Joanne Barkan (giornalista, Dissent); Bianca Beccalli
(Università di Milano); Marina Calloni (LSE, Londra); David Goodhart (Direttore di Prospect);
Alberto Martinelli (Università di Milano); Harold Meyerson (direttore esecutivo di LA
Weekly); Massimiliano Panarari (EUI, Firenze); Joël Roman (Giornalista, Esprit);
Carlo Trigilia (Università di Firenze).
*Le traduzioni in italiano dalla versione originale in
inglese degli articoli sono di Laura Bocci (C.Saraceno; P. Edelman); Anna Tagliavini
(Michele Salvati ); Clementina Casula (Mitchell Cohen ).
Prefazione
La decisione di ospitare ad Abano Terme la nuova edizione di incontri
internazionali organizzati dalla prestigiosa rivista americana Dissent e dal
bimensile italiano Reset risponde ad una nostra duplice volontà: da un lato quella
più generale del Comune di offrire un servizio reale ai propri cittadini, dallaltro
quella più specifica dellAssessorato ai Beni Culturali di promuovere
unimmagine di Abano Terme come centro attivo di cultura, sia a livello
internazionale che a livello locale (come dimostra la provenienza degli importanti ospiti
del convegno).
Ledizione di questanno ha affrontato alcuni dei temi più
attuali della politica di fine millennio, come quello della ricerca in politica di una
"Terza Via" (ossia di una visione politica alternativa che riesca a sposare le
politiche di ridistribuzione con la competitività economica), o il dibattito sulle
politiche sociali che riguardano la famiglia e le donne, fino ad arrivare ad una
riflessione più generale sul futuro del Welfare State (o Stato Sociale).
La discussione di questi temi nella giornata dellincontro aperta
al pubblico (che aspettiamo sempre più numeroso per le prossime edizioni) rappresenta
così un momento di scambio fruttuoso per entrambe le parti: da un lato il dibattito può
essere arricchito dalle idee e obiezioni dei cittadini che a loro volta ricevono
unopportunità importante di far sentire le proprie opinioni, nonché di fruire
dellesperienza e professionalità dei partecipanti al convegno.
Per offrire a studenti, accademici, o chiunque si interessi a questi
temi, una possibilità di riflessione più attenta e analitica sugli interventi ascoltati,
abbiamo quindi pensato di raccogliere gli atti del convegno in questo Dossier.
Alla luce di queste considerazioni, riteniamo che i Seminari di
Dissent e Reset ad Abano Terme rappresentino un importante incentivo alla
partecipazione democratica al dibattito politico e sociale e allelaborazione di
risposte coerenti davanti agli interrogativi che le mutate esigenze della nostra società
ci pongono.
Cesare Pillon
Sindaco di Abano Terme
Mauro Donolato
Assessore ai Beni Artistici e Culturali
Introduzione
Mitchell Cohen
(co-direttore di Dissent)
Giancarlo Bosetti
(direttore di Reset)
Pericoli e Possibilità per la Sinistra
di Mitchell Cohen
In unepoca di globalizzazione il dialogo transatlantico tra
gli intellettuali di sinistra diventa particolarmente importante. Sin da quando Dissent
fu fondato nel 1954 come voce intellettuale della sinistra antistalinista e democratica
negli Stati Uniti, i suoi direttori hanno posto come priorità il dialogo con gli amici
europei.
Perciò siamo particolarmente felici di unirci a Reset nel
patrocinare questo Seminario Internazionale sul futuro del Welfare State. Da tempo Dissent
ha con lItalia legami calorosi e fruttuosi. Prendete il passaggio iniziale di "Un
Margine di Speranza", lautobiografia di Irving Howe, e troverete colui che
poi sarebbe diventato il fondatore di Dissent in Piazza Navona con Ignazio Silone,
discutendo di come entrambi diventarono socialisti alla "veneranda" età di
quattordici anni, uno a New York, nel Bronx, laltro negli Abruzzi.
Lorigine del nostro seminario di questo fine settimana risale ad
una serie di dialoghi americano-europei che ebbero inizio in occasione del
quarantacinquesimo anniversario di Dissent nella Biblioteca Municipale di Locarno.
Ora, grazie al generoso sostegno e allospitalità del sindaco e dei cittadini di
Abano Terme, li ricominciando e rinvigoriamo le nostre discussioni come progetto comune
statunitense ed italiano.
Quello nel quale ci riuniamo rappresenta un periodo sia di pericolo che
di possibilità per la sinistra occidentale. Perché parlo di pericolo? Perché ci sono
state moltissime sfide alle assunzioni della sinistra nellultimo quarto di secolo, e
la sinistra non ha fornito ad esse delle risposte adeguate.
Qui dovrei definire che cosa intendo per "sinistra" in questo
contesto, dato che non includerei il crollo del comunismo tra queste sfide. Provengo da
quella parte della sinistra che ha sostenuto un socialismo democratico contro
lUnione Sovietica. La mia "sinistra" è la sinistra democratica, intesa in
senso lato - la sinistra che fu animata da una visione democratica della politica e
delleconomia e che accettò il welfare state con la speranza che riforme
innovative avrebbero finalmente portato al suo superamento, verso una società sempre più
egualitaria.
Questa sinistra ritiene adesso che la lotta non consista
nellandare "oltre il welfare state", ma nellassicurare le sue
conquiste più basilari. Se questa sinistra avesse risposto adeguatamente alle sfide degli
anni 70 e 80, la fine del comunismo lavrebbe solo aiutata, liberandola
da un simbolico albatros. Invece, la sinistra si trova spesso a balbettare quando si trova
davanti processi di globalizzazione che indeboliscono i mezzi mediante i quali governi
nazionali eletti democraticamente hanno perseguito nel passato politiche economiche e
sociali egualitarie. E allo stesso tempo sentiamo una sorta di cantilena bollare come
"datata" linsistenza della sinistra sulla priorità della giustizia
sociale.
Chiaramente un "progetto di sinistra" dovrà essere
riformulato su molteplici livelli globale, continentale (lU.E., ad esempio),
nazionale, regionale e locale. Dovrà essere ripensato per un mondo che è sempre più
integrato proprio mentre vi è sempre meno solidarietà sociale. Come sarà reinventata la
nostra vecchia triade libertà, eguaglianza, solidarietà- per questo nuovo mondo?
Ossia, per un mondo finanziario deregolamentato; un modo di migrazioni; un mondo di
incessante movimento di affari e lavoro con un conseguente declino in termini di
stabilità e sicurezza nel lavoro; un mondo con significativi spostamenti
nellimpiego dal manifatturiero al terziario; un mondo dove il ruolo dei sessi sta
subendo una trasformazione; un mondo di rivoluzioni nella tecnologia e nelle
comunicazioni.
Il pericolo è dunque evidente: la sinistra democratica si
atrofizzerà, e dovrà farlo, nel caso in cui non trovasse i mezzi e limmaginazione
sociale di indirizzare questo mondo che cambia in nome dellidea di società
favorevoli alleguaglianza.
Ma questo crea anche un momento di possibilità se la sinistra lo
considera in questo modo. Ventanni fa Michael Harrington, il più grande socialista
statunitense, scrisse per Dissent un articolo intitolato "Cosa farebbero i
socialisti in America se potessero". Il titolo rifletteva la nota condizione di
minoranza della sinistra americana, ma anche un approccio particolare al cambiamento.
Harrington sostenne spesso che dovevamo essere "la sinistra del possibile". Non
proponeva passi da gigante verso la società senza classi: parlava invece di misure per
una "distanza media", politiche che "sarebbero state prese in direzione
opposta alla riforma liberale ma ben lontano dallutopia". Le assunzioni
del liberalismo sociale degli anni 60 non funzionavano più - egli
sosteneva-; gli USA si stavano scontrando contro i limiti del Welfare State.
Quindi la sua risposta includeva: mettere in discussione il controllo
corporativo dellinvestimento; una previsione nazionale per la piena occupazione;
lobbligo per le corporazioni di pagare per il loro uso (e distruzione) delle risorse
sociali; progressività crescente della tassazione; rielaborazione del sistema delle
pensioni pubblico e privato in modo che i fondi "teoreticamente posseduti dalla
gente" fossero usati "per scopi sociali così come deciso democraticamente dalla
gente"; rappresentazione dei dipendenti e del pubblico in comitati direttivi e
maggiore democrazia nel posto di lavoro; maggiore sostegno da parte di Washington per i
produttori e le cooperative dei consumatori.
Potremmo discutere su quale di queste proposte sia più o meno utile al
giorno doggi (e in una tale discussione gli europei dovrebbero tenere a mente quanto
manchevolmente il welfare state statunitense sia stato paragonato al loro: basti
considerare il fatto che oltre 40 milioni di americani non hanno una assicurazione
sanitaria). Suppongo che negli anni 90 Harrington aggiungerebbe una serie di misure
per regolare il flusso di capitale globale e per legare i problemi relativi al commercio e
agli investimenti con i diritti del lavoro e le necessità ambientali. Faccio riferimento
allarticolo di Harrington principalmente come un esempio di cosa abbiamo bisogno
alla fine di questo secolo: immaginazione sociale piuttosto che ripetere che "niente
può essere fatto altrimenti" quando ci si trova davanti a sfide strutturali.
Scrivendo nel 1978 Harrington chiedeva che cosa i socialisti
statunitensi avrebbero fatto se avessero potuto, ossia se fossero saliti al governo.
Ovviamente essi non poterono perché non ci arrivarono: salirono invece al governo Reagan
e Bush, portando avanti politiche in direzione opposta. Il "centro" dello
spettro politico statunitense più o meno dove stanno Bill Clinton e Al Gore
si è spostato allestrema destra rispetto a dove stava un quarto di secolo fa.
NellEuropa di oggi, tuttavia, il centro sembra spostarsi a sinistra. Certamente, gli
europei hanno delle opportunità che noi statunitensi non abbiamo. Fatta eccezione per la
Spagna, i partiti socialdemocratici sono al governo in tutto il continente, e perciò
dobbiamo porre la domanda: "Che cosa farà la sinistra democratica europea, ora
che può? Come delimiterà la "sinistra del possibile", visti e considerati in
particolar modo i processi di unificazione europea?".
Questo ci porta alla domanda posta dalla nostra prima tavola rotonda
una domanda fondamentale in entrambe le sponde dellAtlantico: la sinistra deve
cercare una "terza via" che vada "oltre la destra e la sinistra",
così come Anthony Giddens ha sostenuto?
Nella sua forma più semplice questa domanda può essere affrontata da
due diverse prospettive:
Una dice: "Le cose sono cambiate così tanto e le idee di sinistra
sono diventate così obsolete che dobbiamo formulare delle categorie completamente nuove.
La sinistra deve essere "modernizzata" e quindi abbiamo bisogno di New
Democrats (negli Stati Uniti) o del New Labour (nel Regno Unito) e una qualche
forma di nuova socialdemocrazia altrove (se anche la si vuol chiamare socialdemocrazia).
Questa è una questione di principio, ma che produce anche conseguenze pratiche in termini
di politiche e ramificazioni elettorali: le elezioni possono essere vinte solo muovendosi
verso il "centro", come Bill Clinton e Tony Blair hanno dimostrato."
Laltra sostiene: "I Republicans statunitensi ed i Tories
britannici del dopoguerra accettarono i limiti tracciati dal Welfare State
rispettivamente del New Deal e del Labour Party. I conservatori non li hanno
messi in discussione fino ai problemi degli anni 70; poi lo hanno fatto con un
considerevole successo. Adesso la situazione si è ribaltata, dato che sono i New
Democrats, i New Labour, ed i sostenitori della "Terza Via" ad
accettare i limiti tracciati da Reagan e dalla Thatcher. Questa è la ragione per la quale
essi insistono che la dicotomia che oppone "sinistra" a "vecchio" è
falsa. Ma è lopposizione di "vecchio" e "nuovo" fatta dalla
Terza Via ad essere spuria, se per "nuovo" in realtà si intende che si sono
accettati i limiti Reagan-Thatcher. Infatti, il mondo è sempre stato più complesso di
quanto una qualsiasi etichetta politica non permetta di descrivere, e il vero problema
consiste nel come concepire il proprio punto di partenza: si inizia con l
(apparentemente datato ) obiettivo di rendere le società occidentali più egualitarie,
oppure si è "nuovi" perché ci si è "adeguati" alle prerogative del
capitale, globale e locale? Per vincere le elezioni dobbiamo spostarci verso il centro o
cercare di muovere il centro a sinistra?".
Lo storico francese Marc Bloch disse una volta: "se qualcuno alla
tua sinistra dice che due più due fa quattro, e qualcuno alla tua destra che due più due
fa cinque, la conclusione non è che due più due fa quattro e mezzo". Certamente
aveva ragione, ma alla fine del ventesimo secolo sappiamo anche che la sinistra non sempre
ha fatto i calcoli correttamente. Continua a ragionare in modo sbagliato se non riesce a
sganciarsi dalla sua identità passata ed almeno qualcuno dei suoi impegni basilari?
Oppure Clinton è il "Presidente quattro e mezzo" e Blair il "Primo
Ministro quattro e mezzo"? In breve, come demarchiamo larea della sinistra
nellera della globalizzazione?
Le nostre discussioni ad Abano Terme presentano un ampio spettro di
punti di vista che sono spesso sostenuti vigorosamente. Il nostro proposito, tuttavia,
consiste nel produrre non risposte definitive, bensì riflessione e scambio intellettuale
in un momento di pericolo e possibilità per la sinistra occidentale.
La Politica ed il confronto tra Destra e Sinistra
di Giancarlo Bosetti
Questo incontro che abbiamo voluto, noi di Reset, insieme
agli amici americani di Dissent ed al Comune di Abano Terme, che ringraziamo per la
sua accoglienza e per la simpatia del suo sindaco Cesare Pillon, è qualcosa di più di un
convegno, almeno nelle intenzioni. Vorremmo dar vita ad un confronto permanente, che
annualmente si rinnovi, per verificare le nostre idee intorno ai temi più rilevanti
dellattualità politica. Tra le nostre due riviste cè una collaborazione non
nuova e già collaudata in passate occasioni, ci sono ragioni forti di sintonia ed una
comune passione per la ricerca senza troppi pregiudizi.
In particolare ci accomuna lidea, la quale non manca di
detrattori, che la politica è animata fondamentalmente da un confronto tra Destra e
Sinistra, per quanto siano nuove e varie le forme che queste parti politiche assumono, e
per quanto nuovi e vari siano i temi proposti dallagenda pubblica dei nostri tempi.
Questo primo appuntamento è organizzato in tre sessioni, due chiuse e
a discussione totalmente libera e una aperta al pubblico. Affrontiamo in apertura un tema
che è centrale nella discussione tra tutti coloro che si interessano oggi alla vicenda
politica internazionale: la "terza via", già largamente esaminata in questi
mesi sulle nostre riviste, su Dissent, su Reset e anche su altre riviste di
grande prestigio internazionale, alcune delle quali sono qui rappresentate, come Prospect
e Esprit. Su questo tema sentiremo le relazioni di Faux e Salvati. Voglio soltanto
fare in proposito due osservazioni:
a) la prima è che guardiamo tutti con rispetto, al di là del grado
maggiore o minore di accordo, allelaborazione del New Labour di Tony Blair.
Questa elaborazione ci ha messo davanti una produzione molto ampia di idee e anche
importanti tentativi di metterle in pratica. Credo che più di tutto valgano le parole che
ho sentito pochi giorni fa da uno che non ama molto la "terza via", un
socialdemocratico "doc", come diciamo dei vini a denominazione controllata,
quale è Jacques Delors. È una esperienza discutibile quanto si vuole, ha detto, ma tale
da rendere "esplicita la necessità di riformulare le finalità dellazione
politica della socialdemocrazia al di là del puro pragmatismo". Non cè dubbio
che in rapporto ai mutamenti delleconomia e del capitalismo mondiale, in
rapporto alla funzione dello stato e alla responsabilità degli individui le idee
che sono venute dal "Third Way Debate" sono più di uno spunto, ci
costringono a misurarci con alcuni principi in certa misura nuovi. Il fatto che stiano
diventando correnti non puo fraci dimenticare che hanno avuto origine da quelle
elaborazioni.
b) La seconda osservazione riguarda la particolare curiosità che verso
questa discussione, e anche verso le critiche come quelle presentate e discusse su Dissent
dallamico Mitchell Cohen, abbiamo noi italiani, immersi in una situazione come
spesso tendenzialmente anomala (almeno così ci pare). Eravamo fuori dai parametri
internazionali quando la sinistra (e alcuni di noi con essa) stava sotto le insegne
egemoniche di un partito comunista occidentale, ricco di molti vizi dei comunisti di tutto
il mondo, con qualche ambiguità rilevante nel suo rapporto con la democrazia, ma anche
dotato di alcuni dei caratteri essenziali del riformismo europeo. E abbiamo tuttora un
sistema politico senza un assetto di marcia del tutto regolare, incapace di prendere la
forma di un compiuto bipolarismo tra progressisti e conservatori. La situazione rimane
bivalente: da una parte la strada del bipolarismo è ancora piena di ostacoli,
dallaltra il disegno complessivo della scena è ancora tutto da fare. Questo ci
mette di fronte a una situazione che a volte sembra chiusa a volte sembra pronta a
prendere nuove forme, tutte ancora da definire ad opera degli attori in campo. Quando
parliamo di terza via, di coalizioni riformiste, o di rilancio di una ipotesi
neo-socialdemocratica (così come quando a destra parliamo della costruzione di una
moderna destra liberalconservatrice) noi non descriviamo solo le tensioni interne alle
vecchie case della politica, di sinistra e di destra, da ristrutturare (come accade in
tanti altri paesi), ma a volte parliamo proprio di edifici nuovi da costruire.
In un certo senso la discussione sulla "Terza Via" in Italia
include oltre ai problemi di definizione di un programma coerente da parte di un partito o
di una coalizione anche il problema di "quale" partito e "quale"
coalizione si candida a presentare quel programma di governo. Non cè solo il
contrasto tra posizioni più o meno moderate, più o meno radicali, cè anche la
questione "esistenziale" di quale sia il soggetto politico che vogliamo
protagonista della scena. Anche per questa ragione abbiamo voluto affrontare questioni che
toccano la identità culturale di una forza politica, nelle altre sessioni dedicate alla
famiglia, al genere e al futuro del welfare.
I a sessione:
Vi è una "Terza Via"
tra la Socialdemocrazia ed il Neo-liberalismo?
Jeff Faux
(direttore dellEconomic Policy Institute, Washington)
Michele Salvati
(Università di Milano; Parlamentare)
Il mito della Terza Via:
lezioni della Presidenza Clinton per la sinistra democratica
di Jeff Faux
Le carriere politiche di Bill Clinton e più recentemente di Tony
Blair sono state pubblicizzate dai loro rispettivi promotori come percorsi indicativi
della Terza Via per la sinistra tradizionale nei paesi avanzati. Al From, un eminente
propugnatore americano di questa idea, definisce la Terza Via come "il marchio
mondiale della politica progressista nell'era informatica. In America il marchio locale è
il New Democrat; in Gran Bretagna è il New Labour". L'etichetta è
stata di recente ampliata e di volta in volta è stata applicata, a proposito e a
sproposito, virtualmente ad ogni nuovo leader del mondo occidentale, incluso Cretien in
Canada, Prodi in Italia, Jospin in Francia, Salinas e Zedillo in Messico, Schroeder in
Germania, Cardoso in Brasile, Menon in Argentina - e persino Eltsin in Russia!
Il problema centrale è se la Terza Via rappresenti una nuova
dimensione della politica della sinistra post-Guerra Fredda, oppure se sia soltanto uno
slogan abilmente coniato al fine di rendere intellettualmente e moralmente rispettabile
l'abbandono della visione tradizionale della sinistra democratica.
I sostenitori della Terza Via affermano che è valida la prima ipotesi,
e che si tratta di una nuova sintesi che si situa al di là sia della destra che della
sinistra. "Il nostro ordine del giorno" dice Bill Clinton "non è né
progressista né conservatore. Esso comprende entrambi questi punti di vista, ed è
diverso al tempo stesso." Secondo Tony Blair, la Terza Via "non è semplicemente
un compromesso tra la destra e la sinistra
Il nostro approccio non corrisponde né
al laissez faire né all'interferenza dello Stato".
Clinton e Blair rappresentano due dei politici della nostra epoca dalla
visione più articolata, circondati da una solida cerchia di bravi consiglieri e ghost
writers, e tuttavia la loro definizione della Terza Via lascia gli osservatori privi
di qualsiasi pista per capire di che si tratti. Ad un recente incontro pubblico sulla
Terza Via, a New York, Clinton ci ha detto che la Terza Via consiste nell'essere
"moderni e progressisti" e nell'"evitare false scelte". Blair ha
aggiunto che si tratta di "un'alleanza tra progresso e giustizia", che essa
"cerca di prendere i valori fondamentali dal centro e dal centro-sinistra e di
applicarli ad un mondo di sostanziali cambiamenti economici e sociali." Hillary
Clinton ha fatto la pragmatica considerazione che "Dobbiamo prendere il mondo così
come lo troviamo, e fare quello che possiamo per migliorarlo." Sfortunatamente per
coloro che cercano la chiarezza, tali vaghi sentimenti potrebbero essere stati espressi
negli stessi toni anche da George Bush e John Major.
Queste autodefinizioni non sono di grande aiuto. E tuttavia, per poter
valutare la Terza Via è necessario dare uno sguardo a ciò che essa ha prodotto finora.
Nella misura in cui la politica di Bill Clinton rappresenta l'ispirazione per la Terza
Via, disponiamo ormai di una Presidenza di sei anni che può aiutarci a formulare alcuni
giudizi.
Quella che segue è un'analisi di tre delle principali rivendicazioni
della Terza Via. Primo, che essa fornisca una precisa analisi del declino della
fortuna politica della sinistra democratica nell'Europa occidentale e in Nord America. Secondo,
che essa rappresenti una formula efficace per la ricostruzione dei partiti politici della
sinistra democratica. Terzo, che essa sia una strategia nuova e credibile per
spostare in avanti gli obiettivi della sinistra democratica nell'era post-Guerra Fredda.
La Terza Via come analisi storica originale
Nelle sue origini americane, la Terza Via dei New Democrats non
era articolata come una grandiosa filosofia politica, bensì come una risposta tattica
alla perdita nelle elezioni presidenziali del 1980 e del 1984 da parte del Partito
Democratico. I New Democrats, che provenivano in ampia pur se non esclusiva misura
dalla fazione conservatrice del Partito Democratico originaria del Sud, asserivano che il
partito era dominato dall'ala di estrema sinistra dei "fondamentalisti liberal"
che avevano perduto ogni contatto con l'America delle classi medie. I fondamentalisti liberal
erano definiti come una coalizione di gruppi minoritari, femministe e élites
bianche, che non erano in sintonia con gli interessi e i valori della classe media.
Secondo questa teoria, i democratici provenienti dalla classe operaia avevano gradualmente
risalito la scala della mobilità sociale spostandosi nelle periferie ricche, dove si
preoccupavano molto più dei tassi di criminalità e della distanza da mantenere rispetto
ai più poveri che non della lotta di classe o della giustizia economica. Per vincere le
elezioni, insistevano i New Democrats, il Partito avrebbe dovuto dare la massima
priorità alle istanze sociali tradizionali, e meno alle questioni riguardanti la
sicurezza economica.
Non avevano del tutto torto. Il Partito Democratico si era via via
andato identificando con un liberalismo sociale che aveva indebolito la sua presa
sulla classe operaia bianca, particolarmente negli stati del Sud. E tuttavia nessuna
lettura ragionevole della storia politica americana recente può confermare l'ipotesi che
il Partito Democratico sia stato dominato da una coalizione estremista di minoranze e di
bianchi liberal. Ad eccezione della candidatura contro la guerra di George McGovern
nel 1972, tutte le campagne presidenziali democratiche degli anni '60, '70, e '80 sono
state condotte su piattaforme di centro.
Inoltre, il concetto che l'elettorato stava spostandosi a destra per
effetto della mobilità verso l'alto verificatasi nel dopoguerra non poteva certo essere
considerato come un'idea nuova. Era piuttosto una versione riscaldata di una teoria che i
conservatori avevano avanzato quindici anni prima, e che aveva costituito la base delle
campagne presidenziali repubblicane da Richard Nixon a George Bush allo scopo di
identificare il Partito Democratico con la controcultura degli anni '60. L'analisi dei New
Democrats dei problemi del Partito Democratico era dunque un'eco delle antiche
caricature repubblicane. Inoltre essa era anche poco accurata dal punto di vista storico.
Facciamo tre esempi.
La falsa leggenda del "tassa e spendi"
Primo, l'accusa che i precedenti leader del Partito Democratico fossero
stati dei politici "irresponsabili dal punto di vista fiscale", dediti a
politiche del tipo "tassa e spendi".
Ironicamente, l'accusa di "irresponsabilità fiscale" venne
avanzata dai New Democrats durante un decennio in cui i Repubblicani stavano
facendo esplodere l'indebitamento pubblico statunitense da 1000 a 5000 miliardi di
dollari. Con ogni ragionevolezza, i leader democratici dello stesso periodo - Michael
Dukakis, Walter Mondale, Jimmy Carter e persino George McGovern - erano molto più
responsabili in materia fiscale di quanto non lo fossero Ronald Reagan e George Bush.
Per quanto riguarda la politica "tassa e spendi", la realtà
è un'altra. Jimmy Carter, il precedente Presidente democratico, ridusse le tasse entro la
metà del suo mandato. Le maggiori spese di Lyndon Johnson furono per la guerra del
Vietnam, e la storia ora lo biasima per non aver aumentato le tasse allo scopo di
finanziare quella guerra. Il Presidente precedente, John Kennedy, ridusse le tasse, così
come aveva fatto Harry Truman. I Presidenti del dopoguerra - sia democratici che
repubblicani - hanno utilizzato una struttura non indicizzata di tasse sui redditi, la
quale generava automaticamente guadagni con la crescita economica, ma si deve ritornare
agli anni 50, ai finanziamenti di Franklin Roosevelt per la seconda guerra mondiale, per
trovare un Presidente democratico che possa essere descritto come chi abbia perseguito
deliberatamente una politica economica del tipo "tassa e spendi".
Secondo, l'accusa che i Democratici progressisti fossero fautori di un
'governo grandè , mentre i Repubblicani erano piuttosto favorevoli ad un 'governo
piccolo'. Di nuovo, questa è stata in larga misura un'eco della retorica conservatrice. A
differenza dell'Europa, gli Stati Uniti non hanno una tradizione di impresa pubblica al di
là di pochi e ristretti settori di pubblica utilità. A grandi linee, il ruolo del
governo è stato sempre quello di 'agevolatorè. Inoltre, l'idea delle opportunità
piuttosto che dei diritti è ciò che ha ispirato i programmi della Great Society,
ora disprezzati dai conservatori e dai promotori della Terza Via. E la maggior parte dei
servizi sociali nazionali, la formazione e i programmi di pubblica istruzione sono stati
amministrati dagli Stati.
Più importante tuttavia è il fatto che ciò che ha diviso democratici
e repubblicani non sono state le dimensioni dell'intervento governativo, quanto le sue
priorià. I conservatori volevano un forte ruolo del governo nei settori della difesa,
dell'apertura di mercati esteri e della regolamentazione dei comportamenti sociali. I
progressisti volevano un governo autorevole nel garantire una più equa distribuzione del
reddito e della ricchezza e nel controllare gli eccessi del mercato. È piuttosto
interessante notare che i programmi sociali più popolari tendono ad esser quelli portati
avanti dal governo nazionale: previdenza sociale (social security), servizio
sanitario (Medicare), il servizio volontario per la tutela dei parchi (National
Park Service), e i programmi che riguardano i veterani.
Con ciò non voglio dire che le critiche ai programmi del New Deal
e della Great Society non fossero giustificate, nè che l'ipertrofia della
burocrazia non sia un problema. I New Democrats avevano ragione nel sostenere
l'importanza di introdurre nel governo nuovi metodi di amministrazione. L'idea di
"reinventare" le istituzioni pubbliche è importante. I governi hanno bisogno di
essere continuamente reinventati per mettersi in condizione di rispondere ai bisogni dei
cittadini. Ma i Democratici della Terza Via non sono stati certo i primi a sollevare la
questione. Infatti, i Presidenti Democratici precedenti, Carter e Johnson, avevano
trasformato il risparmio del governo in una sorta di feticcio personale.
In termini di politica elettorale, da tempo accade che la classe media
disdegna il 'governo grandè in astratto, ma poi lo sostiene nella maggior parte delle sue
singole azioni. Così, nel gennaio del 1996, Bill Clinton dichiarò che "è finito il
tempo dei governi grandi", e tuttavia, nel novembre successivo, vinse le elezioni in
grande misura perché attaccò i Repubblicani, che volevano smantellare il servizio
sanitario, il sostegno federale per l'istruzione, la protezione federale sull'ambiente,
l'aumento federale del salario minimo. La sua unica concessione alla destra fu la firma di
una draconiana legge di riforma dello stato sociale.
In terzo luogo, l'idea che i Democratici siano contrari al valore della
responsabilità personale. La questione della responsabilità personale è stato un altro
tema della retorica repubblicana che i New Democrats hanno assorbito per usarlo
contro la corrente dominante del loro partito. In larga misura, si trattava di un nome in
codice per 'razzà. Infatti, i New Democrats sembrano essere ossessionati dalle
tematiche del welfare con più valore razziale, in modi che prendono come capro
espiatorio le minoranze povere. Questa posizione ha avuto il suo fascino politico, ma era
alquanto lontana da una qualsiasi Terza Via. Ironicamente, le voci principali che hanno
istillato un maggior senso di responsabilità personale nei poveri sono state quelli dei
politici afroamericani, il più eminente dei quali è Jesse Jackson, bersaglio principale
dell'attacco dei New Democrats.
Programmaticamente, la critica dei New Democrats all'approccio
del 'governo grandè nei confronti del welfare si era focalizzato sulla presunta
erosione dei valori della famiglia e dell'incentivazione al lavoro che erano seguiti
all'espansione dei sussidi ai redditi bassi (income benefits) nei primi anni '70.
Ma questa espansione non si era verificata durante gli anni della Great Society
democratica, bensì durante il 'regno' dell'amministrazione repubblicana Nixon, in parte
anche come reazione alla minaccia politica rappresentata dai programmi di self-help
e di sviluppo delle comunità patrocinati dalla sinistra negli anni '60. I Democratici
della Terza Via biasimarono i fondamentalisti liberal per la loro politica di
concessione di sussidi assistenziali solo alle madri nubili. Ma il sistema era stato
appoggiato dai conservatori, che non accettavano che i sussidi andassero alle famiglie
nelle quali ci fosse un uomo.
Al di là della retorica, le proposte specifiche dei New Democrats
sul welfare erano spesso proprio quelle che gli analisti del welfare di
orientamento liberal invocavano da molti anni: riqualificazione, istruzione,
assistenza all'infanzia, ecc. Sul problema della criminalità, essi chiedevano più
polizia nelle strade, ed anche questa era un'altra richiesta tradizionalmente liberal.
C'era però una grossa eccezione: Bill Clinton ed i New Democrats erano apertamente
a favore dell'estensione della pena di morte. Anche questo era politicamente popolare ma,
di nuovo, un po' lontano dalla Terza Via.
Come analisi dei problemi della sinistra nella politica americana, i New
Democrats hanno proposto ben poco che fosse nuovo o progressista. Nelle grandi linee,
la loro critica rappresentava semplicemente uno spostamento a destra nello scenario
politico generale.
La Terza Via come formula per il successo politico
Il centrismo non rappresenta niente di nuovo nella scena politica
americana. Come tattica elettorale esso ha un fascino eterno in quanto si pone come una
strategia in grado di risolvere problemi pratici, non sovraccarica di ideologie. Nei
diversi paesi, la politica si realizza in punti diversi dello spettro delle ideologie, ma
in un qualsiasi giorno di elezioni coloro che si identificano consciamente con la destra o
con la sinistra ben raramente rappresentano la maggioranza assoluta. Così, quasi sempre
si verifica un contesto di centro, dove la moderazione gioca la massima attrattiva. Questo
è stato il caso di Franklin Roosevelt e John Kennedy, così come di Richard Nixon e
Ronald Reagan.
Ma nel mondo della Terza Via il centro è in continuo spostamento.
Infatti, a prescindere dallo scenario politico, i New Democrats sono stati in grado
di definirlo come un sostegno per il loro marchio di politica centrista. Così, nella
convention del Partito Democratico del 1984, i New Democrats salutarono l'impegno
alla responsabilità fiscale assunto dal candidato presidenziale Walter Mondale come un
trionfo delle loro idee. Quando Mondale perse le elezioni, essi sostennero che questa era
la prova che il vecchio approccio democratico era fallito. Ugualmente, quando Michael
Dukakis vinse la nomination del Partito Democratico nel 1988, i New Democrats
inneggiarono a lui come al pragmatico moderato che aveva battuto il fondamentalista liberal,
Jesse Jackson. Quando però Dukakis perse, essi lo denunciarono come fondamentalista liberal.
Persino Bill Clinton non è riuscito a sfuggire alla continua riscrittura della storia da
parte dei New Democrats. Dopo che il Partito Democratico perse le elezioni di metà
mandato nel 1994, eminenti New Democrats si espressero pubblicamente sulla
necessità di abbandonarlo perché di orientamento troppo liberal.
In un documento del 1989, dal titolo The Politics of Evasion (La
politica dell'evasione) che divenne poi il manifesto del loro movimento, i New
Democrats chiesero al Partito democratico di nominare un candidato "di
centro" che sarebbe stato più credibile come "comandante in capo" ed
avrebbe rispecchiato i "valori sociali ed i sentimenti morali del popolo
americano." Le istanze economiche, così sostenevano, erano secondarie.
Ma le elezioni che seguirono andarono malissimo. Bill Clinton, il nuovo
candidato democratico, si era imboscato durante la guerra del Vietnam, e non era certo
molto credibile come comandante in capo. Ed le sue personali debolezze dal punto di vista
morale erano, persino allora, ben note agli elettori.
Clinton e la prevalenza dell'economico
Invece Clinton corse bene come populista tradizionale del Partito
Democratico. L'istanza dominante durante la sua campagna elettorale, per dirla con le
parole del capo della campagna stessa, fu "l'economia, stupido!". Se il tasso di
disoccupazione negli Usa fosse stato nel novembre 1992 del 5,5% invece del 7,5%, George
Bush sarebbe stato certamente rieletto.
Clinton aveva fatto la sua campagna su una piattaforma di maggiore
spesa governativa in investimenti sociali. Ma una volta eletto, non era riuscito a
convincere il Congresso ad accettare il suo piano di investimenti, così aveva cambiato il
suo obiettivo originario in quello di riappianare il bilancio. Esiste una certa
controversia circa la responsabilità di Bill Clinton per l'espansione dell'economia
statunitense che si è verificata durante il suo mandato. Sfortunatamente per George Bush,
i dati mostrano oggi che la ripresa era già iniziata nell'estate del 1992, ma non era
ancora stata rilevata dalle statistiche. D'altro canto, riappianare il bilancio è stato
utile per persuadere la Federal Reserve a non aumentare i tassi di interesse ed a
non tagliare l'espansione prematuramente, come aveva fatto durante il precedente ciclo
economico.
Il punto politico più importante è che fu lo scontento sul fronte
economico, e non le istanze sociali dei New Democrats né la maggiore credibilità
sulle questioni militari, che portò all'elezione di Bill Clinton nel 1992. Di nuovo nel
1996, egli condusse la sua campagna su una base ampiamente democratico-populista, vincendo
le elezioni, ma la condusse anche sulla base democratica tradizionale del sindacato, delle
minoranze, delle donne operaie, che invece i New Democrats continuavano a definire
come una base obsoleta dal punto di vista politico. Soltanto dopo le elezioni ritornò su
una politica tipicamente di Terza Via. Anche oggi, intrappolato in uno scandalo sessuale
di pessimo gusto, sono le buone condizioni dell'economia americana a tenere alto il suo
tasso di gradimento. Inoltre, i sondaggi mostrano che negli ultimi due decenni,
l'elettorato americano è diventato più liberal sulle questioni sociali, quali le
istanze razziali, le relazioni tra i sessi e l'accettazione dell'omosessualità. Nei
termini della politica americana, la lezione della Presidenza Clinton è che la piena
occupazione ha la meglio sui valori familiari di stampo conservatore - vale a dire
esattamente il contrario di ciò che sostengono i New Democrats.
Dalla prospettiva della sinistra, la valutazione della Terza Via non
dipende tanto dal successo o dall'insuccesso personale di Clinton ma dal grado in cui egli
(1) avrà o meno portato avanti un programma basato su valori progressisti e (2) sarà
riuscito a rafforzare il Partito democratico. Nei suoi primi sei anni di Presidenza,
Clinton ha registrato piccoli, sparsi passi avanti nei programmi pubblici, ma anche un
certo deterioramento complessivo. Studiosi onesti potranno giungere a conclusioni diverse
sul fatto che ci sia stato un piccolo guadagno netto, oppura una piccola perdita netta.
Ciò che è innegabile è che, in entrambi i casi, la differenza è poca. In effetti, la
sua Presidenza ha rotto il ritmo ideologico della politica americana, quello del "due
passi avanti, un passo indietro", in cui una Presidenza democratica mette in atto una
nuova strategia di politiche sociali che il suo successore repubblicano modifica ma non
può annullare del tutto. Non c'è stato un solo singolo passo avanti significativo di
Clinton nella politica interna, di due neanche a parlarne. Tutti i suoi risultati fino ad
oggi - bilancio appianato, riforma del welfare ed accordi di libero scambio che
proteggono gli investitori, ma non i lavoratori né l'ambiente - sono stati obiettivi di
un programma corporativo e conservatore. Le possibilità di cambiamento di questo modello
nei suoi ultimi due anni di Presidenza sono estremamente labili.
L'occasione storica di Clinton era nel settore del servizio sanitario:
oggi circa 43 milioni di americani sono privi di assicurazione in caso di malattia e altri
30 milioni hanno una copertura del tutto insufficiente.
Clinton ha tentato di portare avanti questa istanza nei primi due anni
della sua Presidenza. Ma, allo scopo di evitare di essere considerato come un sostenitore
del 'governo grandè, ha evitato di prendere chiaramente posizione in favore di un
ragionevole sistema gestito dal governo, optando invece per una soluzione di compromesso
con i settori commerciali. Il risultato è stata una proposta che era così complicata e
confusa che attaccarla è stato un obiettivo fin troppo facile per le compagnie
assicuratrici operanti nel settore medico, e così essa è stata infine abbandonata anche
dagli alleati di Clinton. Quando essi hanno fatto marcia indietro, Clinton stesso ha
abbassato la guardia, lasciando l'impressione che non fosse praticabile nessuna soluzione
pubblica al crescente problema americano dell'assistenza medica, sebbene essa non fosse
stata mai votata nel Congresso, ed i sondaggi mostrino ancora come la maggior parte degli
americani siano favorevoli ad un qualche tipo di programma di assistenza medica pubblica.
