Caffe' Europa
Attualita'



"I seminari di Dissent & Reset ad Abano Terme"

 

DOSSIER 1998

Atti del Convegno Internazionale
sul Pensiero Politico:

 

"Nuove sfide politiche:
quale futuro per il Welfare State?"

16-17 Ottobre 1998
Sala del Grand Hotel Orologio
Teatro Congressi "Pietro d’Abano"
Abano Terme
(PD)

a cura di Clementina Casula

Indice

Prefazione:

- Cesare Pillon e Mauro Donolato

Introduzione:

- Pericoli e Possibilità per la Sinistra*, Mitchell Cohenp

- La Politica ed il confronto tra Destra e Sinistra, Giancarlo Bosetti

I a sessione- Vi è una "terza via" tra la socialdemocrazia ed il neoliberalismo?

- Il Mito della Terza Via*, Jeff Faux

- Prolegomena al dibattito sulla Terza Via*, Michele Salvati

II a sessione: Quali politiche di welfare per genere e famiglia?

- Genere, Famiglia e Welfare in Europa*, Chiara Saraceno

- Paradigmi Familiari e Diritti delle Donne nel Welfare State Italiano*, Franca Bimbi

- La Famiglia: che cosa vogliamo veramente?*, Michael Rustin

IIIa sessione: Nuove sfide politiche: quale futuro per il Welfare State?

- Lo stato sociale in America: problemi attuali e oltre*, Peter Edelman

- Precarietà e mercato del lavoro. Una critica a medio termine delle risposte politiche disponibili*, Claus Offe

 

Hanno partecipato ai seminari interni e alla sessione pubblica:

Joanne Barkan (giornalista, Dissent); Bianca Beccalli (Università di Milano); Marina Calloni (LSE, Londra); David Goodhart (Direttore di Prospect); Alberto Martinelli (Università di Milano); Harold Meyerson (direttore esecutivo di LA Weekly); Massimiliano Panarari (EUI, Firenze); Joël Roman (Giornalista, Esprit); Carlo Trigilia (Università di Firenze).

*Le traduzioni in italiano dalla versione originale in inglese degli articoli sono di Laura Bocci (C.Saraceno; P. Edelman); Anna Tagliavini (Michele Salvati ); Clementina Casula (Mitchell Cohen ).

 

Prefazione

La decisione di ospitare ad Abano Terme la nuova edizione di incontri internazionali organizzati dalla prestigiosa rivista americana Dissent e dal bimensile italiano Reset risponde ad una nostra duplice volontà: da un lato quella più generale del Comune di offrire un servizio reale ai propri cittadini, dall’altro quella più specifica dell’Assessorato ai Beni Culturali di promuovere un’immagine di Abano Terme come centro attivo di cultura, sia a livello internazionale che a livello locale (come dimostra la provenienza degli importanti ospiti del convegno).

L’edizione di quest’anno ha affrontato alcuni dei temi più attuali della politica di fine millennio, come quello della ricerca in politica di una "Terza Via" (ossia di una visione politica alternativa che riesca a sposare le politiche di ridistribuzione con la competitività economica), o il dibattito sulle politiche sociali che riguardano la famiglia e le donne, fino ad arrivare ad una riflessione più generale sul futuro del Welfare State (o Stato Sociale).

La discussione di questi temi nella giornata dell’incontro aperta al pubblico (che aspettiamo sempre più numeroso per le prossime edizioni) rappresenta così un momento di scambio fruttuoso per entrambe le parti: da un lato il dibattito può essere arricchito dalle idee e obiezioni dei cittadini che a loro volta ricevono un’opportunità importante di far sentire le proprie opinioni, nonché di fruire dell’esperienza e professionalità dei partecipanti al convegno.

Per offrire a studenti, accademici, o chiunque si interessi a questi temi, una possibilità di riflessione più attenta e analitica sugli interventi ascoltati, abbiamo quindi pensato di raccogliere gli atti del convegno in questo Dossier.

Alla luce di queste considerazioni, riteniamo che i Seminari di Dissent e Reset ad Abano Terme rappresentino un importante incentivo alla partecipazione democratica al dibattito politico e sociale e all’elaborazione di risposte coerenti davanti agli interrogativi che le mutate esigenze della nostra società ci pongono.

 

Cesare Pillon
Sindaco di Abano Terme

Mauro Donolato
Assessore ai Beni Artistici e Culturali

 

Introduzione

Mitchell Cohen
(co-direttore di Dissent)

Giancarlo Bosetti
(direttore di Reset)

 

Pericoli e Possibilità per la Sinistra

di Mitchell Cohen

In un’epoca di globalizzazione il dialogo transatlantico tra gli intellettuali di sinistra diventa particolarmente importante. Sin da quando Dissent fu fondato nel 1954 come voce intellettuale della sinistra antistalinista e democratica negli Stati Uniti, i suoi direttori hanno posto come priorità il dialogo con gli amici europei.

Perciò siamo particolarmente felici di unirci a Reset nel patrocinare questo Seminario Internazionale sul futuro del Welfare State. Da tempo Dissent ha con l’Italia legami calorosi e fruttuosi. Prendete il passaggio iniziale di "Un Margine di Speranza", l’autobiografia di Irving Howe, e troverete colui che poi sarebbe diventato il fondatore di Dissent in Piazza Navona con Ignazio Silone, discutendo di come entrambi diventarono socialisti alla "veneranda" età di quattordici anni, uno a New York, nel Bronx, l’altro negli Abruzzi.

L’origine del nostro seminario di questo fine settimana risale ad una serie di dialoghi americano-europei che ebbero inizio in occasione del quarantacinquesimo anniversario di Dissent nella Biblioteca Municipale di Locarno. Ora, grazie al generoso sostegno e all’ospitalità del sindaco e dei cittadini di Abano Terme, li ricominciando e rinvigoriamo le nostre discussioni come progetto comune statunitense ed italiano.

Quello nel quale ci riuniamo rappresenta un periodo sia di pericolo che di possibilità per la sinistra occidentale. Perché parlo di pericolo? Perché ci sono state moltissime sfide alle assunzioni della sinistra nell’ultimo quarto di secolo, e la sinistra non ha fornito ad esse delle risposte adeguate.

Qui dovrei definire che cosa intendo per "sinistra" in questo contesto, dato che non includerei il crollo del comunismo tra queste sfide. Provengo da quella parte della sinistra che ha sostenuto un socialismo democratico contro l’Unione Sovietica. La mia "sinistra" è la sinistra democratica, intesa in senso lato - la sinistra che fu animata da una visione democratica della politica e dell’economia e che accettò il welfare state con la speranza che riforme innovative avrebbero finalmente portato al suo superamento, verso una società sempre più egualitaria.

Questa sinistra ritiene adesso che la lotta non consista nell’andare "oltre il welfare state", ma nell’assicurare le sue conquiste più basilari. Se questa sinistra avesse risposto adeguatamente alle sfide degli anni ‘70 e ‘80, la fine del comunismo l’avrebbe solo aiutata, liberandola da un simbolico albatros. Invece, la sinistra si trova spesso a balbettare quando si trova davanti processi di globalizzazione che indeboliscono i mezzi mediante i quali governi nazionali eletti democraticamente hanno perseguito nel passato politiche economiche e sociali egualitarie. E allo stesso tempo sentiamo una sorta di cantilena bollare come "datata" l’insistenza della sinistra sulla priorità della giustizia sociale.

Chiaramente un "progetto di sinistra" dovrà essere riformulato su molteplici livelli –globale, continentale (l’U.E., ad esempio), nazionale, regionale e locale. Dovrà essere ripensato per un mondo che è sempre più integrato proprio mentre vi è sempre meno solidarietà sociale. Come sarà reinventata la nostra vecchia triade –libertà, eguaglianza, solidarietà- per questo nuovo mondo? Ossia, per un mondo finanziario deregolamentato; un modo di migrazioni; un mondo di incessante movimento di affari e lavoro con un conseguente declino in termini di stabilità e sicurezza nel lavoro; un mondo con significativi spostamenti nell’impiego dal manifatturiero al terziario; un mondo dove il ruolo dei sessi sta subendo una trasformazione; un mondo di rivoluzioni nella tecnologia e nelle comunicazioni.

Il pericolo è dunque evidente: la sinistra democratica si atrofizzerà, e dovrà farlo, nel caso in cui non trovasse i mezzi e l’immaginazione sociale di indirizzare questo mondo che cambia in nome dell’idea di società favorevoli all’eguaglianza.

Ma questo crea anche un momento di possibilità –se la sinistra lo considera in questo modo. Vent’anni fa Michael Harrington, il più grande socialista statunitense, scrisse per Dissent un articolo intitolato "Cosa farebbero i socialisti in America se potessero". Il titolo rifletteva la nota condizione di minoranza della sinistra americana, ma anche un approccio particolare al cambiamento. Harrington sostenne spesso che dovevamo essere "la sinistra del possibile". Non proponeva passi da gigante verso la società senza classi: parlava invece di misure per una "distanza media", politiche che "sarebbero state prese in direzione opposta alla riforma liberale ma ben lontano dall’utopia". Le assunzioni del liberalismo sociale degli anni ‘60 non funzionavano più - egli sosteneva-; gli USA si stavano scontrando contro i limiti del Welfare State.

Quindi la sua risposta includeva: mettere in discussione il controllo corporativo dell’investimento; una previsione nazionale per la piena occupazione; l’obbligo per le corporazioni di pagare per il loro uso (e distruzione) delle risorse sociali; progressività crescente della tassazione; rielaborazione del sistema delle pensioni pubblico e privato in modo che i fondi "teoreticamente posseduti dalla gente" fossero usati "per scopi sociali così come deciso democraticamente dalla gente"; rappresentazione dei dipendenti e del pubblico in comitati direttivi e maggiore democrazia nel posto di lavoro; maggiore sostegno da parte di Washington per i produttori e le cooperative dei consumatori.

Potremmo discutere su quale di queste proposte sia più o meno utile al giorno d’oggi (e in una tale discussione gli europei dovrebbero tenere a mente quanto manchevolmente il welfare state statunitense sia stato paragonato al loro: basti considerare il fatto che oltre 40 milioni di americani non hanno una assicurazione sanitaria). Suppongo che negli anni ‘90 Harrington aggiungerebbe una serie di misure per regolare il flusso di capitale globale e per legare i problemi relativi al commercio e agli investimenti con i diritti del lavoro e le necessità ambientali. Faccio riferimento all’articolo di Harrington principalmente come un esempio di cosa abbiamo bisogno alla fine di questo secolo: immaginazione sociale piuttosto che ripetere che "niente può essere fatto altrimenti" quando ci si trova davanti a sfide strutturali.

 

Scrivendo nel 1978 Harrington chiedeva che cosa i socialisti statunitensi avrebbero fatto se avessero potuto, ossia se fossero saliti al governo. Ovviamente essi non poterono perché non ci arrivarono: salirono invece al governo Reagan e Bush, portando avanti politiche in direzione opposta. Il "centro" dello spettro politico statunitense –più o meno dove stanno Bill Clinton e Al Gore – si è spostato all’estrema destra rispetto a dove stava un quarto di secolo fa. Nell’Europa di oggi, tuttavia, il centro sembra spostarsi a sinistra. Certamente, gli europei hanno delle opportunità che noi statunitensi non abbiamo. Fatta eccezione per la Spagna, i partiti socialdemocratici sono al governo in tutto il continente, e perciò dobbiamo porre la domanda: "Che cosa farà la sinistra democratica europea, ora che può? Come delimiterà la "sinistra del possibile", visti e considerati in particolar modo i processi di unificazione europea?".

Questo ci porta alla domanda posta dalla nostra prima tavola rotonda –una domanda fondamentale in entrambe le sponde dell’Atlantico: la sinistra deve cercare una "terza via" che vada "oltre la destra e la sinistra", così come Anthony Giddens ha sostenuto?

Nella sua forma più semplice questa domanda può essere affrontata da due diverse prospettive:

Una dice: "Le cose sono cambiate così tanto e le idee di sinistra sono diventate così obsolete che dobbiamo formulare delle categorie completamente nuove. La sinistra deve essere "modernizzata" e quindi abbiamo bisogno di New Democrats (negli Stati Uniti) o del New Labour (nel Regno Unito) e una qualche forma di nuova socialdemocrazia altrove (se anche la si vuol chiamare socialdemocrazia). Questa è una questione di principio, ma che produce anche conseguenze pratiche in termini di politiche e ramificazioni elettorali: le elezioni possono essere vinte solo muovendosi verso il "centro", come Bill Clinton e Tony Blair hanno dimostrato."

L’altra sostiene: "I Republicans statunitensi ed i Tories britannici del dopoguerra accettarono i limiti tracciati dal Welfare State rispettivamente del New Deal e del Labour Party. I conservatori non li hanno messi in discussione fino ai problemi degli anni ’70; poi lo hanno fatto con un considerevole successo. Adesso la situazione si è ribaltata, dato che sono i New Democrats, i New Labour, ed i sostenitori della "Terza Via" ad accettare i limiti tracciati da Reagan e dalla Thatcher. Questa è la ragione per la quale essi insistono che la dicotomia che oppone "sinistra" a "vecchio" è falsa. Ma è l’opposizione di "vecchio" e "nuovo" fatta dalla Terza Via ad essere spuria, se per "nuovo" in realtà si intende che si sono accettati i limiti Reagan-Thatcher. Infatti, il mondo è sempre stato più complesso di quanto una qualsiasi etichetta politica non permetta di descrivere, e il vero problema consiste nel come concepire il proprio punto di partenza: si inizia con l’ (apparentemente datato ) obiettivo di rendere le società occidentali più egualitarie, oppure si è "nuovi" perché ci si è "adeguati" alle prerogative del capitale, globale e locale? Per vincere le elezioni dobbiamo spostarci verso il centro o cercare di muovere il centro a sinistra?".

Lo storico francese Marc Bloch disse una volta: "se qualcuno alla tua sinistra dice che due più due fa quattro, e qualcuno alla tua destra che due più due fa cinque, la conclusione non è che due più due fa quattro e mezzo". Certamente aveva ragione, ma alla fine del ventesimo secolo sappiamo anche che la sinistra non sempre ha fatto i calcoli correttamente. Continua a ragionare in modo sbagliato se non riesce a sganciarsi dalla sua identità passata ed almeno qualcuno dei suoi impegni basilari? Oppure Clinton è il "Presidente quattro e mezzo" e Blair il "Primo Ministro quattro e mezzo"? In breve, come demarchiamo l’area della sinistra nell’era della globalizzazione?