La seconda valutazione critica di questa presidenza da Terza Via
riguarda il suo effetto sul Partito Democratico. Non solo Clinton ha fallito nel
rivitalizzare il Partito Democratico, ma ha ignorato il fatto che si è verificato un
forte deterioramento nella sua capacità di richiamo. Alla vigilia delle elezioni
presidenziali del 1992, il Partito Democratico aveva una maggioranza di 100 deputati nella
Camera dei Rappresentanti. Oggi è in minoranza di 22 membri. Il Partito aveva una
maggioranza di 14 voti al Senato. Oggi è in minoranza di 10 voti. Nel 1992 i Democratici
controllavano 30 governatorati; oggi ne controllano 17. Per dati aggregati, nei parlamenti
dei 50 stati c'erano 1537 democratici in più rispetto ai repubblicani. In sei anni il
margine si è ridotto a 359.
Anche le istituzioni sociali che sostengono la sinistra democratica in
America sono state indebolite dopo sei anni di Terza Via. Nonostante l'impegno assunto con
i sindacati nella campagna presidenziale del 1992, Bill Clinton non è riuscito a
convogliare abbastanza voti per una riforma - disperatamente necessaria - dell'attuale
legge sul lavoro, che rende gli Stati Uniti il posto del mondo sviluppato dove è più
difficile organizzare i lavoratori. Come risultato, la quota sindacalizzata della forza
lavoro è continuata a diminuire - fino a raggiungere il 14,1% nel 1997. In effetti, il
deterioramento delle condizioni di lavoro hanno portato ad una rivolta interna senza
precedenti contro la leadership nazionale dell'Afl-Cio nel 1995.
Si è verificata anche una generale perdita di potere delle
organizzazioni non governative (Ong), quel "terzo settore" che i sostenitori
della Terza Via spesso pongono come un'alternativa all'intervento governativo.
L'indebolimento dei settori delle Ong che si occupano di ambiente, di povertà e di
consumi è stato in parte il risultato dei tagli al bilancio interno e delle ridotte
aspettative della sinistra, ed in parte il risultato dell'espansione delle Ong
conservatrici sostenute da corporazioni o da gruppi politici orientati a destra. Il
processo attraverso il quale le Ong sono diventate più conservatrici ha rivelato tutta
l'ingenuità della proposta della Terza Via secondo la quale l'affidabilità dei programmi
pubblici sarebbe in qualche modo meglio raggiunta attraverso le Ong, autonominate
rappresentanti della gente, che non attraverso le istituzioni di governi democratici.
Quando le istituzioni della sinistra democratica si indeboliscono,
quelle della destra si fortificano ed il centro della politica si sposta inevitabilmente a
destra.
La Terza Via come filosofia politica dell'economia globale
La versione dei New Democrats della Terza Via ha preso avvio
come sforzo di spostare a destra il Partito Democratico, enfatizzando il conservatorismo
sociale ed una politica estera più militaristica - e rendendo le istanze economiche
secondarie per i votanti. Ma con la fine della Guerra Fredda, le istanze economiche sono
diventate invece più importanti, e proprio esse hanno rappresentato la base della
vittoria di Bill Clinton nel 1992.
Per tutta risposta, i commercianti della Terza Via hanno cambiato
marcia, proclamando di rappresentare il nuovo paradigma dell'economia globale. Come per
molte delle loro riforme sociali, il loro nuovo paradigma economico non era affatto nuovo,
ma solo una articolazione del programma neo-liberista della comunità delle
multinazionali. E non è certo un caso che il sostegno finanziario alle organizzazioni dei
New Democrats provenga in larga parte dai settori economici, e particolarmente da
quelli finanziari.
La logica della posizione economica dei New Democrats è la
seguente:
I problemi economici mondiali hanno origine dalla eccessiva
interferenza dei governi nell'economia di mercato, che, se lasciata a se stessa, si
auto-regola ed è stabile. Infatti il capitalismo ci sta prospettando una nuova, vasta e
prospera economia mondiale, costruita da imprenditori nei settori delle industrie high
tech e della finanza.
Per garantire continuità a tale prosperità, i mercati dei capitali e
del lavoro sia a livello nazionale che internazionale dovranno essere ulteriormente
deregolati e privatizzati, nonché liberati da tutte le costrizioni artificiali quali
quelle imposte dai sindacati e dalle normative di protezione dell'ambiente, che sono
ampiamente obsolete.
La liberazione del capitale e del mercato del lavoro aumenterà la
produttività, e ciò migliorerà automaticamente il livello di vita degli operai, che non
avranno più bisogno della contrattazione collettiva.
I governi dovrebbero sgombrare la strada al libero mercato, e smettere
di cercare di garantire "i risultati", vale a dire la conservazione del reddito.
Il loro lavoro è fornire "opportunità" alle persone svantaggiate nell'ottenere
servizi educativi e di formazione professionale, facendo sì che costoro possano acquisire
le competenze necessarie ad ottenere buoni lavori in questa nuova economia. Dove il
governo gioca un qualsiasi ruolo, ciò dovrebbe accadere al livello più decentralizzato
possibile. Il forte andamento dell'economia americana durante i sei anni della Presidenza
Clinton è la prova della validità di tali idee.
Economia: cosa è successo negli anni di Clinton
In breve, non c'è nulla di particolarmente straordinario
nell'espansione statunitense che è iniziata nel 1991-92. Secondo standard storici, il
tasso di crescita della produzione, dei posti di lavoro e degli investimenti è più o
meno nella media, leggermente migliore di alcuni altri cicli economici, leggermente
peggiore di altri. Tale espansione è durata un po' più a lungo della maggior parte delle
altre espansioni economiche, che generalmente vengono abortite quando le autorità
monetarie statunitensi reagiscono all'inflazione o in caso di guerre o improvvise carenze
nelle forniture globali di petrolio o di grano. Gli anni '90 sono stati benedetti
dall'assenza di entrambi tali fenomeni.
In ogni caso, la crescita relativamente più rapida dell'economia
statunitense aveva ben poco a che fare con le ricette della Terza Via. Ciò che è
straordinario non è la normale performance dell'economia statunitense, bensì la
performance anormalmente scadente delle economie dell'Unione Europea e del Giappone negli
ultimi sei anni. Ciascuna di esse naturalmente ha la sua storia. In Europa, la crescita è
stata limitata a causa delle difficoltà e delle incertezze create dall'unione monetaria e
dalla riunificazione della Germania. Nonostante la convinzione tradizionale che i problemi
dell'Europa siano dovuti alle rigidità del suo mercato del lavoro, economisti seri, che
hanno confrontato i modelli di sviluppo sia europei che statunitensi, attribuiscono la
maggior differenza alle politiche macroeconomiche, ed in particolare alle politiche
monetarie.
In Giappone la crescita è stata stagnante a causa della sua profonda
crisi finanziaria, e della riluttanza del governo giapponese ad usare il denaro pubblico
per finanziare la ristrutturazione del suo sistema (in ironico contrasto con la decisione
con cui le amministrazioni da laissez faire di Reagan e Bush hanno invece
interloquito con il mercato al tempo della crisi del sistema bancario statunitense negli
anni '80).
Sebbene la Terza Via affermi di avere un programma per la nuova
economia globale, la nuova economia globale in realtà sta tagliando ogni giorno l'erba
sotto i piedi a tale programma. Infatti, al cuore della crisi finanziaria globale di oggi
c'è proprio la deregulation del mercato, in particolare dei mercati di capitali,
inesorabilmente promossa dalle agenzie economiche internazionali dietro insistenza del
Tesoro Usa e della comunità delle multinazionali.
La globalizzazione che non funziona
La mobilità del capitale privato ha ormai esautorato la capacità dei
governi e delle agenzie internazionali di evitare che i mercati si autodistruggano e che i
rispettivi popoli subiscano le conseguenze brutali di ciò. Un risultato è la crescente
ostilità nei confronti della globalizzazione - a partire dai senza-lavoro in rivolta a
Giacarta agli operai in sciopero nell'industria automobilistica a Flint, nel Michigan, dai
furibondi minatori non pagati agli insegnanti di Mosca.
Come risposta, i policymakers della lobby mondiale degli affari
ora stanno denunciando i governi che seguono la Terza Via per non aver governato
abbastanza i loro mercati finanziari, e stanno sostenendo nuovi poteri straordinari per il
Fondo Monetario Internazionale ed in alcuni casi una nuova banca centrale globale, che
creerebbe un 'governo grandè ben oltre i sogni più scatenati della maggior parte dei
democratici. Allo stesso tempo, essi continuano a spingere per una maggior integrazione
nel mercato globale.
Come proposta intellettuale, la promozione della deregulation
globale portata avanti dai New Democrats è un modello di pessimo tempismo. Finché
non costruiremo istituzioni e politiche globali per gli interessi dei lavoratori di tutto
il mondo così come per gli interessi degli investitori di tutto il mondo, è chiaro che
un'ulteriore deregulation della finanza e del commercio condurranno ad una ancora
più forte instabilità economica, ed al caos politico.
Quando gli Stati Uniti si trasformarono da una serie di mercati
regionali ad un'economia che copriva un intero continente, si dovette creare un sistema di
governo economico che coinvolgesse appunto l'intero continente, e ciò allo scopo di
controbilanciare il potere del capitale privato. Tale sistema comprendeva una Banca
Centrale per la promozione dello sviluppo, leggi adatte a creare fiducia nei mercati
finanziari, e norme federali per evitare che gli Stati utilizzassero aziende sfruttatrici
di manodopera per diventare competitivi per gli investimenti. Come risultato, la
prosperità della nazione venne ampiamente condivisa, e l'economia divenne più
produttiva.
Il mercato globale non ha avuto un tale equilibrio. Infatti, i recenti
accordi relativi al commercio internazionale - come il Nafta e la creazione
dell'Organizzazione Mondiale per il Commercio - impongono una protezione tutta di stampo
americano degli interessi corporativi, mentre minano le capacità dei governi nazionali di
mettere in atto standard di stampo americano per quanto riguarda il lavoro, il sistema
bancario e la protezione dell'ambiente.
L'esperienza degli anni di Clinton rivela anche una contraddizione di
fondo tra la teoria del governo con un ruolo limitato come garante delle opportunità e la
realtà del potere politico in una società capitalistica.
Una contraddizione è che, senza istituzioni forti con valori
egualitari - ad es. il sindacato - la traduzione degli aumenti di produttività in
benefici ampiamente condivisi non si verifica. Ad esempio, alla metà degli anni '70, la
quota dell'economia americana che era aperta ai mercati mondiali raddoppiò. Ciò portò
alla riduzione sia del potere del sindacato sia della quota di forza lavoro organizzata.
Prima di quel momento, i salari reali degli operai dipendenti erano aumentati insieme alla
produttività mentre da quel momento in poi tale relazione scomparve. A partire dal 1979
la produttività dell'operaio medio americano è aumentata del 22%, mentre i salari reali
sono diminuiti dell'8%. I salari e le indennità reali degli operai nell'economia
statunitense sono ancora, dopo sei anni di espansione economica, del 3% più bassi di
quanto fossero nel 1989, il picco dello scorso ciclo economico.
Lo stesso discorso vale per i partners degli Stati Uniti
nell'accordo Nafta: il Canada e il Messico, in cui la produttività ha superato di gran
lunga i salari degli operai. In tale contesto, risulta davvero ingenuo il concetto critico
della Terza Via che la formazione e l'istruzione ridurranno la disuguaglianza poiché
renderanno i lavoratori ancor più produttivi.
Governi al palo, Terza via senza soluzioni
Anche se si credesse alla teoria economica che vede nella formazione e
nell'istruzione patrocinate dal governo la risposta ad una disuguaglianza crescente, gli
anni di Clinton ne mostrano tutte le contraddizioni politiche. Le lamentele incessanti
della Terza Via nei confronti del 'governo grandè, nonostante si continui a rivendicare
un ruolo per il settore pubblico, hanno la funzione di una camera di risonanza della
denuncia della democrazia sociale fatta dalla destra. Quando gli elettori sentono i leader
del principale partito di sinistra dichiarare che il 'governo grandè è incompetente,
inabile a proteggere i singoli dalle devastazioni del mercato libero, e che la sua epoca
è finita, non possono che rispondere chiedendo la limitazione delle tasse e un governo
più 'piccolo' possibile.
Il risultato non è tanto uno spostamento ideologico verso destra tra
gli elettori, come affermano i New Democrats, ma un drastico ridimensionamento di
ciò che ci si aspetta dal governo. Così, un recente e molto autorevole sondaggio
dell'opinione pubblica ha stabilito che il 75% degli americani credono che il governo
federale dovrebbe dare priorità assoluta al fatto che tutti gli americani possano avere
accesso ad un servizio sanitario alla loro portata, ma solo il 15% crede che il governo
stia effettivamente dando a questo tema una qualsiasi priorità. I New Democrats
hanno minato la capacità del governo di portare a termine persino i compiti modesti che
essi gli hanno affidato.
Nell'economia globalizzata, l'insicurezza del lavoro è una condizione
permanente. Dunque, incessante è il processo di adeguamento. Infatti, un tema ricorrente
nell'approccio di Clinton alla globalizzazione è che gli americani devono migliorare le
loro capacità e competenze nel mondo nel quale egli stesso li ha resi tanto esposti.
Nonostante la retorica, la Terza Via non ha affatto dato alla
formazione e all'istruzione quella priorità implicita nella sua retorica e richiesta
dalle sue politiche commerciali. In termini percentuali sull'economia nazionale, la spesa
per la riqualificazione degli operai è diminuita e si prevede che continuerà a diminuire
ulteriormente.
Né Washington ha dimostrato la volontà di fare gli opportuni
investimenti a lungo termine nel campo dell'istruzione. Nel 1996 il General Accounting
Office (Ragioneria generale dello Stato) ha riferito che il paese necessitava ancora
di 112 miliardi di dollari per restaurare edifici di scuole pubbliche - riparare i tetti,
derattizzare e cablare le aule per i computer. Nel suo bilancio del 1997, il presidente
Clinton propose un programma basato sul finanziamento degli interessi (interest-subsidy
program), il quale avrebbe prodotto 5 miliardi di dollari per questo scopo. Il
Congresso repubblicano resistette. Quando vennero negoziati i compromessi finali sul
bilancio, la somma su cui ci si accordò fu zero.
Le risorse insufficienti stanziate per la formazione e l'istruzione
rivelano in quale misura la Terza Via rappresenti un compromesso unilaterale con il
conservatorismo corporativo, piuttosto che una nuova dimensione della politica
progressista. Quando Clinton fece marcia indietro dal suo programma di investimenti
pubblici e adottò come suo obiettivo primario quello di appianare il bilancio, egli
garantì all'ala progressista del Partito Democratico che tale strategia era politicamente
necessaria allo scopo di ottenere l'accettazione politica della spesa pubblica necessaria.
Una volta che il bilancio fosse stato approvato, ci sarebbe stata l'opportunità di
spendere.
L'anno fiscale 1998 si è concluso con un'eccedenza. Ma il processo
attraverso cui essa è stata ottenuta ha implicato lo schiacciamento dei capitoli interni
di spesa. I New Democrats si sono uniti ai Repubblicani nel ridurre le aspettative
politiche dell'elettorato delle famiglie operaie di sinistra. Il messaggio all'americano
medio, confrontato con la brutale concorrenza della nuova economia globale è stato: "Cavatela
da solo".
Avendo tagliato il tradizionale senso sociale democratico della
resposabilità verso la comunità e della solidarietà sociale, c'è ben poco sostegno
politico per gli investimenti pubblici ora che il bilancio è positivo. L'elettorato, cui
è stato detto che il governo non può aiutare nessuno, preferisce una riduzione delle
tasse a vasti programmi interni ritenuti inefficaci. I New Democrats, poiché non
hanno il fegato di confrontarsi con l'ancor potente apparato militare-industriale
statunitense, sono ora a favore d maggiori spese governative nel settore più gonfiato,
inefficiente e pericoloso del bilancio pubblico. Sostenuti a loro volta da Wall Street,
essi sono stati in prima linea in una campagna mirata a privatizzare il sistema di
previdenza sociale e a distruggere così i programmi sociali di maggior successo del
secolo, al tempo stesso simbolo ed essenza dei valori democratici progressisti.
In breve, la Terza Via non offre alcuna risposta coerente per la crisi
che ora minaccia la democrazia e la stabilità nel mondo intero. L'attacco dei suoi
sostenitori all'"interferenza" pubblica nel mercato è al momento messo in
ridicolo dalle richieste crescenti di coloro che rappresentano il mondo delle
multinazionali - da Tokio a New York - affinché un 'governo grandè li salvi dalle
conseguenze del mercato. Infatti Tony Blair - che ideologicamente riesce ad essere persino
più disinvolto di Bill Clinton - ha cominciato a chiedere quelle misure per regolamentare
la finanza internazionale che i pensatori di sinistra hanno chiesto da anni. Senza dubbio
sentiremo presto dire che la proposta di nuove agenzie globali con compiti di
super-regolamentazione, gestite da una solida burocrazia internazionale, rappresenta la
Terza Via.
"New Democrats, voi da che parte state?"
Poiché la Terza Via è costituuita da tale sostanza intellettualmente
amorfa, può darsi che l'esperienza degli Stati Uniti non sia definitiva. Ma dato lo zelo
con cui i politici della Terza Via hanno voluto identificarsi con Bill Clinton, almeno
fino ai suoi recenti guai personali, la performance della sua presidenza ci offre la
miglior misura empirica dell'importanza della Terza Via per la condizione politica della
sinistra democratica nelle società avanzate. Sulla base di tale esperienza, possiamo
concludere come segue:
1. La Terza Via non è un nuovo principio che possa condurci in una
dimensione dell'universo politico che si trovi al di là della destra e della sinistra.
Piuttosto, si tratta di una razionalizzazione del compromesso politico tra sinistra e
destra, in cui la sinistra si avvicina alla destra. Il compromesso politico è connaturato
alla democrazia rappresentativa, ma il compromesso di principio nasce dai principi, non
dal compromesso.
2. La Terza Via si è dimostrata un successo politico personale per un
Presidente del Partito Democratico. Essa è stata però un fallimento per il Partito
Democratico, che, come istituzione, è ora molto più debole di quanto non lo fosse prima
di Bill Clinton. Lo stesso vale per le maggiori istituzioni sociali da cui il partito trae
il suo attivismo e la sua energia morale.
3. Non è avanzata neanche la politica basata sui valori politici della
sinistra. La quota di bilancio federale destinata agli investimenti sociali è diminuita,
il sistema sanitario si è deteriorato, e la sicurezza sociale è stata ulteriormente
ridotta a brandelli. Nel 1998, gli interessi di Wall Street dominano la politica americana
più di quanto non lo facessero nel 1992.
4. I sostenitori della Terza Via hanno dato il loro contributo
ricordando alla sinistra l'importanza di un settore pubblico efficiente ma anche
solidaristico. Ricostruire la competenza del governo deve essere un elemento importante
nella ricostruzione della democrazia sociale nei prossimi anni. D'altro canto, unendosi
agli attacchi al governo mossi dalla destra, gli uomini della Terza Via hanno reso
indeterminato il sostegno pubblico agli investimenti nel settore pubblico ed hanno
rafforzato la demoralizzazione per il servizio civile - che in ultima analisi renderebbe
il governo più inefficiente ed inefficace.
La Terza Via non è un'ideologia con il potere di ispirare e sostenere
un ideale. Essa è piuttosto una guida al pragmatismo politico per politici ambiziosi, che
non hanno un'idea chiara di che cosa vogliono davvero compiere. Ma il compito della
sinistra è cambiare il mondo. Per farlo, essa deve cominciare col rafforzare le proprie
istituzioni essenziali, fornendo loro una chiave di comprensione di come funziona il
mondo. Giacché la Terza Via rende indeterminati le istituzioni e gli ideali della
sinistra democratica, essa è controproducente. Inoltre, le ipotesi su cui la Terza Via ha
fondato la sua strategia di partenariato con il capitale multinazionale stanno
crollando.La nuova economia globale, dopo avere generato la ridistribuzione del reddito,
della ricchezza e del potere verso l'alto, ora la sta spingendo fuori controllo.
La crisi economica ha rivelato la contraddizione globale che soggiace
all'economia globale: appunto i mercati deregolati, che stanno sistematicamente
distruggendo le istituzioni di governo nazionali ed internazionali, le quali sono invece
essenziali per la capacità del mercato di produrre e distribuire.
Non è certo tempo per la sinistra di abbandonare il suo impegno verso
soluzioni di tipo collettivistico e democratico. È tempo invece di mostrare alla gente
che non è sola.
Non è tempo di ammettere che la disuguaglianza e la distruzione
ecologica sono prezzi necessari da pagare per lo sviluppo. È tempo invece di valutare lo
sviluppo economico in base alla quantità e alla distribuzione dei suoi benefici, sia tra
le generazioni di oggi che tra quelle future.
Non è tempo per la sinistra di abbandonare la sua analisi di classe.
È tempo invece di aggiornarla e di usarla come strumento di organizzazione politica.
Infine, sulla questione di quali siano le strade da percorrere per una
politica democratica, dobbiamo qui lasciare l'ultima parola non a William Jefferson
Clinton, bensì a Thomas Jefferson. In una lettera al Marchese di Lafayette del 1823,
Jefferson concludeva che esistono solo due scelte di base: "In verità, il partito Whig
e il partito Tory sono quelli della natura. Essi esistono in tutti i paesi, siano
essi chiamati con questi stessi nomi, oppure con i nomi di Aristocratici e Democratici, Cote
Droite et Cote Gauche, Ultras e Radicali, Schiavisti e Libertari".
La domanda che la sinistra deve porre ai suoi leader, con le
parole di una vecchia canzone operaia americana, è: "tu, da che parte stai?"
Prolegomena al dibattito sulla terza via
di Michele Salvati
Parlare di terza via in questo paese è come portare vasi a Samo.
Naturalmente, la terza via di cui noi italiani abbiamo discusso per trentanni, dai
primi governi di centro-sinistra negli anni sessanta fino al crollo del comunismo tra la
fine degli anni ottanta e linizio dei novanta, è di genere affatto diverso da
quella di cui parliamo oggi: si trattava allora di una terza via tra comunismo e
socialdemocrazia o, più in generale, tra un programma radicale o rivoluzionario e
lesperienza reale dei governi socialdemocratici nel resto dellEuropa. Anche
questa "terza via" era intesa in senso riformistico. Ma le riforme da realizzare
dovevano essere diverse da quelle socialdemocratiche: dovevano essere riforme strutturali
o addirittura riforme "destabilizzanti", volte a minare gli equilibri
fondamentali del capitalismo e a mettere in moto un processo di cambiamento rivoluzionario
o quasi.
Non erano tanto i comunisti ad esprimersi in questo modo; di fatto, i
comunisti italiani sono sempre stati sospettosi di fronte alle accentuazioni estremistiche
del vecchio dibattito sulla terza via, alimentato soprattutto dalla sinistra socialista e
da gauchistes di varia appartenenza. Ma, naturalmente, una politica
socialdemocratica pura e semplice non poteva essere pienamente riconosciuta come un
obiettivo primario da parte dei leader del Partito comunista, i quali coniarono una
sottile distinzione tra "riformista" - carattere tipico di una debole
piattaforma socialdemocratica - e "riformatore", carattere tipico della versione
buona, quella comunista. Nel Pci esisteva una "destra", una corrente che sempre
più spesso guardava allesperienza socialdemocratica come a una fonte di
ispirazione; i suoi membri riconoscevano - in privato o in discorsi pubblici sì, ma cauti
e diplomatici - che la divisione tra la socialdemocrazia e il comunismo si era rivelata
disastrosa e che il super-revisionista Eduard Bernstein aveva perfettamente ragione. Non
stupisce che costoro (e quel che rimane dei socialisti) siano i più diffidenti nei
confronti della nuova terza via. Finalmente - dicono - dopo un processo storico tanto
lungo e doloroso, il Partito Comunista Italiano ha cambiato nome, ha finito per
abbracciare una piattaforma decisamente socialdemocratica, ha sinceramente ammesso che la
socialdemocrazia aveva ragione e il comunismo aveva torto, è diventato orgogliosamente
membro della Internazionale socialista. Bene: ma ecco presentarsi questa scocciatura,
questi sciocchi che ricominciano a parlare di terze vie, e questa volta non si tratta di
una via intermedia tra il comunismo e la socialdemocrazia, ma tra la socialdemocrazia e il
liberalismo. Che vadano a quel paese!
Ritornerò ancora sul caso italiano, sulla logica politica della
coalizione dellUlivo, sugli aspetti principali del dibattito sulla terza via in
questo paese: le cose appaiono sotto una luce diversa, quando sono fatte scendere
dallEmpireo della teoria e incarnate nelle peculiarità delle politiche nazionali.
Appaiono diverse non solo dalle affermazioni astrattamente teoriche, ma anche luna
dallaltra: "terza via" è unespressione sintetica che definisce
programmi politici diversi in Gran Bretagna e in Italia, per non parlare degli Stati Uniti
o del Brasile. Di conseguenza, esistono molte "nuove" terze vie: si tratta di
programmi nazionali, specifici per ciascuna cultura politica; in alcuni casi sono poco
più che slogan inseriti nelle piattaforme elettorali. La questione che vorrei affrontare,
tuttavia, è se esista qualcosa che va oltre tutto ciò, se tutto questo parlare di una
terza via nei diversi contesti nazionali stia ad indicare un problema latente comune a
tutta la sinistra, un problema abbastanza serio da meritare una seria considerazione. La
mia risposta è si.
Ed è un "si" convinto. Il problema "serio" non
riguarda un confronto tra le politiche di sinistra e quelle conservatrici, con la
"terza via" che rappresenterebbe una sorta di tertium genus, intermedio
tra le due: un simile paragone sincronico non ci porterebbe molto lontano e potrebbe
essere lasciato a un commento finale. Il problema serio ha una natura sia sincronica che
diacronica e il confronto tra le politiche dovrebbe svilupparsi interamente
allinterno delle politiche di sinistra. È ragionevole oggi tracciare una decisa
linea di demarcazione tra le politiche di sinistra adottate (e dimostratesi così
efficaci) in passato e quelle che, nellattuale situazione delle società avanzate
post-industriali, appaiono adeguate e auspicabili? Rappresenta tale linea di demarcazione
una svolta profonda, epocale, simile a quella che divide la sinistra liberal-democratica
del secolo immediatamente successivo alla Rivoluzione francese dalla sinistra socialista
nel secolo dopo? Se la risposta è si, quale cambiamento è intervenuto a giustificare un
tale giudizio? Si tratta di interrogativi vastissimi, che non sarò in grado di affrontare
in modo esaustivo. Quel che posso fare è tracciare a grandi linee una mappa dei luoghi in
cui è possibile cercare una risposta, uno schema abbozzato delle dimensioni analitiche in
cui è possibile scomporre tali interrogativi.
Continuità e cambiamento: tre criteri
I tre luoghi principali in cui si può cercare una risposta, in cui si
può verificare se vi sia stata una vera soluzione di continuità, sono i seguenti: (a) i
sistemi di valori sostenuti dalla sinistra; (b) il "mondo" (la società) in cui
questi valori dovrebbero essere perseguiti; (c) la visione del mondo e gli strumenti
teorici tramite i quali la sinistra cerca non solo di comprendere quel "mondo"
ma anche di individuare le politiche volte a cambiarlo, alla luce dei valori che essa
sostiene. Una distinzione così netta tra le diverse dimensioni analitiche ha solo uno
scopo di chiarezza logica: di fatto si tratta di dimensioni strettamente intrecciate e
sarebbe difficile immaginare un cambiamento sostanziale in una di esse che non andasse a
incidere profondamente almeno in una delle rimanenti due. Lo spazio coperto dai luoghi o
dimensioni citati è però esaustivo: un importante mutamento della sinistra e delle
politiche da essa perseguite (una terza, quarta o ennesima via) non può che discendere da
un cambiamento o nei valori, o nel "mondo", o negli strumenti adottati per la
comprensione del mondo e nelle conseguenti azioni politiche; oppure, quale che sia
lepicentro del cambiamento, da una trasformazione di tutte queste dimensioni
insieme. Chi leggesse Beyond Left and Right di Anthony Giddens potrebbe facilmente
accorgersi che, benché lepicentro del terremoto della terza via sia decisamente
situato nella dimensione del "mondo", e dunque nella nuova situazione sociale ed
economica che la sinistra si trova ad affrontare, esso coinvolge profondamente anche le
dimensioni dei valori e degli strumenti teorici. E lo stesso è accaduto nei precedenti
grandi mutamenti intervenuti nelle strategie della sinistra, nelle autentiche svolte
epocali vissute dalla sinistra nei due secoli di storia in cui possiamo parlare di Destra
e di Sinistra nel senso moderno dei due termini.
Ripercorrere brevemente queste "autentiche" svolte epocali ci
sarà utile per fissare un punto di riferimento, per stabilire un termine di paragone e un
ordine di grandezza con i quali misurare lentità del fenomeno "terza
via". Lasciando da parte le differenze nazionali e concentrandoci sui reali punti di
svolta della sinistra in quanto movimento politico internazionale, soltanto due meritano
di essere ricondotti a questa categoria: la già ricordata transizione tra il secolo
liberal-democratico ("wig") della sinistra e il secolo socialista; e,
allinterno di questultimo, la divisione tra la via socialdemocratica e quella
comunista. La prima di queste svolte è più rilevante per stabilire un confronto con la
terza via, sia perché il genere di cambiamento sociale ed economico (quella che abbiamo
definito come la dimensione del "mondo") che ha condotto al cambiamento di
strategia presenta alcuni caratteri comuni a entrambi i casi; sia perché cè più
di un motivo per definire la terza via (quanto meno nella sua versione inglese) come una
variante moderna del "wiggismo", come è stato più volte osservato. Sarò
dunque non soltanto breve, ma addirittura paurosamente schematico sul secondo punto di
svolta, sulla seconda grande divisione della sinistra.
Comunisti e socialisti: stesso mondo, diversi valori
La divisione tra socialdemocrazia e comunismo ha più a che fare con le
dimensioni teorico-ideologica e dei valori che con la dimensione del "mondo":
socialdemocratici e comunisti, menscevichi e bolscevichi, avevano di fronte lo stesso
mondo, ma lo osservavano attraverso lenti ideologiche ed etiche diverse. È vero che le
condizioni materiali che dovevano garantire il successo della rivoluzione erano assai
diverse in Russia e sullEuropa centrale e occidentale: ma anche in Russia
cerano menscevichi, come nel resto dEuropa cerano comunisti o socialisti
rivoluzionari. Le differenze nelle condizioni sociali ed economiche (quella che abbiamo
chiamato la dimensione del "mondo") possono contribuire a spiegare il successo
dei tentativi rivoluzionari o la prevalenza di una o dellaltra corrente
allinterno dei movimenti socialisti nei vari paesi, ma non la frattura radicale
allinterno di ognuno di essi. Per spiegare questo fenomeno sono di vitale importanza
le dimensioni della teoria, dellideologia e dei valori: il principale strumento
teorico utilizzato dai movimenti operai continentali (il marxismo) e il modo in cui i
successivi sviluppi teorici e ideologici hanno inquadrato gli obiettivi, sia intermedi che
ultimi, che i partiti socialisti dovevano perseguire, hanno condotto inesorabilmente -
nelle turbolente condizioni sociali verificatesi durante e dopo la prima guerra mondiale -
a una rottura che andava preparandosi da decenni. Tutti, anche gli esponenti delle
correnti più a destra nei partiti socialdemocratici, accettavano come articolo di fede
che la "vera" soluzione allo sfruttamento dei lavoratori risiedeva
nellabolire la proprietà privata e il mercato e nel sostituire ad essi una economia
collettivista; e poiché era piuttosto arduo immaginare che un tale cambiamento potesse
avvenire attraverso mezzi pacifici e allinterno dellordine legale
"borghese", tutti ammettevano che prima o poi la rivoluzione sarebbe stata
inevitabile; sempre "poi", ovviamente, per i socialisti di destra. Per poter
eludere tali conclusioni sarebbe stato necessario dare una forma completamente nuova alla
cornice di valori, teorie e ideologie da cui esse discendevano: soltanto Bernstein,
profondamente influenzato dalle tradizioni laburiste (e wig) britanniche effettuò
un tentativo serio in questa direzione, in conseguenza del quale divenne un reietto del
movimento laburista tedesco (e continentale in genere).
Dai diritti civili ai diritti materiali
Ai fini della nostra discussione è forse più importante, come abbiamo
già sottolineato, laltro punto di svolta "epocale" nella storia della
moderna sinistra europea. Si è trattato di una svolta molto più lenta, intervenuta tra
gli ultimi decenni del secolo XIX e la fine della prima guerra mondiale, che ha
gradualmente portato i partiti laburisti e socialisti a sostituirsi a quelli
liberal-democratici (wig) o radical-borghesi in quanto principali rappresentanti
della sinistra nei Parlamenti europei. Dopo la prima guerra mondiale, quasi ovunque in
Europa (non solo nel Parlamento, ma ancor di più nella società civile, dove poteva
contare sul sostegno di organizzazioni sindacali sempre più potenti) la sinistra era
arrivata a identificarsi con il movimento operaio e socialista: i vecchi partiti
liberal-democratici avevano perduto gran parte del loro peso ed erano stati spinti verso
una posizione più centrista nello spettro politico. In questa transizione, tutte le
dimensioni della sinistra subirono un cambiamento profondo.
Nella dimensione dei valori, il pendolo si venne spostando da una
definizione formale e legale delluguaglianza di diritti civili e politici, alle
condizioni sociali ed economiche ("materiali", come si diceva allora) che quei
diritti avrebbero dovuto accompagnare e sostenere: occorreva garantire a tutti i cittadini
un livello minimo di benessere, di istruzione e di sicurezza, obiettivi da attuare sia
perché validi per sé, sia perché indispensabili alleffettivo esercizio dei
diritti civili e politici. Questa nuova categoria di diritti - "diritti
sociali", secondo la definizione di T.H.Marshall - fu teorizzata solo in seguito, ma
lesigenza dei diritti sociali era presente fin dagli inizi; lampiezza e la
sottigliezza che caratterizzano lattuale dibattito sulluguaglianza non
sarebbero nemmeno immaginabili, se non si fosse verificata questa svolta nella dimensione
dei valori della sinistra
Il cambiamento nella dimensione etica, dei valori, era
inestricabilmente intrecciato a un cambiamento parallelo nella dimensione teorica, negli
strumenti analitici e nella visione del mondo attraverso i quali la sinistra europea
cercava di trovare un senso alla società in cui viveva e di definire le politiche più
adatte alla sua riforma. È difficile sopravvalutare la soluzione di continuità teorica
prodotta da Marx e dal marxismo tra la sinistra borghese e quella socialista, quantomeno
nellEuropa continentale. Ma ovunque, anche in quei paesi in cui il marxismo non
divenne mai il punto di riferimento teorico dominante della sinistra, si poteva percepire
un chiarissimo mutamento nellenfasi e nei concetti. Ovunque i socialisti auspicavano
profonde riforme nei meccanismi del sistema economico: la parola "capitalismo"
non veniva usata solo dai marxisti, e con essa si diffondeva anche lidea che esso
fosse un modo di organizzare leconomia storicamente contingente, e pertanto
modificabile. Ovunque i socialisti, che fossero o meno marxisti, erano convinti che i
valori da loro sostenuti potessero essere attuati soltanto attraverso lattuazione di
riforme nellorganizzazione della produzione. E un socialista non doveva
necessariamente essere marxista per chiedere una decisa limitazione del ruolo svolto dalla
proprietà privata e una più severa regolamentazione dei mercati da parte dello stato. È
dalla preoccupazione per le basi "materiali" dei diritti che nasce un profondo
interesse per il modo in cui è organizzata leconomia, che è il tratto distintivo
di tutti i socialisti.
Ma il cambiamento vero, quello che ha scatenato tutti gli altri, era
avvenuto nella dimensione del "mondo", nelle condizioni sociali ed economiche
dellEuropa verso la metà del diciannovesimo secolo: lindustrializzazione di
massa e lemergere di una nuova, minacciosa spaccatura nella società; le sofferenze
e lo sfruttamento di milioni di persone, espulse dallagricoltura e
dallartigianato per fondersi nella nuova condizione di proletariato industriale.
Senza questa immensa trasformazione, senza una frattura così profonda rispetto alle
precedenti condizioni sociali, la domanda di un mutamento del sistema di valori della
sinistra sarebbe rimasta tranquillamente relegata negli scritti politici di pochi utopisti
radicali e i nuovi strumenti teorici non avrebbero avuto alcuna presa. È per questa,
fondamentale, spinta sociale che la sinistra "wig" del secolo precedente,
almeno in Europa, fu superata da una sinistra socialista che si distingueva dalla prima
nei tre aspetti cruciali per la definizione di qualunque forza politica. 1) Si distingueva
per la natura delle richieste politiche fondamentali: agli obiettivi civili e politici
della borghesia illuminata si aggiungevano domande nuove e più radicali riguardanti le
condizioni sociali ed economiche. 2) Si distingueva per gli strati sociali che
costituivano il suo principale referente e che essa cercava di rappresentare: i comuni
lavoratori industriali, anziché i borghesi e i piccolo-borghesi. 3) Infine si distingueva
- e si tratta di una differenza sostanziale - per la nuova divisione attuata tra
"amico e nemico": i nemici della sinistra borghese erano la Chiesa,
laristocrazia e i proprietari terrieri, i tradizionali sostenitori dellAncien
Règime; costoro rientravano nel novero dei nemici anche per i socialisti, i quali
però vi aggiunsero i capitalisti, fatto che causò fortissime tensioni nei rapporti tra
le due sinistre.
Poiché stiamo analizzando i momenti di svolta nella storia della
sinistra, è perfettamente legittimo sottolineare le grandi differenze tra il secolo della
sinistra liberale e quello del socialismo. Tuttavia, in nome dellequilibrio storico,
si dovrebbero evidenziare anche gli elementi di continuità. Se ne trovano soprattutto nel
sistema dei valori, dove le posizioni socialiste sulluguaglianza possono essere
considerate un ampliamento delle precedenti ( "Una volta che lidea di
uguaglianza è entrata nella storia, il suo cammino è implacabile e inarrestabile":
non è stato Tocqueville a dire qualcosa del genere, prevedendo anche "le rovine e i
disastri" che tale cammino avrebbe provocato?). In particolare, proprio quei diritti
civili e politici che furono il principale obiettivo storico della sinistra
liberal-radicale (diritto di libera associazione, suffragio universale, parità tra i
sessi) furono ripresi dal movimento socialista. Nei primi decenni del ventesimo secolo,
quando i socialisti ebbero la meglio sui Wigs diventando i principali
rappresentanti della sinistra, tali diritti erano ben lungi dallessere garantiti e
di fatto, nella maggior parte delle nazioni europee, essi furono ottenuti, nella loro
forma attuale e completa, soltanto dopo la seconda guerra mondiale, quasi simultaneamente
ai diritti "sociali" propugnati dai socialisti. Sottolineare questo è
importante, perché si collega a una diatriba di cui parleremo tra poco, e che riveste
molta importanza nel dibattito sulla terza via: se cioè la socialdemocrazia odierna sia
già una sorta di "terza via", una miscela di teorie, prassi, principi e valori
liberali e socialisti.
Ma la socialdemocrazia è la terza via?
Mi scuso per il brutale schematismo di questi cenni storici, ma volevo
arrivare il più rapidamente possibile alla domanda chiave: in che modo la transizione tra
socialdemocrazia e "terza via" può essere paragonata alle grandi transizioni
che abbiamo ora evocato? Per rispondere a questo interrogativo dobbiamo tornare alle
"dimensioni" della sinistra, da (a) a (c), e ai tratti distintivi della sinistra
intesa come forza politica, da (1) a (3). Le dimensioni dei valori, della teoria e del
"mondo" sono significativamente diverse? Si è verificato un cambiamento
socio-economico di intensità paragonabile alla rivoluzione industriale? Una
trasformazione cui la sinistra deve rispondere con obiettivi e strategie politiche
radicalmente nuovi? Esistono nuovi gruppi sociali cui la terza via fa riferimento, diversi
da quelli della socialdemocrazia? Si è affermata una nuova definizione di
"amico/nemico"?
Nel rispondere a queste domande incontriamo due importanti ostacoli. Il
primo riguarda un giudizio di "quantità/qualità": a che punto, esattamente, le
differenze nelle dimensioni e nelle caratteristiche prima ricordate si possono definire di
entità sufficiente, tali da giustificare un giudizio di cambiamento qualitativo? Il
secondo riguarda la natura confusa ed eclettica del nostro termine di paragone, la
socialdemocrazia dei nostri giorni. La prima difficoltà è certamente importante e, in
qualunque modo la si risolva, darà sempre adito a controversie: tuttavia può essere
risolta nel modo in cui di solito si risolvono questo genere di problemi, cioè definendo,
in teoria o per convenzione, una soglia oltre la quale il cambiamento può essere
giudicato "di entità sufficiente". È la seconda, invece, che risulta quasi
insuperabile, e temo lasci poca speranza di un dialogo costruttivo tra quanti già hanno
preso una posizione nel dibattito "socialdemocrazia contro terza via".
La ragione per cui questa seconda difficoltà non può essere superata
facilmente è che, dopo la seconda guerra mondiale, la stessa socialdemocrazia è divenuta
una sorta di... terza via, come abbiamo già lasciato capire: cioè un insieme di
strumenti teorici, riferimenti ideologici e prassi effettive piuttosto confuso ed
eterogeneo; un compromesso politico che muta nel tempo e varia secondo i vari contesti
nazionali. Oggi la socialdemocrazia è già un compromesso liberal-socialista: gli
obiettivi principali, e soprattutto gli strumenti, che hanno condotto la socialdemocrazia
ai trionfi degli anni sessanta e settanta - il Welfare State e la piena occupazione
- sono stati opera di due grandi liberali, che si dichiaravano tali, e in uno spirito
autenticamente liberal (Keynes e Beveridge). Ecologia e femminismo sono stati
digeriti, più o meno facilmente, nel compromesso ideologico della maggior parte delle
socialdemocrazie nazionali. E quando sono emerse alcune esigenze prettamente socialiste -
ad esempio quelle espresse dal piano Meidner in Svezia - esse sono state rifiutate in
toto. Dunque, quando paragoniamo la socialdemocrazia alla terza via, non stiamo
prendendo come termine di paragone la socialdemocrazia di Kautsky o di Adler, e nemmeno
quella del programma di Bad Godesberg (assai lontane delle dichiarazioni e delle prassi
odierne), bensì i programmi iper-revisionisti dei partiti socialdemocratici europei
contemporanei; e questi sono tutti compromessi, leggermente diversi fra loro, tra i
principi socialisti e quelli liberali. E per questo stesso motivo continuiamo a citare
Eduard Bernstein, poiché è nelle sue Voraussetzungen che possiamo trovare la
prima, consapevole affermazione di tale compromesso. La terza via già esiste: perché,
allora, continuare a parlarne?
La ragione è duplice, e ha a che vedere con due delle dimensioni della
sinistra che abbiamo evidenziato prima, quella teorico-ideologica e quella del
"mondo". La prima è meno importante, ma tuttavia significativa: gli strumenti
tradizionali della sinistra socialista, cioè le analisi della società che la
contraddistinguono, hanno subito un duro colpo in seguito alla bancarotta di quel tragico
esperimento sociale - il comunismo - che aveva dichiarato di basarsi sulla versione dura e
pura di quegli stessi strumenti, il marxismo. La seconda ragione, la più importante, è
che il capitalismo è cambiato, il che ha messo seriamente in difficoltà le politiche
concrete perseguite dalla sinistra nelle nazioni più avanzate: la strategia
Keynes-Beveridge, che aveva funzionato magnificamente fino agli anni settanta, non va più
bene, e la sinistra è alla disperata ricerca di una strategia politica nuova e
realizzabile, ma sempre allinterno del compromesso socialista-liberale del
dopoguerra. Nella ricerca di tale strategia, quanti cercano di rafforzare gli aspetti
liberali di quel compromesso, di solito insistono sul concetto di terza via; quanti
intendono difendere gli aspetti socialisti, si schierano, allinterno del dibattito,
dalla parte socialdemocratica.
Questa è una distinzione così grossolana che rischia di fornire una
rappresentazione fuorviante del dibattito in corso; bisogna quanto meno aggiungere che
ogni presa di posizione è motivata non soltanto da questioni di principio, ma anche da
concretissime considerazioni di opportunità elettorale. Da una parte, la concreta
attuazione del compromesso socialdemocratico ha creato una rete di interessi e di
aspettative così fitta, che un brusco cambiamento risulta costoso e doloroso per i
partiti consolidati della sinistra; e ciò la induce a mantenersi fedele alle tradizionali
politiche socialdemocratiche. Dallaltra parte, la profonda evoluzione del tessuto
sociale ed economico ha suscitato nuove esigenze cui le politiche tradizionali non sono in
grado di rispondere: questo ha portato alla crescita di un serbatoio di consenso
elettorale sul quale si esercita fortissima la concorrenza della destra e che chiede un
cambiamento nella politica e nellimmagine stessa della sinistra. Nel complesso,
comunque, la nostra affermazione coglie il nocciolo della questione.
La terza via e la prevalenza del lib-lib-lab
Se ciò è vero possiamo e dobbiamo discutere dei problemi che la
sinistra si trova ad affrontare nei paesi post-industriali prescindendo, almeno per il
momento, dal concetto di terza via. Dopo unanalisi accurata della natura della
trasformazione in atto nella dimensione del "mondo" e delle sue possibili
ripercussioni sul sistema dei valori e sulla strategia della sinistra, potremo chiederci
se sia utile introdurre un nuovo termine per definire questa trasformazione. Per le
ragioni che abbiamo appena addotto, "terza via" è probabilmente
unespressione fuorviante: la strategia politica
perseguita dai partiti socialdemocratici è già, e da molto tempo, un compromesso
liberal-socialista, unesperienza "lib-lab". Se i mutamenti
intervenuti nelle dimensioni citate e nei tratti caratteristici sono sufficientemente
importanti, se riterremo utile tracciare una linea di demarcazione tra la fase
"Keynes-Beveridge" e quella attuale, non si tratterà probabilmente che di
un ulteriore passo avanti allinterno di tale compromesso liberal-socialista: una formula
"lib-lib-lab", e non una terza via.
Procedere in questo modo ha senso, naturalmente, se la terza via si
colloca nello spazio politico e di valore già occupato dallesperienza storica della
sinistra, la sinistra liberale e quella socialista, in tutte le sue innumerevoli versioni.
Ma non equivale, questo, a mettere il carro davanti ai buoi? Ancora non sappiamo quali
siano i valori, le visioni del mondo e le teorie propugnate dagli ideologi della terza
via: potrebbero benissimo essere di natura completamente diversa rispetto alle due grandi
tradizioni storiche della sinistra; e, in questo caso, "terza via" non sarebbe
un termine scorretto. Confesso sinceramente di nutrire un pregiudizio: da quanto ho potuto
capire leggendo lavori di natura teorica e ideologica, dalle politiche effettive
perseguite dai principali leader politici che sono stati infilati nella
"Internazionale della Terza Via" (Blair, Clinton, Cardoso, Prodi e altri), non
sono riuscito a individuare nessun elemento realmente significativo che si collochi al di
fuori di quelle due grandi tradizioni.
È vero che, in alcuni degli scritti più teorici, emerge una
preoccupazione seria e insolita per i problemi legati allambiente, al femminismo e a
rischi sistemici di natura globale. Problemi che sono spesso (ma non sempre) marginali nei
programmi della sinistra, sia liberale che socialdemocratica. Ma questo non emerge con la
stessa qualità e intensità nelle piattaforme elettorali e nelle politiche concrete dei leader
citati sopra; al contrario, si ritrova molto di più nei programmi di altri partiti
socialdemocratici europei, soprattutto nei paesi nordici, che non si sognano nemmeno di
parlare di terze vie (forse stanno già seguendo una terza via senza nemmeno rendersene
conto, come il Monsieur Jourdain di Molière quando parla in prosa). A parte le politiche
effettive, mi chiedo anche se laccento posto su questi importantissimi temi sia
motivo sufficiente per collocare la terza via in una categoria nuova, non ottenibile
selezionando, riorganizzando e soppesando diversamente gli elementi già contenuti nelle
due grandi tradizioni della sinistra: la formula "lib-lib-lab" (i critici
"da sinistra" aggiungerebbero ancora altri "lib") è una
schematizzazione ironica e non del tutto legittima, ma fino a quando i teorici della terza
via non saranno riusciti a dimostrare la radicale "alterità" di questa
strategia politica rispetto alle tradizioni del passato, essi non potranno sfuggire a un
giudizio in questi termini.
Le cose possono sembrare un tantino differenti se osservate da un punto
di vista nazionale anziché da una prospettiva internazionale: mentre in questultimo
caso le due grandi tradizioni della sinistra sono quelle socialista e liberale, a livello
locale altre correnti ideologiche possono confluire nel grande fiume di una sinistra
"nuova" o allargata, e lanalisi di queste confluenze può risultare
significativa. In Italia, per esempio, la tradizione del cattolicesimo sociale si
collocava, fino a poco tempo fa, nella corrente di sinistra di un grande partito
centrista, la Democrazia Cristiana. Con la scomparsa di questo partito, i cattolici di
sinistra sono entrati a far parte della coalizione dellUlivo, ma insistono nel
sottolineare le motivazioni di ordine religioso che li hanno portati a sostenere la
sinistra, ed esigono che il programma della coalizione tenga esplicitamente conto della
loro visione delle cose (sulla famiglia, sulleducazione, sulle questioni
bio-etiche). Ciò non costituisce un problema per Blair, per Jospin, per Delors o per
altri leader socialdemocratici europei con profonde motivazioni religiose, ma è un
problema in questo paese, in cui il cattolicesimo sociale devessere riconosciuto
come uno degli ingredienti ideologici della nuova sinistra, insieme al liberalismo e al
socialismo. Si possono fare altri esempi, a livello nazionale, di differenti componenti
ideologiche: tuttavia, anche in queste "varianti nazionali" non vedo nulla in
grado di indurmi a modificare il giudizio che ho espresso con riferimento alle due grandi
tradizioni della sinistra a livello internazionale.
La natura del cambiamento
Come i teorici della terza via, anchio sono convinto che sia
intervenuto un profondo cambiamento nella situazione della sinistra, una trasformazione
che situerei nelle dimensioni del "mondo" e dellideologia, come ho già
detto. Di conseguenza, credo anche nella necessità di modificare le strategie politiche
della sinistra nelle società avanzate post-industriali. Il rinnovamento dovrebbe andare
soprattutto - come già accade - in direzione del riconoscimento dellimportante
contributo apportato dalla tradizione liberal-democratica e verso una maggior attenzione
ai nuovi problemi emergenti, come la parità tra i sessi e i rischi per lambiente e
lecosistema su scala mondiale (e questo purtroppo ancora non è accaduto). Nel
complesso, tuttavia, non ritengo trattarsi di un cambiamento della stessa natura epocale
di quelli che ho citato in precedenza: non fossaltro che per il fatto che
lideologia e la prassi dei principali partiti socialdemocratici europei hanno già
fatto molti passi verso lassorbimento dei valori e delle politiche
liberal-democratiche. In ogni caso, se riusciremo a trovare una espressione migliore di
"terza via" per indicare questo cambiamento, ritengo sarebbe utile adottarla.
Limportanza di un giudizio equilibrato
Una volta riconosciuta limportanza del cambiamento, dovremmo
prestare la massima attenzione allanalisi della sua natura e allaccertamento
delle sue autentiche dimensioni, per non gettare il bambino della sinistra insieme
collacqua sporca di concezioni invecchiate. Riconsideriamo brevemente le nostre
dimensioni analitiche.
1. Nella dimensione del "mondo" è altrettanto facile
sottovalutare che sopravvalutare la natura, lentità e la novità del cambiamento.
La globalizzazione e la rivoluzione tecnologica sono indubbiamente reali e concrete, ma il
parlare che si fa attorno ad esse è spesso ideologico e privo di senso: unottima
analisi critica (anche se con una certa tendenza a sottostimare il fenomeno) si trova nel
libretto di Frank Vandenbroucke, Globalisation, Inequality and Social-democracy
(IPPR, Londra, 1997). Per venire ai più importanti problemi nazionali, anche i mutamenti
intervenuti nellandamento demografico, nel mercato del lavoro e nello stato sociale
sono fatti concreti, ma anche qui si insinuano ideologia e sciocchezze, che inducono a
drammatizzazioni ed esagerazioni inutili.
2. Nella dimensione teorico-ideologica, occorre riconoscere appieno i
fallimenti delle vecchie tradizioni socialiste (tanto marxiste come non-marxiste). Ma da
questo non dovrebbe conseguire la necessità di abbracciare senza riserve le apologie
monetariste o neoclassiche riguardo alle virtù di un mercato privo di qualunque
restrizione. A livello nazionale come a livello internazionale, mercati completamente
liberi e privi di regole possono produrre drammatiche crisi economiche e soprattutto
rischiano di vanificare tutti i valori della sinistra: il fatto che dobbiamo vivere in una
economia di mercato (anzi, di più: che dobbiamo apprezzarne il contributo
allinnovazione, allo sviluppo e alla libertà) non dovrebbe impedirci di riconoscere
che il capitalismo è ancora una belva piuttosto feroce e non ha affatto perso quelle
caratteristiche che indussero sia i socialisti sia i liberali a cercare gli strumenti
politici in grado di domarla. Ed è anche probabile che la reazione contro il marxismo si
sia spinta un po troppo oltre, almeno nel mio paese: il marxismo (come strumento,
non come ideologia) può ancora generare preziose intuizioni sul funzionamento
delleconomia di mercato, come dimostra chiaramente il recente studio di Robert
Brenner su Economics of Global Turbolence (NLR. n. 229, 1998).
3. Per quanto riguarda infine la dimensione dei valori, non vedo alcuna
ragione per discostarci dal dibattito già in corso allinterno del compromesso
liberal-socialista. Mi lascia perplesso, in particolare, la sostituzione del dibattito
sulla "inclusione sociale" a quello sulluguaglianza, sostituzione che si
sta verificando du coté de chez Terza Via. Se presa sul serio, linclusione sociale
presenta le stesse esigenze delluguaglianza e non dovrebbe essere utilizzata come
una scusa per sbarazzarsi dei richiami alla solidarietà, richiami elettoralmente costosi,
ma che la sinistra non può rinunciare a proporre ai propri elettori.
Rischi e avvertenze
La cautela è necessaria perché il rischio di ricadere nelle versioni
opportunistiche delle "vecchie" politiche socialdemocratiche, o nelle versioni
altrettanto opportunistiche delle "nuove" strategie della terza via, è presente
e molto concreto. Ho già avuto modo di accennare a questo dilemma, ricordando che
esistono forti ragioni di ordine elettorale che possono indurre le politiche nazionali,
concretamente, a virare verso luna o laltra di queste strade. Potremmo fare
degli esempi sia in riferimento alle politiche del New Labour che a quelle
dellUlivo - dove il primo corre il rischio del rinnovamento opportunista (gettando
il bambino della sinistra, comunque la si voglia definire, insieme allacqua sporca),
e il secondo quello del conservatorismo opportunista (parlando di rinnovamento ma nei
fatti difendendo i clienti del vecchio stato sociale). Questo ci condurrebbe
immediatamente dal problema del "come dovrebbe essere" al problema del
"come è": per quale motivo in alcuni paesi la sinistra si sposta in una
direzione, e in altri paesi ne intraprende una completamente diversa?
A parte il retaggio sociale e culturale, la struttura del sistema
istituzionale e politico è di importanza cruciale, ancora una volta uneredità del
passato. La mia tesi è che la dipendenza dal percorso istituzionale del passato - e, più
in generale, la viscosità storica - giochi un ruolo difficilmente sopravvalutabile : la
sinistra può sicuramente cambiare, rispondendo a una nuova situazione socio-economica
internazionale e interna, ma cambia entro i limiti stabiliti da questa dipendenza storica,
a meno che .......
II a sessione:
Quali politiche di welfare per genere e famiglia:?
Chiara Saraceno
(Università di Torino)
Franca Bimbi
(Università di Padova)
Michael Rustin
(University of East London)
Genere, Famiglia e Welfare in Europa
di Chiara Saraceno
Le relazioni di genere sono state a lungo totalmente assenti nelle
analisi delle politiche e dei modelli dello stato sociale. Il concetto stesso di diritti
sociali, che informa in una certa misura lo sviluppo degli stati sociali e deriva dalla
tradizione laburista e socialdemocratica, è focalizzato molto più sugli uomini in quanto
lavoratori (a tempo pieno e posto fisso), che hanno così modo di esercitare i diritti
civili e politici, che non sulla necessità di superare le debolezze e le inadeguatezze
sociali derivanti dalla divisione di genere del lavoro.
Persino le politiche sociali che si rivolgono specificamente alle
donne, come il congedo per maternità e i servizi di cura all'infanzia, lo fanno dopo aver
fissato rigidamente da un lato la capacità di dare la vita come un elemento di debolezza
rispetto al lavoratore ideale, e dall'altro la responsabilità esclusiva della madre per
la cura dei propri figli come un dono naturale.
La cura dei figli è uno degli elementi che influiscono di più sulle
decisioni delle donne riguardo al lavoro; dunque la disponibilità di servizi di
assistenza ai figli può rappresentare la maggiore differenza sia tra i vari paesi, che al
loro interno, data anche la presenza ampiamente marginale dei padri nella cura dei
bambini.
La famiglia e lo stato genitoriale condizionano quindi pesantemente i
diversi diritti degli uomini e delle donne come cittadini. Ad esempio, uno studio svolto
nel 1988 in dodici paesi della Comunità Europea ha dimostrato che, ad eccezione della
Danimarca, i padri di figli minori di 4 anni non hanno quasi nessun ruolo nella cura degli
stessi, e ciò indipendentemente dal fatto che la madre lavori o meno. Solo in Danimarca
è stato riscontrato un alto grado di responsabilità congiunta verso i figli. Data questa
mancanza di coinvolgimento paterno, è dunque la disponibilità di buoni ed economici
servizi di assistenza all'infanzia che influenza la partecipazione al mercato del lavoro
da parte di madri con bambini in età prescolare. Una conclusione dello studio del 1988 è
stata che "l'unico grande problema nell'assistenza all'infanzia nella Comunità è
semplicemente la sua mancanza. La maggior parte dei genitori europei non possono scegliere
di andare a lavorare con la certezza che i loro bambini saranno ben assistiti o
curati" - dove la parola "madri" dovrebbe sostituire la parola
"genitori": i padri infatti ben raramente trovano impedimento ad entrare nel
mercato del lavoro a causa della mancanza di servizi all'infanzia. Viceversa, le madri
possono essere accusate non soltanto di "abbandonare" i loro figli a tali
servizi, ma anche di spostare costi e doveri a carico della collettività. I loro diritti
sociali, da questo punto di vista, sono meno istituzionalizzati e legittimati che non i
diritti dei lavoratori all'indennità di malattia e al servizio sanitario, già da lungo
tempo riconosciuti.
Particolarmente carenti sono i servizi per i bambini sotto i tre anni,
sebbene in paesi come il Regno Unito o il Portogallo siano scarsi anche i servizi di
scuola materna. Ad esempio, in Italia più dell'80 per cento dei bambini a partire dai tre
anni frequentano la scuola materna, mentre meno del 10 per cento di quelli sotto i tre
anni vanno al nido, sebbene ci siano ampie disparità a livello locale. Inoltre, mentre in
Danimarca Francia e Italia la maggior parte di tali servizi sono pubblici, nel Regno Unito
e in Portogallo non lo sono.
Anche le politiche concernenti i congedi di maternità e i congedi
parentali differiscono ampiamente da paese a paese all'interno dell'Unione Europea, così
come il grado e i criteri di compensazione del salario perduto. L'Olanda, il Regno Unito e
il Portogallo hanno i più bassi congedi pre e post nascita, l'Italia ha i più lunghi,
seguita da Francia, Spagna e Lussemburgo. Nel Regno Unito, che chiude la classifica anche
quanto a diritto di godere di tali congedi, la compensazione è vincolata alla
continuatività del lavoro con lo stesso datore di lavoro per almeno due anni a tempo
pieno o per cinque anni part-time. Molte lavoratrici part-time, che rappresentano
una ampia quota delle donne lavoratrici in questo paese, non godono dunque di nessuno di
tali diritti. In Italia, un paese che sembra molto generoso, non soltanto molte madri
lavoratrici non hanno tali diritti perché lavorano in nero o sono lavoratrici autonome;
ma persino lavoratrici regolari come le collaboratrici familiari e le persone di servizio
hanno diritto solo ad un breve congedo e a compensi molto ridotti.
I tassi di attività femminile sono influenzati meno dal numero di
figli, o addirittura dalla disponibilità di servizi di assistenza all'infanzia in quanto
tale, che non dalle strategie globali per far fronte agli obblighi familiari: vale a dire
dalla specifica combinazione di modelli culturali prevalenti rispetto al comportamento di
genere, agli obblighi familiari ed alle alternative disponibili. Fornire servizi
all'infanzia può non essere sufficiente se i valori culturali prevalenti sottolineano
l'obbligo della madre di occuparsi interamente dei bambini. Al tempo stesso, una madre
potrebbe decidere di entrare nel mondo del lavoro, nonostante la mancanza di servizi
all'infanzia, se percepisce il lavoro retribuito come una dimensione importante o
necessaria dei suoi obblighi di madre. Quest'ultimo caso sta diventando sempre più
frequente, non soltanto per il bisogno personale delle donne di un certo grado di
autonomia economica, ma per la crescente insicurezza sia del matrimonio che del lavoro
maschile. Infine, alla mancanza di servizi all'infanzia si può sopperire attraverso i
parenti, per la maggior parte le nonne, in situazioni in cui lo scambio di lavoro di cura
tra le generazioni sia una aspettativa condivisa e legittima.
Secondo una commissione di studio europea (Women of Europe
Supplements 1992), dal punto di vista dell'impatto del numero dei figli con la
disponibilità di servizi all'infanzia e con le strategie strutturate per far fronte agli
obblighi familiari, i paesi europei si possono suddividere in quattro categorie:
1) quelli in cui la nascita dei figli non influenza il tasso di
attività materna, poiché ci si aspetta che le donne siano presenti nel mercato del
lavoro ed esiste una larga offerta di servizi all'infanzia. È il caso dei paesi
scandinavi.
2) quelli in cui avere bambini ha un impatto minimale sui tassi di
attività femminile. È il caso della Francia in cui la percentuale di madri lavoratrici
non cala sensibilmente fino al terzo figlio. La stessa cosa sta accadendo negli ultimi
anni in Italia, sebbene con tassi di attività globale più bassi e con tassi di
fertilità molto inferiori. Si potrebbe pensare che in Italia le donne giovani riducano
"preventivamente" la loro fertilità al minimo, allo scopo di entrare o di
rimanere nel mercato del lavoro.
3) quelli in cui le difficoltà di combinare vita familiare e carriera
hanno come risultato il lavoro part-time. Questo é il caso della ex Germania
occidentale e del Regno Unito. Si deve ricordare che Germania est e Germania ovest avevano
approcci molto diversi verso il lavoro femminile e il supporto alle famiglie. Posti per
bambini sotto i tre anni in strutture assistenziali sono disponibili per meno del 3% di
bambini nella ex Germania occidentale, ma per il 56% nella ex Germania orientale. Dopo
l'unificazione, i servizi all'infanzia nelle regioni dell'est sono stati smantellati e il
modello tedesco occidentale di cura al bambino (da parte della madre) sta diventando
predominante per i bambini sotto i tre anni.
4) quelli in cui il tasso di attività femminile crolla con la nascita
del primo figlio, come nei Paesi Bassi e in Irlanda.
La cura dei disabili e degli anziani non autosufficienti
Un'analisi del tutto simile potrebbe essere svolta riguardo al lavoro
di cura per i disabili o per gli anziani non autosufficienti. Nel quadro di una
persistente natura di genere del lavoro di cura anche a questo livello, la presenza di
vincoli formali può differire in modo sostanziale ed avere quindi un impatto sia sulle
risorse e sui diritti di coloro che necessitano di cura, sia sulle condizioni e gli
obblighi delle donne in quanto fornitrici del lavoro di cura verso la famiglia. Millar e
Warman (Defining Family Obligations in Europe. The Family, the State and Social Policy,
1996) ad esempio raggruppano i paesi in quattro categorie principali in base al modo in
cui concepiscono gli obblighi familiari di prendersi cura di adulti disabili ed anziani
non autosufficienti:
1) nel primo gruppo, che include Italia, Spagna e Portogallo, esistono
obblighi legali tra i parenti a fornire reciproco supporto non solo in termini economici
ma anche di cura. Così, per esempio in Italia, l'assistenza domiciliare è fornita dai
comuni ad una doppia condizione: possono infatti riceverla soltanto persone disabili o non
autosufficienti a basso reddito e senza parenti, in particolare senza parenti donne. Si
deve comunque aggiungere che almeno in alcuni di tali paesi le persone totalmente invalide
ricevono dallo Stato una pensione e una indennità di accompagnamento. Nel caso di anziani
non aventi diritto ad una pensione da lavoro, essi ricevono una pensione sociale che è
quantificata solo sulla base del reddito del coniuge e non anche su quello dei figli.
Questo è il caso ad esempio dell'Italia.
2) Nel secondo gruppo, che comprende Grecia, Francia, Belgio,
Lussemburgo, Austria e Germania, gli obblighi legali si limitano ai figli. In questi paesi
comunque i costi dell'assistenza a lungo termine non coperti dalle assicurazioni per le
malattie sono pagati attraverso l'assistenza sociale locale, qualora la persona non possa
far fronte ad essi da sola. Lo stesso vale anche in alcune regioni d'Italia che rinunciano
ad avvalersi sul "parente responsabile". A causa di questo cambiamento nella
consuetudine, vale a dire nell'aspettativa che il parente debba fornire assistenza a lungo
termine o pagare per essa, in Germania e in Austria i sistemi di previdenza sociale ora
includono una "assicurazione di cura" obbligatoria.
3) Nel terzo gruppo (Regno Unito, Irlanda e potremmo includervi anche
gli Stati Uniti) non esistono obblighi legali né a fornire né a pagare per la cura di
adulti disabili o non autosufficienti. Tuttavia, come é avvenuto nel Regno Unito dopo
l'approvazione nel 1990 del Comunity Care Act, per reazione alle pressioni
finanziarie, i governi locali hanno iniziato a valutare e quantificare i mezzi non solo
dei coniugi ma dei figli adulti, nel caso di assistenza domiciliare a lungo termine. Come
osserva Millar dunque, a differenza ad esempio della Grecia, "lo scontento espresso
attraverso le organizzazioni di cura suggerisce che pagare per la cura dei parenti, siano
essi pure i genitori anziani, nel Regno Unito non è generalmente accettato come cosa
'naturalè". Attitudini del tutto simili sembrano del resto emergere anche in paesi
in cui gli obblighi familiari sono percepiti con radici più profonde e solide, come in
Italia.
4) Il quarto gruppo comprende paesi (come la Scandinavia e i Paesi
Bassi) in cui gli obblighi dello Stato verso adulti con necessità di cura sono resi
espliciti e in cui il sostegno è diretto al singolo e non alla famiglia. Sebbene persino
in questi paesi i figli adulti, ed in particolare le figlie, siano i principali assistenti
per molti anziani non autosufficienti, questi ultimi considerano l'accesso ai servizi
pubblici come un diritto, indipendentemente dalla loro situazione familiare, mentre
l'aiuto ricevuto dai figli o dai parenti è percepito come un di più derivante da una
scelta.
Solo in questo ultimo gruppo di paesi i servizi sono forniti per
garantire gli specifici diritti di coloro che devono ricevere l'assistenza,
indipendentemente dalla loro situazione familiare. In altri paesi l'offerta di servizi
può variare da un livello scarso e basato sulla non disponibilità di parenti, come in
Italia, Spagna e Portogallo, ad una maggiore disponibilità (ed a regolamenti più chiari)
in cui la situazione familiare e la disponibilità di parenti non sono valutate tanto per
l'accesso al servizio, quanto per il recupero di contributi finanziari. Nel primo caso, lo
stato è neutro riguardo agli obblighi - sia di genere che familiari - rispettivamente di
fornire cura e sostegno; nel secondo caso, non è neutro né riguardo agli obblighi di
genere di fornire cura, né riguardo agli obblighi finanziari della famiglia; nel terzo
caso, lo stato è neutro riguardo agli obblighi di genere di fornire cura, ma ma non
riguardo agli obblighi finanziari della famiglia. Naturalmente, la neutralità può
significare sia che esso non incoraggia uno specifico modello di genere, ma che de
facto accetta, e usa, quello che viene incoraggiato a livello sociale, o, al
contrario, potrebbe significare che lo stato incoraggia positivamente il riequilibrio o la
ri-negoziazione dei modelli di genere nel lavoro di cura. Apparentemente, una neutralità
attiva del secondo tipo si verifica soltanto - e anche allora, parzialmente - quando lo
stato fornisce una certa misura di risorse e servizi non-familiari come un vero e proprio
diritto sociale.
Le cose stanno complicandosi ulteriormente negli ultimi anni a causa
dell'introduzione sempre più diffusa di un qualche tipo di pagamento per il lavoro di
cura. Al di là delle differenze tra i paesi in cui il pagamento va a chi fornisce
assistenza e cura, e paesi in cui esso va a chi le riceve, sembra esistere una differenza
ancora più grande tra situazioni in cui il pagamento per l'assistenza mira a sostituire
altri tipi di servizi ancor più costosi (come ad esempio contributi di previdenza sociale
pagati a persone che ricevono assistenza e cura in Germania e Austria, per permettere loro
di pagarsi l'aiuto, oppure pagamenti fatti a persone che forniscono lavoro di cura alla
famiglia in alcune regioni d'Italia a condizione che ospitino un parente anziano) e
situazioni in cui tali pagamenti sembrano mirati a garantire più diritti sia a chi
fornisce lavoro di cura che a chi lo riceve, promuovendo un coinvolgimento maggiore della
famiglia. È questo il caso dei programmi svedese e norvegese, che impiegano membri della
famiglia concedendo però loro dei diritti, quali contributi per la pensione o indennità
di malattia: qui, tale reclutamento di membri della famiglia integra comunque una
prestazione di servizi generalmente buona. Tuttavia, in tutti questi programmi, sebbene i
confini tra stato e famiglia possano essere toccati molto diversamente a seconda del tipo
di "pacchetto assistenziale", risulta del tutto chiaro che sono soprattutto le
donne ad essere chiamate come prestatrici - più o meno pagate - di lavoro di cura e di
assistenza. Pertanto questa forma di sostegno può contribuire a ricreare o a riprodurre
la tradizionale struttura di genere negli obblighi di cura alla famiglia, esattamente nel
momento in cui ci sono meno figlie disponibili per questo tipo di lavoro. In Finlandia le
mogli anziane hanno recentemente perso de facto il diritto al pagamento del loro lavoro di
cura a causa dell'introduzione di una soglia d'età oltre la quale non si è più
riconosciute come fornitrici di tale lavoro: come se, implicitamente, la cura fornita
dalla moglie fosse definita un obbligo naturale, che ci si aspetta, e che dunque non deve
essere né riconosciuto né finanziato.
Un nuovo approccio verso le politiche sociali
Le politiche familiari possono creare varie barriere tra le famiglie,
tra i singoli e le famiglie, tra le famiglie e lo stato. Così, in Italia, Spagna e
Portogallo, persino gli obblighi attuati in virtù della legge superano i confini
domestici per comprendere un numero sostanzioso di parenti di sangue e acquisiti, mentre
in Germania e in Francia essi riguardano solo il nucleo familiare, con la parziale
eccezione dei genitori e dei figli adulti, i cui obblighi reciproci possono durare tutta
la vita; e nei paesi scandinavi la maggior parte degli obblighi reciproci cessano una
volta raggiunta l'età adulta, e persino i bambini sono percepiti come aventi diritti
propri, indipendentemente dalla loro appartenenza alla famiglia.
Il ruolo dello stato/governo in tutte queste diverse situazioni, ad
eccezione dell'ultima, è ben lontano dall'essere univoco o persino trasparente. Esso può
imporre in maniera positiva alcuni obblighi per mezzo di strumenti legali e costrittivi,
oppure semplicemente non fornendo alternative, o ancora offrendo incentivi positivi.
Leggere i contesti istituzionali e le aspettative sociali puramente come riflesso di
valori profondamente radicati comporta il rischio di ignorare sia i conflitti, che le
negoziazioni, le lotte di potere e gli squilibri alla base di essi, e le condizioni
specifiche del contesto in cui si sono sviluppate.
Al giorno d'oggi tutti i paesi sembrano, pur se in gradi diversi,
doversi confrontare con il compito di ridisegnare tali scenari sotto una tripla pressione:
- dei valori in trasformazione (ad es. riguardo alle relazioni di
genere e agli obblighi tra le generazioni);
- della crescente fragilità delle forme tradizionali di sostegno (sia
esso il sistema di previdenza sociale o gli accordi familiari/matrimoniali);
- delle restrizioni budgetarie.
I paesi affrontano questo compito da punti di forza diversi non solo
riguardo alla loro posizione rispetto alla divisione internazionale del lavoro e allo
stato della loro economia, ma anche rispetto alla loro storia politica e alla loro
cultura, incluse le concezioni familiari, i valori, le aspettative che esse incorporano.
Pertanto non è sorprendente che i paesi che finora hanno di più contato sulla
solidarietà e sugli obblighi estesi tra parenti e sulla divisione di genere del lavoro
(come in Italia o in Spagna) e che ora subiscono sia severe restrizioni budgetarie che
alti livelli di disoccupazione, trovino una soluzione apparentemente facile al crescente
disequilibrio tra i bisogni e le risorse facendo appello ad una rafforzata solidarietà
familiare, se possibile supportata da un qualche genere di pagamento per il lavoro di
cura. Sebbene ciò possa limitare ancor più le scelte della famiglia, e in particolare
delle donne, limitandone anche la fertilità, tuttavia soluzioni/visioni alternative
appaiono difficili da elaborare in maniera tale da poter guadagnare il consenso necessario
a ridisegnare l'intero contesto delle politiche sociali, ed i patti in esse impliciti.
Questa soluzione è meno prontamente disponibile, o non lo è affatto, nei paesi in cui
gli obblighi familiari estesi sono meno, o affatto, legittimati e supportati da politiche
istituzionali e dove le relazione di genere sono meno asimmetriche. Certamente esistono
rischi di una ri-familiarizzazione di genere degli obblighi, come abbiamo rilevato nel
caso del lavoro di cura pagato. Ma una forte cultura dei diritti sociali individuali
richiede che la ridefinizione dei limiti e degli obblighi sia attentamente rinegoziata.
Alcuni hanno affermato che un utile indicatore nella costruzione delle
tipologie dello stato sociale potrebbe essere il grado in cui i diritti sociali ed
economici sono garantiti alle persone di tutte le età e di qualsiasi condizione
familiare, o, al contrario, dipendono dalle diverse situazioni familiari. Da questa
prospettiva è stato suggerito il concetto di "defamilizzazione" per indicare
"i termini e le condizioni ai quali le persone si strutturano in famiglie, e il
livello a cui esse possono sostenere un tenore di vita accettabile indipendentemente dalla
famiglia (patriarcale)". In una situazione, comune a tutti i paesi industrializzati,
in cui gli obblighi sociali riposano su una cerchia più piccola di persone, e su legami
familiari più fragili, il grado di defamilizzazione potrebbe essere decisivo per il
benessere dei singoli e delle famiglie quanto lo è la forza degli stessi obblighi
familiari.
La defamilizzazione non comporta la rottura dei legami familiari. Con
le parole degli autori citati: "Il punto non è se le persone sono completamente
"defamilizzate", ma piuttosto il grado in cui i pacchetti di previdenza sociale
alterano l'equilibrio di potere tra uomini e donne, tra dipendenti e non-dipendenti, e
quindi i termini e le condizioni a cui le persone si impegnano in accordi familiari o di
cura". In altre parole, la questione non è indebolire le responsabilità familiari e
rendere indeterminata l'interdipendenza familiare. È piuttosto supportarle, alleviando
alcune delle costrizioni che ne derivano.
Ciò porta a mettere a fuoco la domanda di cosa si possa intendere per
supporto alla famiglia. Se esso significa mettere in grado la famiglia ed i suoi membri di
prendersi cura gli uni degli altri, sostenere gli obblighi che essi liberamente accettano
di assumere, senza al tempo stesso creare squilibri di potere, iper-dipendenze, circuiti
senza uscita, un certo grado di defamilizzazione potrebbe diventare la base su cui
potrebbero essere negoziati nuovi contratti tra individui-famiglia-stato. Al contrario, la
iper-familizzazione, o una ri-familizzazione forzata delle responsabilità e dei diritti
individuali, potrebbe avere come effetto un sovraccarico che, a sua volta, potrebbe
causare ulteriori problemi sociali (ad es. povertà, esclusione sociale), oppure un
rifiuto totale di assumere obblighi familiari, sia attraverso un comportamento
(non)riproduttivo, sia attraverso il rifiuto di ottemperare ai propri obblighi verso
parenti adulti con necessità di assistenza. L'abbandono e l'ospedalizzazione dei disabili
e degli anziani non autosufficienti forse non è che la reazione, ancora ampiamente
minoritaria, ad obblighi strutturati esclusivamente in termini familiari, dove lo stato
interviene solo come estrema alternativa e non come un interlocutore forte e
"normale".