Le nostre discussioni ad Abano Terme presentano un ampio spettro di punti di vista che sono spesso sostenuti vigorosamente. Il nostro proposito, tuttavia, consiste nel produrre non risposte definitive, bensì riflessione e scambio intellettuale in un momento di pericolo e possibilità per la sinistra occidentale.

 

La Politica ed il confronto tra Destra e Sinistra

di Giancarlo Bosetti

Questo incontro che abbiamo voluto, noi di Reset, insieme agli amici americani di Dissent ed al Comune di Abano Terme, che ringraziamo per la sua accoglienza e per la simpatia del suo sindaco Cesare Pillon, è qualcosa di più di un convegno, almeno nelle intenzioni. Vorremmo dar vita ad un confronto permanente, che annualmente si rinnovi, per verificare le nostre idee intorno ai temi più rilevanti dell’attualità politica. Tra le nostre due riviste c’è una collaborazione non nuova e già collaudata in passate occasioni, ci sono ragioni forti di sintonia ed una comune passione per la ricerca senza troppi pregiudizi.

In particolare ci accomuna l’idea, la quale non manca di detrattori, che la politica è animata fondamentalmente da un confronto tra Destra e Sinistra, per quanto siano nuove e varie le forme che queste parti politiche assumono, e per quanto nuovi e vari siano i temi proposti dall’agenda pubblica dei nostri tempi.

Questo primo appuntamento è organizzato in tre sessioni, due chiuse e a discussione totalmente libera e una aperta al pubblico. Affrontiamo in apertura un tema che è centrale nella discussione tra tutti coloro che si interessano oggi alla vicenda politica internazionale: la "terza via", già largamente esaminata in questi mesi sulle nostre riviste, su Dissent, su Reset e anche su altre riviste di grande prestigio internazionale, alcune delle quali sono qui rappresentate, come Prospect e Esprit. Su questo tema sentiremo le relazioni di Faux e Salvati. Voglio soltanto fare in proposito due osservazioni:

a) la prima è che guardiamo tutti con rispetto, al di là del grado maggiore o minore di accordo, all’elaborazione del New Labour di Tony Blair. Questa elaborazione ci ha messo davanti una produzione molto ampia di idee e anche importanti tentativi di metterle in pratica. Credo che più di tutto valgano le parole che ho sentito pochi giorni fa da uno che non ama molto la "terza via", un socialdemocratico "doc", come diciamo dei vini a denominazione controllata, quale è Jacques Delors. È una esperienza discutibile quanto si vuole, ha detto, ma tale da rendere "esplicita la necessità di riformulare le finalità dell’azione politica della socialdemocrazia al di là del puro pragmatismo". Non c’è dubbio che – in rapporto ai mutamenti dell’economia e del capitalismo mondiale, in rapporto alla funzione dello stato e alla responsabilità degli individui – le idee che sono venute dal "Third Way Debate" sono più di uno spunto, ci costringono a misurarci con alcuni principi in certa misura nuovi. Il fatto che stiano diventando correnti non puo’ fraci dimenticare che hanno avuto origine da quelle elaborazioni.

b) La seconda osservazione riguarda la particolare curiosità che verso questa discussione, e anche verso le critiche come quelle presentate e discusse su Dissent dall’amico Mitchell Cohen, abbiamo noi italiani, immersi in una situazione come spesso tendenzialmente anomala (almeno così ci pare). Eravamo fuori dai parametri internazionali quando la sinistra (e alcuni di noi con essa) stava sotto le insegne egemoniche di un partito comunista occidentale, ricco di molti vizi dei comunisti di tutto il mondo, con qualche ambiguità rilevante nel suo rapporto con la democrazia, ma anche dotato di alcuni dei caratteri essenziali del riformismo europeo. E abbiamo tuttora un sistema politico senza un assetto di marcia del tutto regolare, incapace di prendere la forma di un compiuto bipolarismo tra progressisti e conservatori. La situazione rimane bivalente: da una parte la strada del bipolarismo è ancora piena di ostacoli, dall’altra il disegno complessivo della scena è ancora tutto da fare. Questo ci mette di fronte a una situazione che a volte sembra chiusa a volte sembra pronta a prendere nuove forme, tutte ancora da definire ad opera degli attori in campo. Quando parliamo di terza via, di coalizioni riformiste, o di rilancio di una ipotesi neo-socialdemocratica (così come quando a destra parliamo della costruzione di una moderna destra liberalconservatrice) noi non descriviamo solo le tensioni interne alle vecchie case della politica, di sinistra e di destra, da ristrutturare (come accade in tanti altri paesi), ma a volte parliamo proprio di edifici nuovi da costruire.

In un certo senso la discussione sulla "Terza Via" in Italia include oltre ai problemi di definizione di un programma coerente da parte di un partito o di una coalizione anche il problema di "quale" partito e "quale" coalizione si candida a presentare quel programma di governo. Non c’è solo il contrasto tra posizioni più o meno moderate, più o meno radicali, c’è anche la questione "esistenziale" di quale sia il soggetto politico che vogliamo protagonista della scena. Anche per questa ragione abbiamo voluto affrontare questioni che toccano la identità culturale di una forza politica, nelle altre sessioni dedicate alla famiglia, al genere e al futuro del welfare.

 

I a sessione:

Vi è una "Terza Via"
tra la Socialdemocrazia ed il Neo-liberalismo?

Jeff Faux
(direttore dell’Economic Policy Institute, Washington)

Michele Salvati
(Università di Milano; Parlamentare)

Il mito della Terza Via:

lezioni della Presidenza Clinton per la sinistra democratica

di Jeff Faux

Le carriere politiche di Bill Clinton e più recentemente di Tony Blair sono state pubblicizzate dai loro rispettivi promotori come percorsi indicativi della Terza Via per la sinistra tradizionale nei paesi avanzati. Al From, un eminente propugnatore americano di questa idea, definisce la Terza Via come "il marchio mondiale della politica progressista nell'era informatica. In America il marchio locale è il New Democrat; in Gran Bretagna è il New Labour". L'etichetta è stata di recente ampliata e di volta in volta è stata applicata, a proposito e a sproposito, virtualmente ad ogni nuovo leader del mondo occidentale, incluso Cretien in Canada, Prodi in Italia, Jospin in Francia, Salinas e Zedillo in Messico, Schroeder in Germania, Cardoso in Brasile, Menon in Argentina - e persino Eltsin in Russia!

Il problema centrale è se la Terza Via rappresenti una nuova dimensione della politica della sinistra post-Guerra Fredda, oppure se sia soltanto uno slogan abilmente coniato al fine di rendere intellettualmente e moralmente rispettabile l'abbandono della visione tradizionale della sinistra democratica.

I sostenitori della Terza Via affermano che è valida la prima ipotesi, e che si tratta di una nuova sintesi che si situa al di là sia della destra che della sinistra. "Il nostro ordine del giorno" dice Bill Clinton "non è né progressista né conservatore. Esso comprende entrambi questi punti di vista, ed è diverso al tempo stesso." Secondo Tony Blair, la Terza Via "non è semplicemente un compromesso tra la destra e la sinistra… Il nostro approccio non corrisponde né al laissez faire né all'interferenza dello Stato".

Clinton e Blair rappresentano due dei politici della nostra epoca dalla visione più articolata, circondati da una solida cerchia di bravi consiglieri e ghost writers, e tuttavia la loro definizione della Terza Via lascia gli osservatori privi di qualsiasi pista per capire di che si tratti. Ad un recente incontro pubblico sulla Terza Via, a New York, Clinton ci ha detto che la Terza Via consiste nell'essere "moderni e progressisti" e nell'"evitare false scelte". Blair ha aggiunto che si tratta di "un'alleanza tra progresso e giustizia", che essa "cerca di prendere i valori fondamentali dal centro e dal centro-sinistra e di applicarli ad un mondo di sostanziali cambiamenti economici e sociali." Hillary Clinton ha fatto la pragmatica considerazione che "Dobbiamo prendere il mondo così come lo troviamo, e fare quello che possiamo per migliorarlo." Sfortunatamente per coloro che cercano la chiarezza, tali vaghi sentimenti potrebbero essere stati espressi negli stessi toni anche da George Bush e John Major.

Queste autodefinizioni non sono di grande aiuto. E tuttavia, per poter valutare la Terza Via è necessario dare uno sguardo a ciò che essa ha prodotto finora. Nella misura in cui la politica di Bill Clinton rappresenta l'ispirazione per la Terza Via, disponiamo ormai di una Presidenza di sei anni che può aiutarci a formulare alcuni giudizi.

Quella che segue è un'analisi di tre delle principali rivendicazioni della Terza Via. Primo, che essa fornisca una precisa analisi del declino della fortuna politica della sinistra democratica nell'Europa occidentale e in Nord America. Secondo, che essa rappresenti una formula efficace per la ricostruzione dei partiti politici della sinistra democratica. Terzo, che essa sia una strategia nuova e credibile per spostare in avanti gli obiettivi della sinistra democratica nell'era post-Guerra Fredda.

 

La Terza Via come analisi storica originale

Nelle sue origini americane, la Terza Via dei New Democrats non era articolata come una grandiosa filosofia politica, bensì come una risposta tattica alla perdita nelle elezioni presidenziali del 1980 e del 1984 da parte del Partito Democratico. I New Democrats, che provenivano in ampia pur se non esclusiva misura dalla fazione conservatrice del Partito Democratico originaria del Sud, asserivano che il partito era dominato dall'ala di estrema sinistra dei "fondamentalisti liberal" che avevano perduto ogni contatto con l'America delle classi medie. I fondamentalisti liberal erano definiti come una coalizione di gruppi minoritari, femministe e élites bianche, che non erano in sintonia con gli interessi e i valori della classe media. Secondo questa teoria, i democratici provenienti dalla classe operaia avevano gradualmente risalito la scala della mobilità sociale spostandosi nelle periferie ricche, dove si preoccupavano molto più dei tassi di criminalità e della distanza da mantenere rispetto ai più poveri che non della lotta di classe o della giustizia economica. Per vincere le elezioni, insistevano i New Democrats, il Partito avrebbe dovuto dare la massima priorità alle istanze sociali tradizionali, e meno alle questioni riguardanti la sicurezza economica.

Non avevano del tutto torto. Il Partito Democratico si era via via andato identificando con un liberalismo sociale che aveva indebolito la sua presa sulla classe operaia bianca, particolarmente negli stati del Sud. E tuttavia nessuna lettura ragionevole della storia politica americana recente può confermare l'ipotesi che il Partito Democratico sia stato dominato da una coalizione estremista di minoranze e di bianchi liberal. Ad eccezione della candidatura contro la guerra di George McGovern nel 1972, tutte le campagne presidenziali democratiche degli anni '60, '70, e '80 sono state condotte su piattaforme di centro.

Inoltre, il concetto che l'elettorato stava spostandosi a destra per effetto della mobilità verso l'alto verificatasi nel dopoguerra non poteva certo essere considerato come un'idea nuova. Era piuttosto una versione riscaldata di una teoria che i conservatori avevano avanzato quindici anni prima, e che aveva costituito la base delle campagne presidenziali repubblicane da Richard Nixon a George Bush allo scopo di identificare il Partito Democratico con la controcultura degli anni '60. L'analisi dei New Democrats dei problemi del Partito Democratico era dunque un'eco delle antiche caricature repubblicane. Inoltre essa era anche poco accurata dal punto di vista storico. Facciamo tre esempi.

 

La falsa leggenda del "tassa e spendi"

Primo, l'accusa che i precedenti leader del Partito Democratico fossero stati dei politici "irresponsabili dal punto di vista fiscale", dediti a politiche del tipo "tassa e spendi".

Ironicamente, l'accusa di "irresponsabilità fiscale" venne avanzata dai New Democrats durante un decennio in cui i Repubblicani stavano facendo esplodere l'indebitamento pubblico statunitense da 1000 a 5000 miliardi di dollari. Con ogni ragionevolezza, i leader democratici dello stesso periodo - Michael Dukakis, Walter Mondale, Jimmy Carter e persino George McGovern - erano molto più responsabili in materia fiscale di quanto non lo fossero Ronald Reagan e George Bush.

Per quanto riguarda la politica "tassa e spendi", la realtà è un'altra. Jimmy Carter, il precedente Presidente democratico, ridusse le tasse entro la metà del suo mandato. Le maggiori spese di Lyndon Johnson furono per la guerra del Vietnam, e la storia ora lo biasima per non aver aumentato le tasse allo scopo di finanziare quella guerra. Il Presidente precedente, John Kennedy, ridusse le tasse, così come aveva fatto Harry Truman. I Presidenti del dopoguerra - sia democratici che repubblicani - hanno utilizzato una struttura non indicizzata di tasse sui redditi, la quale generava automaticamente guadagni con la crescita economica, ma si deve ritornare agli anni 50, ai finanziamenti di Franklin Roosevelt per la seconda guerra mondiale, per trovare un Presidente democratico che possa essere descritto come chi abbia perseguito deliberatamente una politica economica del tipo "tassa e spendi".

Secondo, l'accusa che i Democratici progressisti fossero fautori di un 'governo grandè , mentre i Repubblicani erano piuttosto favorevoli ad un 'governo piccolo'. Di nuovo, questa è stata in larga misura un'eco della retorica conservatrice. A differenza dell'Europa, gli Stati Uniti non hanno una tradizione di impresa pubblica al di là di pochi e ristretti settori di pubblica utilità. A grandi linee, il ruolo del governo è stato sempre quello di 'agevolatorè. Inoltre, l'idea delle opportunità piuttosto che dei diritti è ciò che ha ispirato i programmi della Great Society, ora disprezzati dai conservatori e dai promotori della Terza Via. E la maggior parte dei servizi sociali nazionali, la formazione e i programmi di pubblica istruzione sono stati amministrati dagli Stati.