La mancanza di specifici diritti sociali nell'ambito dell'assistenza
esplicitamente o implicitamente demandata agli obblighi familiari potrebbe avere come
conseguenza - come avviene in Italia - una alta differenziazione di politiche e misure a
livello locale, nello stesso paese. Tale fenomeno, a sua volta, determina lo sviluppo di
ciò che altrove ho chiamato "sistemi locali di cittadinanza".
Altri possibili effetti perversi dell'iperfamilismo nell'erogazione di
risorse e servizi e nella definizione degli obblighi interpersonali sono la rivolta e
l'evasione fiscale. Si potrebbe riflettere sul fatto che quei paesi in cui il grado di
defamilizzazione è più basso sono anche quelli dove la rivolta fiscale ha più voce, e
dove a volte l'evasione fiscale è più alta: l'iperfamilizzazione potrebbe anche
testimoniare di un'incapacità a creare la base della responsabilità civile, in una
riedizione contemporanea dei perversi effetti sociali del "familismo amorale".
Il ricorso al self-help, al volontariato, a gruppi senza fini di lucro, da questo
punto di vista, in assenza di un chiaro contesto di diritti e doveri sociali e di
cittadinanza, non rappresenta una soluzione. Da un lato, infatti, esso può aumentare
l'uso e l'offerta discrezionali di risorse, incrementando così le differenze e le
diseguaglianze sociali locali tra i singoli e tra le famiglie; dall'altro, analogamente
alla solidarietà intrafamiliare, esso può convivere fianco a fianco con un basso grado
di integrazione e solidarietà sociali al di fuori di quella del piccolo gruppo scelto. In
realtà, nei contesti sociali e politici in cui la struttura di cittadinanza istituzionale
e simbolica è debole, le associazioni e le attività di volontariato possono agire in due
opposte direzioni: come strumento per attivare una cultura civile di diritti e obblighi;
come strumento per offrire scuse autoassolutorie a chi non ha sviluppato tale cultura,
rimanendo invece tra i propri "eletti", o pari.
Così la famiglia, nei suoi comportamenti, ma anche nelle forme della
sua concettualizzazione è, e sarà sempre più, al centro del pensiero e dell'azione
delle politiche sociali. E le politiche familiari sia esplicite che implicite sono, e
saranno sempre di più, il fulcro di tali politiche.
Paradigmi familiari e diritti delle donne nel Welfare State italiano
di Franca Bimbi
In Italia, i figli vivono insieme ai genitori fino al momento del
matrimonio, e si fanno mantenere fino a quando vivono in famiglia, e questo anche in
famiglie dove solo uno dei genitori lavora, e indipendentemente dal loro avere un reddito
indipendente o meno (cfr. Scabini e Donati, 1988; De Sandre et al., 1997). Tuttavia,
nonostante il fatto che la responsabilità di mantenere e provvedere alle necessità dei
figli sia protratta tanto a lungo, e malgrado lenfasi morale e ideologica sulla
famiglia posta da tutti i partiti politici, si avverte una generale carenza di politiche
familiari (Gauthier 1995), tratto distintivo e persistente del periodo del dopo guerra
(Bimbi 1997a; Bimbi e Della Sala, 1998; Saraceno 1998). Le cause di questa carenza vanno
ricercate in tre direzioni. Prima di tutto dobbiamo ricordare che esiste ancora una
profonda reazione al fascismo il quale, per la prima e unica volta nella storia italiana,
aveva varato una politica esplicitamente pro-natalista e aveva assunto una posizione
categorica nei confronti delle madri nubili (Saraceno, 1991; De Grazia, 1992); In secondo
luogo, il modello di stato sociale affermatosi nel dopoguerra nei paesi del Mediterraneo
aveva dato vita a un lungo periodo di assistenza familiare a bambini e parenti (Bettio e
Villa, 1993), sostenuto da una legge sugli "obblighi parentali" oltre che da una
residuale responsabilità dello stato nei riguardi dellistituzione familiare
(Trifletti, 1997). Ciò significa, tra laltro, che lo stato organizza le proprie
attività riconoscendo al contempo la legittima priorità del gruppo familiare nel mediare
i diritti individuali. In terzo luogo, la tendenza demografica caratteristica, ovvero la
presenza di cambiamenti profondi pur nella continuità dellimportanza attribuita
alle forme tradizionali di legami matrimoniali e intergenerazionali evidenzia
legemonia di un modello culturale largamente condiviso, il cui tratto distintivo è
limportanza del nucleo familiare.
La famiglia, comunque la si voglia definire nei vari stadi del ciclo
vitale, conserva il suo ruolo tradizionale: continua ad essere vista come il sistema
primario di protezione sociale, indipendentemente dai rapporti che lindividuo
intrattiene con il mercato del lavoro e dai diritti dei singoli membri riconosciuti dallo
stato sociale. È questo modello culturale a conferire alla natura sessista dello stato
sociale le strutture che gli sono tipiche.
A partire dalla fine degli anni sessanta, lItalia ha varato una
serie di politiche apparentemente progressiste che riguardavano direttamente le donne, nel
lavoro dipendente e nella cura dei figli: gli accordi per la parità della retribuzione
(1962-63), lintroduzione del tempo pieno nelle scuole (1968), gli asili nido
finanziati dalla spesa pubblica (1971), le nuove regole per il periodo di maternità
(1971) e la legge sulla parità tra i sessi (1977). Tali politiche tuttavia non
riflettevano né produssero cambiamenti sostanziali nella concezione della responsabilità
delle donne per quanto riguarda la cura dei figli né per la distinzione tra i sessi in
ciò che concerne limpegno allinterno della famiglia (Bimbi, 1997b).
Queste politiche non hanno mai dato vita a un quadro coerente di
politiche familiari a causa dei conflitti ideologici e dei compromessi pratici
inerenti la natura della famiglia e le limitazioni alla libera scelta delle donne
in materia di procreazione. La condotta dei due maggiori partiti politici, la Democrazia
Cristiana (Dc) e il Partito Comunista Italiano (Pci) dalla seconda guerra mondiale in poi
è stata caratterizzata dalla ricerca del compromesso, e lo stesso accade oggi tra il
Partito Popolare Italiano (Ppi) e il Partito Democratico della Sinistra (Pds) .
Ciononostante, il conflitto ideologico riaffiora di continuo, grazie allinfluenza
della Chiesa cattolica e alle richieste di garanzie allinterno del sistema politico
da parte della Chiesa stessa, richieste fattesi sempre più pressanti con il declino della
sua influenza allinterno della sfera dei comportamenti sessuali e familiari dei
singoli individui.
Il timore di un riaccendersi di tale conflitto ideologico potrebbe
spiegare il paradigma dominante delle politiche familiari, quello che definiamo il
"paradigma familiare" secondo il quale la cura della crescita dei figli ricade
interamente sulla famiglia, e la responsabilità della cura della famiglia ricade
interamente sulle donne. Questo concetto non è stato quasi mai messo in discussione nei
programmi politici dei principali partiti, almeno fino alla fine degli anni ottanta e
allinizio dei novanta. Il progredire delle politiche sociali nel corso degli anni
settanta ha innescato un lento processo di erosione del "paradigma familiare",
ma non ne ha mai intaccato la posizione dominante nella determinazione delle politiche
familiari.
Il ruolo e la natura della famiglia e la definizione del ruolo
"naturale" delle donne hanno rappresentato un elemento di tensione nella stesura
della Carta Costituzionale (1946-47) e nel corso delle discussione del nuovo diritto di
famiglia (1970), dellintroduzione del divorzio (1970) e della legge sullaborto
(1978), ma la classe politica nel suo insieme continua ad evitare di confrontarsi sulla
politica familiare. Dal dopoguerra ad oggi, la politica del consenso che domina in Italia
ha lasciato ben poco spazio a un dibattito politico aperto e libero riguardo alle
politiche familiari, alla concezione delle responsabilità delle donne per quanto riguarda
la crescita dei figli e la suddivisione del lavoro domestico.
Lenigma italiano consiste nel motivo per cui il verificarsi di
importanti cambiamenti nella politica dello stato sociale non ha di fatto messo in
discussione il "paradigma familiare" (Saraceno, 1994). Lintroduzione di
politiche intensive per la famiglia e di una nuova rappresentazione della responsabilità
femminile nella crescita dei figli e nella suddivisione del lavoro domestico potrebbe
minacciare una serie di compromessi politici e istituzionali in materia di famiglia e di
diritti femminili considerati essenziali per il consolidamento delle strutture
democratiche liberali.
1. La rappresentazione del ruolo delle donne e della famiglia, pur non
occupando un ruolo prominente, è stata un punto cruciale nei dibattiti
dellAssemblea Costituente, nel biennio 1946-47. A livello politico-istituzionale, il
conflitto ideologico si incentrava sulle diverse concezioni del ruolo delle donne e della
famiglia. Lideologia cattolica considerava, da una parte, il rapporto stato-famiglia
alla luce del principio di sussidiarietà (Welty, 1966) e definiva la famiglia come una
cellula sociale basata sul diritto naturale; dallaltra parte, individuava nella
dottrina cattolica il fondamento della regolamentazione morale, legale e sociale della
famiglia. In questottica, la concezione delle donne allinterno del mercato del
lavoro risultava dipendere da quella delle donne come madri, mogli e responsabili
dellandamento della casa. La posizione comunista non era peraltro meno ambivalente
(Togliatti, 1965). Da una parte, il Pci sosteneva la necessità di riconoscere pari
diritti alle donne, con particolare riferimento ai diritti economici, come la parità
nella retribuzione e nella sicurezza del posto di lavoro. La rappresentazione delle donne
come lavoratrici si incentrava essenzialmente sulla loro posizione allinterno
dellindustria. Dallaltra parte, i comunisti ben di rado osavano sfidare le
premesse fondamentali del "paradigma familiare" e non fecero alcun tentativo per
affermare, allinterno dei loro programmi politici, una diversa concezione delle
donne e della responsabilità della crescita dei figli, per non mettere a repentaglio il
loro obiettivo fondamentale, quello di consolidare la democrazia italiana e di ottenere
una legittimazione in quanto partito impegnato nella fedeltà ai principi fondamentali
della Repubblica. La conseguenza di tutto ciò fu una fondamentale ambiguità della
Costituzione del 1947 nei confronti dei diritti delle donne, in tre settori cruciali.
Il primo di essi è la stessa definizione di cittadinanza.
Larticolo 3 sottolinea luguaglianza di tutti i cittadini "senza
distinzioni di sesso" e allo stesso tempo obbliga i legislatori ad agire con
lobiettivo di rimuovere tutti gli ostacoli che possono "impedire il pieno
sviluppo della persona e leffettiva partecipazione di tutti i lavoratori". La
Costituzione adotta implicitamente un approccio favorevole alla pari opportunità per
tutti, benché lespressione "pari opportunità" sia stata introdotta in
Italia solo negli anni ottanta;
Tuttavia, fino agli anni settanta questa spinta verso il "pieno
sviluppo della persona" non ha apparentemente mai messo in discussione il ruolo
preminente delle donne come mogli e madri. Né è sembrato che la definizione del posto
"naturale" delle donne allinterno delle pareti domestiche potesse
risultare in alcun modo conflittuale con le garanzie di "partecipazione di tutti i
lavoratori" alla gestione politica ed economica della società. Le differenze tra i
sessi entravano nella definizione di "lavoratore" soltanto in riferimento ad
alcune funzioni tipicamente familiari assunte dalle donne.
Tutto ciò emerge con particolare chiarezza ove si considerino i
diritti delle donne in quanto cittadini sul piano professionale ed economico. La
Repubblica era "fondata sul lavoro", e larticolo 37 della Costituzione
impone uguali diritti e uguale retribuzione "per uno stesso lavoro", ma allo
stesso tempo offre alle donne lavoratrici una protezione specifica, allo scopo di
"consentire loro di adempiere le loro essenziali funzioni allinterno della
famiglia".
Infine la Costituzione Italiana stabilisce esplicitamente un limite al
riconoscimento dei rapporti familiari: la famiglia è definita come una "unità
sociale naturale fondata sul matrimonio", e la parità "morale e giuridica"
tra "marito e moglie" è definita "allinterno dei limiti fissati
dalla legge per garantire lunità della famiglia" (articolo 29).
Su tutte le questioni riguardanti la famiglia, la sinistra italiana si
è sempre dimostrata particolarmente attenta alle richieste della Chiesa cattolica. Per
questo, pur mantenendo il suo carattere riformista e adoperandosi per promuovere il
diritto al lavoro, la Costituzione è stata a lungo dominata da una concezione delle donne
come mogli e come madri. Allo stesso tempo essa sanciva il Concordato con la Chiesa
cattolica (articolo 7) e offriva di fatto la copertura dei diritti costituzionali solo
alle famiglie "legittime" (con la parziale eccezione della difesa dei diritti
dei figli nati fuori dal matrimonio). È quindi unideologia cattolica quella che sta
alla base del modello sociale dellidentificazione dei sessi.
Il modello di tale identificazione può anche essersi trasformato
sia nella legislazione sia nella percezione della popolazione in generale ma
lambiguità della Costituzione serve ancora a spiegare alcuni dei profondi conflitti
che lacerano lItalia in materia di ruolo sociale delle donne (Bimbi, 1993).
Il compromesso raggiunto sulla definizione di nucleo familiare non
subisce alcuna modifica fino agli anni settanta, perché i due principali partiti
italiani, il Pci e la Dc, mettendo da parte per una volta le loro differenze ideologiche,
erano entrambi concordi nellattaccare la mentalità consumistica che sottendeva ai
nuovi schemi di comportamento delle classi medie e dei lavoratori. Negli anni sessanta la
"American way of life" secondo cui il reddito familiare serviva a
soddisfare le esigenze e i desideri individuali, era considerata il nemico principale dei
tradizionali rapporti gerarchici allinterno della famiglia. Lideologia
cattolica guardava ancora indietro, al mondo contadino, come alletà delloro
dellautorità familiare (Guizzardi, 1982), dellimpegno e del sacrificio,
mentre la sinistra tendeva a interpretare lesigenza espressa dalle donne di poter
accedere ai beni di consumo e agli elettrodomestici come un tradimento
dellemancipazione da raggiungere attraverso il lavoro produttivo, e un ritrarsi
verso il modello borghese della casalinga improduttiva. Nelle famiglie dei lavoratori, che
vi dominasse linclinazione social-comunista o quella cattolica, lautorità del
capofamiglia maschio continuava a regnare incontrastata: lingresso delle donne nelle
fabbriche e negli uffici sollevava il problema della loro emancipazione in quanto
lavoratrici, non in quanto donne.
Questa mistica della famiglia ha portato allidea
dellesistenza di un mondo privato autosufficiente per ciò che riguarda le esigenze
della vita quotidiana. Fino alla metà degli anni sessanta, la Chiesa cattolica era
considerata come l "ente" naturale in grado di fornire assistenza sociale
ai bambini e agli anziani, ed era pertanto il percipiente quasi esclusivo dei fondi
statali (Fargion, 1998). Lo stato stesso si occupava direttamente soltanto dei casi di
estrema indigenza, offrendo ai poveri un aiuto per accedere al quale era necessario
esibire la cosiddetta "carta di povertà", il cui possesso era di per sé una
stigmatizzazione sociale.
Tuttavia in questo stesso periodo lo sviluppo economico, industriale e
urbano suscita nuove necessità che portano alla costruzione di uno stato sociale e, di
conseguenza, alla legge del 1968 sulle scuole statali a tempo pieno e a quella del 1971
sugli asili.
Per controbilanciare la possibilità di accedere ai nidi, nel 1971 la
Dc varò una nuova legge sulla licenza obbligatoria per le lavoratrici in maternità, che
garantiva a qualunque categoria di lavoratori dipendenti un permesso di venti settimane
allottanta per cento dello stipendio (a stipendio pieno nella Pubblica
amministrazione). Se proprio le madri dovevano lavorare, se non altro avrebbero goduto di
maggiori diritti nel periodo di maternità, anziché dover dipendere dai servizi sociali
esterni.
Viste nella prospettiva attuale, ci si accorge che tutte queste leggi
sono risultate fondamentali per la diffusione, tra le donne, delle esigenze di piena
cittadinanza sociale. In particolare, le leggi sulle scuole materne e gli asili nido
pubblici non andava a sfidare il paradigma familiare concernente la responsabilità
femminile nella cura dei figli, ma consentì ai collettivi femministi di fare la loro
comparsa sulle scene. La svolta femminista nellapproccio politico e concettuale ai
diritti delle donne puntava in direzione di una possibile rottura con le ambiguità e i
compromessi in tema di politiche familiari e di definizione sociale delle donne così come
era stata fissata dalla Costituzione.
2. Negli anni settanta i servizi sociali italiani passarono dalla
rappresentazione di un modello residuale decisamente minimale di previdenza sociale alla
prospettiva di un vero e proprio stato sociale istituzionale. Allo stesso tempo, il
dibattito femminista circa lidentità delle donne e la definizione dei loro diritti
per ciò che riguardava le loro scelte in materia di procreazione, si trasformò in un
dibattito parlamentare sui diritti civili.
Il dibattito sulla famiglia si spostò dallemancipazione delle
donne attraverso il lavoro per trasformarsi in un conflitto sulla ridefinizione delle
gerarchie sessiste e generazionali.
Lelemento che più di ogni altro spinse in direzione di questo
cambiamento di prospettiva fu il Movimento Femminista, che esercitò una influenza
fondamentale sulla politica italiana negli anni tra il 1970 e il 1978 (Calabrò e Grasso,
1985). In questo periodo le nuove leggi sulla famiglia, sul divorzio e sullaborto
sfidarono il patto sulla condizione sociale delle donne negoziato in precedenza tra le
varie forze politiche.
Negli anni settanta il femminismo influenzò profondamente i rapporti
fra le tre principali forze politiche: i cattolici (istituzionalmente rappresentati dal
partito della Democrazia Cristiana e sostenuti dalla Chiesa cattolica), i comunisti
(rappresentati dal Partito Comunista) e i laici-liberali (rappresentati dai partiti
socialista, repubblicano e liberale, Psi, Pri e Pli). Il termine "laico" è qui
usato in riferimento a quei partiti politici tradizionalmente associati a una ferma
opposizione ai tentativi della Chiesa cattolica di interferire nella vita politica della
nazione.
Questultimo gruppo di partiti aveva tentato fin dagli anni
cinquanta di introdurre una legislazione che consentisse il divorzio, ma si era scontrato
con lopposizione (di genere diverso) tanto dei cattolici come dei comunisti. Infatti
il Pci aveva adottato una linea pro-famiglia sia per soddisfare il suo elettorato,
composto di lavoratori con una mentalità fondamentalmente patriarcale) sia per evitare di
inimicarsi eccessivamente la Chiesa cattolica (da essi considerata una potente forza
popolare che poteva rivelarsi un validissimo alleato). Nel referendum del 1974 i comunisti
si trovarono costretti, sia pure controvoglia, a difendere il divorzio. Durante la
campagna per il referendum popolare si mossero con estrema cautela, cercando di affermare
unimmagine del loro partito come difensore dellunità familiare e un
oppositore del cosiddetto "individualismo" di cui il femminismo era un
rappresentate tipico.
La legge sul divorzio dimostrò comunque che lopinione dei
cattolici non era quella che la Chiesa e la Dc avevano immaginato. Gruppi di cattolici
praticanti, uomini e donne insieme a gruppi di femministe cattoliche si
batterono in favore della legge, e anche in quelle aree in cui la Dc aveva la maggioranza
assoluta (il Sud e le regioni del Nord-Est) i voti contrari alla sua abrogazione
risultarono assai più numerosi del previsto (Caciagli e Spreafico, 1990). Il voto sul
divorzio mostrò anche limportanza del movimento femminista come effettiva voce
politica delle donne. In effetti lesito referendario ebbe ripercussioni assai più
estese e profonde di quanto ci si potesse aspettare, considerato il peso politico dei
partiti cosiddetti "laici-liberali".
In questa situazione divenne possibile anche lapprovazione di una
legge sullaborto. In questo caso però non vi fu praticamente nessun gruppo
cattolico a sostenere le nuove misure. Allepoca il femminismo incominciava a pesare
anche allinterno del Pci. Le manifestazioni di massa in favore della legge vedevano
marciare insieme donne comuniste e femministe, e allinterno del partito stesso le
donne iniziavano a far sentire la propria voce.
Il femminismo italiano vide così la fusione di due diversi approcci
culturali: il primo, quello liberal-radicale, considerava la liberazione delle donne in
termini di autodeterminazione nella sfera della sessualità e della famiglia; il secondo
si fondava su un genere di opposizione al sistema caratteristico del pensiero marxista.
Guardandolo oggi, lesito più evidente dei cambiamenti avvenuti in quel decennio
sembra essere la trasformazione della tradizionale economia della gratuità. Il ruolo
delle donne, tanto nella procreazione come nella vita familiare, è stato ridefinito
allinterno di un nuovo scenario di diritti sociali e civili concernenti
listituto della famiglia.
Le battaglie femministe a favore del divorzio e dellaborto
agevolarono la ricerca di un accordo tra i partiti rappresentati in Parlamento sulle
riforme del diritto di famiglia. Essi ritennero loro dovere di rendere formalmente
democratica listituzione familiare, riconoscendo la sovranità della coppia
allinterno di una visione organica dei diritti della famiglia. Il conflitto fu
particolarmente acceso su quelle leggi che proponevano una visione dei rapporti familiari
in termini di diritti individuali. La maggior parte dei pronunciamenti della Chiesa erano
volti a ricordare ai cattolici e anche al governo italiano che i diritti
individuali erano subordinati a quelli della famiglia in quanto nucleo collettivo (in
particolare, per quanto riguardava la procreazione e il matrimonio). Nonostante ciò, la
legge sullaborto non soltanto stabilì che il corpo di una donna è di sua
proprietà, ma anche che le donne hanno maggiori diritti di pronunciarsi sul destino
dellembrione dei loro partner maschi (Ergas, 1986). Fu questa la prima legge a
prevedere delle circostanze nelle quali lo status giuridico di una donna aveva la
precedenza su quello delluomo, e fu la prima misura di discriminazione positiva
nella storia del diritto italiano.
Dopo lapprovazione del nuovo diritto di famiglia (1970) e della
legge sullaborto (1978), il dibattito si spostò dalla definizione di donna e di
famiglia a temi meno conflittuali quali le pari opportunità nel mercato del lavoro (leggi
in tal senso furono varate nel 1977, nel 1983 e nel 1991). La cittadinanza sociale delle
donne intesa come questione di diritti formali e di uguali opportunità nel settore
del lavoro dipendente e dello stato sociale non era un tema centrale per il
femminismo degli anni settanta, più interessato ad affermare le discriminazioni sessuali
nei diritti civili, a ricercare la liberazione personale attraverso le pratiche
dellautocoscienza e/o ad attivarsi come opposizione politica al sistema. Furono le
femministe allinterno del sindacato (che fecero la loro comparsa alla fine del
decennio in questione) ad avviare la discussione sulle pari opportunità e
largomento fu in seguito ripreso dalle donne allinterno dei diversi partiti
politici. La facilità con cui il Parlamento approvò, nel 1977, la legge sulla
"parità tra i sessi nelle condizioni di lavoro", si deve in parte anche alle
donne democristiane (il ministro per il lavoro era allora Tina Anselmi, che fino al 1994
fu anche presidente della Commissione Nazionale per le pari opportunità). La legge in
effetti sanciva una situazione già esistente, rafforzando il potere dei sindacati e
legittimando la crescente presenza di donne istruite e qualificate allinterno del
mercato del lavoro (Franchi et al., 1987). La storia del sindacalismo femminista ci
fornisce un tipico esempio dei rapporti che si erano andati gradualmente affermando tra il
movimento femminista e le forze politiche che rappresentavano le donne (Beccalli, 1985).
Il femminismo è stato un terreno di coltura fondamentale per il Pci a partire dalla metà
degli anni settanta (cioè dalle elezioni amministrative del 1975 e dalle politiche
dellanno successivo). Questo sviluppo condusse a una certa istituzionalizzazione del
Movimento con alcune delle sue leader che andavano ad assumere un ruolo attivo
allinterno dei partiti e dei sindacati e anche a una situazione in cui i
partiti si rendevano disponibili a portare avanti temi cari al femminismo (è il caso
della legge sullaborto e di quella sulla violenza sessuale).
3. La crisi allinterno del movimento femminista e nella
concezione dello stato sociale divenne evidente a partire dalla fine degli anni settanta.
Era una crisi che si collocava allinterno del collasso generale nellequilibrio
precedentemente raggiunto dal sistema politico italiano. Tra lassassinio di Aldo
Moro ad opera di un gruppo terroristico (1978) e il vero e proprio crollo del sistema
politico dominato dai partiti che avevano concordemente dato vita a una democrazia non
competitiva (1992), il mondo era completamente trasformato.
A partire dalla fine degli anni settanta il Movimento femminista in
quanto movimento di protesta iniziò a sprofondare in una crisi interna ed esterna.
Allinterno dei gruppi femministi, le donne divennero più interessate ai cambiamenti
nello stile di vita e nel coinvolgimento culturale che non nellazione politica
indipendente (Boccia, 1987). Questo approccio condusse alla nascita di centinaia di
piccoli gruppi coinvolti in attività socio-culturali (sparsi un po ovunque nei
grandi centri urbani e nelle cittadine del nord e del centro e, sia pure in misura minore,
anche nel sud del paese). Le donne davano vita ad attività che si occupavano di ricerche
sociali, storiche e antropologiche, agenzie che fornivano consulenze alle amministrazioni
locali sia nellarea della ricerca sociale applicata sia nella formazione del
personale. NellItalia centrale e settentrionale, la cultura dei servizi sociali è
spesso sfociata in un coinvolgimento politico diretto delle femministe nelle
amministrazioni locali: le donne sono da tempo presenti in forza nei consigli e nelle
amministrazioni comunali, fanno parte della forza lavoro intellettuale responsabile della
gestione dei servizi sociali e si sono ormai affermate come leader politici a livello
locale.
Nel complesso possiamo affermare che a partire dal 1977 il femminismo
italiano entra in crisi perché pretende di incidere sul dibattito politico a livello
socio-culturale anziché a livello decisionale. Fa sentire la sua voce indipendente nel
dibattito culturale, ma non riesce ad agire come gruppo indipendente di pressione
allinterno dellarena politica. Un esempio di tali difficoltà lo si può
trovare nel dibattito sulla nuova legge in materia di violenza sessuale, nel corso del
quale fu sollevata la questione della inviolabilità dellintegrità fisica della
persona (le vecchie norme proteggevano le donne soltanto in nome della "moralità
pubblica e del pudore"). Il tema era emerso allinterno del Movimento alla fine
degli anni settanta, ma la nuova legislazione sullo stupro, approvata nel 1996, fu
interamente discussa e negoziata in Parlamento e tra le donne parlamentari dei diversi
partiti.
Anche dopo il 1996, quando il primo governo che vedeva la
partecipazione dellex partito comunista (ora Pds) insieme a una parte dellex
partito democristiano (ora Ppi) ha istituito il ministero delle Pari opportunità, i
gruppi femministi non sembrano comunque in grado di far sentire la loro voce indipendente
allinterno del dibattito politico.
Per quanto riguarda lo stato sociale, a partire dai primi anni ottanta
(Paci, 1982; Ascoli, 1984) le difficoltà finanziarie hanno introdotto due nuovi temi nel
dibattito politico sulla questione: la considerazione di una ottimale commistione tra
pubblico e privato, e la ridefinizione della solidarietà sociale (Ascoli, 1987; Paci,
1989; Ferrera, 1993). Di conseguenza sembrano esservi crescenti aspettative sulle famiglie
(leggasi sulle donne) le dovrebbero farsi carico della maggior parte delle responsabilità
riguardanti lassistenza ai bambini e agli anziani. Il dibattito sulla solidarietà
sociale ha posto un nuovo accento sui legami familiari e sullimportanza centrale
delleconomica della gratuità per il funzionamento del sistema della riproduzione
sociale. Ancora una volta si dà per scontato, almeno come affermazione implicita, che le
donne sono le protagoniste assolute del buon andamento della riproduzione sociale.
Negli anni ottanta e novanta si riaccese nuovamente il dibattito sulle
nuove esigenze e sulle possibili direzioni che la politica familiare doveva intraprendere
(Comitato, 1994). Bastava menzionare o non menzionare affatto la
"famiglia" o le "famiglie" in una bozza di legge o in una proposta di
intervento per scatenare accesissime discussioni tra i vari movimenti politici e culturali
coinvolti, ben prima che fosse possibile accertare leffetto che le misure proposte
avrebbero sortito. A ciò sottostanno due domande fondamentali. La prima, quale
definizione della famiglia avrebbe dovuto costituire la base di queste politiche? E la
seconda, fino a che punto le donne dovrebbero poter far valere la loro indipendenza in
materia di procreazione e di maternità? La definizione di una politica sociale per la
famiglia dipende dalle risposte a questi interrogativi.
Negli anni ottanta e novanta il tema dellindipendenza delle donne
nella procreazione è stato oscurato da un nuovo interesse nei confronti della famiglia.
Il dibattito sul modello familiare che dovrebbe sottendere alle politiche sociali è stato
ripreso agli inizi dello scorso decennio. I punti principali su cui verte il dibattito
riguardante le politiche sociali per la famiglia sono i seguenti: come responsabilizzare
ulteriormente le famiglie e quali nuclei familiari dovrebbero poter accedere ad aiuti
economici straordinari; se sia giusto attribuire maggior importanza al nucleo familiare
anziché allindividuo, ove si tratti di stabilire i requisiti per accedere alle
agevolazioni previste; infine, se alle attività assistenziali debba o meno essere
riconosciuto un valore economico e, al contempo, se il lavoro femminile fuori casa debba
essere considerato alla stregua di una "scelta" individuale o di un diritto.
In questa situazione, la legge del 1989 proposta dal Pds su "Il
tempo delle donne e i tempi delle città" si collocava come un tentativo di
ristabilire pari opportunità allinterno di uno stato sociale italiano fondato sulle
responsabilità delle famiglie. Gli uomini come le donne avrebbero potuto chiedere periodi
di aspettativa per motivi familiari (in quanto genitori o per assistere parenti malati)
senza rischiare una diminuzione del reddito, dellanzianità o della pensione.
Lobiettivo era quello di garantire a tutti la possibilità di un uso flessibile del
tempo, nellintero arco della vita lavorativa.
La legge non fu approvata. Tuttavia la riconciliazione dei tempi
imposti dai centri urbani è un tema dominante nel dibattito politico femminile italiano.
La discussione sui "tempi delle città" si è molto evoluta dalla metà degli
anni ottanta, trasferendosi in sedi diverse e raccogliendo la partecipazione di svariati
protagonisti sociali (Balbo, 1991; Tempia, 1993; Bimbi, 1997c). I gruppi e le associazioni
femminili, le sindacaliste e le varie commissioni per le pari opportunità hanno proposto
una prospettiva non sessista per riconciliare le ore lavorative con le necessità della
vita quotidiana, per valutare il lavoro retribuito e quello non retribuito, per venire
incontro allesigenza di disporre di più tempo da dedicare ai rapporti
interpersonali e di attribuire maggiore importanza al tempo di cui si dispone.
LAssociazione dei Consumatori insieme alle associazioni di quei piccoli imprenditori
che sono maggiormente in contatto con lamministrazione pubblica, come gli artigiani,
i lavoratori edili e i commercianti, hanno dato vita a gruppi di pressione per modificare
le scadenze e gli orari della vita cittadina.
Nella sua ricerca, Belloni (Belloni, 1997) individua tre obiettivi
principali di questa azione pubblica: razionalizzare la complessità degli orari cittadini
(ad esempio, lapertura domenicale dei negozi, la flessibilità degli orari
scolastici per snellire il traffico nelle ore di punta, la creazione di percorsi pedonali
protetti riservati ai bambini); introdurre innovazioni negli orari di apertura dei servizi
pubblici e favorire lapplicazione di orari flessibili nei posti di lavoro e
soprattutto nei servizi per linfanzia (per esempio, apertura pomeridiana degli
uffici pubblici, possibilità di accesso parziale agli asili anche per i bambini non
iscritti); ottenere un trattamento più equo per le donne lavoratrici, dando loro la
possibilità di gestire al meglio il loro tempo personale (per esempio, alcuni particolari
accordi nellorganizzazione degli orari di lavoro hanno tenuto espressamente conto
delle esigenze delle donne e dei loro figli).
Luso del tempo secondo i due sessi è tenuto particolarmente in
considerazione in alcune misure sperimentali adottate da diversi consigli comunali negli
anni ottanta (variazioni degli orari scolastici; orario flessibile per i servizi di
custodia dei bambini; orari di apertura stabiliti dai negozianti in base alle esigenze dei
clienti
). Nove regioni (Toscana, Valle dAosta, Emilia Romagna, Veneto,
Liguria, Marche, Friuli-Venezia Giulia, Lazio e Piemonte) hanno approvato una legge sui
"tempi delle città".
Nel 1996, programmi specifici riguardanti gli orari urbani sono stati
varati in ottanta città italiane (Belloni e Bimbi, 1997), tra cui numerosi capoluoghi
regionali, come Roma, Milano, Venezia, Torino, Aosta, Bolzano, Trieste, Genova, Bologna,
Ancona, Perugia, Napoli e Bari, ma anche Modena (la prima città ad aver lanciato un
progetto sugli orari cittadini), Pistoia, Fano (che si è dotata di un progetto dedicato
ai tempi dei bambini) e Catania. Molte città hanno aperto uffici appositi per migliorare
gli orari urbani; diverse hanno varato progetti specifici mirati al conseguimento di
effettive pari opportunità e allincremento della partecipazione femminile nella
vita pubblica e politica. La maggior parte di questi programmi sono stati elaborati e
proposti da donne che occupano posizioni di responsabilità nelle amministrazioni
comunali; alcuni degli uffici preposti alla loro realizzazione sono diretti da donne.
A livello nazionale, nuove proposte di legge riguardanti la
ristrutturazione dei "tempi delle città" ("Maternità e paternità"
nel dicembre 1994 e "Tempo di lavorare, tempo di vivere" nel marzo 1995) hanno
riaperto il dibattito sui periodi di aspettativa per motivi familiari, avanzando
apertamente lidea che lassistenza e la cura dei figli dovrebbe essere
equamente suddivisa tra i genitori di entrambi i sessi. Allo stesso tempo i movimenti che
rappresentano le casalinghe hanno avanzato proposte (1996) per lintroduzione di
varie forme assicurative e pensionistiche riservate alle casalinghe e di uno
"stipendio per maternità".
Le questioni specifiche sollevate dai dibattiti sulle politiche
familiari hanno trovato alcune risposte tangibili anche a livello regionale (Bimbi,
1997d). Tra il 1989 e il 1995 sei regioni (Emilia-Romagna, Trentino-Alto Adige,
Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Marche e Abruzzo) hanno approvato leggi regionali in
materia di politiche familiari, e altre sono attualmente in discussione. Alcune di esse
limitano il loro raggio dazione alle coppie sposate, ma altre, superando i termini
fissati dalla Costituzione (articolo 29) sono estese anche alle famiglie non unite dal
matrimonio. Possiamo individuare almeno tre modelli diversi. Il primo favorisce il sistema
del capofamiglia maschio che garantisce il reddito familiare, offrendo incentivi
finanziari volti ad incrementare la responsabilità femminile nelle attività di
assistenza. Il secondo è un modello prettamente pro-natalista, che offre sostegno
economico alle nuove coppie di coniugi e a chi fa figli. Il terzo è volto ad agevolare la
solidarietà familiare, ampliando il più possibile i diritti individuali e incoraggiando
diverse misure intese a migliorare la parità tra i sessi.
Questo terzo modello, che coniuga il familismo italiano, il welfare
istituzionale e il femminismo, lo si ritrova nella prima legge sulla politica familiare,
approvata dalla regione Emilia-Romagna nel 1989. Fino dagli anni sessanta questa regione
è sempre stata la prima a intraprendere un tentativo sistematico con discreto,
seppur parziale successo per realizzare uno stato sociale istituzionale fondato su
di uno schema generale di cittadinanza sociale. Si tratta di un tipo di esperimento di
grandissimo interesse, perché nasce in aperto contrasto con il modello nazionale di stato
sociale e perché è divenuto da subito il punto di riferimento di altri esperimenti
locali.
Gli interventi sociali della legge in questione si basano su due
presupposti fondamentali: la libertà di scelta individuale in campo sessuale, e
lugual riconoscimento di tutte le forme di nucleo familiare.
A livello nazionale, negli anni novanta è stato istituito il ministero
per la "Solidarietà sociale". Ad esso è stata conferita la responsabilità
delle politiche familiari e dei temi che vanno dalle leggi sui minori e sui giovani a
quelle per gli anziani e i disabili, sullimmigrazione e sul settore del
volontariato. Il dicastero tuttavia non può contare su un proprio bilancio indipendente.
Nella legge proposta nel 1996 da Livia Turco, esponente del Pds e
ministro per la Solidarietà Sociale ed ex presidente della Commissione nazionale per le
pari opportunità, legge che fa sotto il titolo di "promozione dei diritti e delle
opportunità nellinfanzia e nelladolescenza", ritroviamo gli stessi temi
discussi nelle proposte di legge del 1989 e del 1994-95 sul "tempo delle donne".
È però importante osservare che il ministro della Solidarietà sociale è estremamente
attento a condurre una politica familiare in grado di coinvolgere tanto i cattolici come i
movimenti femminili, soprattutto in tema di riforma dellassistenza sociale e di
molestie sessuali contro i bambini.
Il nuovo ministro per le pari opportunità, Anna Finocchiaro
come Livia Turco, esponente del Pds cerca di introdurre nel dibattito pubblico una
immagine delle donne che le vede più autonome, sul piano economico e istituzionale,
rispetto alla famiglia. Una direttiva presentata dal suo dicastero l8 marzo 1997
contiene concetti quali la "integrazione delle prospettive di parità tra i sessi
nelle politiche governative" e la "promozione di una cultura delle differenze
tra i sessi" che sfida lideologia cattolica.
Ma la voce della Chiesa è ancora dominante nel dibattito pubblico come
nelle questioni private di previdenza sociale. La ricerca del compromesso si è oggi
spostata verso lo scenario politico del nuovo centro-sinistra, con diversi, possibili
sbocchi.