Più importante tuttavia è il fatto che ciò che ha diviso democratici e repubblicani non sono state le dimensioni dell'intervento governativo, quanto le sue priorià. I conservatori volevano un forte ruolo del governo nei settori della difesa, dell'apertura di mercati esteri e della regolamentazione dei comportamenti sociali. I progressisti volevano un governo autorevole nel garantire una più equa distribuzione del reddito e della ricchezza e nel controllare gli eccessi del mercato. È piuttosto interessante notare che i programmi sociali più popolari tendono ad esser quelli portati avanti dal governo nazionale: previdenza sociale (social security), servizio sanitario (Medicare), il servizio volontario per la tutela dei parchi (National Park Service), e i programmi che riguardano i veterani.

Con ciò non voglio dire che le critiche ai programmi del New Deal e della Great Society non fossero giustificate, nè che l'ipertrofia della burocrazia non sia un problema. I New Democrats avevano ragione nel sostenere l'importanza di introdurre nel governo nuovi metodi di amministrazione. L'idea di "reinventare" le istituzioni pubbliche è importante. I governi hanno bisogno di essere continuamente reinventati per mettersi in condizione di rispondere ai bisogni dei cittadini. Ma i Democratici della Terza Via non sono stati certo i primi a sollevare la questione. Infatti, i Presidenti Democratici precedenti, Carter e Johnson, avevano trasformato il risparmio del governo in una sorta di feticcio personale.

In termini di politica elettorale, da tempo accade che la classe media disdegna il 'governo grandè in astratto, ma poi lo sostiene nella maggior parte delle sue singole azioni. Così, nel gennaio del 1996, Bill Clinton dichiarò che "è finito il tempo dei governi grandi", e tuttavia, nel novembre successivo, vinse le elezioni in grande misura perché attaccò i Repubblicani, che volevano smantellare il servizio sanitario, il sostegno federale per l'istruzione, la protezione federale sull'ambiente, l'aumento federale del salario minimo. La sua unica concessione alla destra fu la firma di una draconiana legge di riforma dello stato sociale.

In terzo luogo, l'idea che i Democratici siano contrari al valore della responsabilità personale. La questione della responsabilità personale è stato un altro tema della retorica repubblicana che i New Democrats hanno assorbito per usarlo contro la corrente dominante del loro partito. In larga misura, si trattava di un nome in codice per 'razzà. Infatti, i New Democrats sembrano essere ossessionati dalle tematiche del welfare con più valore razziale, in modi che prendono come capro espiatorio le minoranze povere. Questa posizione ha avuto il suo fascino politico, ma era alquanto lontana da una qualsiasi Terza Via. Ironicamente, le voci principali che hanno istillato un maggior senso di responsabilità personale nei poveri sono state quelli dei politici afroamericani, il più eminente dei quali è Jesse Jackson, bersaglio principale dell'attacco dei New Democrats.

Programmaticamente, la critica dei New Democrats all'approccio del 'governo grandè nei confronti del welfare si era focalizzato sulla presunta erosione dei valori della famiglia e dell'incentivazione al lavoro che erano seguiti all'espansione dei sussidi ai redditi bassi (income benefits) nei primi anni '70. Ma questa espansione non si era verificata durante gli anni della Great Society democratica, bensì durante il 'regno' dell'amministrazione repubblicana Nixon, in parte anche come reazione alla minaccia politica rappresentata dai programmi di self-help e di sviluppo delle comunità patrocinati dalla sinistra negli anni '60. I Democratici della Terza Via biasimarono i fondamentalisti liberal per la loro politica di concessione di sussidi assistenziali solo alle madri nubili. Ma il sistema era stato appoggiato dai conservatori, che non accettavano che i sussidi andassero alle famiglie nelle quali ci fosse un uomo.

Al di là della retorica, le proposte specifiche dei New Democrats sul welfare erano spesso proprio quelle che gli analisti del welfare di orientamento liberal invocavano da molti anni: riqualificazione, istruzione, assistenza all'infanzia, ecc. Sul problema della criminalità, essi chiedevano più polizia nelle strade, ed anche questa era un'altra richiesta tradizionalmente liberal. C'era però una grossa eccezione: Bill Clinton ed i New Democrats erano apertamente a favore dell'estensione della pena di morte. Anche questo era politicamente popolare ma, di nuovo, un po' lontano dalla Terza Via.

Come analisi dei problemi della sinistra nella politica americana, i New Democrats hanno proposto ben poco che fosse nuovo o progressista. Nelle grandi linee, la loro critica rappresentava semplicemente uno spostamento a destra nello scenario politico generale.

 

La Terza Via come formula per il successo politico

Il centrismo non rappresenta niente di nuovo nella scena politica americana. Come tattica elettorale esso ha un fascino eterno in quanto si pone come una strategia in grado di risolvere problemi pratici, non sovraccarica di ideologie. Nei diversi paesi, la politica si realizza in punti diversi dello spettro delle ideologie, ma in un qualsiasi giorno di elezioni coloro che si identificano consciamente con la destra o con la sinistra ben raramente rappresentano la maggioranza assoluta. Così, quasi sempre si verifica un contesto di centro, dove la moderazione gioca la massima attrattiva. Questo è stato il caso di Franklin Roosevelt e John Kennedy, così come di Richard Nixon e Ronald Reagan.

Ma nel mondo della Terza Via il centro è in continuo spostamento. Infatti, a prescindere dallo scenario politico, i New Democrats sono stati in grado di definirlo come un sostegno per il loro marchio di politica centrista. Così, nella convention del Partito Democratico del 1984, i New Democrats salutarono l'impegno alla responsabilità fiscale assunto dal candidato presidenziale Walter Mondale come un trionfo delle loro idee. Quando Mondale perse le elezioni, essi sostennero che questa era la prova che il vecchio approccio democratico era fallito. Ugualmente, quando Michael Dukakis vinse la nomination del Partito Democratico nel 1988, i New Democrats inneggiarono a lui come al pragmatico moderato che aveva battuto il fondamentalista liberal, Jesse Jackson. Quando però Dukakis perse, essi lo denunciarono come fondamentalista liberal. Persino Bill Clinton non è riuscito a sfuggire alla continua riscrittura della storia da parte dei New Democrats. Dopo che il Partito Democratico perse le elezioni di metà mandato nel 1994, eminenti New Democrats si espressero pubblicamente sulla necessità di abbandonarlo perché di orientamento troppo liberal.

In un documento del 1989, dal titolo The Politics of Evasion (La politica dell'evasione) che divenne poi il manifesto del loro movimento, i New Democrats chiesero al Partito democratico di nominare un candidato "di centro" che sarebbe stato più credibile come "comandante in capo" ed avrebbe rispecchiato i "valori sociali ed i sentimenti morali del popolo americano." Le istanze economiche, così sostenevano, erano secondarie.

Ma le elezioni che seguirono andarono malissimo. Bill Clinton, il nuovo candidato democratico, si era imboscato durante la guerra del Vietnam, e non era certo molto credibile come comandante in capo. Ed le sue personali debolezze dal punto di vista morale erano, persino allora, ben note agli elettori.

 

Clinton e la prevalenza dell'economico

Invece Clinton corse bene come populista tradizionale del Partito Democratico. L'istanza dominante durante la sua campagna elettorale, per dirla con le parole del capo della campagna stessa, fu "l'economia, stupido!". Se il tasso di disoccupazione negli Usa fosse stato nel novembre 1992 del 5,5% invece del 7,5%, George Bush sarebbe stato certamente rieletto.

Clinton aveva fatto la sua campagna su una piattaforma di maggiore spesa governativa in investimenti sociali. Ma una volta eletto, non era riuscito a convincere il Congresso ad accettare il suo piano di investimenti, così aveva cambiato il suo obiettivo originario in quello di riappianare il bilancio. Esiste una certa controversia circa la responsabilità di Bill Clinton per l'espansione dell'economia statunitense che si è verificata durante il suo mandato. Sfortunatamente per George Bush, i dati mostrano oggi che la ripresa era già iniziata nell'estate del 1992, ma non era ancora stata rilevata dalle statistiche. D'altro canto, riappianare il bilancio è stato utile per persuadere la Federal Reserve a non aumentare i tassi di interesse ed a non tagliare l'espansione prematuramente, come aveva fatto durante il precedente ciclo economico.

Il punto politico più importante è che fu lo scontento sul fronte economico, e non le istanze sociali dei New Democrats né la maggiore credibilità sulle questioni militari, che portò all'elezione di Bill Clinton nel 1992. Di nuovo nel 1996, egli condusse la sua campagna su una base ampiamente democratico-populista, vincendo le elezioni, ma la condusse anche sulla base democratica tradizionale del sindacato, delle minoranze, delle donne operaie, che invece i New Democrats continuavano a definire come una base obsoleta dal punto di vista politico. Soltanto dopo le elezioni ritornò su una politica tipicamente di Terza Via. Anche oggi, intrappolato in uno scandalo sessuale di pessimo gusto, sono le buone condizioni dell'economia americana a tenere alto il suo tasso di gradimento. Inoltre, i sondaggi mostrano che negli ultimi due decenni, l'elettorato americano è diventato più liberal sulle questioni sociali, quali le istanze razziali, le relazioni tra i sessi e l'accettazione dell'omosessualità. Nei termini della politica americana, la lezione della Presidenza Clinton è che la piena occupazione ha la meglio sui valori familiari di stampo conservatore - vale a dire esattamente il contrario di ciò che sostengono i New Democrats.

Dalla prospettiva della sinistra, la valutazione della Terza Via non dipende tanto dal successo o dall'insuccesso personale di Clinton ma dal grado in cui egli (1) avrà o meno portato avanti un programma basato su valori progressisti e (2) sarà riuscito a rafforzare il Partito democratico. Nei suoi primi sei anni di Presidenza, Clinton ha registrato piccoli, sparsi passi avanti nei programmi pubblici, ma anche un certo deterioramento complessivo. Studiosi onesti potranno giungere a conclusioni diverse sul fatto che ci sia stato un piccolo guadagno netto, oppura una piccola perdita netta. Ciò che è innegabile è che, in entrambi i casi, la differenza è poca. In effetti, la sua Presidenza ha rotto il ritmo ideologico della politica americana, quello del "due passi avanti, un passo indietro", in cui una Presidenza democratica mette in atto una nuova strategia di politiche sociali che il suo successore repubblicano modifica ma non può annullare del tutto. Non c'è stato un solo singolo passo avanti significativo di Clinton nella politica interna, di due neanche a parlarne. Tutti i suoi risultati fino ad oggi - bilancio appianato, riforma del welfare ed accordi di libero scambio che proteggono gli investitori, ma non i lavoratori né l'ambiente - sono stati obiettivi di un programma corporativo e conservatore. Le possibilità di cambiamento di questo modello nei suoi ultimi due anni di Presidenza sono estremamente labili.

L'occasione storica di Clinton era nel settore del servizio sanitario: oggi circa 43 milioni di americani sono privi di assicurazione in caso di malattia e altri 30 milioni hanno una copertura del tutto insufficiente.

Clinton ha tentato di portare avanti questa istanza nei primi due anni della sua Presidenza. Ma, allo scopo di evitare di essere considerato come un sostenitore del 'governo grandè, ha evitato di prendere chiaramente posizione in favore di un ragionevole sistema gestito dal governo, optando invece per una soluzione di compromesso con i settori commerciali. Il risultato è stata una proposta che era così complicata e confusa che attaccarla è stato un obiettivo fin troppo facile per le compagnie assicuratrici operanti nel settore medico, e così essa è stata infine abbandonata anche dagli alleati di Clinton. Quando essi hanno fatto marcia indietro, Clinton stesso ha abbassato la guardia, lasciando l'impressione che non fosse praticabile nessuna soluzione pubblica al crescente problema americano dell'assistenza medica, sebbene essa non fosse stata mai votata nel Congresso, ed i sondaggi mostrino ancora come la maggior parte degli americani siano favorevoli ad un qualche tipo di programma di assistenza medica pubblica.

La seconda valutazione critica di questa presidenza da Terza Via riguarda il suo effetto sul Partito Democratico. Non solo Clinton ha fallito nel rivitalizzare il Partito Democratico, ma ha ignorato il fatto che si è verificato un forte deterioramento nella sua capacità di richiamo. Alla vigilia delle elezioni presidenziali del 1992, il Partito Democratico aveva una maggioranza di 100 deputati nella Camera dei Rappresentanti. Oggi è in minoranza di 22 membri. Il Partito aveva una maggioranza di 14 voti al Senato. Oggi è in minoranza di 10 voti. Nel 1992 i Democratici controllavano 30 governatorati; oggi ne controllano 17. Per dati aggregati, nei parlamenti dei 50 stati c'erano 1537 democratici in più rispetto ai repubblicani. In sei anni il margine si è ridotto a 359.

Anche le istituzioni sociali che sostengono la sinistra democratica in America sono state indebolite dopo sei anni di Terza Via. Nonostante l'impegno assunto con i sindacati nella campagna presidenziale del 1992, Bill Clinton non è riuscito a convogliare abbastanza voti per una riforma - disperatamente necessaria - dell'attuale legge sul lavoro, che rende gli Stati Uniti il posto del mondo sviluppato dove è più difficile organizzare i lavoratori. Come risultato, la quota sindacalizzata della forza lavoro è continuata a diminuire - fino a raggiungere il 14,1% nel 1997. In effetti, il deterioramento delle condizioni di lavoro hanno portato ad una rivolta interna senza precedenti contro la leadership nazionale dell'Afl-Cio nel 1995.

Si è verificata anche una generale perdita di potere delle organizzazioni non governative (Ong), quel "terzo settore" che i sostenitori della Terza Via spesso pongono come un'alternativa all'intervento governativo. L'indebolimento dei settori delle Ong che si occupano di ambiente, di povertà e di consumi è stato in parte il risultato dei tagli al bilancio interno e delle ridotte aspettative della sinistra, ed in parte il risultato dell'espansione delle Ong conservatrici sostenute da corporazioni o da gruppi politici orientati a destra. Il processo attraverso il quale le Ong sono diventate più conservatrici ha rivelato tutta l'ingenuità della proposta della Terza Via secondo la quale l'affidabilità dei programmi pubblici sarebbe in qualche modo meglio raggiunta attraverso le Ong, autonominate rappresentanti della gente, che non attraverso le istituzioni di governi democratici.

Quando le istituzioni della sinistra democratica si indeboliscono, quelle della destra si fortificano ed il centro della politica si sposta inevitabilmente a destra.