Conclusioni
A volte, come nella nuova legge sui diritti dei minori (1997) il
paradigma familiare sullassistenza dei bambini concepita come responsabilità delle
donne sembra venir messo in discussione. Altre volte, con la proposta di una riforma della
previdenza sociale e del sistema pensionistico basati sul reddito familiare (1993-97) il
modello di un regime familistico o di un sistema basato sulluomo in quanto
capofamiglia che provvede al reddito (con le proposte di legge del 1996-97 di sussidi per
le casalinghe) sembra guadagnare terreno.
In questo panorama, un dibattito politico aperto sulla natura della
famiglia e sulle responsabilità della crescita dei figli può diventare difficile o
estremamente rischioso per gli equilibri politici, soprattutto dal momento che le
organizzazioni legate alla Chiesa stanno cercando di introdurre delle modifiche alla legge
sullaborto. La Chiesa cattolica sostiene che la legislazione sulla famiglia e sulla
procreazione dovrebbe conformarsi strettamente alle dottrine che essa proclama ed esercita
pressioni a questo scopo (Congregazione, 1987). Tuttavia, linfluenza della Chiesa
cattolica sul sistema politico appare più forte della sua capacità di influenzare
direttamente i comportamenti dei singoli.
Per di più, fin dagli ultimi anni ottanta, sulle questioni inerenti
laborto (Quintavalla e Raimondi, 1989) e la bioetica (Ventimiglia, 1988; Pizzini,
1992; Comitato di Bioetica, 1994; Comitato di Bioetica, 1995), la sinistra ha iniziato a
tenere maggiormente in considerazione la posizione della Chiesa cattolica. I diritti
dellembrione propugnati a livello europeo dal parlamentare italiano eletto a
Strasburgo nelle file del "Movimento per la vita" sono stati sostenuti in
un documento del 1989 pubblicato dal Consiglio europeo. Nel 1996, i movimenti "pro-life"
hanno presentato una carta che garantiva i diritti dellembrione fin dal momento del
concepimento, aprendo in tal modo la strada a una possibile revisione della legge. Al
congresso nazionale del Pds (febbraio 1997) è stata approvata una mozione, contro tale
proposta, che era stata presentata da un gruppo di donne politicamente vicine alla
ministra per le Pari opportunità. Tanto il leader del partito come il ministro per la
solidarietà sociale criticarono la mozione: il primo, richiamandosi alla "libertà
di coscienza individuale" sulla questione, la seconda temendo che questo documento
possa rappresentare un ostacolo nel dibattito politico sulle politiche sociali per la
famiglia.
Il caso dello statuto dellembrione (Comitato di Bioetica, 1996) e
dellaborto mette in luce tutte le ambiguità e le incertezze tipiche
dellattuale stato di cose quando si tratta di questioni femminili in Italia.
Sembra dunque che, dalla metà degli anni novanta, quasi
cinquantanni dopo lAssemblea Costituente, il dibattito sulle politiche sociali
per la famiglia abbia finalmente intrapreso il suo corso. Tuttavia, ancora non sappiamo se
sia possibile separare il dibattito sulla previdenza sociale per le famiglie da quello
sulla natura dellistituzione familiare e sulla libertà di scelta delle donne.
Questultimo punto sembra minacciare i nuovi equilibri politici. A partire dal 1990
in Italia la cosiddetta politica familiare risulta essere una miscellanea di decisioni
slegate tra loro, che riflettono una serie di compromessi soprattutto, ma non
esclusivamente, tra il Pci come garante degli interessi della classe lavoratrice e operaia
e la Dc, la cui base cattolica si divide in una varietà di tendenze politiche e
ideologiche. Tuttavia lItalia ha iniziato ad affrontare questioni che in gran parte
del mondo esterno sono sul tappeto da tempo, e lo ha fatto in un periodo di recessione
economica, che lasciava poco spazio allutilizzo di risorse pubbliche per mobilitare
il sostegno su questi temi.
Quello italiano è un caso emblematico, che illustra come sia possibile
introdurre importanti cambiamenti nelle politiche sociali senza che questo conduca a
trasformazioni significative nei modelli che informano la concezione della cura dei figli
e della suddivisione dei compiti in base al sesso. Ma dimostra anche che ci sono dei
limiti a quello che la politica può ottenere senza un cambiamento delle forme della
rappresentazione. LItalia indica inoltre come le strutture politiche e istituzionali
possano soffrire importanti costrizioni per quanto riguarda lo spazio o le possibili
opportunità di sfidare le forme convenzionali di tale concezione. Lironia è che
proprio nel momento in cui, negli anni novanta, abbiamo assistito al crollo di quelle
strutture, che avrebbe consentito un dibattito più ambio sulle suddivisioni dei compiti
in base al sesso e sullassistenza ai bambini, lo stato ha iniziato a limitare la
propria sfera di intervento e la spesa destinata alle politiche sociali.
Allo stesso tempo, il dibattito sulla natura della famiglia e sulla
libertà di scelta delle donne sembra riaprire profondi conflitti politici, nella scia
delle discussioni allAssemblea Costituente e dei mutamenti intervenuti negli anni
settanta.
La possibilità di nuovi paradigmi sul ruolo delle donne e della
famiglia rischia probabilmente di estendere un conflitto profondo allinterno del
governo di centro-sinistra e del Parlamento. Mentre le argomentazioni in favore delle
politiche familiari potrebbero rappresentare unopportunità di ridisegnare i confini
di tale conflitto, per quanto temperato dalle limitazioni imposte alla spesa sociale e
dalle continue difficoltà che incontra chi cerca di mettere in discussione il paradigma
familiare che vede le donne responsabili dellassistenza ai membri della propria
famiglia.
Il risultato potrebbe essere un cambiamento nel paradigma dominante, ma
anche una sfida alle conquiste politiche fatte nei decenni precedenti.
La famiglia: che cosa vogliamo veramente?
di Michael Rustin
Dovrei innanzitutto precisare chi o che cosa intendo per
"noi" quando mi chiedo che cosa "noi" vogliamo davvero dalla famiglia.
Intendo i socialisti democratici, dal momento che siamo qui anche su invito di una rivista
americana che si definisce in questi termini. Se poi anche altre personalità influenti
facciano altrettanto, in questi giorni di New Labour e New Democrats, e in
cui lUlivo si confronta con questo dibattito specificamente anglo-americano, è
probabilmente già stato chiarito nelle sessioni precedenti. Io desidero spiegare per
quali ragioni la famiglia in quanto istituzione può essere ritenuta un fenomeno di
particolare rilevanza per i socialisti democratici.
Esiste solo un numero limitato di strumenti per organizzare i rapporti
tra gli esseri umani nella società. Uno di essi, predominante nellattuale stato di
cose, è quello del mercato, inteso come scambio di beni e di servizi tra individui, o
entità che si comportano come individui, i quali agiscono per interesse personale.
Spesso, ma non necessariamente, il mercato è un aspetto del capitalismo, il mezzo
utilizzato da quanti detengono il capitale e dalle persone che costoro assoldano allo
scopo di organizzare gli scambi del capitale stesso, della forza lavoro e di beni o
servizi commerciabili.
Un secondo strumento è quello del potere politico, che si realizza
attraverso la legge e che viene messo in atto attraverso organismi fondati sulla legge:
più spesso istituzioni burocratiche, altre volte studi professionali o altre imprese che
agiscono in base alle istruzioni ricevute dai governi, quando non sono direttamente pagate
dai governi stessi per realizzarne i desiderata. Questa obbedienza alla legge può essere
il frutto di un mandato democratico, ma può anche non esserlo. Lo stato era il detentore
del potere in Europa ben prima che la democrazia divenisse il normale strumento del potere
legittimo e conserva tuttora, come hanno sottolineato di recente Ulrich Beck e molti
altri, numerosi attributi del suo retaggio autoritario. Anzi, alcuni tendono a considerare
lattività democratica e il potere decisionale che ne deriva come nullaltro
che una cornice ornamentale, o un elemento che fornisce tuttal più un indirizzo
generico a strutture che rimangono in gran parte più gerarchiche che democratiche.
Il terzo strumento di organizzazione sociale è costituito da quelle
forme di rapporti umani in cui predomina il dono gratuito, il baratto o la sottomissione
del proprio interesse agli interessi di qualche entità maggiore di sé. La famiglia è
una delle principali entità di questo genere, ma di questa categoria fanno parte anche
lamicizia, lassociazionismo volontario, le chiese e persino le associazioni
politiche, che possono fondarsi su principi simili.
Allinterno delle famiglie, il dono e il baratto rappresentano un
modo di concordare forme di cooperazione tra membri di una stessa generazione (i coniugi
ad esempio, i quali, mettendo in comune le diverse risorse, energie e capacità di cui
dispongono, ne traggono un beneficio reciproco) ma soprattutto di generazioni diverse. I
genitori fanno "dono" del loro tempo, delle loro energie e del loro affetto ai
figli. A loro volta, anche i figli fanno doni ai genitori, soprattutto quando questi
diventano anziani o infermi o hanno bisogno di aiuto economico. La maggior parte
dellassistenza agli anziani e ai malati che si curano in casa ricade sui membri
della famiglia, e naturalmente soprattutto sulle donne. La famiglia è uno degli strumenti
principali attraverso cui vengono riconosciuti e riscossi gli obblighi di una generazione
nei confronti di unaltra. Essa rappresenta, in misura considerevole, il luogo
primario dellidentificazione tra gli appartenenti alluna e allaltra
generazione.
In linea di principio ci aspetteremmo che i socialisti democratici
siano simpatetici con la famiglia in quanto forma di vita sociale, poiché essa
rappresenta una alternativa al lassismo, allindividualismo e allalienazione
dei rapporti sociali imposti dal mercato. È rimasta celebre la definizione di Marx, che
descriveva la famiglia come un porto sicuro in un mondo privo di cuore. I socialisti si
sono spesso serviti dei rapporti familiari come di una metafora per i rapporti sociali che
avrebbero voluto veder realizzati: ad esempio nelle denominazioni di "fratello"
e di "fratellanza" usate per definire i compagni lavoratori, o nellidea di
comunità, di aiuto e di responsabilità reciproca su cui si fondava in Gran Bretagna
e sicuramente anche altrove il progetto per lo stato sociale lanciato nel
dopoguerra. La famiglia ha messo a loro disposizione un intero lessico retorico per
denominare quelle norme con le quali i socialisti e i progressisti avrebbero dovuto
identificarsi. Se non sbaglio, un memorabile discorso tenuto da Mario Cuomo alla
convention democratica, parecchi anni fa, ebbe un fortissimo impatto proprio perché era
imperniato sullidea dellAmerica vista come una grande famiglia
onnicomprensiva.
Naturalmente le cose non sono tanto semplici. Non è mai esistita la
famiglia nello spazio libero, come una sorta di alternativa volontarista e cooperativistaa
rispetto ai regimi della gerarchia politica o dello scambio commerciale. Le forme di
rapporto, e di predominio reciproco, su cui essa si fonda erano e sono strutturate dalla
legge. I suoi membri hanno a disposizione diverse opportunità e subiscono diverse
pressioni affinché si adoperino per collocare, sul mercato del libero scambio, la loro
capacità lavorativa o i prodotti del loro lavoro. Le famiglie sono sempre e soltanto
esistite allinterno di un preciso ordine normativo e culturale, non ultimo quello
ecclesiastico il quale, come ci hanno ricordato Chiara Saraceno e Franca Bimbi, ancora
oggi gioca un ruolo non secondario.
Gli effetti di queste diverse strutture consistettero nellimporre
allordine ipoteticamente volontario della struttura familiare dei tratti
estremamente costrittivi e ineguali. Ancora nellultimo secolo, donne e bambini
erano, in misura considerevole, proprietà di mariti e padri. Gli uomini avevano il
permesso legale di controllarli e di punirli anche con la violenza. Sempre gli uomini
godevano poi di una diversa libertà, in quanto potevano mettere sul mercato, come merce
di scambio, la loro forza lavoro, mentre le donne erano, in molti gruppi sociali,
confinate in casa, in una prigionia di fatto. Almeno in Gran Bretagna gli uomini godettero
della libertà politica molto prima delle donne. Lungi dallessere una situazione in
cui la cooperazione volontaria per il reciproco beneficio rappresentava la norma, le
famiglie erano in larga misura una istituzione basata sul dominio e sulla subordinazione
di un sesso rispetto allaltro e di una generazione rispetto allaltra.
Considerata la situazione ereditata, non sorprende che nellepoca
moderna la famiglia sia andata soggetta a critiche profonde e integrali. Le donne
soprattutto si sono organizzate e battute per limitare e attenuare le costrizioni imposte
in nome della famiglia ma che erano in realtà, secondo loro, essenzialmente
nellinteresse degli uomini. Le battaglie politiche per il divorzio e laborto,
di cui hanno già parlato altri, rappresentano un aspetto importante di questa lotta.
Membri di entrambi i sessi, ma forse soprattutto le donne, sempre più spesso scelgono nei
fatti di non intraprendere la strada di un soffocante rapporto familiare, o di andarsene
se questo diviene intollerabile. Così, soprattutto nel nord Europa e nellAmerica
settentrionale, le percentuali dei divorzi e delle convivenze prima o in luogo del
matrimonio, sono salite vertiginosamente, al punto che, statisticamente, in Gran Bretagna
un matrimonio su tre rischia di finire con un divorzio, mentre negli Usa la percentuale è
ancora più alta. Anche i giovani esercitano liberamente il diritto di vivere al di fuori
della famiglia. Se in Italia è ancora normale che i ragazzi e le ragazze rimangano in
casa con i genitori per tutta la durata degli studi e fino a quando si sposano a loro
volta, in Inghilterra, in America o in Scandinavia è ormai cosa comune vedere giovani che
vivono in piccole comunità con persone della stessa generazione, che coabitano nei campus
universitari o che condividono appartamenti.
Questa massiccia fuoriuscita dalle costrizioni familiari, e il
desiderio dei singoli di vivere una porzione maggiore delle loro vite al di fuori dei
vincoli che la famiglia impone, genera una esigenza che è la diretta conseguenza di tutto
ciò: occorre che le funzioni espletate dalla famiglia siano raccolte da altri organismi e
forme di coesione sociale. Le donne hanno cercato un nuovo equilibrio tra quella parte
della loro vita che viene assorbita allinterno del nucleo familiare, e laltra
parte spesa nel settore del mercato del lavoro. Nasce dunque lesigenza che il
governo e le agenzie governative e ministeriali raccolgano le responsabilità che le
famiglie non vogliono più assumersi, o almeno non nella stessa misura di un tempo. Ecco
allora la necessità di affidare prima e più a lungo i bambini ai nidi e alle scuole, e
la richiesta ai servizi pubblici affinché forniscano assistenza domiciliare o
residenziale agli anziani e ai malati. Mia suocera, che ha 93 anni ed è quasi del tutto
invalida, può contare su non meno di quattro persone assunte e stipendiate dalle
autorità locali, che le fanno visita a domicilio diverse volte nel corso della giornata e
della settimana, e le forniscono aiuti di vario genere: laiutano ad alzarsi e a
vestirsi, le fanno la spesa, le pulizie, il bucato e così via. Eppure ha due figlie
adulte che vivono a non più di cinque o dieci minuti di strada e un figlio a una ventina
di minuti di distanza, e tra tutti e tre potrebbero mettere insieme una somma più che
sufficiente per pagare tali servizi. Di fatto riceve moltissima assistenza anche dalla sua
famiglia, ma il punto è che esiste, a Londra, un sistema "pubblico" alternativo
alla famiglia, che fornisce servizi straordinariamente efficienti finanziati con le
imposte generiche a disposizione dellamministrazione locale.
Uno dei principali metri di giudizio con cui tuttora la famiglia viene
considerata da molte persone di sinistra è la sua tendenza ad entrare in urto con i
diritti individuali o con le esigenze personali dei suoi membri. Le rivendicazioni fatte
in nome dei "valori familiari" vengono criticamente reinterpretate come volte a
preservare locculto predominio degli uomini sulle donne. In Inghilterra le
preoccupazioni per il benessere dei bambini sono spesso formulate in termini dei diritti
dei minori in quanto individui, chiamando anche in causa le loro implicite recriminazioni
contro i genitori, per gli abusi da questi perpetrati. La soluzione più comune è allora
quella di punire i membri della famiglia che si dimostrano oppressivi, allontanando da
loro i bambini maltrattati per affidarli a presunti sostituti o a nuove famiglie
attraverso le procedure dellaffidamento o delladozione. Diversi studi
comparati, come quello condotto da Andrew Cooper che lavora alla Tavistock Clinic e
insegna nella mia stessa Università, hanno dimostrato come il sistema di protezione dei
bambini in vigore in Francia si impegni molto di più per sostenere le famiglie in
difficoltà e persino quelle in cui i bambini sono maltrattati.
Ci sono naturalmente molti aspetti nei quali la famiglia continua ad
essere ingiusta, riguardo al potere e alle responsabilità che affida agli uomini o alle
donne. Accade spesso che, maggiori sono gli oneri che lo stato o la società affidano alla
famiglia (assistenza a bambini, anziani e infermi), minore è la libertà di cui godono le
donne. Ma è anche vero che la difesa e le battaglie per una più completa parità tra i
sessi è, implicitamente o esplicitamente, impostata come una battaglia per una più
completa libertà individuale, perché anche le donne possano godere appieno del diritto
di scelta, e non in favore di forme più eque di cooperazione allinterno di rapporti
liberamente scelti. La cultura dellindividualismo, e dellindividualizzazione,
gioca in questo un ruolo cruciale, tanto più forse nel momento in cui il modello
alternativo "anti-individualista", lidea di welfare o di stato
sociale, viene messo duramente sotto accusa.
La domanda principale che desidero sollevare è se il sostegno e il
rafforzamento della famiglia, e di altre forme di rapporto e di cooperazione che dipendono
dallidentificazione reciproca, dal dono e dal baratto, possa costituire un oggetto
appropriato di cui si debba occupare la politica del bene pubblico. Se sia giusto, in
particolare, che i socialisti democratici si impegnino ancora per questa idea, motivandola
con ragionamenti che si rifanno alla loro tradizionale antipatia verso i rapporti di tipo
individualista imposti dal mercato o le relazioni politiche di tipo coercitivo, in quanto
forme dominanti nella vita sociale. Vorrei dimostrare che è giusto che lo facciano, e che
possono farlo in modi che sono rispettosi dei poteri e dei diritti che essi attribuiscono
a uomini e donne.
Stein Ringen, in un opuscolo della Demos (1998) e in un libro edito
dalla Oxford University Press (1997), entrambi in parte estremamente validi (benché,
sotto altri aspetti, decisamente distorti), ha messo in evidenza come la famiglia rimanga
un importantissimo luogo di produzione, oltre che di consumo come viene universalmente
riconosciuta. I "livelli di vita" o i beni necessari alla vita di cui godono i
cittadini sono sostanzialmente forniti, o implementati, o da lavori svolti in casa o da
membri della famiglia che lavorano gli uni per gli altri fuori di casa. Pulire, fare la
spesa, cucinare, guidare, riparare, costruire, occuparsi del giardino, stare con i bambini
eccetera. La maggior parte dei beni di consumo e delle macchine sono oggetti inerti e
inutili fino a che non vi si investe del lavoro, trasformandoli in valore. Ringen
sottolinea che la cooperazione tra i membri della famiglia è un modo altamente efficiente
di incrementare il valore ricavato da tali beni, o dai proventi del lavoro collocato sul
mercato. Cucinare un pasto per quattro non impegna un lavoro quattro volte superiore a
quello necessario a cucinare per una persona soltanto. Due persone non hanno la necessità
di occupare uno spazio vitale doppio rispetto a chi vive solo per ricavarne i medesimi
benefici. Un giardino accudito da ununica persona può essere goduto da molte altre.
Lauto guidata da un unico autista può trasportare comodamente cinque persone.
Ringen ne deduce che lo stile di vita misurato in termini di pil ne sottovaluta
grossolanamente il valore reale, perché non tien conto del valore aggiunto dalla famiglia
informale o dalleconomia dellamicizia.
Con le medesime argomentazioni Ringen spiega anche
linsoddisfazione avvertita da molti che avvertono come un reddito in aumento non
riesca a produrre una sensazione di benessere incrementata nella stessa misura. Egli lo
attribuisce non al fatto che la gente non capisce i suoi reali interessi, e attribuisce
valori irreali a una aumentata capacità di acquisto, quanto piuttosto al fatto che i
guadagni ottenuti a livello di reddito economico vengono in realtà "pagati" da
perdite reali in termini di economia informale. Lavorare cinquanta ore alla settimana
porta più denaro, ma significa anche avere meno tempo a disposizione per produrre quei
"beni" generati dal lavoro svolto nel settore informale il
"lavoro" di giocare con i bambini, di tenere in ordine un bel giardino, di
allenare la squadra di calcio dei ragazzini del quartiere o di mettere in scena una
commedia con una compagnia di attori dilettanti. Si potrebbe aggiungere anche il
"lavoro" della conversazione, o di provvedere alle necessità degli altri, o
anche di progredire nella propria educazione.
Gli schemi di "produzione" e "consumo" che dominano
la nostra visione attuale delleconomia non sono che costruzioni ideologiche, che
mistificano il reale processo economico. Questi schemi fanno apparire il
"lavoro" essenzialmente un sacrificio che dobbiamo intraprendere al solo scopo
di guadagnare il denaro necessario a "consumare" i beni prodotti dal lavoro di
altri. Ma in realtà la maggior parte dei "consumi" è semplicemente la
collocazione di un altro processo di lavorazione, per nulla sgradevole almeno non
del tutto, benché possa comportare uno sforzo , che viene intrapreso in un contesto
di rapporti incentrati sul dono gratuito e sullo scambio, anziché sulla contropartita
economica. E naturalmente molto del "lavoro" vero e proprio immesso sul mercato
porta altresì numerose soddisfazioni e la sua mancanza è profondamente e dolorosamente
avvertita da chi ne è privo: tra queste soddisfazioni sono da enumerare, e non come
secondarie, quella della cooperazione, del riconoscimento reciproco e del dispiego delle
proprie capacità ed energie.
Il ragionamento di Ringen prosegue sostenendo che, esattamente come
appare più che giusto che la società, attraverso i suoi organismi elettivi di potere,
sostenga e favorisca leconomia "formale" (mettendo a disposizione
infrastrutture, fornendo unistruzione alla futura forza lavoro, garantendo
sicurezza, norme e assicurazioni), allo stesso modo i governi dovrebbero essere disposti a
sostenere con decisione le famiglie in quanto luoghi di produzione e in quanto
fondamentali produttrici di benessere sociale e individuale. Egli afferma che la nostra
attuale "economia" sottovaluta, anzi evita del tutto di riconoscere, il
"lavoro" svolto in questambito e, lungi dal sostenerlo, lo pone in
collisione con gli interessi del capitale in quanto indebolirebbe questultimo,
sottraendogli risorse umane.
Quando il "costo di opportunità" di far crescere un bambino
o di occuparsi di un parente o di un amico anziano o infermo risulta troppo elevato, a
causa delle compensazioni superiori che il mercato mette a disposizione, allora gli
individui finiranno col ridurre limpegno dedicato a questo genere di compiti. Ma se
essi ottengono un riconoscimento sociale e vengono remunerati (sotto forma di assegni
familiari o di contributi per chi si occupa di assistere un infermo) allora le persone
potranno prendere altre decisioni, sicuramente non in tutti i casi ma certamente con un
innalzamento della media. Il sistema di tasse e sussidi, oltre naturalmente
allorganizzazione del mercato del lavoro e degli altri mercati, premia o sanziona in
modo selettivo i diversi generi di attività umana. La spiegazione fornita da Ringen
riguardo al ridimensionamento dei nuclei familiari, con sempre meno componenti, e
soprattutto riguardo al venir meno dellimpegno profuso nel "lavoro" al
loro interno, è che i costi di opportunità di tale "lavoro" contrapposti al
"lavoro pagato" sono cambiati in favore del secondo.
Tutto ciò è in parte, evidentemente, una conseguenza positiva della
nuova libertà di cui godono le donne, che possono scegliere di collocarsi sul mercato del
lavoro e trovarvi unoccupazione remunerata. Appare però anche leffetto di
cambiamenti economici oltre che politici e culturali, poiché la crescita delle economie
del terziario, servizi e informazione soprattutto, sembrano aver ridotto tutti i vantaggi
relativi che si potevano trarre nei regimi produttivi precedenti, sia in quelli agricoli
sia in quelli industriali. I costi di opportunità sono cambiati perché le donne oggi
possono compiere diverse scelte, mentre prima ne avevano ben poche a disposizione. Questo
naturalmente è positivo in sé, e non possiamo auspicare alcuna regressione, nessun
ritorno a unepoca in cui non potevano decidere alcunché.
Ma il fatto che il lavoro collocato sul mercato sia materialmente
retribuito non è una buona ragione per dire che non si dovrebbe lavorare fuori casa.
Sarebbe possibile individuare diversi ambiti di lavoro nel settore informale, soprattutto
quelli che coinvolgono laiuto e lassistenza a persone di generazioni diverse,
e far sì che anche questi lavori siano riconosciuti e remunerati, su basi di assoluta
parità tra i sessi. È evidentemente in questa direzione che si collocano gli assegni
familiari, i permessi di maternità retribuiti, gli assegni di accompagnamento per gli
invalidi. Persino le ferie pagate potrebbero ricadere nella stessa categoria, se si pensa
alle "vacanze" come alloccasione per un lavoro "produttivo"
volto a migliorare la qualità della vita, un periodo erroneamente definito come
"tempo libero" solo perché è diverso dal "lavoro" che si svolge nel
settore produttivo o nellimpiego statale o burocratico.
Una delle iniziative più scandalose del governo Blair è stata quella
del "welfare to work", una legge rivolta alle madri nubili
disoccupate che esigeva che queste donne si ricollocassero sul mercato del lavoro come
condizione per accedere ai sussidi a loro destinati. La cosa più sbalorditiva era il
fatto che tale pretesa non tenesse alcun conto delletà dei figli, benché sia
assolutamente ovvio che mentre i bambini sopra i quattro-cinque anni possono essere di
norma collocati in un asilo o a scuola (e quindi se ne occupa lo stato), molti bambini
dagli zero ai cinque anni non vengono collocati nelle strutture pubbliche, per scelta loro
o dei loro genitori. Sarebbe assolutamente ragionevole considerare il tempo che i genitori
passano ad occuparsi dei bambini piccoli come un tempo di lavoro, del tutto equivalente a
quello che potrebbero impiegare alla cassa di un supermercato o a cucinare per una mensa
scolastica; un tempo pertanto che meriterebbe una remunerazione economica equivalente. È
un paradosso della diminuzione delle responsabilità familiari nei confronti dei bambini o
degli anziani, motivata con questioni di parità tra i sessi, che lesito di tale
diminuzione sia che le donne che potrebbero occuparsi dei loro bambini o di altri parenti
allinterno delle mura domestiche, finiscano invece per occuparsi di estranei,
venendo per questo pagate dal governo o da enti privati.
Ovviamente, i cittadini di entrambi i sessi dovrebbero essere liberi di
scegliere la via che preferiscono, ma non in una situazione che premia una scelta e
penalizza laltra.
Come sempre, la difesa a oltranza delle libertà personali rischia di
mascherare oltre che di rappresentare interessi reali. Quali interessi vengono serviti
portando avanti una situazione in cui la gente è sempre meno in grado di preparare un
buon pranzo e finisce per dipendere dai piatti pronti comprati al supermercato o
acquistati in rosticceria? Da una parte, chiaramente, gli interessi di uomini e donne
molto occupati, cui viene risparmiato limpegno di dover cucinare e lavare piatti e
pentole, e che quindi possono occupare il loro tempo in modo diverso il più delle
volte, in effetti, soprattutto tra i "lavorodipendenti" degli Stati Uniti, sul
posto di lavoro. Ma dallaltra parte, vengono serviti gli interessi dei capitalisti,
che possiamo essere anche voi ed io, di quanti insomma investono nei supermercati e nelle
catene di ristorazione veloce che approfittano di uneconomia domestica sempre più
indebolita per creare nuovi mercati su cui piazzare i loro prodotti.
Cè un altro aspetto in tutto ciò, e porta a chiedersi fino a
che punto la politica dovrebbe intervenire, non per sostenere materialmente, ma per
sanzionare legalmente la formazione e il mantenimento delle famiglie. È importante che
sempre meno persone contraggano matrimonio, che per divorziare sia sufficiente inoltrare
una domanda, che le persone possano con tutta facilità scaricare qualsiasi
responsabilità nei confronti dei figli o dei genitori? Esiste una maniera giustificabile
di conferire un supporto legale e normativo a rapporti e impegni durevoli, senza tuttavia
violare con ciò la libertà individuale?
(Uno dei disastri provocati dal governo Thatcher è stato il tentativo
di costringere al rispetto degli obblighi dei genitori al mantenimento dei figli
minorenni, negando a questi ultimi, anche in età lavorativa, i sussidi di disoccupazione
e rendendoli quindi materialmente dipendenti dai loro genitori. Credo che questa politica
abbia messo in seria difficoltà molte famiglie con giovani disoccupati, non solo sul
piano materiale ma anche per levidente venir meno del supporto pubblico nei
confronti della funzione parentale. Credo che laumentata incidenza di giovani senza
tetto, terribilmente evidente nelle strade cittadine e soprattutto a Londra, sia in parte
conseguenza di questo tentativo punitivo e controproducente di imporre la solidarietà
allinterno delle famiglie.)
Sono questioni estremamente complesse, e siamo ormai così assorbiti
dai valori libertari e così (giustamente) sospettosi nei confronti
dellautoritarismo moralista (genere verso cui il New Labour mostra qualche
inclinazione) che è difficile giustificare nuove concezioni "solidaristiche"
che sembrino implicare una qualche coercizione per i singoli cittadini.
La soluzione proposta da Ringen, che considera il matrimonio come un
contratto vincolante in cui tanto i coniugi come i figli ricoprono un ruolo legale e
"democratico" (quasi una repubblica in miniatura) ci sembra di dubbia efficacia,
in quanto inserisce una concezione basata sullinteresse razionale e sullo scambio
contrattuale in una sfera la cui essenza appare qualcosa di diverso. Né ci sembra più
attraente la proposta di contare sulla persuasione morale e sulla rieducazione, proposta
che ha in comune con la prima un potenziale autoritario.
La migliore possibilità di progresso è forse quella che chiede allo
stato di sostenere la famiglia e gli altri rapporti interpersonali duraturi non soltanto
in termini materiali, come abbiamo già spiegato, ma anche attraverso quelle risorse
necessarie a sostenerne limpegno. È probabile che moltissime persone preferirebbero
mantenere legami duraturi e assumersi le responsabilità di assistere gli altri componenti
della famiglia, o amici e vicini di lunga data, se potessero farlo a costi ragionevoli. È
quindi compito dello stato mantenere entro i giusti limiti tali costi, fornire servizi che
integrino e rispettino i legami personali e garantire servizi di mediazione per la
gestione e la negoziazione delle difficoltà, ivi comprese le agevolazioni per chi
desideri uscire dallambito familiare, quando la rottura si riveli effettivamente la
cosa più appropriata o semplicemente la più desiderata.
Questo già accade in molti modi, e si verifica laddove questa
concezione di sostegno si è evoluta trasformandosi nel miglioramento di "servizi
sociali" in precedenza più impersonali, che finivano per usurpare i rapporti
familiari. Ne sono un esempio gli ospedali che invitano i genitori a rimanere con i
bambini ricoverati, gli ospizi e le case di cura che agevolano la presenza dei parenti, le
sale parto che accolgono i futuri padri, i servizi di consulenza e di mediazione per la
soluzione dei conflitti coniugali, le politiche di assegnazione degli alloggi popolari che
riconoscono lesigenza di non allontanarsi dai parenti stretti, lesortazione
alla riflessione prima di procedere a un aborto.
Non vedo in che modo i socialisti democratici, giustamente critici nei
confronti del mercato e del capitalismo in quanto forme dominanti dei rapporti sociali, e
critici anche, altrettanto giustamente, nei confronti di uno stato che si propone come
invadente sostituto di tali rapporti, possano trascurare la sfera della famiglia e dei
suoi corollari informali, lamicizia e lassociazionismo volontario, come
dimensione essenziale di una società migliore. Tanto più se, in quanto socialisti,
coltiviamo anche una particolare sensibilità nei confronti della dimensione emotiva,
naturale e necessaria, della vita umana.
Questo è un altro tema, dal quale implicitamente dipendono quasi tutte
le argomentazioni sopra esposte. Il razionalismo della tradizione illuminista, tanto nella
sua versione liberale come in quella marxista, ha manifestato la tendenza a soffocare la
dimensione affettiva dellesistenza umana. La riflessione su "quel che
vogliamo veramente dalla famiglia" ci impone di conferire nuovamente a quella
dimensione il posto che le spetta nel quadro generale. È un paradosso del femminismo
laver rivendicato il riconoscimento di queste aree di esperienza come politicamente
rilevanti, e allo stesso tempo laver adottato una posizione severamente critica nei
confronti della famiglia, che di quelle aree è stata fino ad oggi la sede primaria e
naturale. Lo sviluppo di un modo socialista di immaginare la società futura, per essere
convincente, dovrà necessariamente risolvere questi dilemmi.
Riferimenti bibliografici
Stein Ringen, The family in question, Demos 1998
Stein Ringen, Citizens, families and reform, Oxford University
Press 1997
IIIa sessione:
Nuove sfide politiche:
quale futuro per il Welfare State?
Peter Edelman
(Georgetown University Law Center, Washington)
Claus Offe
(Humboldt Universität, Berlino)
Lo stato sociale in America: problemi attuali e oltre
di Peter Edelman
Robert Kennedy amava questa citazione da Camus: "Forse non
riusciremo a trasformare questo mondo in un mondo in cui i bambini non siano più
torturati. Ma almeno possiamo ridurre il numero di bambini torturati".
Negli anni '90, sia negli Stati Uniti che in Europa ci è stato
ripetuto che sarebbe stato possibile trovare una risposta a problemi quali la sofferenza
dei nostri bambini con una nuova politica, cui è stato dato il nome di Terza Via.
La Terza Via, ci viene detto, si fonda sulla pari dignità del governo
e del settore privato, e sulla collaborazione di entrambi con una terza forza, la società
civile. La Terza Via, ci viene anche detto, combina il dinamismo del libero mercato con un
impegno di giustizia sociale. Un segno caratteristico di tale combinazione si dice sia la
fine della politica dei diritti, in cui la gente otteneva qualcosa in cambio di niente, la
fine dell'epoca in cui potevano esistere diritti senza corrispondenti responsabilità.
Non è questo il modo in cui io formulerei le mie opinioni, e tuttavia
esso non è in contraddizione con le politiche sociali che auspico per i bambini e per gli
altri gruppi deboli. Io credo nell'economia di mercato, certo con le dovute regole. Credo
nella giustizia sociale. Credo ad un ruolo importante per le istituzioni civili. Credo
infatti molto fermamente all'importanza di un impegno civile all'interno di ogni comunità
in America, che unisca gli sforzi necessari a sradicare profondamente la povertà. Credo
nella responsabilità individuale, sebbene possa farvi una previsione per il futuro, e
dire che sono convinto che l'idea dei diritti legati alle responsabilità si debba
applicare a tutti i membri della società, e non solo ai poveri.
Il problema è che, per molti sostenitori della Terza Via negli Stati
Uniti, le parole non hanno lo stesso significato che per voi e per me. La Terza Via si
rivela rappresentare non quel genuino partenariato a tre e quella condivisione di
responsabilità suggeriti dalle parole stesse, bensì l'abdicazione delle responsabilità
di governo nelle mani di gruppi amorfi di persone e di istituzioni nel settore privato. La
giustizia sociale in cui i rappresentanti della Terza Via affermano di credere finisce per
essere lasciata alla generosità del volontariato ed alla benevolenza di attori privati.
La responsabilità personale cui si appella la Terza Via risulta essere la responsabilità
dei poveri di comportarsi meglio, e non una responsabilità che si estende a tutte le
istituzioni della società. Le imprese ed i cittadini ricchi sembrano aver il diritto di
fare azioni lobbystiche sul governo per ottenere sussidi che all'inizio sembrano proprio
"qualcosa in cambio di nulla", e nessuno sembra avere la responsabilità di
aiutare i poveri, tranne i poveri stessi. I seguaci della Terza Via negli Stati Uniti
potrebbere ben citare Camus con approvazione, ma le loro ricette politiche sembrano
derivare piuttosto da Anatole France.
L'America non ha mai avuto uno stato sociale in senso europeo. Non ha
mai offerto una rete di sicurezza che garantisca una base minima di sostegno al reddito,
di copertura sanitaria, né altri tipi di assistenza per tutti i membri della società. La
sua cosidetta rete di sicurezza è stata sempre una rete rappezzata, che ha fornito
sussidi basati sui giudizi della società su chi li meritasse e chi no. Persino in questa
situazione, alla destra radicale si è unito un gruppo che ha assunto diversi nomi - Terza
Via, Democratic Leadership Council (Consiglio per la leadership democratica), Blue
Dogs - il quale ha costruito una politica di discreto successo, basata sull'attacco ad
uno stato sociale americano che non è mai esistito.
La via americana alla Terza Via
Questo dibattito non è affatto nuovo negli Stati Uniti. La destra ha
sempre attaccato gli sforzi fatti per estendere gli aiuti ai poveri e ai deboli,
affermando che si tratta di questioni in cui lo stato non ha alcuna responsabilità. Il
Presidente Herbert Hoover disse esattamente questo quando i partecipanti alla bonus march
si riunirono a Washington durante la Grande Depressione. A livello personale egli era
solidale, e la Croce Rossa avrebbe dovuto fare tutto il possibile per venire in aiuto, ma
certo tutto ciò non era responsabilità del governo. Il New Deal aveva messo fine a
quella maniera di pensare, così almeno credevamo. Ma sbagliavamo. Grazie alla prosperità
americana del secondo dopoguerra, eravamo convinti che riuscire a ricucire gli strappi
nella nostra rete di sicurezza sarebbe stato solo questione di tempo. Avremmo avuto il
servizio sanitario nazionale. Saremmo stati seri sulla piena occupazione ed avremmo avuto
indennità di disoccupazione davvero soddisfacenti. Avremmo avuto un sostegno al reddito
per chiunque ne avesse bisogno, specialmente i bambini. Ma sbagliavamo.