 

La Terza Via come filosofia politica dell'economia globale

La versione dei New Democrats della Terza Via ha preso avvio come sforzo di spostare a destra il Partito Democratico, enfatizzando il conservatorismo sociale ed una politica estera più militaristica - e rendendo le istanze economiche secondarie per i votanti. Ma con la fine della Guerra Fredda, le istanze economiche sono diventate invece più importanti, e proprio esse hanno rappresentato la base della vittoria di Bill Clinton nel 1992.

Per tutta risposta, i commercianti della Terza Via hanno cambiato marcia, proclamando di rappresentare il nuovo paradigma dell'economia globale. Come per molte delle loro riforme sociali, il loro nuovo paradigma economico non era affatto nuovo, ma solo una articolazione del programma neo-liberista della comunità delle multinazionali. E non è certo un caso che il sostegno finanziario alle organizzazioni dei New Democrats provenga in larga parte dai settori economici, e particolarmente da quelli finanziari.

La logica della posizione economica dei New Democrats è la seguente:

I problemi economici mondiali hanno origine dalla eccessiva interferenza dei governi nell'economia di mercato, che, se lasciata a se stessa, si auto-regola ed è stabile. Infatti il capitalismo ci sta prospettando una nuova, vasta e prospera economia mondiale, costruita da imprenditori nei settori delle industrie high tech e della finanza.

Per garantire continuità a tale prosperità, i mercati dei capitali e del lavoro sia a livello nazionale che internazionale dovranno essere ulteriormente deregolati e privatizzati, nonché liberati da tutte le costrizioni artificiali quali quelle imposte dai sindacati e dalle normative di protezione dell'ambiente, che sono ampiamente obsolete.

La liberazione del capitale e del mercato del lavoro aumenterà la produttività, e ciò migliorerà automaticamente il livello di vita degli operai, che non avranno più bisogno della contrattazione collettiva.

I governi dovrebbero sgombrare la strada al libero mercato, e smettere di cercare di garantire "i risultati", vale a dire la conservazione del reddito. Il loro lavoro è fornire "opportunità" alle persone svantaggiate nell'ottenere servizi educativi e di formazione professionale, facendo sì che costoro possano acquisire le competenze necessarie ad ottenere buoni lavori in questa nuova economia. Dove il governo gioca un qualsiasi ruolo, ciò dovrebbe accadere al livello più decentralizzato possibile. Il forte andamento dell'economia americana durante i sei anni della Presidenza Clinton è la prova della validità di tali idee.

 

Economia: cosa è successo negli anni di Clinton

In breve, non c'è nulla di particolarmente straordinario nell'espansione statunitense che è iniziata nel 1991-92. Secondo standard storici, il tasso di crescita della produzione, dei posti di lavoro e degli investimenti è più o meno nella media, leggermente migliore di alcuni altri cicli economici, leggermente peggiore di altri. Tale espansione è durata un po' più a lungo della maggior parte delle altre espansioni economiche, che generalmente vengono abortite quando le autorità monetarie statunitensi reagiscono all'inflazione o in caso di guerre o improvvise carenze nelle forniture globali di petrolio o di grano. Gli anni '90 sono stati benedetti dall'assenza di entrambi tali fenomeni.

In ogni caso, la crescita relativamente più rapida dell'economia statunitense aveva ben poco a che fare con le ricette della Terza Via. Ciò che è straordinario non è la normale performance dell'economia statunitense, bensì la performance anormalmente scadente delle economie dell'Unione Europea e del Giappone negli ultimi sei anni. Ciascuna di esse naturalmente ha la sua storia. In Europa, la crescita è stata limitata a causa delle difficoltà e delle incertezze create dall'unione monetaria e dalla riunificazione della Germania. Nonostante la convinzione tradizionale che i problemi dell'Europa siano dovuti alle rigidità del suo mercato del lavoro, economisti seri, che hanno confrontato i modelli di sviluppo sia europei che statunitensi, attribuiscono la maggior differenza alle politiche macroeconomiche, ed in particolare alle politiche monetarie.

In Giappone la crescita è stata stagnante a causa della sua profonda crisi finanziaria, e della riluttanza del governo giapponese ad usare il denaro pubblico per finanziare la ristrutturazione del suo sistema (in ironico contrasto con la decisione con cui le amministrazioni da laissez faire di Reagan e Bush hanno invece interloquito con il mercato al tempo della crisi del sistema bancario statunitense negli anni '80).

Sebbene la Terza Via affermi di avere un programma per la nuova economia globale, la nuova economia globale in realtà sta tagliando ogni giorno l'erba sotto i piedi a tale programma. Infatti, al cuore della crisi finanziaria globale di oggi c'è proprio la deregulation del mercato, in particolare dei mercati di capitali, inesorabilmente promossa dalle agenzie economiche internazionali dietro insistenza del Tesoro Usa e della comunità delle multinazionali.

 

La globalizzazione che non funziona

La mobilità del capitale privato ha ormai esautorato la capacità dei governi e delle agenzie internazionali di evitare che i mercati si autodistruggano e che i rispettivi popoli subiscano le conseguenze brutali di ciò. Un risultato è la crescente ostilità nei confronti della globalizzazione - a partire dai senza-lavoro in rivolta a Giacarta agli operai in sciopero nell'industria automobilistica a Flint, nel Michigan, dai furibondi minatori non pagati agli insegnanti di Mosca.

Come risposta, i policymakers della lobby mondiale degli affari ora stanno denunciando i governi che seguono la Terza Via per non aver governato abbastanza i loro mercati finanziari, e stanno sostenendo nuovi poteri straordinari per il Fondo Monetario Internazionale ed in alcuni casi una nuova banca centrale globale, che creerebbe un 'governo grandè ben oltre i sogni più scatenati della maggior parte dei democratici. Allo stesso tempo, essi continuano a spingere per una maggior integrazione nel mercato globale.

Come proposta intellettuale, la promozione della deregulation globale portata avanti dai New Democrats è un modello di pessimo tempismo. Finché non costruiremo istituzioni e politiche globali per gli interessi dei lavoratori di tutto il mondo così come per gli interessi degli investitori di tutto il mondo, è chiaro che un'ulteriore deregulation della finanza e del commercio condurranno ad una ancora più forte instabilità economica, ed al caos politico.

Quando gli Stati Uniti si trasformarono da una serie di mercati regionali ad un'economia che copriva un intero continente, si dovette creare un sistema di governo economico che coinvolgesse appunto l'intero continente, e ciò allo scopo di controbilanciare il potere del capitale privato. Tale sistema comprendeva una Banca Centrale per la promozione dello sviluppo, leggi adatte a creare fiducia nei mercati finanziari, e norme federali per evitare che gli Stati utilizzassero aziende sfruttatrici di manodopera per diventare competitivi per gli investimenti. Come risultato, la prosperità della nazione venne ampiamente condivisa, e l'economia divenne più produttiva.

Il mercato globale non ha avuto un tale equilibrio. Infatti, i recenti accordi relativi al commercio internazionale - come il Nafta e la creazione dell'Organizzazione Mondiale per il Commercio - impongono una protezione tutta di stampo americano degli interessi corporativi, mentre minano le capacità dei governi nazionali di mettere in atto standard di stampo americano per quanto riguarda il lavoro, il sistema bancario e la protezione dell'ambiente.

L'esperienza degli anni di Clinton rivela anche una contraddizione di fondo tra la teoria del governo con un ruolo limitato come garante delle opportunità e la realtà del potere politico in una società capitalistica.

Una contraddizione è che, senza istituzioni forti con valori egualitari - ad es. il sindacato - la traduzione degli aumenti di produttività in benefici ampiamente condivisi non si verifica. Ad esempio, alla metà degli anni '70, la quota dell'economia americana che era aperta ai mercati mondiali raddoppiò. Ciò portò alla riduzione sia del potere del sindacato sia della quota di forza lavoro organizzata. Prima di quel momento, i salari reali degli operai dipendenti erano aumentati insieme alla produttività mentre da quel momento in poi tale relazione scomparve. A partire dal 1979 la produttività dell'operaio medio americano è aumentata del 22%, mentre i salari reali sono diminuiti dell'8%. I salari e le indennità reali degli operai nell'economia statunitense sono ancora, dopo sei anni di espansione economica, del 3% più bassi di quanto fossero nel 1989, il picco dello scorso ciclo economico.

Lo stesso discorso vale per i partners degli Stati Uniti nell'accordo Nafta: il Canada e il Messico, in cui la produttività ha superato di gran lunga i salari degli operai. In tale contesto, risulta davvero ingenuo il concetto critico della Terza Via che la formazione e l'istruzione ridurranno la disuguaglianza poiché renderanno i lavoratori ancor più produttivi.

 

Governi al palo, Terza via senza soluzioni

Anche se si credesse alla teoria economica che vede nella formazione e nell'istruzione patrocinate dal governo la risposta ad una disuguaglianza crescente, gli anni di Clinton ne mostrano tutte le contraddizioni politiche. Le lamentele incessanti della Terza Via nei confronti del 'governo grandè, nonostante si continui a rivendicare un ruolo per il settore pubblico, hanno la funzione di una camera di risonanza della denuncia della democrazia sociale fatta dalla destra. Quando gli elettori sentono i leader del principale partito di sinistra dichiarare che il 'governo grandè è incompetente, inabile a proteggere i singoli dalle devastazioni del mercato libero, e che la sua epoca è finita, non possono che rispondere chiedendo la limitazione delle tasse e un governo più 'piccolo' possibile.

Il risultato non è tanto uno spostamento ideologico verso destra tra gli elettori, come affermano i New Democrats, ma un drastico ridimensionamento di ciò che ci si aspetta dal governo. Così, un recente e molto autorevole sondaggio dell'opinione pubblica ha stabilito che il 75% degli americani credono che il governo federale dovrebbe dare priorità assoluta al fatto che tutti gli americani possano avere accesso ad un servizio sanitario alla loro portata, ma solo il 15% crede che il governo stia effettivamente dando a questo tema una qualsiasi priorità. I New Democrats hanno minato la capacità del governo di portare a termine persino i compiti modesti che essi gli hanno affidato.

Nell'economia globalizzata, l'insicurezza del lavoro è una condizione permanente. Dunque, incessante è il processo di adeguamento. Infatti, un tema ricorrente nell'approccio di Clinton alla globalizzazione è che gli americani devono migliorare le loro capacità e competenze nel mondo nel quale egli stesso li ha resi tanto esposti.

Nonostante la retorica, la Terza Via non ha affatto dato alla formazione e all'istruzione quella priorità implicita nella sua retorica e richiesta dalle sue politiche commerciali. In termini percentuali sull'economia nazionale, la spesa per la riqualificazione degli operai è diminuita e si prevede che continuerà a diminuire ulteriormente.

Né Washington ha dimostrato la volontà di fare gli opportuni investimenti a lungo termine nel campo dell'istruzione. Nel 1996 il General Accounting Office (Ragioneria generale dello Stato) ha riferito che il paese necessitava ancora di 112 miliardi di dollari per restaurare edifici di scuole pubbliche - riparare i tetti, derattizzare e cablare le aule per i computer. Nel suo bilancio del 1997, il presidente Clinton propose un programma basato sul finanziamento degli interessi (interest-subsidy program), il quale avrebbe prodotto 5 miliardi di dollari per questo scopo. Il Congresso repubblicano resistette. Quando vennero negoziati i compromessi finali sul bilancio, la somma su cui ci si accordò fu zero.

Le risorse insufficienti stanziate per la formazione e l'istruzione rivelano in quale misura la Terza Via rappresenti un compromesso unilaterale con il conservatorismo corporativo, piuttosto che una nuova dimensione della politica progressista. Quando Clinton fece marcia indietro dal suo programma di investimenti pubblici e adottò come suo obiettivo primario quello di appianare il bilancio, egli garantì all'ala progressista del Partito Democratico che tale strategia era politicamente necessaria allo scopo di ottenere l'accettazione politica della spesa pubblica necessaria. Una volta che il bilancio fosse stato approvato, ci sarebbe stata l'opportunità di spendere.

L'anno fiscale 1998 si è concluso con un'eccedenza. Ma il processo attraverso cui essa è stata ottenuta ha implicato lo schiacciamento dei capitoli interni di spesa. I New Democrats si sono uniti ai Repubblicani nel ridurre le aspettative politiche dell'elettorato delle famiglie operaie di sinistra. Il messaggio all'americano medio, confrontato con la brutale concorrenza della nuova economia globale è stato: "Cavatela da solo".

Avendo tagliato il tradizionale senso sociale democratico della resposabilità verso la comunità e della solidarietà sociale, c'è ben poco sostegno politico per gli investimenti pubblici ora che il bilancio è positivo. L'elettorato, cui è stato detto che il governo non può aiutare nessuno, preferisce una riduzione delle tasse a vasti programmi interni ritenuti inefficaci. I New Democrats, poiché non hanno il fegato di confrontarsi con l'ancor potente apparato militare-industriale statunitense, sono ora a favore d maggiori spese governative nel settore più gonfiato, inefficiente e pericoloso del bilancio pubblico. Sostenuti a loro volta da Wall Street, essi sono stati in prima linea in una campagna mirata a privatizzare il sistema di previdenza sociale e a distruggere così i programmi sociali di maggior successo del secolo, al tempo stesso simbolo ed essenza dei valori democratici progressisti.

In breve, la Terza Via non offre alcuna risposta coerente per la crisi che ora minaccia la democrazia e la stabilità nel mondo intero. L'attacco dei suoi sostenitori all'"interferenza" pubblica nel mercato è al momento messo in ridicolo dalle richieste crescenti di coloro che rappresentano il mondo delle multinazionali - da Tokio a New York - affinché un 'governo grandè li salvi dalle conseguenze del mercato. Infatti Tony Blair - che ideologicamente riesce ad essere persino più disinvolto di Bill Clinton - ha cominciato a chiedere quelle misure per regolamentare la finanza internazionale che i pensatori di sinistra hanno chiesto da anni. Senza dubbio sentiremo presto dire che la proposta di nuove agenzie globali con compiti di super-regolamentazione, gestite da una solida burocrazia internazionale, rappresenta la Terza Via.

 

"New Democrats, voi da che parte state?"