Progressi, ne sono stati fatti. Gli anziani, il nostro gruppo
preferito, ottennero la copertura sanitaria nazionale nel 1965, ed i loro sussidi di
previdenza sociale vennero ancorati all'inflazione nel 1972. I disabili hanno ricevuto
sussidi per fasi, insieme alla protezione legislativa contro la discriminazione nel lavoro
e l'accesso ai posti pubblici. L'operaio povero è diventato di moda negli ultimi anni,
con la grande espansione di una tassa federale che integra il loro reddito. I poveri hanno
ricevuto un sussidio sotto forma di bollini per il cibo nel 1970 , e i poveri e i disabili
hanno avuto copertura sanitaria negli anni '60, un programma che, come costo totale, è
diventato più costoso di qualsiasi altro nella rete di sicurezza sociale, se si fa
eccezione della previdenza sociale. Affitti a basso costo, assistenza ai poveri per far
fronte a costi di riscaldamento o di condizionamento d'aria, assistenza pedagogica per i
bambini poveri oltre la scuola, borse di studio per permettere ai ragazzi poveri l'accesso
al College, ed altri programmi ancora completano il quadro.
Il gruppo sociale più controverso negli ultimi trent'anni è stato
quello dei non disabili in età lavorativa, in particolare con bambini. Tutti coloro che
non avevano bambini non sono mai stati presi in considerazione per altri sussidi federali
che non fossero i bollini per il cibo. Coloro che invece avevano bambini - specialmente le
donne non sposate - sin dal 1935 hanno avuto il diritto ad entrare in quel programma che
noi americani chiamiamo welfare (programma di assistenza pubblica). Non si è mai
trattato di un programma generoso. Il livello dei sussidi viene fissato dagli stati,
mentre il governo federale paga una parte dei costi. Nel Mississipi, per anni i sussidi
hanno rappresentato l'11% della soglia di povertà; aggiungendo anche i bollini per il
cibo, si arriva al 40% della soglia di povertà. Il costo del programma per il governo
federale è sempre stato ben al di sotto dell'1% del bilancio federale.
Prima degli anni '60, gli stati, specialmente quelli del Sud,
elargivano sussidi assistenziali alla gente che gradivano, e non li elargivano a chi
invece non gradivano. Negli anni '60, una combinazione di circostanze quali la recente
istituzione di una serie di avvocati per i poveri, alcune coerenti decisioni della Corte
Suprema, ed un movimento militante di assistiti trasformò il vecchio programma
"discrezionale" nel programma "di diritto" che la legge federale aveva
sempre sostenuto, ma che invece tutti i responsabili avevano sempre ignorato come tale.
Ebbero inizio allora, per poi continuare, una serie di reazioni sfavorevoli. Esse avevano
una connotazione razziale. Il programma era sempre sproporzionatamente afroamericano, e
questo semplicemente perché in America i poveri sono sproporzionatamente afroamericani;
comunque nacque la leggenda di un programma a maggioranza nera. Così i destinatari di
sussidi assistenziali furono ampiamente caratterizzati come pigri e sfaticati. Il razzismo
era mimetizzato appena, seppure lo era.
Clinton: il prezzo della sopravvivenza politica
Ma il welfare non piaceva a nessuno. I beneficiari detestavano
il modo in cui venivano trattati dai burocrati. La maggior parte di essi avrebbe preferito
lavorare. Il sistema infatti non aiutava le persone a diventare autosufficienti, non
c'erano abbastanza aiuti per far sì che la gente non dovesse continuare con l'assistenza
come risorsa primaria, e i sussidi non facevano certo uscire nessuno dallo stato di
povertà. E la destra detestava il welfare per le ragioni appena esposte. Negli
anni seguenti ci furono sforzi di duplice natura per cambiare il sistema. Richard Nixon in
realtà propose un reddito annuo garantito. Negli anni '80, gli stati tentarono un gran
numero di esperimenti per rendere il vecchio sistema più orientato al lavoro, e ci fu una
modesta riforma federale in tale direzione nel 1988. Ma una politica davvero buona, oppure
una politica radicalmente terribile, avrebbero richiesto un massiccio cambiamento della
distribuzione del potere politico all'interno del Congresso. In termini di cambiamenti
fondamentali ci fu, nel Congresso, un punto morto. Fino al 1994. Anche allora, il
cambiamento radicalmente conservatore che si verificò poi nel 1996, non avrebbe avuto
luogo se l'America non avesse avuto un Presidente che aveva sposato la retorica della
Terza Via e non si fosse impegnato in una strategia di sopravvivenza politica personale ad
ogni costo. Anzi, questa affermazione non è ancora abbastanza forte. Il Presidente venne
consigliato da tre dei suoi consiglieri politici più anziani che porre il veto a quella
legge lo avrebbe aiutato politicamente. Dunque, l'affermazione corretta non è
"sopravvivenza politica personale ad ogni costo". È che egli era disposto a
fare tutto ciò che poteva per evitare anche il minimo rischio che potesse essere
sollevata qualsiasi questione che minacciasse la sua sopravvivenza politica.
Perché mi accaloro tanto su questa faccenda? Quella legge è davvero
tanto cattiva? Dopo tutto, non è forse vero che più di cinque milioni di persone sono
uscite dal programma del welfare da quando, nel 1993, venne raggiunto il picco di
14,3 milioni tra adulti e bambini, e più di tre milioni da quando è stata approvata la
legge, nel 1996?
Sì, la legge è molto cattiva. Una vera riforma del welfare
avrebbe dovuto garantire che la gente avrebbe ricevuto tutto l'aiuto necessario a trovare
lavoro ed a mantenerlo, ed avrebbe fornito una buona rete di sicurezza sociale per i
bambini. Questa legge ha letteralmente cancellato qualsiasi obbligo per gli stati di
assistere chiunque, ed ha istituito il termine massimo di cinque anni di durata per
l'assistenza federale alle famiglie, senza considerare il fatto che possa intervenire una
recessione.
Pochi stati hanno messo in atto buone politiche, ma la maggior parte
stanno invece attuando politiche estremamente punitive. Se non lo si guarda troppo da
vicino, il quadro finora non sembra troppo negativo perché fortunatamente questo è un
periodo di grande prosperità negli Stati Uniti. Anche così però, solo il 60% di coloro
che escono dal welfare trovano un lavoro, nella migliore delle ipotesi. Ma la
maggior parte degli altri è stata letteralmente buttata fuori dal programma per mezzo di
politiche punitive che li bandiscono, ad esempio, a causa della loro incapacità a seguire
le regole del lavoro, oppure per comportamenti erronei, come il non presentarsi ad un
appuntamento all'ufficio responsabile del welfare. Non sappiamo assolutamente cosa
sia accaduto a tutte queste persone. Tutto ciò, del resto, non è neppure adeguatamente
pubblicizzato, con tutti politici impegnati a riscuotere i crediti per la grande riforma
del welfare del 1996, e con tutta la gente totalmente immersa nello scandalo
Clinton. Quando scadrà il limite di tempo, o interverrà una recessione, oppure si
verificheranno entrambi questi eventi insieme, allora dovremo affrontare problemi davvero
seri, a meno che la politica in questo settore non cambi.
Le occasioni che dovremo affrontare
Questo è quanto la Terza Via ha portato agli Stati Uniti. Questa è
l'applicazione del significato di "fine dell'epoca dei diritti senza
responsabilità" negli Stati Uniti. Ai poveri, invece dell'assistenza che erano
abituati a ricevere, è stato messo in mano un adesivo per il paraurti: C'è scritto: "Trovati
un lavoro". Ecco la Terza Via.
La Terza Via sta anche producendo seri attacchi al nostro sistema di
previdenza sociale, sebbene io sospetti che essi diminuiranno, almeno in via transitoria,
ora che il nostro mercato azionario sembra molto più simile alle montagne russe di un
luna park che non ad un serio veicolo di investimenti. Sembra essere un articolo di fede
della Terza Via il fatto che noi non possiamo avere un servizio sanitario nazionale, o che
se lo avremo, lo avremo nella formula del cosiddetto "managed care" che
sta facendo impazzire l'America. Se il problema del servizio sanitario nazionale con un
solo soggetto che paga è che esso è troppo caro, mi chiedo come ciò possa andar
d'accordo con il fatto che pochi giorni fa abbiamo chiuso il nostro anno fiscale con
un'eccedenza di 70 miliardi di dollari.
La Terza Via ha anche prodotto una massiccia serie di reazioni negative
nei confronti di coloro che immigrano nel nostro paese con regolare permesso, forti tagli
nel settore abitativo e nei sussidi alimentari, oltre che in altri programmi destinati ai
poveri. Come complemento dell'attacco contro i poveri stessi, si è verificato poi anche
un attacco contro gli avvocati dei poveri, in modo da essere sicuri che essi, per
rappresaglia, non intentino azioni legali. RFK e Camus deplorerebbero in particolare i
tagli che abbiamo fatto negli aiuti per i bambini disabili.
Detto ciò, questa cosidetta riforma del welfare ha anche creato
un'occasione. Personalmente non l'avrei auspicata di certo, ma l'occasione ora c'è, e si
tratta di un'occasione che può essere accettata solo se le istituzioni civili della
nostra società al livello delle comunità si mobiliteranno e parteciperanno. Continuo a
credere, naturalmente, che dobbiamo avere una politica sociale nazionale, in modo da
garantire una copertura sanitaria generalizzata ed una rete di sicurezza sociale ed
incrementi ai redditi bassi, in modo da far sì che la gente che lavora non sia spinta
verso la povertà. Abbiamo bisogno di una politica nazionale che fornisca fondi per
promuovere la rivitalizzazione dei quartieri urbani degradati, l'istruzione dei bambini
poveri, ed altre pressanti necessità.
Ma per ridurre la povertà nel modo giusto negli Stati Uniti, avremo
bisogno di seri sforzi per aiutare la gente a trovare e mantenere il lavoro, e di un
cambiamento sostanziale nel modo in cui forniamo l'istruzione ai bambini poveri. Questi
due compiti, terribilmente complessi, potranno aver luogo solo ed esclusivamente se tutti
coloro che detengono potere e responsabilità pubbliche in ogni comunità si
rimboccheranno le maniche ed agiranno. Ciò significa il settore degli affari, il
sindacato, i filantropi, le istituzioni religiose, le università, le organizzazioni nonprofit
- in poche parole, tutti. La politica federale è importante e vitale, ma tutta la
politica federale del mondo non farà cambiare l'equazione di una data comunità a meno
che la società civile - di cui la Terza Via parla tanto - non prenda tale sforzo sulle
proprie spalle.
La cosidetta legge di riforma del welfare del 1996 ha reso
evidente tutta la miseria della politica anti-miseria degli Stati Uniti d'America. Se mai
riusciremo ad avere una migliore politica contro la povertà, ce ne serve una che ponga
l'accento sui problemi che uniscono la gente, e non su quelli che la dividono. Ciò di cui
abbiamo bisogno è, in buona sostanza, una politica dell'economia. Più della metà degli
americani ha perso terreno nella nostra economia negli ultimi 25 anni, mentre a quel 20%
che si trova in cima alla scala sociale è andato molto bene, e l'1% che sta al primo
posto di essa è addirittura saltato fuori dai grafici. Abbiamo bisogno di un genere di
politica che parli di un salario di sopravvivenza (living wage) per tutti coloro
che non lo hanno, e dunque non solo per i poveri, che promuova un'assistenza medica quanto
più ampia possibile, assistenza all'infanzia, alloggi, senza dimenticare il bisogno di
istruzione di così tanti milioni di persone; che inoltre promuova e condivida un
interesse per l'ambiente, per la sicurezza sociale, per il finanziamento di campagne
specifiche, e per molte altre questioni ancora. Non dobbiamo abbassare la guardia sulla
lotta a tutte le discriminazioni, ma dobbiamo anche smussare gli spigoli della politica
dell'identità ed accentuare quando possiamo gli interessi comuni dimenticati i quali,
presi tutti insieme, potrebbero formare una nuova maggioranza.
Per quanto riguarda il problema della povertà, l'abdicazione della
responsabilità federale che si è verificata spalanca le porte alla possibilità che
entri in gioco una versione genuina della Terza Via. Non credo infatti che la versione
buona della Terza Via rappresenti nulla di nuovo. L'America ha sempre avuto forti
istituzioni civili nelle sue comunità. Qualsiasi sia stata la retorica della Terza Via
sulla politica del passato, si tratta in realtà di un fuoco di paglia. Noi tutti, liberal
o progressisti, o comunque vogliamo chiamarci, abbiamo lottato a lungo per trovare ed
applicare il giusto equilibrio tra il governo e tutte le parti del settore privato, e tra
la politica nazionale e l'iniziativa ed il controllo locali. Nella migliore delle ipotesi,
la Terza Via è semplicemente un'intelligente repackaging del pensiero
progressista.
Nella peggiore, invece, ciò che avviene è la cosiddetta riforma del welfare
del 1996. Dati i pericoli reali insiti nella pratica politica della Terza Via,
personalmente preferirei dire che la mia politica è credere nell'efficacia del mercato,
purché temperato da norme precise, e credere anche nella giustizia sociale, economica e
razziale, da raggiungersi attraverso una combinazione di sforzi pubblici e privati, di
politiche nazionali e locali. Questa formula, se attuata davvero, non sarebbe un ritorno
al passato, ma sarebbe al tempo stesso anche molto diversa da quella Terza Via che esiste
realmente nella vita politica reale americana.
Credo che Robert Kennedy e il Camus della citazione approverebbero. Se
perseguiamo sinceramente la politica che ho delineato, riusciremo davvero a diminuire il
numero dei bambini che vengono torturati.
Precarietà e mercato del lavoro:
una critica a medio termine delle risposte politiche disponibili
di Claus Offe
Tutte le società, per potersi perpetuare in un modo che sia
compatibile con una qualunque idea di "ordine sociale", devono risolvere a
livello istituzionale due problemi essenziali. Primo, devono convogliare la forza lavoro
umana verso funzioni redditizie ("produttive"), il che si ottiene collocando le
"persone" nei "posti". Nellinsieme delle norme che regolano
lesecuzione di tale compito sono previste anche esenzioni selettive
dallaspettativa di svolgere attività economicamente remunerative: sono quelle che
si applicano, nelle società moderne, ai giovanissimi, agli anziani, ai malati e a quanti
godono di un patrimonio indipendente. Dal processo di collocare le persone nei posti
conseguono i modelli dellinclusione (qualunque sia il livello di disuguaglianza
allinterno della società), della partecipazione, del riconoscimento, del rispetto
di sé e della disciplina, nonché un progetto complessivo di divisione del lavoro. Tutto
ciò consente alle persone di nutrire una serie di aspettative relativamente stabili,
riguardo al posto a cui appartengono e alla condotta di lavoro e di vita più appropriata.
Il secondo compito delle società è quello di fornire ai cittadini in modi che
restino altrettanto fedeli a una sorta di schema generale, ripetitivo e sempre uguale per
tutti i mezzi di sopravvivenza e di relativo benessere, in cambio delle redditizie
funzioni da essi svolte (ora, oppure in fasi precedenti della loro esistenza) e come
precondizione dellintrapresa o della prosecuzione di tali attività. Tali mezzi
comprendono il reddito (o la possibilità di disporre dei mezzi necessari al consumo di
"beni") e protezione (o almeno parziale compensazione contro i rischi e
lincidenza dei "mali").
Questi due problemi, che chiameremo della produzione e della
distribuzione, si possono risolvere, a livello istituzionale, in una miriade di modi
diversi. Essi variano a seconda delle società e delle epoche storiche, e attraversano
differenti settori istituzionali. Schiavi e servi, soldati e monaci, studenti e contadini,
lavoratori e casalinghe, e moltissime altre categorie sociali, partecipano in qualche modo
preordinato allequivalente economico dei doveri specifici (produttivi) e dei diritti
(distributivi) che insieme formano, a livello individuale, lidentità sociale e, a
livello collettivo, lordine sociale. Non occorre qui ripetere che le modalità con
cui gli individui sono "collocati" ad occupare posizioni particolari da
una parte allinterno della divisione del lavoro e del regime produttivo, e
dallaltra nel regime distributivo sono soggette a valutazioni normative,
riguardanti la loro conformità alla nozione in quel momento dominante di "giustizia
sociale".
Nelle società moderne, il principale schema istituzionale che governa
sia le attività redditizie sia la quota spettante a ciascun individuo del complessivo
ricavo derivante dallattività produttiva, è il contratto di lavoro, che
devessere sottoscritto volontariamente ciascuno degli individui protagonisti
dalla parte della domanda come da quello dellofferta del mercato del lavoro;
esso implica, almeno a livello di possibilità, rapporti "contrattuali"
unilateralmente determinati da uno dei protagonisti in questione. Il contratto di lavoro
è dunque intrinsecamente contingente; esso stipula anche, di norma, una remunerazione
monetizzata (e non "in natura"), nonché la presenza del lavoratore in una
"impresa" (e non nella sua "abitazione"). Infine, i contratti di
lavoro sono generalmente inseriti in e controllati da una serie di
"diritti": i diritti del lavoratore, inalienabili e pertanto non soggetti alle
contingenze contrattuali. Il contratto di lavoro è una componente istituzionale
essenziale delle società moderne. Per quanto riguarda la maggior parte degli altri schemi
"non contrattuali" di produzione e/o di riproduzione, come quelli relativi ai
bambini, ai pensionati, a chi lavora in casa, ai malati, a chi vive di sussidi pubblici,
essi si considerano normalmente preparatori, o subordinati o derivati, rispetto al
meccanismo chiave del lavoro stipendiato; a meno che non rappresentino una delle
condizioni del già menzionato esonero riconosciuto dallaspettativa generale che
impone a tutti di avere un impiego stipendiato o comunque di svolgere unattività
redditizia. Se gli individui sono tutti impegnati in un lavoro, si ritiene che si
adempiano almeno alcune delle condizioni necessarie a realizzare valori quali la libertà,
la prosperità, lefficienza e la giustizia.
Ma la centralità del contratto di lavoro in quanto fondamento
dellordine sociale inizia a mostrare segni di erosione. O piuttosto, continua ad
essere considerata fondamentale senza che riesca più ad adempiere la propria funzione di
pietra angolare nei meccanismi del collocamento e della distribuzione e per
implicita conseguenza dellordine sociale.
Il "problema della disoccupazione" viene subito in mente come
la dimostrazione più ovvia di questo venir meno del lavoro contrattuale alle proprie
funzioni-chiave a livello istituzionale. Ma una disoccupazione contenuta è un fattore
fuorviante, ed eccessivamente eufemistico, in quanto sottovaluta sistematicamente le
dimensioni di tale fallimento istituzionale. La "disoccupazione" è come minimo
ununità di misura incompleta, se si vuole stabilire la reale misura in cui gli
schemi istituzionali del contratto di lavoro e del mercato del lavoro non riescono più
nel loro obiettivo. Questo fallimento istituzionale assume diverse forme, alcune delle
quali visibili, altre molto meno evidenti. Allo scopo di afferrare concettualmente
lintera gamma dei fenomeni rilevanti, si sarebbe tentati di affidarsi a spaventosi
neologismi concettuali, quali "precarietà della situazione sociale" e
"precarietà della sussistenza": dove il termine "precarietà" evoca,
in entrambi i casi, la connotazione dellinstabilità e di una perniciosa
imprevedibilità, oltre che la mancanza di riconoscimento e di prestigio sociale associata
a una simile situazione. In altri termini, il contratto di lavoro non riesce né ad
assegnare un "posto" nella società a un numero sempre maggiore di persone, né
a garantire loro reddito e protezione adeguati.
Cominciamo dalla precarietà della situazione. Il "gap
occupazionale" colpisce una grande varietà di persone. Tra esse, oltre a quanti sono
ufficialmente registrati e contati come "disoccupati", ci sono tutti i
lavoratori "scoraggiati", quelli che lavorano part-time mentre vorrebbero e
potrebbero essere occupati a tempo pieno; ci sono poi i lavoratori che accettano, più o
meno volontariamente, un pensionamento precoce o che si impegnano, per motivi altrettanto
ambigui, in varie forme di apprendistato e di formazione professionale. I finti lavoratori
autonomi e gli assunti con contratti a termine, sono altri casi da tenere in
considerazione, così come le forme di occupazione vigenti nei mercati del lavoro
irregolari o illegali.
Veniamo ora alla precarietà della sussistenza. È importante osservare
come non esista un rapporto diretto e reciproco con le categorie citate in precedenza. Si
può essere involontariamente "senza lavoro" e godere ugualmente di un livello
dignitoso di reddito e di protezione (grazie, ad esempio, al sostegno della famiglia o ad
accordi di assistenza e previdenza sociale); e, quel che più conta nel presente contesto,
si può al contrario essere pienamente integrati in una qualche forma di processo
produttivo senza godere di un livello di sussistenza e di protezione che si possa
considerare adeguato in base ai criteri dominanti della giustizia sociale. È il fenomeno
dei "lavoratori poveri" degli Stati Uniti o, in Europa, dei lavoratori "non
protetti", il cui reddito resta ben al di sotto del livello che consentirebbe loro
laccesso a quei benefici della previdenza sociale ottenibili solo dietro la
corresponsione dei contributi obbligatori. Questa duplice precarietà, e
linadeguatezza dei paradigmi del contratto di lavoro e del lavoro per tutti che non
riescono più a rappresentare le pietre miliari dellordine sociale, sono i problemi
cui faremo riferimento nel presente articolo. Occorre quindi stabilire le possibili
spiegazioni di questo fenomeno (1), le sue conseguenze, almeno nelle loro linee principali
(2), e la scelta delle risposte e delle proposte politiche, analizzate e valutate in
termini di giustizia sociale e di efficacia (3). Un tentativo di proposta politica,
insieme alla descrizione del futuro scenario di condizioni economiche, conflitto sociale e
configurazione di forze politiche, concluderà la trattazione.
1. Interpretazioni causali e rimedi associati.
Le spiegazioni degli attuali livelli elevati e persistenti di
precarietà portano a evidenziare una sconcertante varietà di fattori causali. Essi
possono essere, tra laltro, di natura tecnologica, micro-economica, macro-economica,
politica e socio-culturale.
Le spiegazioni tecnologiche della disoccupazione e della
sotto-occupazione puntano sulla disparità, sperimentata dalle economie tipiche
dellOcse, tra il tasso di crescita della produttività, quanto meno nel settore
manifatturiero, e il tasso di crescita della redditività economica. Quando il lavoro
diviene più produttivo, e ad esso non corrisponde una crescita sufficientemente rapida di
redditività complessiva, il risultato è un vasto sotto-utilizzo delle risorse di forza
lavoro disponibili. Allo stesso tempo, le possibilità di ridurre la disoccupazione, a un
livello considerato in qualche modo "normale", solo attraverso
laccelerazione della crescita economica, vanno considerate evidentemente
irrealistiche: sarebbe necessario infatti un (già ambizioso) tasso di crescita del 2,5
per cento solo per impedire un ulteriore incremento del tasso di disoccupazione ufficiale.
Lo stesso verdetto, totale mancanza di realismo, colpisce laltro termine del
rapporto crescita-produttività. Se la crescita non può essere accelerata attraverso
strumenti politici, è possibile rallentare la produttività del lavoro? La risposta è
semplicemente "no". Perché una strategia che respingesse la possibilità di
incrementare la produttività, verrebbe immediatamente punita dalla competizione
internazionale. Lamara verità è infatti che la disoccupazione è il risultato del
comportamento, indotto dal mercato, tanto dei vincitori come dei vinti nel gioco della
concorrenza: la diminuzione delloccupazione, attraverso lintroduzione di
tecnologie che consentono di risparmiare mano dopera, è il prerequisito della
sopravvivenza competitiva almeno nella stessa misura in cui è la conseguenza di un
fallimento competitivo.
Per inquadrare in modo diverso la medesima idea di "produttività
contro crescita", potremmo anche prendere in considerazione lipotesi di un
controllo delle innovazioni tecnologiche, in modo tale da favorire quelle che riguardano i
prodotti e scoraggiare quelle che potenziano il processo produttivo, per quanto la linea
di demarcazione tra le due cose in realtà sia spesso estremamente labile (come illustra
benissimo il caso del personal computer). Messa in questi termini la questione, ne
consegue inevitabilmente un altro interrogativo, su quali generi e quali quantità di
nuovi prodotti potrebbero presumibilmente incontrare leffettiva richiesta del
consumatore (e allo stesso tempo provocare un incremento rilevante di richiesta di
forza-lavoro) nelle ricche economie dellOcse. In passato, le forti crescite
occupazionali sono state scatenate dallimmissione sul mercato di ondate di prodotti
nuovi e dalla loro diffusione di massa (lesempio più significativo è quello
dellautomobile e del regime produttivo "fordista" ad essa associato);
oppure dallincremento vertiginoso nella produzione di armamenti in vista di una
guerra (la Germania nazista) o ancora dalle necessità di ricostruzione nei periodi del
dopoguerra (la Germania Occidentale). Ora, quale genere di nuovi beni di consumo, tali da
prevedere un massiccio assorbimento di forza lavoro, è possibile immaginare oggi? Una
risposta ovvia non esiste, a meno di essere disposti ad immaginarla non in termini di beni
destinati ad essere immessi sul mercato, ma di beni che contino sul "consumo
forzato" (prodotti destinati alla difesa, costruzione di strade e vie di
comunicazione, strumenti per il controllo dellinquinamento dellacqua e
dellaria) e siano a carico del bilancio statale. Se proprio dobbiamo pensare a
prodotti commerciabili, e se ragioniamo un attimo su quale sorta di oggetti la gente
sarebbe disposta ad acquistare in quantità considerevoli, la risposta sarà
probabilmente: gli stessi che già conosciamo (per esempio le automobili), ma con
unaspettativa di vita più lunga o una maggior resistenza alluso. Ma se questa
è la risposta, essa rappresenta una pessima notizia per il nostro contesto (nonostante le
sue innegabili attrattive in termini di valori politici "verdi"). A lungo
termine infatti, essa farebbe diminuire, anziché aumentare, la richiesta di nuovi beni,
perché lobsolescenza tecnica e la necessità di sostituzione si manifesterebbe meno
spesso in una stessa unità di tempo.
Il risultato di questo genere di argomentazione tecnologica è, per
solito, che rimane di fatto un solo genere di beni per i quali si dà una domanda
virtualmente illimitata e un limitatissimo potenziale di innovazione produttiva in grado
di ridurre la forza lavoro: si tratta dei servizi. Ma a questa visione di una società
post-industriale di servizi, e malgrado gli innegabili "bisogni" sociali cui i
servizi possono rispondere, si associano tre generi di "cattive notizie"
economiche. Primo: molte attività legate ai servizi (come la progettazione e la
contabilità) sono direttamente legate alla produzione; pertanto, un calo anche relativo
nel tasso di crescita produttiva finisce per incidere anche sulla domanda di tali servizi.
Secondo: il prezzo che si richiede per la fornitura dei servizi (per esempio quelli di
natura medica o comunque personale) riflette direttamente il fatto che chi li fornisce
può contare su un inferiore incremento di efficienza tecnica; e un aumento dei prezzi
superiore alla media, limita leffettiva richiesta di tali servizi. Il tasso di
crescita dei prezzi del terziario supera quello del settore secondario, con o senza
limpatto addizionale della sindacalizzazione del primo (soprattutto nel settore dei
servizi pubblici). Daltra parte, lincremento di produttività, anche nel
settore dei servizi, non si può e non si deve assolutamente escludere come rivela
uno sguardo alla rivoluzione tecnologica nel settore dei servizi bancari. Terzo: è
risaputo che la domanda nei confronti della maggior parte dei servizi è direttamente
legata al livello dei prezzi, il che implica che le prestazioni a pagamento tendono ad
essere sostituite dal fai-da-te gratuito, per iniziativa dei fornitori o dei consumatori.
Secondo diverse previsioni, ad esserne investita quanto prima e con maggiore rapidità
sarà una delle maggiori industrie di servizio quella del commercio al dettaglio,
che sarà in larga parte sostituito dallo shopping elettronico e dalle macchine per la
distribuzione automatica. Queste considerazioni si aggiungono allaffermazione
secondo cui non basta immaginare lemergere di una "società di servizi"
per poter tornare allepoca del "lavorare tutti"; si può prevedere
uneccezione a questa regola nel settore dei servizi personali ma
solo se tali servizi potranno essere forniti a prezzi significativamente più bassi. Nelle
condizioni attuali, in ogni caso, un aumento di personale tra gli addetti ai servizi
pubblici (e ai servizi direttamente legati alla produzione) è da escludere come
possibilità realistica: la richiesta di sempre nuovi tagli al bilancio, conseguenza delle
crisi fiscali, e landamento della pubblica amministrazione esigono una gestione
"più snella" e a dominare la scena è piuttosto la privatizzazione delle
imprese che forniscono servizi pubblici.
Veniamo ora alle spiegazioni economiche. La disoccupazione (e più
genericamente la precarietà di situazione), si ha quando ci sono più persone in cerca di
lavoro che lavori in grado di trovare le persone. Questo squilibrio si può interpretare
da due punti di vista: o la "domanda", cioè la richiesta di lavoratori, è
troppo "bassa", o "lofferta", cioè il numero di lavoratori
disponibili, è troppo "ampia". La maggior parte degli esperti di economia e di
politiche sociali optano intuitivamente e quasi automaticamente per la prima spiegazione.
Nella nostra era post-keynesiana in cui si ritiene in genere che i programmi
nazionali per loccupazione che si concentrano sulla "domanda" facciano
più male che bene la conclusione che di solito se ne trae è che il costo del
lavoro (ovvero dei salari sommati ai contributi da versare per la sicurezza sociale dei
lavoratori più i benefici non monetizzati e le provvigioni) dovrebbe essere ridotto, o
affiancato da incentivi maggiori per quei datori di lavoro che creano nuovi posti di
lavoro (purché occupati dai cittadini di quella nazione), quale che sia leffetto
che tutto ciò potrebbe sortire sui redditi dei lavoratori.
Quanto alla riduzione del costo complessivo delloccupazione, le
teorie prevalenti in merito alla "offerta" procedono dalla consueta e mai
verificata affermazione, secondo cui un lavoro "più a buon mercato" produrrebbe
automaticamente più richiesta e quindi più posti di lavoro. Il costo di
unassunzione, si sostiene, dovrebbe avvicinarsi al cosiddetto "salario di
equilibrio", che consentirebbe di assorbire tutta intera lattuale offerta di
forza lavoro e pertanto di azzerare il mercato. Quel che i sostenitori di questa linea di
pensiero dimenticano di considerare, tuttavia, è il fatto che, in qualsiasi economia
avanzata, i "salari di equilibrio" sono in realtà due, e tali che si discostano
nettamente uno dallaltro. Il primo, quello che azzera il mercato del lavoro, è
significativamente diverso da quello che dovrebbe consentire di azzerare il mercato di
beni e servizi. Ma se questo non accade, e lofferta di beni e servizi immessa sul
mercato non viene assorbita, non sarà possibile nemmeno assorbire laltro mercato,
quello del lavoro. Se infatti i beni prodotti non possono essere immessi (e assorbiti) sul
mercato, saremo necessariamente condotti a una minor richiesta di forza lavoro. Esiste per
di più una reazione "perversa" dellofferta, che è un fenomeno comune nel
mercato del lavoro: con il diminuire dei salari, lofferta di forza lavoro
intesa come numero di persone in cerca dimpiego o come numero di ore per il quale
cercano impiego non scende assolutamente (grazie al cosiddetto "effetto
lavoratori aggiunti"), ma al contrario cresce (almeno fino al quel punto nel tempo
quando si instaura "leffetto lavoratori scoraggiati"): esattamente il
contrario di quel che osserviamo nel mercato delle banane. Dopo tutto, espanendo la loro
offerta di forza lavoro, le famiglie cercano di raggiungere o mantenere quel che
considerano il loro "adeguato" livello di consumo. Di conseguenza, abbassare il
costo del lavoro non porta ad assorbire una "offerta" fissa, ma in costante
aumento. Tutto ciò sia detto solo per sottolineare la duplice natura dei salari. I salari
non rappresentano unicamente un costo produttivo per le imprese: essi costituiscono anche
e soprattutto il reddito o, se si vuole, il potenziale di consumo delle
famiglie dei lavoratori. Quando gli economisti puntano la loro attenzione unicamente su
una o sullaltra di queste due funzioni del salario, finiscono per cadere in quella
controversia piuttosto squallida che vede schierati i teorici della "destra
liberale", invocanti la riduzione dei costi del lavoro, contro le ricette della
"sinistra keynesiana", in difesa del mantenimento o dellincremento dei
salari reali. Entrambi, in nome del conseguimento o della riconquista della "piena
occupazione per tutti". È certo che, dalla fine degli anni settanta, le dottrine
economiche incentrate sullofferta hanno prevalso ovunque in Europa occidentale,
negli Stati Uniti e in Giappone. Le ricette keynesiane, soprattutto quelle che puntavano
tutto sulla creazione e la ridistribuzione di nuovi posti di lavoro, hanno perso
praticamente tutta la rispettabilità, culturale e pratica, di cui godevano un tempo. Ciò
è accaduto per cinque, ben note, ragioni: (1) La globalizzazione dei rapporti economici e
il sistema della fluttuazione dei tassi di cambio hanno vanificato ogni tentativo di
mantenere il controllo sulle economie nazionali attraverso gli strumenti keynesiani della
gestione della domanda. (2) Per di più, e proprio in ragione della sua natura, tale
gestione della domanda si dimostra efficace unicamente quando si realizza "in modo
inaspettato". Al contrario, quando diviene una pratica governativa di routine,
che può essere anticipata da agenti ragionevoli, si limita a concedere sussidi agli
investitori e non si trasforma in un aumento delloccupazione. Oltretutto (3)
linflazione, (4) laumento del debito nazionale e (5) il sovraffollamento degli
investimenti nel settore privato, conseguenza del debito, sono tutti elementi che si
ritiene abbiano portato alla disfatta politica e culturale delle teorie keynesiane.
Luso inflazionato del termine "globalizzazione" come
spiegazione razionale dellattuale situazione, dovrebbe essere frazionato in almeno
tre livelli.
Primo: lintegrazione economica dellEuropa occidentale
non soltanto porta a una intensificazione della competitività sui mercati dei beni e del
lavoro, ma anche a una perdita di sovranità nel campo delle politiche sociali ed
economiche. Questa perdita tende a fornire ai politologi una scusa abbastanza ineccepibile
per la loro mancanza di iniziativa, almeno per quel che concerne le politiche
occupazionali. La questione "che cosa dovremmo fare?" diviene in larga
misura irrilevante, semplicemente perché nessuna delle nazioni coinvolte può agire da
sola, e anche perché finora nessun "patto politico" occupazionale
transnazionale ha portato alcun frutto. Resta da vedere se quel che i paesi membri
dellUnione Europea (UE) non possono più fare da soli, si possa attuare attraverso
politiche e istituzioni integrate, transnazionali, a livello europeo. E per quanto
riguarda le politiche occupazionali, è difficile individuare i segnali promettenti di una
determinazione ad adottarle e realizzarle; per non parlare poi dellefficacia delle
politiche stesse. Mentre, per quanto riguarda le politiche economiche, non ci si può
stupire della situazione, almento allinterno della UE. In considerazione
dellimpegno dei governi UE in vista del Mercato Unico e dei criteri di Maastricht
che ne regolano laccesso, è semplicemente impossibile concepire una qualche
priorità che possa appesantire ulteriormente i bilanci statali con iniziative per
favorire loccupazione, tanto meno nel settore pubblico. E data la fine del
socialismo di stato nellEuropa centro-orientale, e la totale perdita di ogni fascino
precedentemente esercitato sugli occidentali, i governi non sono più sfidati a
rivaleggiare con lunico "successo" del socialismo di stato posti di
lavoro stabili e garantiti per tutti nella speranza di immunizzare le classi
lavoratrici dalla presunta e sospetta inclinazione a "passare dallaltra
parte". Le politiche per favorire loccupazione, così come le generose forme di
previdenza e sicurezza sociale, introdotte in una situazione di guerra fredda, possono
essere in parte interpretate come un "salario di affidabilità politica", inteso
a contenere le defezioni ideologiche di parte della classe lavoratrice. In ogni caso per
lOccidente, rispetto allepoca della guerra fredda, oggi è molto meno
imperativo mantenere una piena occupazione per tutti e, attraverso di essa,
generosi benefici sociali, equità distributiva, armoniose relazioni industriali e
stabilità politica al solo scopo di tenere a bada le blandizie ideologiche
dell "altra parte" e dei suoi leader comunisti.
Secondo: la produttività delle economie dellEst asiatico non
sta soltanto distruggendo sistematicamente il vantaggio competitivo di quelle occidentali,
un tempo frutto delle loro infrastrutture e di tecnologie più avanzate, ma sta anche
rendendo sempre più evidenti alcuni svantaggi concorrenziali in termini di locazione
-almeno allinterno della Repubblica Federale Tedesca.
Terzo: dalla fine della guerra fredda, non sono soltanto le nazioni
oltre la cortina di ferro, ma anche i paesi capitalisti dellEuropa occidentale a
essere diventati post-comunisti. E questi ultimi si devono adeguare allimmediata
vicinanza di sistemi economici in cui laddestramento e la formazione della forza
lavoro possono raggiungere, se non addirittura superare, i livelli a cui sono abituati, ma
in cui il costo del lavoro, almeno per il momento, ammonta ad appena un settimo del loro
(è il caso della Repubblica Ceca). Questo elenco potrebbe allungarsi fino a comprendere
il peculiare problema tedesco dei passaggi da Ovest a Est, in gran parte legati ai
consumi, nonché il fatto, piuttosto spinoso, che oggi molte delle regioni industriali sul
cui territorio operano grosse aziende impegnate nel ramo della difesa si trovano a dover
affrontare un "dividendo di pace" inequivocabilmente negativo.
Nel complesso, questa globalizzazione post-comunista si traduce in
elevati livelli di disoccupazione allinterno dellUnione Europea. Politiche
occupazionali di una certa efficacia nelle singole nazioni o regioni sono intraprese
soltanto al prezzo di una crescente disoccupazione altrove.
È difficile vedere in che modo si possa rispondere alla
"globalizzazione" (in una qualunque delle sue tre versioni, con il loro impatto
profondamente diverso caso per caso) attraverso politiche che siano almeno ragionevolmente
promettenti. Nessuna discussione né proposta politica che nasca dalla
preoccupazione per linteresse nazionale oppure in nome di una giustizia globale
può sperare con qualche fondamento di impedire ai paesi dellEst, asiatico o
europeo, di rifornire i mercati dellOcse con i loro prodotti industriali (compresi
quelli a tecnologia avanzata); anche perché sono in grado di fornirli a prezzi altamente
competitivi (il che comporta implicazioni piuttosto gradite, almeno in parte, a chi
esporta capitali da investire nelle nazioni fuori dallOcse). Gli esperti di
politiche economiche hanno imparato che il protezionismo può essere, ed è, punito dal
mercato globale. E non esiste nemmeno una ragione moralmente plausibile per cui le vecchie
nazioni industrializzate dovrebbero poter togliere la scala da sotto i piedi degli stati
emergenti, bloccando attraverso misure protezionistiche i loro sforzi di
industrializzazione, nellEst o nel Sud asiatico, in America Latina o nei paesi
dellEst Europa. Diverso è chiedersi se sia giusto consentire che tali vantaggi
concorrenziali siano frutto di palesi violazioni dei diritti dei lavoratori, degli
standard ambientali e spesso anche dei diritti umani (comè il caso del lavoro
infantile). Allo stesso tempo, i politici occidentali possono imparare dal loro passato
che il rispetto di quei diritti e di quelle preoccupazioni è in realtà frutto di
unindustrializzazione coronata da successo, e pertanto si potrebbe consentire (e
anzi favorire, attraverso appropriati incentivi politici) che lo stesso cammino sia
seguito anche altrove.