Poiché la Terza Via è costituuita da tale sostanza intellettualmente amorfa, può darsi che l'esperienza degli Stati Uniti non sia definitiva. Ma dato lo zelo con cui i politici della Terza Via hanno voluto identificarsi con Bill Clinton, almeno fino ai suoi recenti guai personali, la performance della sua presidenza ci offre la miglior misura empirica dell'importanza della Terza Via per la condizione politica della sinistra democratica nelle società avanzate. Sulla base di tale esperienza, possiamo concludere come segue:

1. La Terza Via non è un nuovo principio che possa condurci in una dimensione dell'universo politico che si trovi al di là della destra e della sinistra. Piuttosto, si tratta di una razionalizzazione del compromesso politico tra sinistra e destra, in cui la sinistra si avvicina alla destra. Il compromesso politico è connaturato alla democrazia rappresentativa, ma il compromesso di principio nasce dai principi, non dal compromesso.

2. La Terza Via si è dimostrata un successo politico personale per un Presidente del Partito Democratico. Essa è stata però un fallimento per il Partito Democratico, che, come istituzione, è ora molto più debole di quanto non lo fosse prima di Bill Clinton. Lo stesso vale per le maggiori istituzioni sociali da cui il partito trae il suo attivismo e la sua energia morale.

3. Non è avanzata neanche la politica basata sui valori politici della sinistra. La quota di bilancio federale destinata agli investimenti sociali è diminuita, il sistema sanitario si è deteriorato, e la sicurezza sociale è stata ulteriormente ridotta a brandelli. Nel 1998, gli interessi di Wall Street dominano la politica americana più di quanto non lo facessero nel 1992.

4. I sostenitori della Terza Via hanno dato il loro contributo ricordando alla sinistra l'importanza di un settore pubblico efficiente ma anche solidaristico. Ricostruire la competenza del governo deve essere un elemento importante nella ricostruzione della democrazia sociale nei prossimi anni. D'altro canto, unendosi agli attacchi al governo mossi dalla destra, gli uomini della Terza Via hanno reso indeterminato il sostegno pubblico agli investimenti nel settore pubblico ed hanno rafforzato la demoralizzazione per il servizio civile - che in ultima analisi renderebbe il governo più inefficiente ed inefficace.

La Terza Via non è un'ideologia con il potere di ispirare e sostenere un ideale. Essa è piuttosto una guida al pragmatismo politico per politici ambiziosi, che non hanno un'idea chiara di che cosa vogliono davvero compiere. Ma il compito della sinistra è cambiare il mondo. Per farlo, essa deve cominciare col rafforzare le proprie istituzioni essenziali, fornendo loro una chiave di comprensione di come funziona il mondo. Giacché la Terza Via rende indeterminati le istituzioni e gli ideali della sinistra democratica, essa è controproducente. Inoltre, le ipotesi su cui la Terza Via ha fondato la sua strategia di partenariato con il capitale multinazionale stanno crollando.La nuova economia globale, dopo avere generato la ridistribuzione del reddito, della ricchezza e del potere verso l'alto, ora la sta spingendo fuori controllo.

La crisi economica ha rivelato la contraddizione globale che soggiace all'economia globale: appunto i mercati deregolati, che stanno sistematicamente distruggendo le istituzioni di governo nazionali ed internazionali, le quali sono invece essenziali per la capacità del mercato di produrre e distribuire.

Non è certo tempo per la sinistra di abbandonare il suo impegno verso soluzioni di tipo collettivistico e democratico. È tempo invece di mostrare alla gente che non è sola.

Non è tempo di ammettere che la disuguaglianza e la distruzione ecologica sono prezzi necessari da pagare per lo sviluppo. È tempo invece di valutare lo sviluppo economico in base alla quantità e alla distribuzione dei suoi benefici, sia tra le generazioni di oggi che tra quelle future.

Non è tempo per la sinistra di abbandonare la sua analisi di classe. È tempo invece di aggiornarla e di usarla come strumento di organizzazione politica.

Infine, sulla questione di quali siano le strade da percorrere per una politica democratica, dobbiamo qui lasciare l'ultima parola non a William Jefferson Clinton, bensì a Thomas Jefferson. In una lettera al Marchese di Lafayette del 1823, Jefferson concludeva che esistono solo due scelte di base: "In verità, il partito Whig e il partito Tory sono quelli della natura. Essi esistono in tutti i paesi, siano essi chiamati con questi stessi nomi, oppure con i nomi di Aristocratici e Democratici, Cote Droite et Cote Gauche, Ultras e Radicali, Schiavisti e Libertari".

La domanda che la sinistra deve porre ai suoi leader, con le parole di una vecchia canzone operaia americana, è: "tu, da che parte stai?"

 

Prolegomena al dibattito sulla terza via

di Michele Salvati

Parlare di terza via in questo paese è come portare vasi a Samo. Naturalmente, la terza via di cui noi italiani abbiamo discusso per trent’anni, dai primi governi di centro-sinistra negli anni sessanta fino al crollo del comunismo tra la fine degli anni ottanta e l’inizio dei novanta, è di genere affatto diverso da quella di cui parliamo oggi: si trattava allora di una terza via tra comunismo e socialdemocrazia o, più in generale, tra un programma radicale o rivoluzionario e l’esperienza reale dei governi socialdemocratici nel resto dell’Europa. Anche questa "terza via" era intesa in senso riformistico. Ma le riforme da realizzare dovevano essere diverse da quelle socialdemocratiche: dovevano essere riforme strutturali o addirittura riforme "destabilizzanti", volte a minare gli equilibri fondamentali del capitalismo e a mettere in moto un processo di cambiamento rivoluzionario o quasi.

Non erano tanto i comunisti ad esprimersi in questo modo; di fatto, i comunisti italiani sono sempre stati sospettosi di fronte alle accentuazioni estremistiche del vecchio dibattito sulla terza via, alimentato soprattutto dalla sinistra socialista e da gauchistes di varia appartenenza. Ma, naturalmente, una politica socialdemocratica pura e semplice non poteva essere pienamente riconosciuta come un obiettivo primario da parte dei leader del Partito comunista, i quali coniarono una sottile distinzione tra "riformista" - carattere tipico di una debole piattaforma socialdemocratica - e "riformatore", carattere tipico della versione buona, quella comunista. Nel Pci esisteva una "destra", una corrente che sempre più spesso guardava all’esperienza socialdemocratica come a una fonte di ispirazione; i suoi membri riconoscevano - in privato o in discorsi pubblici sì, ma cauti e diplomatici - che la divisione tra la socialdemocrazia e il comunismo si era rivelata disastrosa e che il super-revisionista Eduard Bernstein aveva perfettamente ragione. Non stupisce che costoro (e quel che rimane dei socialisti) siano i più diffidenti nei confronti della nuova terza via. Finalmente - dicono - dopo un processo storico tanto lungo e doloroso, il Partito Comunista Italiano ha cambiato nome, ha finito per abbracciare una piattaforma decisamente socialdemocratica, ha sinceramente ammesso che la socialdemocrazia aveva ragione e il comunismo aveva torto, è diventato orgogliosamente membro della Internazionale socialista. Bene: ma ecco presentarsi questa scocciatura, questi sciocchi che ricominciano a parlare di terze vie, e questa volta non si tratta di una via intermedia tra il comunismo e la socialdemocrazia, ma tra la socialdemocrazia e il liberalismo. Che vadano a quel paese!

Ritornerò ancora sul caso italiano, sulla logica politica della coalizione dell’Ulivo, sugli aspetti principali del dibattito sulla terza via in questo paese: le cose appaiono sotto una luce diversa, quando sono fatte scendere dall’Empireo della teoria e incarnate nelle peculiarità delle politiche nazionali. Appaiono diverse non solo dalle affermazioni astrattamente teoriche, ma anche l’una dall’altra: "terza via" è un’espressione sintetica che definisce programmi politici diversi in Gran Bretagna e in Italia, per non parlare degli Stati Uniti o del Brasile. Di conseguenza, esistono molte "nuove" terze vie: si tratta di programmi nazionali, specifici per ciascuna cultura politica; in alcuni casi sono poco più che slogan inseriti nelle piattaforme elettorali. La questione che vorrei affrontare, tuttavia, è se esista qualcosa che va oltre tutto ciò, se tutto questo parlare di una terza via nei diversi contesti nazionali stia ad indicare un problema latente comune a tutta la sinistra, un problema abbastanza serio da meritare una seria considerazione. La mia risposta è si.

Ed è un "si" convinto. Il problema "serio" non riguarda un confronto tra le politiche di sinistra e quelle conservatrici, con la "terza via" che rappresenterebbe una sorta di tertium genus, intermedio tra le due: un simile paragone sincronico non ci porterebbe molto lontano e potrebbe essere lasciato a un commento finale. Il problema serio ha una natura sia sincronica che diacronica e il confronto tra le politiche dovrebbe svilupparsi interamente all’interno delle politiche di sinistra. È ragionevole oggi tracciare una decisa linea di demarcazione tra le politiche di sinistra adottate (e dimostratesi così efficaci) in passato e quelle che, nell’attuale situazione delle società avanzate post-industriali, appaiono adeguate e auspicabili? Rappresenta tale linea di demarcazione una svolta profonda, epocale, simile a quella che divide la sinistra liberal-democratica del secolo immediatamente successivo alla Rivoluzione francese dalla sinistra socialista nel secolo dopo? Se la risposta è si, quale cambiamento è intervenuto a giustificare un tale giudizio? Si tratta di interrogativi vastissimi, che non sarò in grado di affrontare in modo esaustivo. Quel che posso fare è tracciare a grandi linee una mappa dei luoghi in cui è possibile cercare una risposta, uno schema abbozzato delle dimensioni analitiche in cui è possibile scomporre tali interrogativi.

 

Continuità e cambiamento: tre criteri

I tre luoghi principali in cui si può cercare una risposta, in cui si può verificare se vi sia stata una vera soluzione di continuità, sono i seguenti: (a) i sistemi di valori sostenuti dalla sinistra; (b) il "mondo" (la società) in cui questi valori dovrebbero essere perseguiti; (c) la visione del mondo e gli strumenti teorici tramite i quali la sinistra cerca non solo di comprendere quel "mondo" ma anche di individuare le politiche volte a cambiarlo, alla luce dei valori che essa sostiene. Una distinzione così netta tra le diverse dimensioni analitiche ha solo uno scopo di chiarezza logica: di fatto si tratta di dimensioni strettamente intrecciate e sarebbe difficile immaginare un cambiamento sostanziale in una di esse che non andasse a incidere profondamente almeno in una delle rimanenti due. Lo spazio coperto dai luoghi o dimensioni citati è però esaustivo: un importante mutamento della sinistra e delle politiche da essa perseguite (una terza, quarta o ennesima via) non può che discendere da un cambiamento o nei valori, o nel "mondo", o negli strumenti adottati per la comprensione del mondo e nelle conseguenti azioni politiche; oppure, quale che sia l’epicentro del cambiamento, da una trasformazione di tutte queste dimensioni insieme. Chi leggesse Beyond Left and Right di Anthony Giddens potrebbe facilmente accorgersi che, benché l’epicentro del terremoto della terza via sia decisamente situato nella dimensione del "mondo", e dunque nella nuova situazione sociale ed economica che la sinistra si trova ad affrontare, esso coinvolge profondamente anche le dimensioni dei valori e degli strumenti teorici. E lo stesso è accaduto nei precedenti grandi mutamenti intervenuti nelle strategie della sinistra, nelle autentiche svolte epocali vissute dalla sinistra nei due secoli di storia in cui possiamo parlare di Destra e di Sinistra nel senso moderno dei due termini.

Ripercorrere brevemente queste "autentiche" svolte epocali ci sarà utile per fissare un punto di riferimento, per stabilire un termine di paragone e un ordine di grandezza con i quali misurare l’entità del fenomeno "terza via". Lasciando da parte le differenze nazionali e concentrandoci sui reali punti di svolta della sinistra in quanto movimento politico internazionale, soltanto due meritano di essere ricondotti a questa categoria: la già ricordata transizione tra il secolo liberal-democratico ("wig") della sinistra e il secolo socialista; e, all’interno di quest’ultimo, la divisione tra la via socialdemocratica e quella comunista. La prima di queste svolte è più rilevante per stabilire un confronto con la terza via, sia perché il genere di cambiamento sociale ed economico (quella che abbiamo definito come la dimensione del "mondo") che ha condotto al cambiamento di strategia presenta alcuni caratteri comuni a entrambi i casi; sia perché c’è più di un motivo per definire la terza via (quanto meno nella sua versione inglese) come una variante moderna del "wiggismo", come è stato più volte osservato. Sarò dunque non soltanto breve, ma addirittura paurosamente schematico sul secondo punto di svolta, sulla seconda grande divisione della sinistra.

 

Comunisti e socialisti: stesso mondo, diversi valori

La divisione tra socialdemocrazia e comunismo ha più a che fare con le dimensioni teorico-ideologica e dei valori che con la dimensione del "mondo": socialdemocratici e comunisti, menscevichi e bolscevichi, avevano di fronte lo stesso mondo, ma lo osservavano attraverso lenti ideologiche ed etiche diverse. È vero che le condizioni materiali che dovevano garantire il successo della rivoluzione erano assai diverse in Russia e sull’Europa centrale e occidentale: ma anche in Russia c’erano menscevichi, come nel resto d’Europa c’erano comunisti o socialisti rivoluzionari. Le differenze nelle condizioni sociali ed economiche (quella che abbiamo chiamato la dimensione del "mondo") possono contribuire a spiegare il successo dei tentativi rivoluzionari o la prevalenza di una o dell’altra corrente all’interno dei movimenti socialisti nei vari paesi, ma non la frattura radicale all’interno di ognuno di essi. Per spiegare questo fenomeno sono di vitale importanza le dimensioni della teoria, dell’ideologia e dei valori: il principale strumento teorico utilizzato dai movimenti operai continentali (il marxismo) e il modo in cui i successivi sviluppi teorici e ideologici hanno inquadrato gli obiettivi, sia intermedi che ultimi, che i partiti socialisti dovevano perseguire, hanno condotto inesorabilmente - nelle turbolente condizioni sociali verificatesi durante e dopo la prima guerra mondiale - a una rottura che andava preparandosi da decenni. Tutti, anche gli esponenti delle correnti più a destra nei partiti socialdemocratici, accettavano come articolo di fede che la "vera" soluzione allo sfruttamento dei lavoratori risiedeva nell’abolire la proprietà privata e il mercato e nel sostituire ad essi una economia collettivista; e poiché era piuttosto arduo immaginare che un tale cambiamento potesse avvenire attraverso mezzi pacifici e all’interno dell’ordine legale "borghese", tutti ammettevano che prima o poi la rivoluzione sarebbe stata inevitabile; sempre "poi", ovviamente, per i socialisti di destra. Per poter eludere tali conclusioni sarebbe stato necessario dare una forma completamente nuova alla cornice di valori, teorie e ideologie da cui esse discendevano: soltanto Bernstein, profondamente influenzato dalle tradizioni laburiste (e wig) britanniche effettuò un tentativo serio in questa direzione, in conseguenza del quale divenne un reietto del movimento laburista tedesco (e continentale in genere).

 

Dai diritti civili ai diritti materiali

Ai fini della nostra discussione è forse più importante, come abbiamo già sottolineato, l’altro punto di svolta "epocale" nella storia della moderna sinistra europea. Si è trattato di una svolta molto più lenta, intervenuta tra gli ultimi decenni del secolo XIX e la fine della prima guerra mondiale, che ha gradualmente portato i partiti laburisti e socialisti a sostituirsi a quelli liberal-democratici (wig) o radical-borghesi in quanto principali rappresentanti della sinistra nei Parlamenti europei. Dopo la prima guerra mondiale, quasi ovunque in Europa (non solo nel Parlamento, ma ancor di più nella società civile, dove poteva contare sul sostegno di organizzazioni sindacali sempre più potenti) la sinistra era arrivata a identificarsi con il movimento operaio e socialista: i vecchi partiti liberal-democratici avevano perduto gran parte del loro peso ed erano stati spinti verso una posizione più centrista nello spettro politico. In questa transizione, tutte le dimensioni della sinistra subirono un cambiamento profondo.

Nella dimensione dei valori, il pendolo si venne spostando da una definizione formale e legale dell’uguaglianza di diritti civili e politici, alle condizioni sociali ed economiche ("materiali", come si diceva allora) che quei diritti avrebbero dovuto accompagnare e sostenere: occorreva garantire a tutti i cittadini un livello minimo di benessere, di istruzione e di sicurezza, obiettivi da attuare sia perché validi per sé, sia perché indispensabili all’effettivo esercizio dei diritti civili e politici. Questa nuova categoria di diritti - "diritti sociali", secondo la definizione di T.H.Marshall - fu teorizzata solo in seguito, ma l’esigenza dei diritti sociali era presente fin dagli inizi; l’ampiezza e la sottigliezza che caratterizzano l’attuale dibattito sull’uguaglianza non sarebbero nemmeno immaginabili, se non si fosse verificata questa svolta nella dimensione dei valori della sinistra

Il cambiamento nella dimensione etica, dei valori, era inestricabilmente intrecciato a un cambiamento parallelo nella dimensione teorica, negli strumenti analitici e nella visione del mondo attraverso i quali la sinistra europea cercava di trovare un senso alla società in cui viveva e di definire le politiche più adatte alla sua riforma. È difficile sopravvalutare la soluzione di continuità teorica prodotta da Marx e dal marxismo tra la sinistra borghese e quella socialista, quantomeno nell’Europa continentale. Ma ovunque, anche in quei paesi in cui il marxismo non divenne mai il punto di riferimento teorico dominante della sinistra, si poteva percepire un chiarissimo mutamento nell’enfasi e nei concetti. Ovunque i socialisti auspicavano profonde riforme nei meccanismi del sistema economico: la parola "capitalismo" non veniva usata solo dai marxisti, e con essa si diffondeva anche l’idea che esso fosse un modo di organizzare l’economia storicamente contingente, e pertanto modificabile. Ovunque i socialisti, che fossero o meno marxisti, erano convinti che i valori da loro sostenuti potessero essere attuati soltanto attraverso l’attuazione di riforme nell’organizzazione della produzione. E un socialista non doveva necessariamente essere marxista per chiedere una decisa limitazione del ruolo svolto dalla proprietà privata e una più severa regolamentazione dei mercati da parte dello stato. È dalla preoccupazione per le basi "materiali" dei diritti che nasce un profondo interesse per il modo in cui è organizzata l’economia, che è il tratto distintivo di tutti i socialisti.

Ma il cambiamento vero, quello che ha scatenato tutti gli altri, era avvenuto nella dimensione del "mondo", nelle condizioni sociali ed economiche dell’Europa verso la metà del diciannovesimo secolo: l’industrializzazione di massa e l’emergere di una nuova, minacciosa spaccatura nella società; le sofferenze e lo sfruttamento di milioni di persone, espulse dall’agricoltura e dall’artigianato per fondersi nella nuova condizione di proletariato industriale. Senza questa immensa trasformazione, senza una frattura così profonda rispetto alle precedenti condizioni sociali, la domanda di un mutamento del sistema di valori della sinistra sarebbe rimasta tranquillamente relegata negli scritti politici di pochi utopisti radicali e i nuovi strumenti teorici non avrebbero avuto alcuna presa. È per questa, fondamentale, spinta sociale che la sinistra "wig" del secolo precedente, almeno in Europa, fu superata da una sinistra socialista che si distingueva dalla prima nei tre aspetti cruciali per la definizione di qualunque forza politica. 1) Si distingueva per la natura delle richieste politiche fondamentali: agli obiettivi civili e politici della borghesia illuminata si aggiungevano domande nuove e più radicali riguardanti le condizioni sociali ed economiche. 2) Si distingueva per gli strati sociali che costituivano il suo principale referente e che essa cercava di rappresentare: i comuni lavoratori industriali, anziché i borghesi e i piccolo-borghesi. 3) Infine si distingueva - e si tratta di una differenza sostanziale - per la nuova divisione attuata tra "amico e nemico": i nemici della sinistra borghese erano la Chiesa, l’aristocrazia e i proprietari terrieri, i tradizionali sostenitori dell’Ancien Règime; costoro rientravano nel novero dei nemici anche per i socialisti, i quali però vi aggiunsero i capitalisti, fatto che causò fortissime tensioni nei rapporti tra le due sinistre.

Poiché stiamo analizzando i momenti di svolta nella storia della sinistra, è perfettamente legittimo sottolineare le grandi differenze tra il secolo della sinistra liberale e quello del socialismo. Tuttavia, in nome dell’equilibrio storico, si dovrebbero evidenziare anche gli elementi di continuità. Se ne trovano soprattutto nel sistema dei valori, dove le posizioni socialiste sull’uguaglianza possono essere considerate un ampliamento delle precedenti ( "Una volta che l’idea di uguaglianza è entrata nella storia, il suo cammino è implacabile e inarrestabile": non è stato Tocqueville a dire qualcosa del genere, prevedendo anche "le rovine e i disastri" che tale cammino avrebbe provocato?). In particolare, proprio quei diritti civili e politici che furono il principale obiettivo storico della sinistra liberal-radicale (diritto di libera associazione, suffragio universale, parità tra i sessi) furono ripresi dal movimento socialista. Nei primi decenni del ventesimo secolo, quando i socialisti ebbero la meglio sui Wigs diventando i principali rappresentanti della sinistra, tali diritti erano ben lungi dall’essere garantiti e di fatto, nella maggior parte delle nazioni europee, essi furono ottenuti, nella loro forma attuale e completa, soltanto dopo la seconda guerra mondiale, quasi simultaneamente ai diritti "sociali" propugnati dai socialisti. Sottolineare questo è importante, perché si collega a una diatriba di cui parleremo tra poco, e che riveste molta importanza nel dibattito sulla terza via: se cioè la socialdemocrazia odierna sia già una sorta di "terza via", una miscela di teorie, prassi, principi e valori liberali e socialisti.

 

Ma la socialdemocrazia è la terza via?

Mi scuso per il brutale schematismo di questi cenni storici, ma volevo arrivare il più rapidamente possibile alla domanda chiave: in che modo la transizione tra socialdemocrazia e "terza via" può essere paragonata alle grandi transizioni che abbiamo ora evocato? Per rispondere a questo interrogativo dobbiamo tornare alle "dimensioni" della sinistra, da (a) a (c), e ai tratti distintivi della sinistra intesa come forza politica, da (1) a (3). Le dimensioni dei valori, della teoria e del "mondo" sono significativamente diverse? Si è verificato un cambiamento socio-economico di intensità paragonabile alla rivoluzione industriale? Una trasformazione cui la sinistra deve rispondere con obiettivi e strategie politiche radicalmente nuovi? Esistono nuovi gruppi sociali cui la terza via fa riferimento, diversi da quelli della socialdemocrazia? Si è affermata una nuova definizione di "amico/nemico"?

Nel rispondere a queste domande incontriamo due importanti ostacoli. Il primo riguarda un giudizio di "quantità/qualità": a che punto, esattamente, le differenze nelle dimensioni e nelle caratteristiche prima ricordate si possono definire di entità sufficiente, tali da giustificare un giudizio di cambiamento qualitativo? Il secondo riguarda la natura confusa ed eclettica del nostro termine di paragone, la socialdemocrazia dei nostri giorni. La prima difficoltà è certamente importante e, in qualunque modo la si risolva, darà sempre adito a controversie: tuttavia può essere risolta nel modo in cui di solito si risolvono questo genere di problemi, cioè definendo, in teoria o per convenzione, una soglia oltre la quale il cambiamento può essere giudicato "di entità sufficiente". È la seconda, invece, che risulta quasi insuperabile, e temo lasci poca speranza di un dialogo costruttivo tra quanti già hanno preso una posizione nel dibattito "socialdemocrazia contro terza via".

La ragione per cui questa seconda difficoltà non può essere superata facilmente è che, dopo la seconda guerra mondiale, la stessa socialdemocrazia è divenuta una sorta di... terza via, come abbiamo già lasciato capire: cioè un insieme di strumenti teorici, riferimenti ideologici e prassi effettive piuttosto confuso ed eterogeneo; un compromesso politico che muta nel tempo e varia secondo i vari contesti nazionali. Oggi la socialdemocrazia è già un compromesso liberal-socialista: gli obiettivi principali, e soprattutto gli strumenti, che hanno condotto la socialdemocrazia ai trionfi degli anni sessanta e settanta - il Welfare State e la piena occupazione - sono stati opera di due grandi liberali, che si dichiaravano tali, e in uno spirito autenticamente liberal (Keynes e Beveridge). Ecologia e femminismo sono stati digeriti, più o meno facilmente, nel compromesso ideologico della maggior parte delle socialdemocrazie nazionali. E quando sono emerse alcune esigenze prettamente socialiste - ad esempio quelle espresse dal piano Meidner in Svezia - esse sono state rifiutate in toto. Dunque, quando paragoniamo la socialdemocrazia alla terza via, non stiamo prendendo come termine di paragone la socialdemocrazia di Kautsky o di Adler, e nemmeno quella del programma di Bad Godesberg (assai lontane delle dichiarazioni e delle prassi odierne), bensì i programmi iper-revisionisti dei partiti socialdemocratici europei contemporanei; e questi sono tutti compromessi, leggermente diversi fra loro, tra i principi socialisti e quelli liberali. E per questo stesso motivo continuiamo a citare Eduard Bernstein, poiché è nelle sue Voraussetzungen che possiamo trovare la prima, consapevole affermazione di tale compromesso. La terza via già esiste: perché, allora, continuare a parlarne?

La ragione è duplice, e ha a che vedere con due delle dimensioni della sinistra che abbiamo evidenziato prima, quella teorico-ideologica e quella del "mondo". La prima è meno importante, ma tuttavia significativa: gli strumenti tradizionali della sinistra socialista, cioè le analisi della società che la contraddistinguono, hanno subito un duro colpo in seguito alla bancarotta di quel tragico esperimento sociale - il comunismo - che aveva dichiarato di basarsi sulla versione dura e pura di quegli stessi strumenti, il marxismo. La seconda ragione, la più importante, è che il capitalismo è cambiato, il che ha messo seriamente in difficoltà le politiche concrete perseguite dalla sinistra nelle nazioni più avanzate: la strategia Keynes-Beveridge, che aveva funzionato magnificamente fino agli anni settanta, non va più bene, e la sinistra è alla disperata ricerca di una strategia politica nuova e realizzabile, ma sempre all’interno del compromesso socialista-liberale del dopoguerra. Nella ricerca di tale strategia, quanti cercano di rafforzare gli aspetti liberali di quel compromesso, di solito insistono sul concetto di terza via; quanti intendono difendere gli aspetti socialisti, si schierano, all’interno del dibattito, dalla parte socialdemocratica.

Questa è una distinzione così grossolana che rischia di fornire una rappresentazione fuorviante del dibattito in corso; bisogna quanto meno aggiungere che ogni presa di posizione è motivata non soltanto da questioni di principio, ma anche da concretissime considerazioni di opportunità elettorale. Da una parte, la concreta attuazione del compromesso socialdemocratico ha creato una rete di interessi e di aspettative così fitta, che un brusco cambiamento risulta costoso e doloroso per i partiti consolidati della sinistra; e ciò la induce a mantenersi fedele alle tradizionali politiche socialdemocratiche. Dall’altra parte, la profonda evoluzione del tessuto sociale ed economico ha suscitato nuove esigenze cui le politiche tradizionali non sono in grado di rispondere: questo ha portato alla crescita di un serbatoio di consenso elettorale sul quale si esercita fortissima la concorrenza della destra e che chiede un cambiamento nella politica e nell’immagine stessa della sinistra. Nel complesso, comunque, la nostra affermazione coglie il nocciolo della questione.

 

La terza via e la prevalenza del lib-lib-lab

Se ciò è vero possiamo e dobbiamo discutere dei problemi che la sinistra si trova ad affrontare nei paesi post-industriali prescindendo, almeno per il momento, dal concetto di terza via. Dopo un’analisi accurata della natura della trasformazione in atto nella dimensione del "mondo" e delle sue possibili ripercussioni sul sistema dei valori e sulla strategia della sinistra, potremo chiederci se sia utile introdurre un nuovo termine per definire questa trasformazione. Per le ragioni che abbiamo appena addotto, "terza via" è probabilmente un’espressione fuorviante: la strategia politica perseguita dai partiti socialdemocratici è già, e da molto tempo, un compromesso liberal-socialista, un’esperienza "lib-lab". Se i mutamenti intervenuti nelle dimensioni citate e nei tratti caratteristici sono sufficientemente importanti, se riterremo utile tracciare una linea di demarcazione tra la fase "Keynes-Beveridge" e quella attuale, non si tratterà’ probabilmente che di un ulteriore passo avanti all’interno di tale compromesso liberal-socialista: una formula "lib-lib-lab", e non una terza via.