Per quanto riguarda le politiche economiche, occorre ancora rilevare
che mentre "tutti noi" siamo in qualche modo influenzati negativamente dalle due
forme di precarietà del mercato del lavoro, "nessuno di noi" (o almeno i
principali protagonisti collettivi che ci rappresentano), per ragioni istituzionali, ha un
evidente interesse prioritario a recuperare una situazione di piena occupazione (e a
sostenere i costi potenzialmente proibitivi che tale recupero comporterebbe). Come hanno
fatto osservare i teorici del salario legato allefficienza, i datori di lavoro
con unincongruità che è solo apparente hanno un ragionevole
interesse a fissare i salari a livelli superiori al cosiddetto "salario
dequilibrio" quello che consentirebbe di assorbire il mercato del
lavoro. Tali salari "eccedenti" consentono infatti di economizzare sui costi di
transazione comportati da alti livelli di mobilità e di fluttuazione nel mercato del
lavoro. Inoltre i sindacati, se vogliono conservare la loro stabilità organizzativa,
devono preoccuparsi piuttosto di difendere i salari esistenti, e sono costretti a
privilegiare tale obiettivo ben al di sopra di quello occupazionale. Dal punto di vista
sindacale, disoccupati, sottoccupati e quanti lavorano in settori non protetti soffrono,
come è noto, di un grave handicap quando si tratta di accedere a forme di azione
collettiva e quindi di accedere alle risorse, politiche oltre che economiche, che
tale azione collettiva organizzata rende disponibili. In questo contesto, non ha alcuna
importanza che uno dei limiti istituzionali del mercato del lavoro risieda nel fatto che
in esso sono coinvolti tre interessi dei lavoratori (salari, condizioni di lavoro,
qualità e sicurezza del posto di lavoro) ma che soltanto i primi due possono essere
oggetto di negoziati; mentre le associazioni che difendono gli interessi dei datori di
lavoro non possono assolutamente sottoscrivere (senza correre il rischio di una defezione
di massa dei loro membri) contratti collettivi, a livello settoriale o locale, che li
vincolassero quanto al numero di lavoratori da assumere, per esempio, nel corso del
prossimo anno.
Rimane da illustrare un ultimo gruppo di interpretazioni causali, che
si aggiunge ai fattori tecnologici, economici, politici e istituzionali. Esso riguarda i
prerequisiti culturali e morali del mercato del lavoro, inteso come componente essenziale
dellordine sociale. Per dirla in modo brutale, il problema è che la precarietà (in
entrambe le sue forme) deriva dal degrado delle infrastrutture motivazionali e cognitive
dei lavoratori nelle società occidentali: una malattia morale imputata talvolta
alleffetto demoralizzante di accordi eccessivamente generosi sul piano dei benefici
sociali. Il declino dell "etica del lavoro" è giudicato spesso il
problema chiave, quando si dice che i lavoratori "pretendono troppo" (in termini
di reddito, di sicurezza e di tempo libero), mentre contribuisono "troppo poco"
(in termini di impegno sul lavoro, di sopportazione, di capacità di apprendistato, di
comportamento leale e rispettoso delle leggi e delle norme, nonché in termini di
adeguamento alle necessità imposte dalla flessibilità).
Ma né il contenuto reale né le implicazioni politiche di questa serie
di argomentazioni sono evidenti. È vero che il capitalismo industriale nutre e in
un certo senso, ci campa sopra un consumismo edonistico e un diffuso tradimento
delle presunte virtù del lavoratore di epoca vittoriana. Ma si può anche dedurne che le
manchevolezze nel potenziamento delle risorse umane possono derivare da inadeguatezze
degli stanziamenti per le scuole e per la formazione professionale, oltre che dalla natura
sempre più esigente di molti impieghi, per i quali si impongono requisiti cui non si può
pretendere che chiunque sappia corrispondere in modo adeguato. Il problema, in molte forme
standardizzate di formazione permanente pubblica e privata e di aggiornamento
professionale, è che spesso questi strumenti raggiungono solo quanti già hanno acquisito
un livello abbastanza avanzato, mentre trascurano (o comunque non riescono a inserire
adeguatamente nel mondo del lavoro) quelli che più avrebbero bisogno di aggiornare le
proprie capacità e competenze. Non bisogna nemmeno sottovalutare il fattore dello
scoraggiamento, del disorientamento, della frustrazione e del cinismo. Fattore causato
non causale dalla percezione e dallanticipazione di una delle due
forme di precarietà, e che comprensibilmente potrebbe andarsi ad aggiungere ai sintomi di
quel presunto degrato motivazionale e cognitivo. Per di più, le implicazioni politiche di
questo genere di diagnosi sono tuttaltro che ovvie a parte labolizione
di strumenti istituzionali di previdenza e di protezione sociale, nonché
laggiornamento delle capacità e delle competenze professionali attraverso
investimenti in termini di risorse umane (vedi sopra).
Unaltra spiegazione sociale e culturale della precarietà del
mercato del lavoro riguarda il declino di una forma di vita che devessere
considerata, a parte il contratto di lavoro, un altro meccanismo fondamentale tramite cui
le persone vengono collocate o inserite nella vita sociale: il nucleo familiare. Ciò
implica una crescita complessiva, che varia radicalmente col variare dei paesi
interessati, della partecipazione femminile al mercato del lavoro e della durata di tale
partecipazione nel corso della vita delle donne. Poiché, in molti paesi europei, la media
della popolazione si sposa più tardi o (sempre più spesso) non si sposa affatto, ha
sempre meno figli e i matrimoni durano meno, nel settore dellofferta del mercato del
lavoro ha fatto la sua comparsa un serbatoio in continuo aumento di una forza lavoro
femminile che un tempo era invece relegata nellabitazione familiare e assorbita da
un lavoro non gestito dal mercato. Lindebolimento della struttura familiare, e del
sostegno sociale che la famiglia è in grado di fornire, può essere letto non tanto come
un sintomo di "individualizzazione" ma, insieme, come la causa di
unaddizionale offerta di lavoro da parte delle donne e e come la risposta alla
percezione della precarietà del posto di lavoro, del reddito e della protezione sociale.
La parità fra i sessi e laccesso consentito alle donne come agli uomini
allistruzione superiore e al mercato del lavoro sono divenuti, in parte grazie alla
mobilitazione politica e culturale del femminismo, un dato acquisito sul piano morale come
su quello politico (anche se certo non una realtà socioeconomica), proclamato da quasi
tutte le principali forze politiche (con leccezione dellestrema destra). Di
conseguenza, le politiche discriminatorie volte a escludere almeno in parte lofferta
di lavoro femminile dal mercato devono essere considerate moralmente e politicamente
obsolete, specie nel momento in cui la precarietà della situazione e della sussistenza
rendono un numero sempre maggiore di famiglie dipendenti dal fatto di riuscire a inserire
sul mercato più di una "unità" di forza lavoro .
Per riassumere, si può immaginare un universo limitato di strategie
concepibili in grado di portare a una "piena" (o quanto meno a una
"maggiore") occupazione; e la maggior parte di esse appare decisamente preclusa
dalle condizioni oggi dominanti o prevedibili. In primo luogo è praticamente impossibile
attuare, nelle odierne economie aperte esposte alla globalizzazione, una politica di
crescita, relativamente al mercato del lavoro, che operi sul settore della domanda; e se
anche fosse possibile, i suoi risultati in termini occupazionali rimangono estremanete
incerti e in ogni caso sicuramente limitati. Secondo, si potrebbe intervenire, come
propongono i neo-liberal, sul settore dellofferta. Ciò significa
incrementare le attrattive della forza lavoro agli occhi delle imprese, migliorando quelle
caratteristiche della forza lavoro che gli imprenditori apprezzano maggiormente. I
lavoratori preferiti sono quelli a buon mercato (in termini di salari e di contributi
sociali), specializzati (in termini di competenza tecnica e di atteggiamento e
comportamento sul lavoro) e flessibili (soggettivamente disposti ad adeguarsi ai
cambiamenti nei salari, nelle capacità richieste, nellorario di lavoro, nel luogo
in cui si lavora, oltre ad essere oggettivamente liberi da uno schema troppo
"rigido" di diritti e di norme che regolano il rapporto contrattuale di lavoro).
Perseguendo questa strategia, tuttavia, è probabile che si vada incontro a serie
limitazioni politiche, oltre che a conseguenze fortemente negative sulla coesione sociale.
Il fenomeno della nascita di una nuova "sottoclasse" e quello dei
"lavoratori poveri" sarebbero gli indicatori più ovvi di tali conseguenze. Ci
sono poi, ed è il terzo punto, le politiche negative relativamente allofferta, che
cercano di limitare laccesso al mercato occupazionale. Le varianti più tradizionali
di questa opzione prevedono di tenere le donne allinterno della famiglia, mandare a
casa loro gli stranieri, estendere il periodo di formazione per i giovani lavoratori e
promuovere il prepensionamento per quelli più anziani. Le prime due varianti si scontrano
con obiezioni politiche e morali, nonché con un gran numero di ostacoli istituzionali; le
ultime due con ostacoli economici parimenti proibitivi, in particolare per quanto riguarda
le spese per listruzione e quelle pensionistiche. La riduzione dellorario di
lavoro è unopzione strategica meno contrastata, ma anchessa si scontra con
ostacoli quasi insormontabili, che illustreremo in seguito. Da tutte queste
considerazioni, non si può che trarre la conclusione (esposta nella terza sezione) che è
necessaria una nuova generazione di strategie per inibire lofferta di lavoratori;
non solo necessaria, ma auspicabile e fattibile, intesa a creare un diritto economico dei
cittadini, sufficientemente attraente da consentire loro di scegliere di rimanere privi di
un posto di lavoro formale per limitati periodi di tempo.
2. Conseguenze sociopolitiche della precarietà.
Per quanto riguarda limpatto della disoccupazione sulle persone
che non riescono a trovare e a mantenere un posto di lavoro stabile, molto
dipende dalla durata del periodo di disoccupazione, nonché dallimporto e dalla
durata dei sussidi e dei servizi agevolati a cui possono accedere. Un caso a parte è
quello, molto trascurato dalle statistiche sul mercato del lavoro, della disoccupazione
giovanile altrimenti definibile, grosso modo, come la condizione di chi non ha un
lavoro senza averlo mai avuto prima, o quanto meno senza aver mai lavorato in modo
regolare e contrattualizzato. Le conseguenze di questesperienza di precariato sono
ben note, e non occorre qui soffermarsi su di esse. Esse comprendono unassenza di
quella autonomia derivata dalla "normale" partecipazione al mondo del lavoro e
del consumo. Così lisolamento sociale, la perdita di prestigio sociale e di stima
di sé, i sensi di colpa, la graduale erosione di una condotta di vita disciplinata e
organizzata, un impatto negativo sulla salute fisica e mentale e la perdita graduale della
capacità di trovare un lavoro qualunque, sono tutte conseguenze ben documentate della
precarietà. E questa è lesito del fatto che la forza lavoro (specializzata) è in
se stessa un "bene deperibile", che può svanire rapidamente quando non viene
utilizzato. Bisogna poi aggiungere che una sorta di "incantesimo maligno" sembra
aleggiare sulle persone vittime di lunghi periodi di disoccupazione, e tale alone spesso
stigmatizza la persona che ne è colpita, per una sorta di regola secondo cui
"lultimo arrivato è il primo che se ne va". Anche le forme di assunzione
illegali o irregolari, nonché il ricorso a sistemi criminali per risolvere il problema
del reddito (compreso quello derivato dalla vendita di droga) sono notoriamente
implicazioni statistiche di una disoccupazione prolungata.
Altrettanto significative sono le dirette conseguenze di una situazione
generale di disoccupazione diffusa e prolungata su quei lavoratori che sono (ancora)
occupati. La loro preparazione ad adeguarsi alle richieste aziendali in termini di
mobilità, flessibilità e ore di lavoro straordinario, la loro disponibilità ad
affrontare restrizioni salariali, a livello personale o collettivo, e la decisione di
astenersi da atteggiamenti conflittuali per ciò che riguarda la retribuzione e le
condizioni di lavoro, sono tutti fattori condizionati dalla percezione della sicurezza del
posto di lavoro o dalla minaccia di licenziamento.
A livello istituzionale, le conseguenze della disoccupazione e della
precarietà del reddito sui sistemi di sicurezza sociale e di welfare sono
altrettanto conosciute, almeno nel continente europeo. Che gli stanziamenti per la
sicurezza sociale (in tutti i suoi settori, dalletà avanzata alla salute, dalla
disoccupazione fino, come accade in alcuni paesi, allassistenza a lungo termine)
siano o meno strettamente legate ai contributi (anziché finanziate tramite prelievo
fiscale), come accade in Germania, il fallimento del mercato del lavoro nel
"collocare" i cittadini e nel provvedere al loro reddito e alla loro protezione
economica è causa di una crescente pressione fiscale sui sistemi previdenziali. Lo
scenario da incubo che tormenta i politici è quello del circolo vizioso: per poter
onorare le rivendicazioni, previste dalla legge, dei disoccupati e di quanti percepiscono
una qualche forma di assistenza sociale, è necessario elevare (o almeno mantenere ai
livelli attuali) lentità dei contributi (e anche delle tasse), che sono poi quelli
che fanno salire il costo del lavoro (che è cosa distinta dai costi della retribuzione).
Ma questi livelli di costo del lavoro, il continuo ricorso a segmenti di forza lavoro
diviene non competitivo, e le imprese non possono più permetterselo. Di conseguenza, la
disoccupazione genera ulteriore disoccupazione, anche a causa di una situazione
demografica estremamente sfavorevole e della limitata possibilità, sul piano politico, di
intervenire riducendo in modo drastico e improvviso il diritto legale da parte di
chi è afflitto da problemi di precarietà di impiego e di reddito ad accedere a
sussidi e servizi di previdenza sociale.
Questi limiti, tuttavia, non precludono un ridimensionamento e la
parziale ricostruzione (Umbau) dellintera struttura di Welfare State,
che si sta avviando nella maggior parte dei paesi dellUnione Europea così come in
altri paesi Ocse, dagli Stati Uniti alla Nuova Zelanda. I vari tipi di stato sociale
attualmente in vigore in questi paesi sono stati costruiti storicamente a partire da
quattro elementi principali, la cui composizione risale addirittura alla fase iniziale
dellindustrializzazione (nonché della progressiva "mercatizzazione" del
lavoro), cioè al XIX secolo. Le forze propulsive di questa sequenza di elementi furono il
conflitto di classe politicizzato (spesso percepito dalla classe dominante, ma anche dai
suoi protagonisti, come potenzialmente "rivoluzionario") e il conflitto
internazionale allinterno del moderno sistema degli stati sovrani: insieme, questi
due fattori hanno scatenato gli sviluppi del futuro stato sociale; le circostanze della
guerra e del dopoguerra hanno poi agito da catalizzatori per far compiere un balzo in
avanti al suo rinnovamento istituzionale. Primo, i lavoratori dovevano essere
protetti, sul luogo di lavoro, attraverso regolamenti stabiliti per contratto e
riguardanti il tempo di lavoro e altre condizioni. Secondo, i lavoratori dovevano
essere protetti anche fuori dal luogo di lavoro, attraverso accordi stabiliti per
contratto i quali assorbissero (in parte) i rischi direttamente connessi al reddito:
malattia, incidenti sul lavoro, impossibilità di svolgere attività retribuite dopo una
certa età, e disoccupazione (questultima, in genere, riconosciuta molto più
tardi); tra queste politiche sociali erano comprese anche agevolazioni per lacquisto
della casa e per le famiglie numerose. Terzo, i lavoratori avevano conquistato il
diritto a che la retribuzione fosse determinata non solo attraverso un contratto
individuale, ma attraverso una contrattazione collettiva: la parte rappresentante
lofferta nel mercto del lavoro si raccoglieva così attorno ai sindacati, e veniva
legalmente garantito il diritto di sciopero. Infine, si istituzionalizzava un impegno de
facto (e in alcuni paesi, de jure) da parte dei governi che dovevano perseguire
lobiettivo del "lavoro per tutti", cui doveva essere data la massima
priorità attraverso le politiche economiche dello stato. Oggi è evidente che, con il
palese fallimento degli strumenti di questultimo, più recente elemento del Welfare
State le politiche in favore delloccupazione tutta
limpalcatura delle altre componenti ormai acquisite dello stato sociale
protezione dei lavoratori, sicurezza sociale, contrattazione collettiva dei salari e delle
condizioni di lavoro attraverso i sindacati sono anchesse in grave pericolo.
Disoccupazione significa che ci sono molte più persone che non lavorano, e hanno bisogno
di sostegno economico fintanto che non percepiscono uno stipendio. Ciò implica
lerosione di quel guscio istituzionale che proteggeva il mercato del lavoro, e che
abbiamo imparato a dare per scontato e a considerare il pilastro portante dellordine
e della stabilità nelle società industriali: in sintesi, il Welfare State. Al
momento non è affatto chiaro quali potranno essere, se ve ne saranno, le conseguenze su
larga scala e a lungo termine dellerosione di questo guscio protettivo: conseguenze
sulla legittimazione politica, sullordine sociale e sul genere e intensità del
conflitto sociale che si oppone alla coesione sociale. Una cosa sembra di poter escludere
con una certa sicurezza: i movimenti rivoluzionari di massa che cercano di rovesciare,
attraverso forme di rivoluzione, le fondamenta del capitalismo industriale e con esso
della democrazia liberale, con lobiettivo di sostituire entrambi con un progetto
istituzionale alternativo di economia politica. Per quanto possiamo predire riguardo alle
conseguenze politiche, ci sembra di poter immaginare soltanto dei movimenti disuniti e
dispersi in mille rivoli, magari forti di una decisa militanza, ma strategicamente inetti
e di breve durata, in grado tuttal più di inscenare manifestazioni di protesta
contro licenziamenti di massa e tagli alla spesa sociale. Ad una riflessione sommaria,
appare più probabile una svolta a lungo termine nellattuale scenario, o un
trasferimento del conflitto sociale a livello istituzionale. Esprimendoci in modo
schematico, diremo che il conflitto sulle possibilità di vita si "sposterà verso
lalto", dalle tavole dei negoziati specialistici tra solidi partner sociali, ai
governi nazionali e ancora oltre, ad agenzie governative transazionali; allo stesso tempo,
lo scenario del conflitto si sposterà anche "verso il basso", nelle strade, e
finirà per coinvolgere gli organismi dello stato che si occupano di repressione del
crimine e di giustiza penale. Un altro elemento che sembra destinato allascesa è la
politica del protezionismo populista di destra, che chiederà un rafforzamento dei confini
contro il flusso di capitali verso lesterno e soprattutto, con toni violenti e
acutamente xenofobi, contro il flusso di forza lavoro "straniera" in cerca di
occupazione.
Ancora più significativo, immagino, di unazione di massa
strategica in grado di sfidare lattuale ordine politico, sono le conseguenze
estremamente rilevanti per la collettività non-politiche o quanto meno
pre-politiche. Timore, fatalismo, sottomissione e uninclinazione a colpevolizzare le
vittime sono tutte consuete risposte psicologiche allesperienza della precarietà; e
si uniscono alle sue ripercussioni, meno comprese di quando sarebbe auspicabile, sul
comportamento e sulla cultura nella sfera politica. Ulteriori sintomi di tali conseguenze
sono la lacerazione del tessuto sociale: cioè la disgregazione del sentimento, condiviso
da quanti sono colpiti dalla precarietà e anche da quanti (per ora) non lo sono, di
vivere tutti in una medesima società, soggetti agli stessi diritti e agli stessi doveri,
alle stesse opportunità e alle stesse restrizioni. Il verificarsi di questa disgregazione
può dipendere da fattori di spazio (come avviene con la segregazione urbana o regionale),
di tempo (tra gruppi di età e di generazioni), di livelli di istruzione, di salute, di
risorse familiari, di legalità (avere o non avere una residenza legale e una fedina
penale pulita), di residenza in regioni a più o meno alto tasso di disoccupazione, di
razza, di etnia. Insieme con le disparità sempre più acute nellaspettativa di vita
e con i sintomi di emarginazione, sempre più evidenti per vincitori e vinti. In un gioco
in cui la posta è evitare o risolvere una condizione di precarietà, le risorse morali di
solidarietà, o il gusto per cose tipo il benessere di "tutti gli altri" e il
"piacere di vivere in una società giusta" sono destinate a diminuire
drasticamente. È sempre più evidente che le misure di austerità mirate ad alcune
categorie e i tagli allo stato sociale non incontrano più una resistenza decisa e
coerente, ma lapprovazione più o meno tacita da parte della maggioranza, di quanti
cioè hanno motivo di attendersi più bene che male dalla stretta alle cinghie altrui: e
quel che rimane del conflitto, riguarda chi debbano essere i proprietari delle cinture,
non quanti buchi vi vengano fatti.
3. Le scelte politiche fondamentali
Le cause della precarietà riassunte nella prima parte,
contestualizzate nei tre generi di conseguenze inaccettabili (dal punto di vista
funzionale oltre che morale) sottolineate nella seconda, lasciano i politici e in generale
le forze politiche di fronte alle seguenti scelte fondamentali. O si ritiene, e si opera
di conseguenza, che gli effetti di disorganizzazione sociale possano essere controllati e
con il tempo eliminati, tramite il rinnovamento e lirrobustimento del mercato del
lavoro, in quanto questultimo è il primo fattore dellordine sociale. O in
alternativa si ritiene, e si opera di conseguenza, che tali sforzi di rinnovamento siano
senza speranza (o intrinsecamente inaccettabili per le loro implicazioni economiche e
morali), e che la risposta vada invece cercata non nelleliminazione delle cause
stesse, bensì nella graduale neutralizzazione che tali fattori causali (inammovibili in
sé) comportano sulle aspettative di vita dei singoli, sullordine istituzionale e
sulla coesione sociale. La scelta è dunque tra la ricostituzione del "lavoro per
tutti" e il rendere tollerabile la disoccupazione, controllandone le conseguenze in
termini di precarietà.
Questo scritto è in favore della seconda tra queste due alternative
fondamentali. Per amor di realismo e onestà, la disoccupazione e le due forme di
precarietà descritte allinizio non possono più essere descritte come un
"problema" (termine che implica la possibilità di trovare una soluzione,
attraverso la giusta misura di sforzi politici, di inventiva e di determinazione), ma come
un fenomeno negativo, una sfida che le economie, i governi e le società dei paesi Ocse
devono affrontare. Non serve a nulla prendere di petto questa condizione, dolorosa ma
cronica, attraverso la retorica della piena occupazione tanto amata dai socialdemocratici,
come del resto anche dagli economisti filo-libero mercato. Non possiamo far altro che
abituarci a convivere nel migliore dei modi con il fatto che una larga parte della nostra
popolazione, di entrambi i sessi, non troverà vitto e alloggio grazie a un
"normale" (cioè ragionevolmente sicuro, adeguatamente protetto e dignitosamente
remunerato) posto di lavoro. La questione chiave rimane se e come possiamo modificare
questa situazione, in modo da minimizzarne limpatto negativo, sociale e politico,
tramite una combinazione tra quelle iniziative contrattuali e di mercato che finora hanno
governato la situazione e le condizioni di lavoro, e altre iniziative istituzionali
nella fattispecie, quelle fondate sui principi di cittadinanza e di comunità.
La reazione dominante a questa situazione nellEuropa di oggi è
un chiaro caso di risposta del primo tipo. Parlando in generale, ci sono tre dimensioni
che possono essere manipolate allo scopo di rendere più conveniente per le imprese
lassunzione di nuova forza lavoro: la retribuzione, la specializzazione e il tempo.
In termini politici, e per quanto riguarda la prima di esse, ciò si traduce in politiche
di riduzione più o meno controllata dei salari reali, del costo del lavoro, della
sicurezza sociale e di vari altri benefici e servizi. Sottoposti alle pressioni
concorrenziali del mercato mondiale, alcuni paesi europei vanno abbandonando lidea
di condizioni di lavoro ormai dichiarate "lussuose" e di stipendi uniformemente
elevati. La definizione di salari, competenze e forme di protezione e di previdenza nel
"rapporto di lavoro tipo" (Normalarbeitverhältnis) hanno perduto la loro
"normalità" empirica, oltre che morale. Questo cambiamento è sostenuto anche,
a livello politico, da un sempre crescente "fronte del capitale", che invoca un
aumento delle assunzioni attraverso la riduzione dei salari e degli altri costi del
lavoro. A questo stesso contesto appartengono anche le coraggiose proposte di Fritz
Scharpf, illustre politologo socialdemocratico che pensa a una combinazione di
"imposte negative sul reddito" e di solidarietà sociale, tramite
lintroduzione, nelleconomia tedesca, di un settore di lavoratori a basso
costo, i cui salari verrebbero sovvenzionati tramite forti detrazioni dallimposta
sul reddito. Tuttavia, nulla sta ad indicare che le imprese sarebbero interessate a creare
tali posti di lavoro a basso costo, e nemmeno possiamo essere certi che, anche in presenza
di un simile interesse, questi posti saranno occupati soprattutto da lavoratori
addizionali (e non dal declassamento di quelli già impiegati) e da lavoratori provenienti
dal mercato interno (e non da lavoratori provenienti da altre nazioni europee o da
extracomunitari). Soltanto se sarà possibile vincolare le imprese a queste condizioni,
gli auspicati effetti positivi sulloccupazione (interna) potranno risultare
realizzabili.
Veniamo ora alle competenze. Unalternativa che renda
loccupazione "più economica", pur mantenendo costanti i livelli di
produttività, significa far sì che i lavoratori siano più specializzati e più
produttivi a costi che (si presume) rimangono costanti. È lapproccio politico del
cosiddetto "capitalismo umano", che assume talora sfumature da "capitalismo
umanitario" (Waters, 1996). Tale approccio presenta alcune innegabili attrattive, e
altrettanto innegabili lacune. Primo: competenze più specialistiche richiedono periodi di
formazione più lunghi, periodi nei quali la forza lavoro potenziale viene temporaneamente
sottratta dalla massa rappresentante "lofferta" sul mercato del lavoro
(disoccupati e sottoccupati). Ma questa forza lavoro temporaneamente
"disattivata" devessere in qualche modo sostenuta durante questi periodi,
e lattività formativa deve avere una remunerazione. Non è affatto chiaro da dove
dovrebbero provenire le risorse necessarie a finanziare una "offensiva per la
qualificazione dei lavoratori" su larga scala. Si tratta di un problema
particolarmente spinoso, perché è nella natura del capitale umano (contrariamente a
quello monetario) che linvestitore che tale capitale produce non rimane, secondo il
principio liberale della "proprietà di sé", con la persona che ha investito di
queste competenze. Alla fine ci si ritrova con il classico problema dellazione
collettiva: ciascun potenziale datore di lavoro disposto ad assumere personale
qualificato, cercherà comè logico di approfittare gratuitamente degli sforzi
formativi compiuti da qualcun altro: il risultato non potrà che essere una sistematica
riduzione dellinvestimento nelle risorse umane. Ma, in secondo luogo, non è affatto
certo che le specializzazioni acquisite attraverso anni di formazione ufficiale
costituiscano veramente la variabile in grado di operare la differenza. Molti impieghi non
richiedono e non sfruttano appieno le competenze che i lavoratori possiedono in realtà, e
spesso le specializzazioni possedute dai lavoratori e quelle richieste dalle aziende non
riescono ad incontrarsi, a causa dellimprevedibilità delle esigenze di queste
ultime. La formazione professionale è, dopo tutto, una "tecnologia del caos",
in cui è notoriamente difficilissimo calcolare gli algoritmi che legano limpegno al
risultato, e il risultato alluso economico che se ne può fare. In terzo luogo,
occorre anche osservare che la capacità e la disponibilità delle persone
sopportare sempre nuovi cicli di obsolescenza delle loro qualifiche, sottoporsi ad
aggiornamenti e approfondimenti che comunque non le mettono al riparo da possibili future
obsolescenze non può essere infinita. Le offensive per la qualificazione producono
altrettanti perdenti (o falliti) che vincitori, e di solito ne beneficiano quelli che ne
hanno meno bisogno (cioè quelli che si impegnano per conservare il posto). La terza
dimensione citata sopra, il tempo, non può essere ulteriormente approfondita in questa
sede. Lidea di fondo è che le imprese saranno razionalmente interessate ad
impiegare più lavoratori (o a mantenere gli attuali livelli occupazionali) se i
lavoratori stessi saranno disponibili ad una flessibilità riguardo ai ritmi di
produzione, e accetteranno variazioni in termini cronologici del loro orario di lavoro.
Lopzione di far lavorare le persone solo quando ce nè bisogno, e solo per il
tempo necessario, può anche far acquisire, marginalmente, un certo valore al singolo
lavoratore; ma è anche un potente strumento per economizzare sulla forza lavoro totale
che deve trovare un posto in qualche impresa.
Le attuali iniziative e proposte riguardanti il mercato del lavoro e le
politiche dei salari hanno un tratto in comune: un atteggiamento difensivo. Possono
riuscire al massimo a conservare i posti di lavoro esistenti, ma non ne creano di nuovi.
Potrebbero incoraggiare i datori di lavoro ad assumere o a non licenziare, ma quando
leffetto è quello di una diminuzione dei salari reali, diventa più difficile per i
produttori di beni di consumo riuscire a vendere la loro merce. E anche in assenza di
conseguenze economiche tanto spiacevoli, rimane senza risposta un altro interrogativo. Se
cioè una politica di smantellamento controllato di quelle forme di occupazione estensiva
e di protezione sociale di cui oggi godono la gran parte dei lavoratori allinterno
della UE, sarà in grado, e fino a quando, di scongiurare una o entrambe le reazioni
disperate che già iniziano a manifestarsi: da una parte, la lotta della sinistra
militante per invocare la protezione governativa del posto di lavoro (a qualsiasi prezzo,
praticamente) e, dallaltra, la lotta della destra sciovinista per invocare la
protezione governativa contro i lavoratori stranieri in cerca di lavoro. Se tali lotte
dovessero divenire un fenomeno di massa, in una o nellaltra versione, ci troveremmo
probabilmente ad affrontare delle sfide a un livello quasi sconosciuto in Europa dalla
seconda guerra mondiale ad oggi. Non solo sarebbe in pericolo quella che oggi consideriamo
una distribuzione abbastanza equa della ricchezza sociale, ma anche la stessa
sopravvivenza delle istituzioni democratiche e del processo politico.
Queste sono le cupe prospettive che si presentano quando ci si attacca
allidea che un volume costante di salariati dovrà accalcarsi intorno a posti di
lavoro sempre meno remunerati, accettando inoltre la necessità di acquisire maggiori
competenze e di accettare orari di lavoro non così rigidamente definiti. Una lettura
molto meno consueta dello squilibrio allinterno del mercato del lavoro è la
seguente: quel che ci serve oggi non è un aumento del numero dei posti di lavoro, ma una
riduzione del volume del lavoro (cioè il prodotto delle persone in cerca di lavoro per il
numero di ore o anni in cui una persona lavora). Questa prospettiva conduce a una politica
"in negativo" per quanto riguarda "lofferta". Politica favorita
non tanto dagli imprenditori quanto dai sindacati e dai politici. Il meccanismo più
drastico grazie al quale sarebbe possibile alleggerire la pressione dellofferta, è
di tipo decisamente selettivo. La soluzione più ovvia consisterebbe nella proibizione di
fatto, per alcune categorie di lavoratori, di inserirsi sul mercato: gli stranieri e le
donne (sposate) soprattutto, poi forse anche i meno giovani. Ma simili misure non possono
essere attuate per motivi legali e morali. Qualunque possibilità di incidere sul settore
"offerta" attraverso il controllo del numero di persone ammesse
allingresso nel mercato del lavoro devessere scartata, con la limitata
eccezoine di politiche restrittive nei confronti dellimmigrazione di extracomunitari
in cerca dimpiego. Non rimane che il controllo del tempo di lavoro: lofferta
può essere razionata in termini di giorni, di settimane, di anni o della durata della
vita in modo tale che rimanendo costanti tutte le altre condizioni
unofferta sovrabbondante di forza lavoro possa essere ridotta o magari evitata
completamente in futuro.
Verso la metà degli anni ottanta, questo era il modello concettuale
dominante nella politica dei sindacati tedeschi che si impegnarono per la riduzione
dellorario di lavoro. La debolezza di questa logica, volta ad ampliare le
opportunità occupazionali riducendo il tempo che ciascuno dedica al lavoro, risiede nel
fatto che, in pratica, risulta eccessivamente esigente, sul piano morale, per il singolo
lavoratore (e per le sue capacità di solidarietà) sostenere questo modello e adeguarsi
ai suoi risultati. Questo accade perché la riduzione dellorario di lavoro il
fatto è estremamente evidente nel caso del lavoro part-time è un modo indiretto
non soltanto di condividere il lavoro, ma anche di condividere lo stipendio. Dopo tutto,
perché "proprio io" dovrei accettare di lavorare meno ore (e quindi rinunciare
a una parte del mio reddito o a un potenziale aumento di stipendio) solo perché
"anche tu" possa lavorare e guadagnare, soprattutto dal momento che non è
affatto certo che "lui" (il datore di lavoro) vorrà e potrà premiare il mio
sacrificio garantendo a te il beneficio di un posto di lavoro in più? Siamo sicuri che
"lui" userà la mia e altrui riduzione dellorario di lavoro allo scopo di
creare una forza lavoro più ampia (o almeno più stabile)? Oppure "lui"
riuscirà a compensare le ore lavorate in meno attraverso degli investimenti in grado di
fargli risparmiare ore di lavoro e grazie a una maggiore flessibilità nel processo
produttivo? E se così fosse, allora tutti ci troveremmo a stare peggio di prima. Questo
gioco insomma implica un classico problema di benessere collettivo, in cui i pessimisti
non stanno al gioco, e la loro defezione diffonde ulteriore pessimismo, il quale ben
presto supera la capacità dei sindacati di controllare e mobilitare i lavoratori.
Da tutto ciò, risulta evidente che ben poco si può fare dal punto di
vista della riduzione dellofferta, sia rispetto al numero del personale coinvolto
sia rispetto al tempo di lavoro di ciascuno. E ciò rimarrà vero finanto che rimane in
vigore la norma (inculcata da tutte le principali istituzioni) secondo cui il valore e il
successo nella vita di un individuo sono espressi in termini di mercato del lavoro, e
dipendono dalla sua capacità di percepire un reddito da lavoro. Ma questo concetto di
normalità è sbagliato quanto opprimente. È sbagliato perché induce la maggior parte
della gente a iscriversi a una gara che può solo perdere. È opprimente, dallaltra
parte, perché in una società centrata sul lavoro come la nostra, le istituzioni
dominanti di fatti riservano le cose per cui vale la pena vivere (libertà, indipendenza,
sicurezza, riconoscimento, stima di sé) a quelle persone che si dimostrano, nella vita
economica, capaci di mantenere un lavoro e di percepire un reddito. Quelli che non
riescono (perché disoccupati) ad adeguarsi alla norma, oppure decidono di non aderirvi
(per esempio le madri o le "casalinghe", per non parlare dei
"casalinghi") hanno bisogno di scuse estremamente valide, se vogliono evitare di
apparire dei perdenti, ai loro stessi occhi prima ancora che di fronte agli altri.
Chiunque non lavori, almeno sporadicamente o part-time, deve andare incontro a
considerevoli svantaggi in termini di reddito e di sicurezza sociale e, spesso, anche in
termini di (auto) disistima.
Le fondamenta morali, culturali e istituzionali di una società fondata
sul lavoro permiano chi percepisce uno stipendio, ma molti cittadini non hanno più
accesso a tale ricompensa. La società mobilita un costante surplus di forza lavoro che
non può assorbire, cioè che non può utilizzare nella produzione di beni e servizi, e
retribuire per tale produzione. E tuttavia lidea che si possano condividere le
comodità e i valori della vita soltanto se si riesce a "commercializzare" in
modo adeguato la propria forza lavoro è divenua moralmente indifendibile. Che cosa può
giustificare lidea che la somma totale di tutte le attività utili che un essere
umano può eseguire debba necessariamente passare attraverso la cruna dellago di un
contratto di lavoro? Non è difficile citare tutta una serie di attività utilissime (come
per esempio donare il sangue, cfr. Titmuss 1971), in cui la qualità del risultato è
direttamente proporzionale al fatto di non essere eseguite come lavoro remunerato. È un
concetto applicabile, per esempio, a molte forme di assistenza e di servizi prestati alle
persone. Ma la preoccupazione normativa primaria è: sarebbe giusto limitare le
opportunità di consumare, di accedere alla sicurezza e al prestigio sociale a quanti
hanno potuto conquistare tali opportunità sul mercato del lavoro nonostante
levidente incapacità del mercato di garantire a un numero sempre crescente di
persone un "posto" decente allinterno delle strutture di produzione e di
distribuzione?