Procedere in questo modo ha senso, naturalmente, se la terza via si colloca nello spazio politico e di valore già occupato dall’esperienza storica della sinistra, la sinistra liberale e quella socialista, in tutte le sue innumerevoli versioni. Ma non equivale, questo, a mettere il carro davanti ai buoi? Ancora non sappiamo quali siano i valori, le visioni del mondo e le teorie propugnate dagli ideologi della terza via: potrebbero benissimo essere di natura completamente diversa rispetto alle due grandi tradizioni storiche della sinistra; e, in questo caso, "terza via" non sarebbe un termine scorretto. Confesso sinceramente di nutrire un pregiudizio: da quanto ho potuto capire leggendo lavori di natura teorica e ideologica, dalle politiche effettive perseguite dai principali leader politici che sono stati infilati nella "Internazionale della Terza Via" (Blair, Clinton, Cardoso, Prodi e altri), non sono riuscito a individuare nessun elemento realmente significativo che si collochi al di fuori di quelle due grandi tradizioni.

È vero che, in alcuni degli scritti più teorici, emerge una preoccupazione seria e insolita per i problemi legati all’ambiente, al femminismo e a rischi sistemici di natura globale. Problemi che sono spesso (ma non sempre) marginali nei programmi della sinistra, sia liberale che socialdemocratica. Ma questo non emerge con la stessa qualità e intensità nelle piattaforme elettorali e nelle politiche concrete dei leader citati sopra; al contrario, si ritrova molto di più nei programmi di altri partiti socialdemocratici europei, soprattutto nei paesi nordici, che non si sognano nemmeno di parlare di terze vie (forse stanno già seguendo una terza via senza nemmeno rendersene conto, come il Monsieur Jourdain di Molière quando parla in prosa). A parte le politiche effettive, mi chiedo anche se l’accento posto su questi importantissimi temi sia motivo sufficiente per collocare la terza via in una categoria nuova, non ottenibile selezionando, riorganizzando e soppesando diversamente gli elementi già contenuti nelle due grandi tradizioni della sinistra: la formula "lib-lib-lab" (i critici "da sinistra" aggiungerebbero ancora altri "lib") è una schematizzazione ironica e non del tutto legittima, ma fino a quando i teorici della terza via non saranno riusciti a dimostrare la radicale "alterità" di questa strategia politica rispetto alle tradizioni del passato, essi non potranno sfuggire a un giudizio in questi termini.

Le cose possono sembrare un tantino differenti se osservate da un punto di vista nazionale anziché da una prospettiva internazionale: mentre in quest’ultimo caso le due grandi tradizioni della sinistra sono quelle socialista e liberale, a livello locale altre correnti ideologiche possono confluire nel grande fiume di una sinistra "nuova" o allargata, e l’analisi di queste confluenze può risultare significativa. In Italia, per esempio, la tradizione del cattolicesimo sociale si collocava, fino a poco tempo fa, nella corrente di sinistra di un grande partito centrista, la Democrazia Cristiana. Con la scomparsa di questo partito, i cattolici di sinistra sono entrati a far parte della coalizione dell’Ulivo, ma insistono nel sottolineare le motivazioni di ordine religioso che li hanno portati a sostenere la sinistra, ed esigono che il programma della coalizione tenga esplicitamente conto della loro visione delle cose (sulla famiglia, sull’educazione, sulle questioni bio-etiche). Ciò non costituisce un problema per Blair, per Jospin, per Delors o per altri leader socialdemocratici europei con profonde motivazioni religiose, ma è un problema in questo paese, in cui il cattolicesimo sociale dev’essere riconosciuto come uno degli ingredienti ideologici della nuova sinistra, insieme al liberalismo e al socialismo. Si possono fare altri esempi, a livello nazionale, di differenti componenti ideologiche: tuttavia, anche in queste "varianti nazionali" non vedo nulla in grado di indurmi a modificare il giudizio che ho espresso con riferimento alle due grandi tradizioni della sinistra a livello internazionale.

 

La natura del cambiamento

Come i teorici della terza via, anch’io sono convinto che sia intervenuto un profondo cambiamento nella situazione della sinistra, una trasformazione che situerei nelle dimensioni del "mondo" e dell’ideologia, come ho già detto. Di conseguenza, credo anche nella necessità di modificare le strategie politiche della sinistra nelle società avanzate post-industriali. Il rinnovamento dovrebbe andare soprattutto - come già accade - in direzione del riconoscimento dell’importante contributo apportato dalla tradizione liberal-democratica e verso una maggior attenzione ai nuovi problemi emergenti, come la parità tra i sessi e i rischi per l’ambiente e l’ecosistema su scala mondiale (e questo purtroppo ancora non è accaduto). Nel complesso, tuttavia, non ritengo trattarsi di un cambiamento della stessa natura epocale di quelli che ho citato in precedenza: non foss’altro che per il fatto che l’ideologia e la prassi dei principali partiti socialdemocratici europei hanno già fatto molti passi verso l’assorbimento dei valori e delle politiche liberal-democratiche. In ogni caso, se riusciremo a trovare una espressione migliore di "terza via" per indicare questo cambiamento, ritengo sarebbe utile adottarla.

 

L’importanza di un giudizio equilibrato

Una volta riconosciuta l’importanza del cambiamento, dovremmo prestare la massima attenzione all’analisi della sua natura e all’accertamento delle sue autentiche dimensioni, per non gettare il bambino della sinistra insieme coll’acqua sporca di concezioni invecchiate. Riconsideriamo brevemente le nostre dimensioni analitiche.

1. Nella dimensione del "mondo" è altrettanto facile sottovalutare che sopravvalutare la natura, l’entità e la novità del cambiamento. La globalizzazione e la rivoluzione tecnologica sono indubbiamente reali e concrete, ma il parlare che si fa attorno ad esse è spesso ideologico e privo di senso: un’ottima analisi critica (anche se con una certa tendenza a sottostimare il fenomeno) si trova nel libretto di Frank Vandenbroucke, Globalisation, Inequality and Social-democracy (IPPR, Londra, 1997). Per venire ai più importanti problemi nazionali, anche i mutamenti intervenuti nell’andamento demografico, nel mercato del lavoro e nello stato sociale sono fatti concreti, ma anche qui si insinuano ideologia e sciocchezze, che inducono a drammatizzazioni ed esagerazioni inutili.

2. Nella dimensione teorico-ideologica, occorre riconoscere appieno i fallimenti delle vecchie tradizioni socialiste (tanto marxiste come non-marxiste). Ma da questo non dovrebbe conseguire la necessità di abbracciare senza riserve le apologie monetariste o neoclassiche riguardo alle virtù di un mercato privo di qualunque restrizione. A livello nazionale come a livello internazionale, mercati completamente liberi e privi di regole possono produrre drammatiche crisi economiche e soprattutto rischiano di vanificare tutti i valori della sinistra: il fatto che dobbiamo vivere in una economia di mercato (anzi, di più: che dobbiamo apprezzarne il contributo all’innovazione, allo sviluppo e alla libertà) non dovrebbe impedirci di riconoscere che il capitalismo è ancora una belva piuttosto feroce e non ha affatto perso quelle caratteristiche che indussero sia i socialisti sia i liberali a cercare gli strumenti politici in grado di domarla. Ed è anche probabile che la reazione contro il marxismo si sia spinta un po’ troppo oltre, almeno nel mio paese: il marxismo (come strumento, non come ideologia) può ancora generare preziose intuizioni sul funzionamento dell’economia di mercato, come dimostra chiaramente il recente studio di Robert Brenner su Economics of Global Turbolence (NLR. n. 229, 1998).

3. Per quanto riguarda infine la dimensione dei valori, non vedo alcuna ragione per discostarci dal dibattito già in corso all’interno del compromesso liberal-socialista. Mi lascia perplesso, in particolare, la sostituzione del dibattito sulla "inclusione sociale" a quello sull’uguaglianza, sostituzione che si sta verificando du coté de chez Terza Via. Se presa sul serio, l’inclusione sociale presenta le stesse esigenze dell’uguaglianza e non dovrebbe essere utilizzata come una scusa per sbarazzarsi dei richiami alla solidarietà, richiami elettoralmente costosi, ma che la sinistra non può rinunciare a proporre ai propri elettori.

 

Rischi e avvertenze

La cautela è necessaria perché il rischio di ricadere nelle versioni opportunistiche delle "vecchie" politiche socialdemocratiche, o nelle versioni altrettanto opportunistiche delle "nuove" strategie della terza via, è presente e molto concreto. Ho già avuto modo di accennare a questo dilemma, ricordando che esistono forti ragioni di ordine elettorale che possono indurre le politiche nazionali, concretamente, a virare verso l’una o l’altra di queste strade. Potremmo fare degli esempi sia in riferimento alle politiche del New Labour che a quelle dell’Ulivo - dove il primo corre il rischio del rinnovamento opportunista (gettando il bambino della sinistra, comunque la si voglia definire, insieme all’acqua sporca), e il secondo quello del conservatorismo opportunista (parlando di rinnovamento ma nei fatti difendendo i clienti del vecchio stato sociale). Questo ci condurrebbe immediatamente dal problema del "come dovrebbe essere" al problema del "come è": per quale motivo in alcuni paesi la sinistra si sposta in una direzione, e in altri paesi ne intraprende una completamente diversa?

A parte il retaggio sociale e culturale, la struttura del sistema istituzionale e politico è di importanza cruciale, ancora una volta un’eredità del passato. La mia tesi è che la dipendenza dal percorso istituzionale del passato - e, più in generale, la viscosità storica - giochi un ruolo difficilmente sopravvalutabile : la sinistra può sicuramente cambiare, rispondendo a una nuova situazione socio-economica internazionale e interna, ma cambia entro i limiti stabiliti da questa dipendenza storica, a meno che .......

 

II a sessione:
Quali politiche di welfare per genere e famiglia:?

Chiara Saraceno
(Università di Torino)

Franca Bimbi
(Università di Padova)

Michael Rustin
(University of East London)

Genere, Famiglia e Welfare in Europa

di Chiara Saraceno

Le relazioni di genere sono state a lungo totalmente assenti nelle analisi delle politiche e dei modelli dello stato sociale. Il concetto stesso di diritti sociali, che informa in una certa misura lo sviluppo degli stati sociali e deriva dalla tradizione laburista e socialdemocratica, è focalizzato molto più sugli uomini in quanto lavoratori (a tempo pieno e posto fisso), che hanno così modo di esercitare i diritti civili e politici, che non sulla necessità di superare le debolezze e le inadeguatezze sociali derivanti dalla divisione di genere del lavoro.

Persino le politiche sociali che si rivolgono specificamente alle donne, come il congedo per maternità e i servizi di cura all'infanzia, lo fanno dopo aver fissato rigidamente da un lato la capacità di dare la vita come un elemento di debolezza rispetto al lavoratore ideale, e dall'altro la responsabilità esclusiva della madre per la cura dei propri figli come un dono naturale.

La cura dei figli è uno degli elementi che influiscono di più sulle decisioni delle donne riguardo al lavoro; dunque la disponibilità di servizi di assistenza ai figli può rappresentare la maggiore differenza sia tra i vari paesi, che al loro interno, data anche la presenza ampiamente marginale dei padri nella cura dei bambini.

La famiglia e lo stato genitoriale condizionano quindi pesantemente i diversi diritti degli uomini e delle donne come cittadini. Ad esempio, uno studio svolto nel 1988 in dodici paesi della Comunità Europea ha dimostrato che, ad eccezione della Danimarca, i padri di figli minori di 4 anni non hanno quasi nessun ruolo nella cura degli stessi, e ciò indipendentemente dal fatto che la madre lavori o meno. Solo in Danimarca è stato riscontrato un alto grado di responsabilità congiunta verso i figli. Data questa mancanza di coinvolgimento paterno, è dunque la disponibilità di buoni ed economici servizi di assistenza all'infanzia che influenza la partecipazione al mercato del lavoro da parte di madri con bambini in età prescolare. Una conclusione dello studio del 1988 è stata che "l'unico grande problema nell'assistenza all'infanzia nella Comunità è semplicemente la sua mancanza. La maggior parte dei genitori europei non possono scegliere di andare a lavorare con la certezza che i loro bambini saranno ben assistiti o curati" - dove la parola "madri" dovrebbe sostituire la parola "genitori": i padri infatti ben raramente trovano impedimento ad entrare nel mercato del lavoro a causa della mancanza di servizi all'infanzia. Viceversa, le madri possono essere accusate non soltanto di "abbandonare" i loro figli a tali servizi, ma anche di spostare costi e doveri a carico della collettività. I loro diritti sociali, da questo punto di vista, sono meno istituzionalizzati e legittimati che non i diritti dei lavoratori all'indennità di malattia e al servizio sanitario, già da lungo tempo riconosciuti.

Particolarmente carenti sono i servizi per i bambini sotto i tre anni, sebbene in paesi come il Regno Unito o il Portogallo siano scarsi anche i servizi di scuola materna. Ad esempio, in Italia più dell'80 per cento dei bambini a partire dai tre anni frequentano la scuola materna, mentre meno del 10 per cento di quelli sotto i tre anni vanno al nido, sebbene ci siano ampie disparità a livello locale. Inoltre, mentre in Danimarca Francia e Italia la maggior parte di tali servizi sono pubblici, nel Regno Unito e in Portogallo non lo sono.

Anche le politiche concernenti i congedi di maternità e i congedi parentali differiscono ampiamente da paese a paese all'interno dell'Unione Europea, così come il grado e i criteri di compensazione del salario perduto. L'Olanda, il Regno Unito e il Portogallo hanno i più bassi congedi pre e post nascita, l'Italia ha i più lunghi, seguita da Francia, Spagna e Lussemburgo. Nel Regno Unito, che chiude la classifica anche quanto a diritto di godere di tali congedi, la compensazione è vincolata alla continuatività del lavoro con lo stesso datore di lavoro per almeno due anni a tempo pieno o per cinque anni part-time. Molte lavoratrici part-time, che rappresentano una ampia quota delle donne lavoratrici in questo paese, non godono dunque di nessuno di tali diritti. In Italia, un paese che sembra molto generoso, non soltanto molte madri lavoratrici non hanno tali diritti perché lavorano in nero o sono lavoratrici autonome; ma persino lavoratrici regolari come le collaboratrici familiari e le persone di servizio hanno diritto solo ad un breve congedo e a compensi molto ridotti.