Un argomento in favore della piena occupazione che conquista un
consenso crescente, seppure a volte apertamente cinico, suggerisce che lintegrazione
del maggior numero possibile di persone nel mercato del lavoro è auspicabile non soltanto
per ragioni di produzione economica e di giustizia sociale, ma per motivi di controllo
sociale. La visione pessimista della natura umana che sottende a questo argomento è
evidente: se gli esseri umani non lavorano sotto la supervisione e allinterno della
gabbia costituita dalle obbligazioni contrattuali formali, non potranno che cadere in uno
stile di vita sterile o caotico. È certo che questo argomento, visto in retrospettiva,
scredita il valore umano di quel progresso tecnico ed economico che ha consentito di
liberare molte persone dalla necessità di fare lavori pesantissimi e invalidanti. Allo
stesso tempo, riconosce tacitamente lo squallore di un ordinamento sociale che non è in
grado di mantenere lordine tra i propri cittadini se non attraverso i poteri
disciplinari esercitati dalle organizzazioni preposte al mondo del lavoro. In una
situazione di questo genere, lelogio della modestia e della bellezza di una vita non
legata a un contratto di lavoro, sebbene vincolata a mezzi estremamente limitati,
risulterebbe del tutto inutile. Assicurare alle persone che può essere estremamente
soddisfacente "fare qualcosa di utile per gli altri", allinterno della
famiglia o nellimpegno di volontariato, oppure godersi la bellezza di
unesistenza dedicata alla contemplazione, difficilmente persuaderebbe qualcuno a
starsene a casa. Semplicemente, le attuali strutture dellopportunità non
corrispondono a tale retorica moralista, se si esclude il tentativo esplicito di far
stringere la cinghia agli altri. Al contrario, per i cittadini della nostra società
fondata sul lavoro, le ricompense materiali e immateriali connesse alla
presunta "normalità" del lavoratore stipendiato sono troppo attraenti perché
un numero significativo di loro possa prendere in considerazione lipotesi di
rinunciare a (o di rinunciare a combattere per) un lavoro a tempo pieno, con reddito
corrispondente. Anzi, tanto più diventa precaria e improbabile la possibilità che
ciascun cittadino adulto possa trovare e conservare un posto sicuro, soddisfacente e ben
remunerato, tanto più intensa e aggressiva si fa la competizione tra generazioni,
tra sessi, tra gruppi etnici per raggiungere questo "bene supremo" con il
quale si identificano. Alcuni profeti del conservatorismo, osservando il valore eccessivo
attribuito al posto fisso, si dichiarano convinti che la vita fuori dal mercato del lavoro
(in famiglia, nelle comunità, nel proprio giardino, nelle cooperative, nelle associazioni
non a scopo di lucro) debba essere rivalutata molto più di quanto possano fare le lodi
moralistiche del sacrificio di sé, delle ambizioni modeste e del sentimento di
appartenenza a una comunità. La rivalutazione del tempo libero e delle attività
liberamente e individualmente scelte per riempirlo o, dallaltra parte, la
svalutazione della partecipazione al mercato del lavoro è un progetto che arriva
al cuore morale, istituzionale ed economico delle società industriali democratiche. Tali
società non hanno altri modelli istituzionali cui affidarsi per affrontare questo
dilemma: che la loro ricchezza viene prodotta da una percentuale sempre minore dei suoi
cittadini, mentre tutti i cittadini esigono una quota sufficiente di questa ricchezza. Non
cè bisogno di essere un profeta per accorgersi del problema centrale di cui
dovranno preoccuparsi le istituzioni delle nostre politiche economiche nel prevedibile,
prossimo futuro, tanto a livello nazionale come a livello mondiale. La porzione della
popolazione attualmente coinvolta nella creazione del valore economico continuerà a
ridursi. Allo stesso tempo, i meccanismi "capillari" della distribuzione, che
incanalano il reddito dal nucleo produttivo alla periferia non produttiva (come la
famiglia, lo stato sociale e anche le politiche di aiuto allo sviluppo) si stanno
inceppando. Non rimane che chiedersi con quale logica istituzionale e con quali
giustificazioni morali si potranno incanalare le risorse e le aspettative di vita, in modo
affidabile ed equo, dal nucleo produttivo alla "improduttiva" periferia.
4. I diritti economici della cittadinanza al di là del posto di
lavoro.
Appuntiamo ora la nostra attenzione sullaltra risposta alla
domanda politica fondamentale enunciata sopra. Anziché eliminare le cause dei livelli
insufficienti di assorbimento di forza lavoro da parte del mercato, essa suggerisce di
neutralizzarne le conseguenze, cioè la precarietà e il venir meno della coesione
sociale. Lapproccio corrispondente a tale domanda, nei confronti dei problemi posti
dalla precarietà, consiste in una serie di strategie che invochino un reddito base come
diritto economico della "cittadinanza" (opposta qui, come concetto, a
"lavoratori"). Notiamo che questi modelli di reddito base differiscono, in un
aspetto importantissimo, da tutti i suggerimenti di detrazioni e riduzioni fiscali per le
fasce a minor reddito, che si dovrebbero tradurre in una riduzione degli stipendi senza la
corrispondente riduzione del reddito. Nei modelli del reddito base, o di cittadinanza, la
corresponsione di un reddito non è legata alle situazioni lavorative dei singoli (bisogno
di lavorare, impiego attuale, disponibiità e capacità di lavorare, e così via) ma
esclusivamente alla condizione di cittadino di ciascuno. Un accordo di questo genere
avrebbe il vantaggio di rendere il reddito non più soggetto alle fluttuazioni della
richiesta di lavoratori a buon mercato; la riscossione del reddito e con essa una
riduzione della disoccupazione evidente diverrebbe invece operante non appena i
cittadini scegliessero di contare esclusivamente su di esso, rinunciando al reddito
addizionale che potrebbero ottenere da un lavoro dipendente, nel caso riuscissero a
trovarlo. Potranno cioè decidere, secondo le proprie circostanze personali e quelle del
mercato del lavoro nel paese o nella regione in cui vivono, se desiderano incrementare il
loro reddito di sussistenza intrprendendo un lavoro regolare. La corresponsione di un
reddito strutturale compenserebbe in tal modo il fatto che, mancando delle qualifiche
richieste o mancando la richiesta di lavoratori tout-court, molti aspiranti
lavoratori definiti "inoccupabili" non potranno mai venire integrati in modo
permanente nel mercato del lavoro, sia pure con retribuzioni estremamente ridotte. E non
ha senso fingere che le cose stiano diversamente e sottoporli di conseguenza a una
prolungata ed umiliante esperienza di emarginazione e di fallimento.
Le giustificazioni normative a questa proposta si possono trovare
facilmente. Primo, le società Ocse sono società "ricche", che possono
permettersi di sostenere il costo di sussidi (o redditi) basati sul principio della
cittadinanza. Queste società si sono mantenute ricche ecco la differenza tra la
situazione attuale e la depressione mondiale della fine degli anni venti ma mancano
di un meccanismo istituzionale che consenta loro di distribuire la loro ricchezza a tutti
i cittadini. Secondo, la condizione distributiva non può più essere legata al
contratto di lavoro, senza implicare una ingiusta esclusione di molti. Fintanto che la
maggior parte dei lavoratori hanno realmente una possibilità di contribuire alla
produzione della ricchezza comune attraverso un lavoro retribuito, il problema della
distribuzione della ricchezza si risolve tramite il contratto di lavoro di ciascun
individuo, e il sostegno alle famiglie e gli accordi per la sicurezza sociale che ne
conseguono. Una volta che le cose non stanno più così, e questa condizione di presunta
"normalità" (occupazione a tempo pieno e per tutta la vita, più sostegno
familiare per quanti sono impossibilitati ad accedere al mercato del lavoro, più adeguato
accesso alla previdenza e alla sicurezza sociale e sussidi di disoccupazione per quanti
non percepiscono un reddito e non sono "dipendenti") è scomparso per sempre
(come abbiamo dimostrato), il problema della distribuzione si può risolvere soltanto
istituendo specifici diritti economici che tutti i cittadini si garantiscono a vicenda, e
che diverrebbero una componente del loro essere cittadini. Lidea centrale di un
"reddito di cittadinanza" consiste nel diritto a un reddito sufficiente, che non
sia condizionato ad un posto di lavoro retribuito (un impiego precedente, la
disponibilità a lavorare, o prove o circostanze, come la presenza in famiglia di bambini
piccoli, tali da giustificare lesenzione dalla regola del lavoro retribuito).
Concretamente, ciò significherebbe che ipotesi quali "imposte negative sul
reddito", "reddito di cittadinanza" o "sussidi detraibili" che si
affacciano un po ovunque allinterno dellattuale dibattito sulle riforme
della politica sociale, non diventerebbero efficaci soltanto dopo che una persona è
diventata un "lavoratore", cioè dopo che ha assunto il suo ruolo nel mercato
del lavoro (o si sta preparando ad inserirvisi, come gli studenti che percepiscono una
borsa di studio o i sussidi destinati a chi intraprende volontariamente periodi di
formazione), ma piuttosto come una conseguenza automatica del fatto stesso di essere
cittadini.
Se fossimo abbastanza preparati ad accostarci a concetti così
diffusamente e accuratamente dichiarati tabù, totalmente estranei alle tradizioni e alle
istituzioni della società industriale e della sua etica del lavoro, potremmo allora
addentrarci in tre gruppi di obiezioni. La prima riguarda gli effetti dellincentivo:
perché una persona ragionevole dovrebbe voler lavorare, se gli viene garantita la
sopravvivenza senza un posto di lavoro formale? Si potrebbe rispondere dando per scontato
che un ritiro temporaneo dalle forma di esistenza del lavoro retribuito sarebbe veramente
desiderabile in virtù della situazione descritta in precedenza (e soprattutto in
vista del fatto che non ci sono alternative). Dallaltra parte, il ritiro sarebbe
limitato, poiché lincentivo aggiunto di un reddito superiore non mancherebbe di
produrre i suoi effetti sulla partecipazione al mercato del lavoro.
La seconda obiezione devessere presa più sul serio, ed è di
natura economica. Se una minoranza percepisce un reddito di cittadinanza non legato al
posto di lavoro, allora la maggioranza strutturale di quanti pagano le imposte sarà
incline a favorire misure politiche che facciano diminuire il livello di tale reddito di
cittadinanza fino a che, di conseguenza, leffetto sortito da questultimo sulla
riduzione dellofferta di forza lavoro sarebbe ridotto quasi a zero: infatti un
reddito di cittadinanza che si collocasse vicino o sotto la linea di povertà renderebbe
di fatto necessaria la ricerca di un posto di lavoro retribuito. Mentre la riduzione delle
persone in cerca di lavoro era lobiettivo primario dei fautori del libero mercato
che proponevano limposta negativa sul reddito. Esistono tuttavia dei rimedi
ipotizzabili per proteggerci da questa eventualità, come per esempio, una indicizzazione
dei livelli di reddito di cittadinanza, che potrebbero essere ridotti solo con
difficoltà, prevedendo per legge la necessità di super-maggioranze per
lapprovazione di riduzioni in tal senso. In alternativa, o in aggiunta, il reddito
base potrebbe essere regolato in modo tale che ne usufruiscano tutti i cittadini,
indipendentemente dal loro reddito: ma soltanto quelli che dichiarano esplicitamente di
rinunciare a un posto di lavoro retribuito avrebbero diritto a percepire un sussidio
netto, mentre tutti gli altri dovrebbero pagare le imposte, in percentuale corrispondente
al reddito.
Rimane, infine, lobiezione più importante:
"lesclusione" di una parte della popolazione adulta dal mercato del
lavoro, anche con una adeguata protezione materiale, può essere considerata una forma di
cinismo morale, perché tale politica mira a "mettere fuori uso" la capacità
umana di realizzare cose utili, o di fare un lavoro qualsiasi. In poche parole, superando
la precarietà della condizione distributiva, questo progetto cementerebbe la precarietà
della condizione produttiva, che diverrebbe esclusione permanente. Un simile approccio va
contro i principi delluguaglianza materiale (in particolare contro quei principi che
vietano le discriminazioni tra i sessi) e contro il diritto morale di svilupparsi e
realizzarsi attraverso attività utili, o come tali riconosciute. Lineluttabilità
di questa obiezione può essere ridotta ai minimi termini da misure volte a far dipendere
il reddito di cittadinanza anche da altri fattori, come letà minima per accedervi
(diciamo, 25 anni) e che incoraggino e promuovano una "rotazione" tra impiego
remunerato e altre attività esterne al mercato del lavoro.
Certo, questo nuovo approccio alla soluzione del problema distributivo,
e la proposta di svincolare il reddito dalle prestazioni nel mondo del lavoro, non potrà
probabilmente essere accettato e realizzato a breve termine. Andando al nocciolo, anche se
la proposta di un reddito-base per tutti fosse giudicata "giusta" e
"semplice", sarebbe giudicata anche proibitivamente costosa per motivi politici.
Le si frappongono concetti profondamente radicati e quasi universalmente condivisi in tema
di giustizia economica (chi non lavora, non mangia) e di diritti e doveri degli individui.
Per di più, è difficile accettare le conseguenze comportamentali ed economiche, che
possiamo intuire solo attraverso una sperimentazione politica e pratica attentamente
monitorata. Per entrambe queste ragioni, si rende necessario un approccio più graduale e
reversibile.
Tale approccio può procedere in due diverse direzioni: a)ammissione
dellesenzione condizionale dalla partecipazione al mercato del lavoro (altrimenti
definibile come "la libertà di chiamarsi fuori") e b) unesenzione
temporanea. Il primo approccio consiste in un sostanziale ampliamento dellelenco,
già esistente nelle nostre società, delle "scuse" ammesse. Tra queste scuse
(se si ignora la condizione di chi gode di "ricchezza indipendente") ci sono le
condizioni di disabilità, di anzianità, di malattia, di maternità, di servizio militare
di leva, di formazione professionale. Tutte queste condizioni sono associate alle
richieste di percepire un reddito senza svolgere attività produttive e valutabili in
termini di mercato, benché il reddito così percepito sia generalmente limitato sia sul
piano dellentità sia per quanto riguarda la sua durata, e benché sia legato ad
ulteriori condizioni. Il primo dei miei approcci graduali al reddito-base per tutti
cercherebbe di allargare in modo sostanziale questo elenco di "esclusi
riconosciuti" (fino ad includere, per esempio, le attività nel settore del
volontariato e dellassistenza, ma anche le attività associative inerenti allo
sport, alla cultura, alleducazione e alla protezione ambientale) e di
"decondizionare" i requisiti oggi legati alla durata delle condizioni o
allaver svolto in precedenza un lavoro retribuito. Il problema di questo approccio
che inserirebbe un numero sempre maggiore di attività "fuori mercato"
nella lista complessiva di quelle attività "socialmente utili" tali da
garantire a chi le svolge laccesso a un reddito finanziato dal gettito fiscale
è che ragionevoli dubbi, sospetti e controversie sorgerebbero con ogni
probabilità sul fatto che tali attività vengano effettivamente svolte da quanti
percepiscono tale reddito, e se pure svolte, se esse realmente meritino di essere
considerate "utili".
Il secondo approccio, ugualmente graduale e sperimentale, si baserebbe
sulla dimensione temporale, che mette a disposizione interessanti possibilità di
calibrare e indirizzare al meglio gli incentivi. Lidea base è la seguente. Ogni
cittadino "nasce" avendo a disposizione un "conto sabbatico", da
considerarsi diritto di cittadinanza e non condizione di lavoro. Ciò significa che la
pretesa a questo diritto è condizionata unicamente dal possesso della cittadinanza
legale, oltre che dalla disponibilità a rinunciare a unoccupazione retribuita o ad
altre attività comunque lucrative per il periodo di tempo per il quale si inoltra la
domanda. Diciamo che questo "conto" potrebbe coprire dieci anni di reddito a
livello di sussistenza (reddito che dovrà essere fissato a un livello superiore, anche se
non di molto, a quello stabilito per poter accedere ai sussidi sociali o di assistenza,
che continuerebbero ad essere necessari); se ne potrebbe usufruire in qualsiasi momento
delletà adulta (diciamo dopo la maggiore età) e prima delletà
pensionistica. La durata minima dovrebbe essere fissata con una certa rigidità per
esempio, sei mesi al fine di evitare che si riduca a una serie di
"vacanze" dal lavoro. Il numero di anni complessivamente a disposizione potrebbe
variare a seconda della situazione economica del paese. Per evitare che divenga un
incentivo a trascurare la formazione professionale o programmi equivalenti, la
possibilità di accedervi sarebbe limitata a quanti hanno ottenuto un diploma o un
attestato che certifichi la loro frequenza a corsi di formazione e simili, o che
dimostrino di aver lavorato per un periodo di tempo minimo, diciamo almeno tre anni. Per
consentire una forma di controllo sullo schema temporale in base a quale gli individui
spendono il loro "capitale di tempo", si potrebbero istituire dei meccanismi di
sconto e di interesse. Poiché infatti sembra poco desiderabile che gli individui spendano
i loro anni sabbatici allinizio della loro vita lavorativa, si può immaginare di
introdurre un forte tasso di sconto (o "interesse negativo temporale") in modo
che ogni anno ritirato dal "conto sabbatico" prima di aver compiuto i
trentanni faccia diminuire gli anni rimanenti in ragione di uno a due. La
"tassazione temporale" potrebbe essere resa progressiva, il che significherebbe
che più anni una persona sfrutta dal prporio conto, tanto più salirebbero le deduzioni
extra. Al contrario, ogni anno speso dopo letà, diciamo, di 45 anni,
"costerebbe" solo otto mesi. Sconti speciali potrebbero essere introdotti per
chi ne usufruisce per avere e accudire dei figli o per dedicarsi allassistenza di
una o più persone, oltre che per dedicarsi alla formazione o allaggiornamento delle
proprie qualifiche professionali. Ci sarebbe anche un premio per chi non riscuote il
proprio conto, o lo riscuote solo in parte; tale premio potrebbe andare a incrementare la
pensione di anzianità. Non occorre spiegare che tutti questi parametri hanno qui
unicamente una funzione illustrativa. I benefici che possono essere richiesti durante il
periodo di "aspettativa" dalla partecipazione al mercato del lavoro (periodo che
durerebbe, come abbiamo detto, un minimo di sei mesi alla volta) dovrebbe superare come
entità i sussidi di disoccupazione ma essere fissato al di sotto del reddito medio
nazionale. Il conto dovrebbe poi essere fisso e ad aliquota costante, non variabile in
base al reddito personale, come avviene nei meccanismi della sicurezza sociale.
Lipotesi dellaliquota costante significa che il sacrificio economico, per la
persona che decide di usufruirne uscendo temporaneamente dal mercato del lavoro, sarebbe
minore per chi già percepisce un reddito relativamente basso. E poiché le persone che
percepiscono un reddito basso hanno maggiori probabilità di ritrovarsi disoccupate,
appare ragionevole mettere a loro disposizione un incentivo leggermente superiore (o un
disincentivo leggermente minore), se decidono di sfruttare lopzione di
"chiamarsi fuori" consentita loro dal "conto sabbatico". Inoltre, le
categorie che percepiscono un reddito inferiore alla media hanno motivi in più per
sfruttare il loro conto sabbatico allo scopo di aggiornarsi e riqualificarsi. Dal punto di
vista finanziario, i costi del conto sabbatico personale potrebbero essere parzialmente
coperti stornando una quota dei fondi oggi destinati allassistenza sociale, al
sostegno familiare e alle attività formative, nonché ai programmi di prepensionamento; e
probabilmente si potrà prelevare qualcosa anche dai fondi destinati ai sussidi di
disoccupazione e di malattia, anche se la misura della riduzione degli stanziamenti per
queste risorse fiscali sarebbe un punto estremamente contestato.
I considerevoli vantaggi offerti dal conto sabbatico rispetto al primo
approccio (quello di ampliare la lista delle "scuse ammesse") va ricercato nel
fatto che esso garantisce totale libertà alla scelta delle priorità individuali
nelluso del tempo, man mano che emergono nel corso dellesistenza della
persona. Tale libertà di scelta verrebbe allo stesso tempo esercitata e
disciplinata nella piena consapevolezza che i "fondi temporali" a
disposizione di ciascuno in quanto diritto di ciascun cittadino, sono rigidamente
limitati. Sembra quanto meno ragionevole attenderselo, se lentità del reddito cui
avrebbe diritto la persona che si sottrae alla forza lavoro disponibile per un tempo
limitato sarà decisamente eccedente i livelli di "sussidio" o di previdenza
sociale. In caso contrario, la "libertà" di chiamarsi fuori diventerebbe solo
nominale, e riservata solo ai lavoratori a reddito più basso. La libertà di scelta
potrebbe essere ulteriormente rafforzata con un progetto di "riassunzione
preferenziale" riservata a quanti, dopo aver usufruito di parte del conto a loro
disposizione, decidono di reimmettersi sul mercato del lavoro. Ancora, questo approccio
presenta il vantaggio di rendere supeflua la copertura dei rischi standard
(disoccupazione, malattia, eccetera) per quanti decidono di accedere al conto: necessità,
contingenze e priorità individuali potranno trovare una soluzione altamente
personalizzata e non burocratica. Infine, il conto sabbatico garantirebbe una possibilità
di scelta sostanziale (anche se limitata) per "chiamarsi fuori" anche da posti
di lavoro abbastanza redditizi, promuovendo in tal modo la rotazione ed evitando in
modo più affidabile di quanto potrebbe fare un reddito di sussistenza concesso senza
condizioni e senza limiti di tempo la divisione della forza lavoro, magari su una
base di discriminazione sessista, tra partecipanti in permanenza al mercato del lavoro ed
esclusi in permanenza.
Quale che sia lapproccio e il progetto scelto, una soluzione al
problema della disoccupazione strutturale e della sottoccupazione, oltre che ai due generi
di precarietà associati con tali situazioni, deve operare in senso "negativo"
sul lato della "offerta", svincolare le necessità di reddito dalla
remunerazione derivante dalla partecipazione al mercato del lavoro (e anche dal desiderio
di inserirvici) e allo stesso tempo prendere estremamente sul serio le tre obiezioni
menzionate sopra, perché tutte e tre meritano la più attenta considerazione. Presa nel
suo complesso, questa nuova, ma "graduale" soluzione al duplice problema della
"situazione" e della "distribuzione" si tradurrebbe in una
implementazione a lungo termine dei tre principi che seguono. Primo, nessuno ha il
diritto di escludere intere categorie di popolazione (in base al sesso, alletà,
alla nazionalità, alle qualifiche, alle capacità eccetera) dalla partecipazione al
mercato del lavoro. Tentarlo (o consentire alla precarietà, in qualsiasi sua forma, di
espandersi di fatto fino a raggiungere questo obiettivo pur non esplicitamente dichiarato)
significa mettere a repentaglio i livelli anche minimi di coesione sociale e di
integrazione civile già gravemente in pericolo in molte società avanzate, e che già
incidono in modo allarmate sul conflitto politico e sulla cultura politica. Secondo,
poiché i cittadini adulti non hanno un "diritto al lavoro", ma hanno il diritto
di competere per trovarne uno, allora tutti coloro che si ritirano volontariamente da
questa competizione fanno un favore a quelli che desiderano rimanervi e le cui
possibilità di riuscita sono incrementate di conseguenza. Quelli che si ritirano meritano
dunque di essere compensati per tutta la durata della loro non-partecipazione. Tale
compenso dovrebbe essere concepito come un diritto dei cittadini a un reddito base (per
quanto limitato in termini di durata), senza altre ulteriori condizioni (come la
necessità, la disponibilità a lavorare, la condizione di genitore o di sostegno del
nucleo familiare) e finanzata dal bilancio statale, e di entità tale da garantire un
modesto ma dignitoso livello di vita. Terzo, la compensazione per la decisione
individuale (e sempre reversibile) di ritirarsi dal mercato nel lavoro non serve
unicamente a "premiare" i singoli per aver sottratto la loro forza lavoro
alleconomia generale. Serve anche a incoraggiarli perché mettano le loro
potenzialità a frutto in modo diverso dalla vendita di esse in cambio di uno stipendio.
La regola morale che qui si implica è che dalle persone che accedono a un reddito senza
avere un impiego retribuito ci si attende che svolgano delle attività utili senza essere
pagate; anche se sono assolutamente libere di decidere da sé quali potrebbero essere
queste attività, e per quanto tempo intendono svolgerle prima di rientrare come
regola generale nella partecipazione al mercato del lavoro.
È vero che al di fuori del circolo ristretto della casa e della
famiglia non è facile trovare un modo di mettere a frutto le proprie
potenzialità, in attività utili e non mercificabili. Con lo sviluppo delle società
industriali infatti, i lavoratori si trovano sempre più intrappolati in un processo di
modernizzazione: per lungo tempo il mercato del lavoro è apparso troppo più gratificante
di qualunque attività informale si potesse intraprendere individualmente. Il risultato è
che queste ultime sono divenute praticamente inesistenti. Ora che il mercato non è più
in grado di assorbire interamente la forza lavoro disponibile (o il potenziale di chi
potrebbe svolgere attività socialmente utili), i modelli istituzionali delle attività
non mercificabili non sono disponibili in quantità tali da poter fornire agli individui i
mezzi di sussistenza oltre che il riconoscimento sociale del lavoro svolto. E non
cè ragione di aspettarsi che le forme alternative e informali di attività utili si
moltiplicheranno spontaneamente o potranno essere create semplicemente attraverso la
persuasione morale e la propaganda dei meriti dellaiuto reciproco, della comunità e
delle attività volontarie. Queste attività non mercificate devono essere
"reinventate" a livello istituzionale, sostenute e incoraggiate, ma certamente
non imposte agli individui che desiderano uscire dal mercato del lavoro, perché in questo
caso finiremmo con linterferire con le loro libertà.
In sintesi, una riorganizzazione istituzionale delloccupazione
che seguisse questi principi non potrebbe, comè ovvio, eliminare la disoccupazione.
Al contrario, la renderebbe istituzionale, creando un "posto", limitato in
termini di tempo, per quanti rappresentano la forza lavoro eccedente rispetto alla
domanda, che come abbiamo visto è in continua diminuzione. Ma potrebbe comunque
contribuire a trasformare una situazione difficilmente evitabile a lungo termine, in cui
non tutti i lavoratori saranno in grado di garantirsi un posto di lavoro stabile,
contrattualizzato e protetto, in una situazione più tollerabile, meno conflittuale e meno
iniqua.
5. Elementi di uno scenario.
Quanto è "realistica" laspettativa che gli
orientamenti politici del genere esplorato nella sezione precedente divengano dominanti?
Poiché abbiamo ipotizzato evidentemente una svolta politica piuttosto fondamentale, è
assai probabile che lidea di dire addio al contratto di lavoro come pietra angolare
dellordine sociale sarà semplicemente liquidata come "utopica" e, almeno
da alcuni, come "utopia negativa". Queste obiezioni tuttavia sono valide solo
qualora lalternativa possa essere considerata "non utopica"
lalternativa cioè di restaurare livelli accettabili di partecipazione dei cittadini
al mondo del lavoro, del reddito e della sicurezza tramite strumenti più convenzionali in
termini economici, di mercato del lavoro e di politiche sociali. Ma se le premesse
dellanalisi fin qui esposte sono corrette, e questi approcci di politica
convenzionale sono destinati al fallimento, lopzione politica diventa allora una
scelta tra due utopie, anziché tra "realismo" e "utopismo". La
domanda diventa allora: quale delle due "utopie" avrà la meglio? Certo, la
percezione di una situazione di crisi può rendere le persone, tanto le masse di cittadini
come le élites, profondamente conservatrici e del tutto restie a imparare e a rinnovarsi.
Per timore del disordine e del disorientamento, tendiamo ad aderire in modo più pervicace
agli schemi istituzionali che ci sono familiari, tanto più quanto meno questi diventano
praticabili. Inoltre gli stati di crisi producono un effetto di disorganizzazione sulle
capacità della società di governarsi; per esempio, lintegrazione del mercato a
livelli transnazionali e globali è spesso ritenuta la causa di una condizione di
"liberalismo sfrenato", la cui dinamica e i processi sociali ed economici che
scatena non sono più controllabili da ciascuna nazione a livello individuale. Ma se la
capacità soggettiva di apprendere dovesse inevitabilmente diminuire quando la necessità
oggettiva di apprendere aumenta, non si spiegherebbero i fondamentali rinnovamenti delle
società che si sono, di fatto, verificati nel corso della storia umana.
Anche dando per scontato che la capacità di rinnovamento istituzionale
non sia disabilitata, in permanenza e senza soluzione di continuità, dallesperienza
della crisi e del malfunzionalmento, è comunque necessario sottolineare i fattori che con
ogni probabilità determineranno la traiettoria dellapprendimento, del
riorientamento e del rinnovamento. Tali fattori possono essere ragionevolmente divisi in
tre gruppi: tradizioni normative largamente condivise, esperienze presenti di fatti e di
tendenze, attività delle classi politiche dominanti che invocano quelle tradizioni e
interpretano quelle esperienze. Rivediamo insieme alcuni dei fattori appartenenti a
ciascuna categoria.
a) Tradizioni normative. Do per scontato che le società moderne
appartenenti al mondo industrializzato condividano tutte una qualche versione di
tradizione morale universalista. Per quanto riguarda lEuropa e il Nord America, e
forse in una versione differente anche il Giappone, il dovere di preoccuparsi dei rischi e
del benessere degli altri è parte inalienabile del nostro retaggio morale. In altri
termini, il privilegio e la diseguaglianza devono essere giustificate in qualche modo, e
più sono evidenti migliore devessere la giustificazione: e le giustificazioni a
disposizione sono decisamente limitate in numero ed entità. Certo, il numero di quegli
"altri" che hanno la fortuna di appartenere a un mondo elitario può variare
enormemente dalla famiglia alla nazione allumanità. Una conseguenza di
questa eredità normativa (che ci viene dalle tradizioni giudeo-cristiana,
illuminista-liberale e socialista) è la preoccupazione per i diritti delluomo e del
cittadino, nonché per le precondizioni materiali che consentono leffettivo
godimento di tali diritti: una preoccupazione che devessere considerata parte del
repertorio di argomenti operativi che possono essere addotti per valutare gli esiti delle
misure politiche e delle istituzioni che ci governano. Nonostante il prevalere delle
dottrine economiche neo-liberali e nonostante le loro evidenti affinità con le teorie e
le prassi postmoderniste, queste eredità non possono essere intenzionalmente invalidate o
"dimenticate".
b) Esperienze. Negli ultimi centocinquantanni, una delle
forze propulsive del rinnovamento delle politiche sociali è stata la percezione o
lanticipazione dellimminente disgregazione dellordine e della coesione
sociale. Mentre le forme di tale disgregazione, o il venir meno della coesione sociale,
sono sicuramente cambiate e né il conflitto di classe organizzato, né la turbolenza del
dopoguerra giocano oggi un ruolo significativo, altri generi di sintomi di disgregazione
dominano la scena, e non possono non essere percepiti come un disagio potenzialmente
minaccioso. In ogni caso, la presenza diffusa della precarietà (in una qualsiasi delle
sue forme) viene vissuta come una fonte di contingenze negative che incidono anche su
quanti ne sono meno direttamente colpiti.
Basteranno qui un paio di esempi illustrativi. Quella che i sociologi
chiamano "riproduzione culturale" la tradizione della cultura cognitiva e
delle norme morali di una società nella società moderna si realizza come una
sorta di prodotto collaterale dellistruzione formale. Listruzione formale è a
sua volta funzionalmente dipendente (e individualmente motivata) dallinserimento
anticipato di una forza di lavoro "istruita" nei ruoli occupazionali. Se i
settori meno privilegiati delle nuove generazioni hanno qualche ragione di aspettarsi, in
base alla loro attuale esperienza, che listruzione sia sempre meno un fattore in
grado di portarli da qualche parte in termini occupazionali, di carriera e di sicurezza,
ecco che le basi motivazionali dello sforzo e dellambizione ne risultano indebolite,
e "abbandonare la scuola" diventa un fenomeno di massa (effetto ovviamente
esacerbato dai tagli ai finanziamenti pubblici destinati allistruzione secondaria e
superiore).
Lorganizzazione spaziale delle città moderne è spesso
contraddistinta da modelli segregazionali, che tengono separati quanti vivono in
condizioni di precarietà (compresa la precarietà dei diritti di cittadinanza e di
residenza) dai "normali" partecipanti ai mercati del lavoro e dei beni di
consumo e allordine legale. Tra le contingenze negative che ne risultano, ci sono le
patologie familiari tipiche della "classe povera" costretta a vivere in spazi
sempre più angusti, compresi la violenza e il commercio della droga. Inoltre le persone
che vivono una partecipazione precaria al mercato del lavoro e quindi alla protezione
sociale, sono costrette a dipendere da sistemi non protetti, non formali e spesso illegali
o criminali per poter percepire una qualche forma di reddito. Di tali sistemi,
lassunzione informale nel mondo del "lavoro nero" (salari bassissimi,
nessuna protezione, nessuna contrattualizzazione né versamento dei contributi sociali)
genera le contingenze più negarive, perché va a fare concorrenza a imprese che assumono
secondo le norme, e quindi mina ulteriormente le basi fiscali dei sistemi di sicurezza
sociale. Infine, lesperienza, come anche laspettativa, della precarietà è un
potente fattore di erosione della vita familiare e del desiderio di riproduzione, che
comporta lulteriore ripercussione di una intensificazione della precarietà,
inevitabile quando la famiglia smette di funzionare come microsistema di sicurezza
sociale. Non possiamo inoltre dimenticare le conseguenze politiche legate a una prolungata
situazione di precarietà. Esse non si limitano ai sintomi di frustrazione e di cinismo
con cui i cittadini e gli elettori reagiscono alla classe che li governa, e che sta
clamorosamente fallendo nellobiettivo di restaurare quella che si presume essere la
situazione "normale", di una società dove cè "lavoro per
tutti". Comprendono invece anche unascesa delle forme etnocentriche e razziste
di "esclusivismo" (a volte violento); la mobilitazione politica che fa leva su
queste motivazioni si può già osservare in numerosi paesi Ocse. Tutte queste
conseguenze, collettivamente rilevanti, della precarietà vengono portate
allattenzione dellopinione pubblica sia attraverso i risultati
dellanalisi scientifica delle società contemporanee sia tramite unestensiva
copertura da parte dei media.
c) Tentativi di rinnovamento da parte della classe dominante.
Quanto più a lungo i sintomi di una crisi diffusa di instabilità istituzionale e della
coesione sociale che abbiamo appena descritto si protraggono e si fanno dominanti, quanto
più sono percepiti dallopinione pubblica, quanto più inefficaci si dimostrano i
rimedi, tanto più tutto questo viene percepito come una sfida dalle classi dominanti
politiche ed economiche, che iniziano a rendersi conto della sperequazione tra i costi
della disgregazione sociale e i guadagni in termini di efficienza comportati da una
economia globalizzata, la quale a sua volta genera precarietà su vastissima scala. Le
prove, che vanno accumulandosi, del fatto che la disgregazione sociale derivante dalla
precareità non può essere né ignorata (per motivi sia economici che politici) né
ragionevolmente superata come un prodotto collaterale della "deregulation"
politica, della globalizzazione economica e della modernizzazione tecnologica,
costringeranno le classi dominanti a prestare rinnovata attenzione alle domande
fondamentali poste dallordine sociale. Sia in termini normativi (riguardanti cioè
le eredità e le argomentazioni presentate al punto "a") sia in termini
funzionali, il problema di come gestire il conflitto tra efficienza economica e coesione
sociale si affermerà come il problema essenziale della governabilità. Inoltre,
levidente urgenza di questo problema aprirà lo spazio a dibattiti su proposte e
paradigmi giustamente considerati "impensabili" (o "utopici") fino a
pochissimo tempo fa.
Questapertura dellorizzonte delle considerazioni politiche
e delle ristrutturazioni istituzionali è ulteriormente agevolato da due elementi
piuttosto nuovi nella configurazione delle forze politiche. Primo, dopo la fine
della guerra fredda e del confronto tra i due sistemi prevalenti, le classi dirigenti dei
paesi Ocse non si trovano più di fronte a movimenti di massa organizzati e militanti, né
alle richieste "rivoluzionarie", percepite come una minaccia alle autentiche
fondamenta dellordine sociale. In assenza di tali minacce, le élites
potrebbero essere in grado di permettersi un obiettivo più ampio in termini di
apprendimento, di sperimentazione e di innovazione coraggiosa, di quanto avrebbe potuto
essere ritenuto possibile e sicuro nella situazione precedente. Secondo, non
soltanto il potenziale del rinnovamento istituzionale si è spostato dalla politica di
massa alla politica di élite; è anche passato dalle frange più estremiste di
questa élite al suo centro politico. Infatti, nel momento in cui luniverso delle
dottrine politiche gestito da segmenti di quelle stesse élites è andato
palesemente restringendosi in uno schema assai più angusto lapproccio della
sinistra liberale contro quello del conservatorismo liberale la ricca tradizione
del liberalismo politico repubblicano (in quanto opposto al liberalismo delleconomia
di mercato) può venire riscoperta come serbatoio intellettuale in grado di progettare
(come ha tentato di fare questo scritto) un nuovo equilibrio tra i diritti dei cittadini e
le risorse economiche disponibili sul mercato.
Riferimenti bibliografici:
Killingsworth, M., 1987: Labor Supply, Cambridge, Cambridge
University Press.
Rehn, G., 1977: "Towards a Society of Free Choice" in:
Jerzy L. Wiatr, R. Rose (a cura di), Comparing Public Policies, Wroclaw,
Ossolineum, pp. 121-157.
Titmuss, R., 1971: The Gift Relationship. From Human Blood to Social
Policy, NY: Vintage.
Waters, W., 1996: "The Demise of Unemployment?", in Politics
and Society 24 (1996), n.3, pp. 197-219
"I seminari di Dissent & Reset ad Abano Terme"
DOSSIER 1998
(a cura di Clementina Casula)
Esiste una "terza via" tra la socialdemocrazia ed il
neoliberalismo? Quali sono le politiche sociali che dovremmo adottare a favore della
famiglia e delle donne? Come procedere nella riforma del welfare state?
Riuniti dalle riviste Dissent e Reset nella deliziosa cittadina termale
veneta, un gruppo di esperti accademici e giornalisti provenienti dallEuropa e dagli
Stati Uniti si interrogano su alcuni dei quesiti più attuali dello scenario politico
internazionale.
"Questo incontro (
) è qualcosa di più di un convegno
(
). Vorremmo dar vita ad un confronto permanente, che annualmente si rinnovi, per
verificare le nostre idee intorno ai temi più rilevanti dellattualità politica.
Tra le nostre due riviste cè una collaborazione non nuova e già collaudata in
passate occasioni (
). In particolare ci accomuna lidea (
) che la
politica è animata fondamentalmente da un confronto tra Destra e Sinistra, per quanto
siano nuove e varie le forme che queste parti politiche assumono, e per quanto nuovi e
vari siano i temi proposti dallagenda pubblica dei nostri tempi".
Giancarlo Bosetti, Direttore di Reset
"La nostre discussioni ad Abano Terme presentano un ampio
spettro di punti di vista che sono spesso sostenuti vigorosamente. Il nostro proposito,
tuttavia, consiste nel produrre non risposte definitive, bensì riflessione e scambio
intellettuale in un momento di pericolo e possibilità per la sinistra occidentale".
Michell Cohen, codirettore di Dissent
"Riteniamo che i Seminari di Dissent e Reset ad Abano Terme
rappresentino un importante incentivo alla partecipazione democratica al dibattito
politico e sociale e allelaborazione di risposte coerenti davanti agli interrogativi
che le mutate esigenze della nostra società ci pongono (
) Per offrire a studenti,
accademici, o chiunque si interessi a questi temi, una possibilità di riflessione più
attenta e analitica sugli interventi ascoltati, abbiamo quindi pensato di raccogliere gli
atti del convegno in questo Dossier".
Cesare Pillon, Sindaco di Abano Terme
Mauro Donolato, Assessore ai Beni Artistici e Culturali
Archivio
attualità
|