I tassi di attività femminile sono influenzati meno dal numero di figli, o addirittura dalla disponibilità di servizi di assistenza all'infanzia in quanto tale, che non dalle strategie globali per far fronte agli obblighi familiari: vale a dire dalla specifica combinazione di modelli culturali prevalenti rispetto al comportamento di genere, agli obblighi familiari ed alle alternative disponibili. Fornire servizi all'infanzia può non essere sufficiente se i valori culturali prevalenti sottolineano l'obbligo della madre di occuparsi interamente dei bambini. Al tempo stesso, una madre potrebbe decidere di entrare nel mondo del lavoro, nonostante la mancanza di servizi all'infanzia, se percepisce il lavoro retribuito come una dimensione importante o necessaria dei suoi obblighi di madre. Quest'ultimo caso sta diventando sempre più frequente, non soltanto per il bisogno personale delle donne di un certo grado di autonomia economica, ma per la crescente insicurezza sia del matrimonio che del lavoro maschile. Infine, alla mancanza di servizi all'infanzia si può sopperire attraverso i parenti, per la maggior parte le nonne, in situazioni in cui lo scambio di lavoro di cura tra le generazioni sia una aspettativa condivisa e legittima.

Secondo una commissione di studio europea (Women of Europe Supplements 1992), dal punto di vista dell'impatto del numero dei figli con la disponibilità di servizi all'infanzia e con le strategie strutturate per far fronte agli obblighi familiari, i paesi europei si possono suddividere in quattro categorie:

1) quelli in cui la nascita dei figli non influenza il tasso di attività materna, poiché ci si aspetta che le donne siano presenti nel mercato del lavoro ed esiste una larga offerta di servizi all'infanzia. È il caso dei paesi scandinavi.

2) quelli in cui avere bambini ha un impatto minimale sui tassi di attività femminile. È il caso della Francia in cui la percentuale di madri lavoratrici non cala sensibilmente fino al terzo figlio. La stessa cosa sta accadendo negli ultimi anni in Italia, sebbene con tassi di attività globale più bassi e con tassi di fertilità molto inferiori. Si potrebbe pensare che in Italia le donne giovani riducano "preventivamente" la loro fertilità al minimo, allo scopo di entrare o di rimanere nel mercato del lavoro.

3) quelli in cui le difficoltà di combinare vita familiare e carriera hanno come risultato il lavoro part-time. Questo é il caso della ex Germania occidentale e del Regno Unito. Si deve ricordare che Germania est e Germania ovest avevano approcci molto diversi verso il lavoro femminile e il supporto alle famiglie. Posti per bambini sotto i tre anni in strutture assistenziali sono disponibili per meno del 3% di bambini nella ex Germania occidentale, ma per il 56% nella ex Germania orientale. Dopo l'unificazione, i servizi all'infanzia nelle regioni dell'est sono stati smantellati e il modello tedesco occidentale di cura al bambino (da parte della madre) sta diventando predominante per i bambini sotto i tre anni.

4) quelli in cui il tasso di attività femminile crolla con la nascita del primo figlio, come nei Paesi Bassi e in Irlanda.

 

La cura dei disabili e degli anziani non autosufficienti

Un'analisi del tutto simile potrebbe essere svolta riguardo al lavoro di cura per i disabili o per gli anziani non autosufficienti. Nel quadro di una persistente natura di genere del lavoro di cura anche a questo livello, la presenza di vincoli formali può differire in modo sostanziale ed avere quindi un impatto sia sulle risorse e sui diritti di coloro che necessitano di cura, sia sulle condizioni e gli obblighi delle donne in quanto fornitrici del lavoro di cura verso la famiglia. Millar e Warman (Defining Family Obligations in Europe. The Family, the State and Social Policy, 1996) ad esempio raggruppano i paesi in quattro categorie principali in base al modo in cui concepiscono gli obblighi familiari di prendersi cura di adulti disabili ed anziani non autosufficienti:

1) nel primo gruppo, che include Italia, Spagna e Portogallo, esistono obblighi legali tra i parenti a fornire reciproco supporto non solo in termini economici ma anche di cura. Così, per esempio in Italia, l'assistenza domiciliare è fornita dai comuni ad una doppia condizione: possono infatti riceverla soltanto persone disabili o non autosufficienti a basso reddito e senza parenti, in particolare senza parenti donne. Si deve comunque aggiungere che almeno in alcuni di tali paesi le persone totalmente invalide ricevono dallo Stato una pensione e una indennità di accompagnamento. Nel caso di anziani non aventi diritto ad una pensione da lavoro, essi ricevono una pensione sociale che è quantificata solo sulla base del reddito del coniuge e non anche su quello dei figli. Questo è il caso ad esempio dell'Italia.

2) Nel secondo gruppo, che comprende Grecia, Francia, Belgio, Lussemburgo, Austria e Germania, gli obblighi legali si limitano ai figli. In questi paesi comunque i costi dell'assistenza a lungo termine non coperti dalle assicurazioni per le malattie sono pagati attraverso l'assistenza sociale locale, qualora la persona non possa far fronte ad essi da sola. Lo stesso vale anche in alcune regioni d'Italia che rinunciano ad avvalersi sul "parente responsabile". A causa di questo cambiamento nella consuetudine, vale a dire nell'aspettativa che il parente debba fornire assistenza a lungo termine o pagare per essa, in Germania e in Austria i sistemi di previdenza sociale ora includono una "assicurazione di cura" obbligatoria.

3) Nel terzo gruppo (Regno Unito, Irlanda e potremmo includervi anche gli Stati Uniti) non esistono obblighi legali né a fornire né a pagare per la cura di adulti disabili o non autosufficienti. Tuttavia, come é avvenuto nel Regno Unito dopo l'approvazione nel 1990 del Comunity Care Act, per reazione alle pressioni finanziarie, i governi locali hanno iniziato a valutare e quantificare i mezzi non solo dei coniugi ma dei figli adulti, nel caso di assistenza domiciliare a lungo termine. Come osserva Millar dunque, a differenza ad esempio della Grecia, "lo scontento espresso attraverso le organizzazioni di cura suggerisce che pagare per la cura dei parenti, siano essi pure i genitori anziani, nel Regno Unito non è generalmente accettato come cosa 'naturalè". Attitudini del tutto simili sembrano del resto emergere anche in paesi in cui gli obblighi familiari sono percepiti con radici più profonde e solide, come in Italia.

4) Il quarto gruppo comprende paesi (come la Scandinavia e i Paesi Bassi) in cui gli obblighi dello Stato verso adulti con necessità di cura sono resi espliciti e in cui il sostegno è diretto al singolo e non alla famiglia. Sebbene persino in questi paesi i figli adulti, ed in particolare le figlie, siano i principali assistenti per molti anziani non autosufficienti, questi ultimi considerano l'accesso ai servizi pubblici come un diritto, indipendentemente dalla loro situazione familiare, mentre l'aiuto ricevuto dai figli o dai parenti è percepito come un di più derivante da una scelta.

Solo in questo ultimo gruppo di paesi i servizi sono forniti per garantire gli specifici diritti di coloro che devono ricevere l'assistenza, indipendentemente dalla loro situazione familiare. In altri paesi l'offerta di servizi può variare da un livello scarso e basato sulla non disponibilità di parenti, come in Italia, Spagna e Portogallo, ad una maggiore disponibilità (ed a regolamenti più chiari) in cui la situazione familiare e la disponibilità di parenti non sono valutate tanto per l'accesso al servizio, quanto per il recupero di contributi finanziari. Nel primo caso, lo stato è neutro riguardo agli obblighi - sia di genere che familiari - rispettivamente di fornire cura e sostegno; nel secondo caso, non è neutro né riguardo agli obblighi di genere di fornire cura, né riguardo agli obblighi finanziari della famiglia; nel terzo caso, lo stato è neutro riguardo agli obblighi di genere di fornire cura, ma ma non riguardo agli obblighi finanziari della famiglia. Naturalmente, la neutralità può significare sia che esso non incoraggia uno specifico modello di genere, ma che de facto accetta, e usa, quello che viene incoraggiato a livello sociale, o, al contrario, potrebbe significare che lo stato incoraggia positivamente il riequilibrio o la ri-negoziazione dei modelli di genere nel lavoro di cura. Apparentemente, una neutralità attiva del secondo tipo si verifica soltanto - e anche allora, parzialmente - quando lo stato fornisce una certa misura di risorse e servizi non-familiari come un vero e proprio diritto sociale.

Le cose stanno complicandosi ulteriormente negli ultimi anni a causa dell'introduzione sempre più diffusa di un qualche tipo di pagamento per il lavoro di cura. Al di là delle differenze tra i paesi in cui il pagamento va a chi fornisce assistenza e cura, e paesi in cui esso va a chi le riceve, sembra esistere una differenza ancora più grande tra situazioni in cui il pagamento per l'assistenza mira a sostituire altri tipi di servizi ancor più costosi (come ad esempio contributi di previdenza sociale pagati a persone che ricevono assistenza e cura in Germania e Austria, per permettere loro di pagarsi l'aiuto, oppure pagamenti fatti a persone che forniscono lavoro di cura alla famiglia in alcune regioni d'Italia a condizione che ospitino un parente anziano) e situazioni in cui tali pagamenti sembrano mirati a garantire più diritti sia a chi fornisce lavoro di cura che a chi lo riceve, promuovendo un coinvolgimento maggiore della famiglia. È questo il caso dei programmi svedese e norvegese, che impiegano membri della famiglia concedendo però loro dei diritti, quali contributi per la pensione o indennità di malattia: qui, tale reclutamento di membri della famiglia integra comunque una prestazione di servizi generalmente buona. Tuttavia, in tutti questi programmi, sebbene i confini tra stato e famiglia possano essere toccati molto diversamente a seconda del tipo di "pacchetto assistenziale", risulta del tutto chiaro che sono soprattutto le donne ad essere chiamate come prestatrici - più o meno pagate - di lavoro di cura e di assistenza. Pertanto questa forma di sostegno può contribuire a ricreare o a riprodurre la tradizionale struttura di genere negli obblighi di cura alla famiglia, esattamente nel momento in cui ci sono meno figlie disponibili per questo tipo di lavoro. In Finlandia le mogli anziane hanno recentemente perso de facto il diritto al pagamento del loro lavoro di cura a causa dell'introduzione di una soglia d'età oltre la quale non si è più riconosciute come fornitrici di tale lavoro: come se, implicitamente, la cura fornita dalla moglie fosse definita un obbligo naturale, che ci si aspetta, e che dunque non deve essere né riconosciuto né finanziato.

 

Un nuovo approccio verso le politiche sociali

Le politiche familiari possono creare varie barriere tra le famiglie, tra i singoli e le famiglie, tra le famiglie e lo stato. Così, in Italia, Spagna e Portogallo, persino gli obblighi attuati in virtù della legge superano i confini domestici per comprendere un numero sostanzioso di parenti di sangue e acquisiti, mentre in Germania e in Francia essi riguardano solo il nucleo familiare, con la parziale eccezione dei genitori e dei figli adulti, i cui obblighi reciproci possono durare tutta la vita; e nei paesi scandinavi la maggior parte degli obblighi reciproci cessano una volta raggiunta l'età adulta, e persino i bambini sono percepiti come aventi diritti propri, indipendentemente dalla loro appartenenza alla famiglia.

Il ruolo dello stato/governo in tutte queste diverse situazioni, ad eccezione dell'ultima, è ben lontano dall'essere univoco o persino trasparente. Esso può imporre in maniera positiva alcuni obblighi per mezzo di strumenti legali e costrittivi, oppure semplicemente non fornendo alternative, o ancora offrendo incentivi positivi. Leggere i contesti istituzionali e le aspettative sociali puramente come riflesso di valori profondamente radicati comporta il rischio di ignorare sia i conflitti, che le negoziazioni, le lotte di potere e gli squilibri alla base di essi, e le condizioni specifiche del contesto in cui si sono sviluppate.

Al giorno d'oggi tutti i paesi sembrano, pur se in gradi diversi, doversi confrontare con il compito di ridisegnare tali scenari sotto una tripla pressione:

- dei valori in trasformazione (ad es. riguardo alle relazioni di genere e agli obblighi tra le generazioni);

- della crescente fragilità delle forme tradizionali di sostegno (sia esso il sistema di previdenza sociale o gli accordi familiari/matrimoniali);

- delle restrizioni budgetarie.

I paesi affrontano questo compito da punti di forza diversi non solo riguardo alla loro posizione rispetto alla divisione internazionale del lavoro e allo stato della loro economia, ma anche rispetto alla loro storia politica e alla loro cultura, incluse le concezioni familiari, i valori, le aspettative che esse incorporano. Pertanto non è sorprendente che i paesi che finora hanno di più contato sulla solidarietà e sugli obblighi estesi tra parenti e sulla divisione di genere del lavoro (come in Italia o in Spagna) e che ora subiscono sia severe restrizioni budgetarie che alti livelli di disoccupazione, trovino una soluzione apparentemente facile al crescente disequilibrio tra i bisogni e le risorse facendo appello ad una rafforzata solidarietà familiare, se possibile supportata da un qualche genere di pagamento per il lavoro di cura. Sebbene ciò possa limitare ancor più le scelte della famiglia, e in particolare delle donne, limitandone anche la fertilità, tuttavia soluzioni/visioni alternative appaiono difficili da elaborare in maniera tale da poter guadagnare il consenso necessario a ridisegnare l'intero contesto delle politiche sociali, ed i patti in esse impliciti. Questa soluzione è meno prontamente disponibile, o non lo è affatto, nei paesi in cui gli obblighi familiari estesi sono meno, o affatto, legittimati e supportati da politiche istituzionali e dove le relazione di genere sono meno asimmetriche. Certamente esistono rischi di una ri-familiarizzazione di genere degli obblighi, come abbiamo rilevato nel caso del lavoro di cura pagato. Ma una forte cultura dei diritti sociali individuali richiede che la ridefinizione dei limiti e degli obblighi sia attentamente rinegoziata.

Alcuni hanno affermato che un utile indicatore nella costruzione delle tipologie dello stato sociale potrebbe essere il grado in cui i diritti sociali ed economici sono garantiti alle persone di tutte le età e di qualsiasi condizione familiare, o, al contrario, dipendono dalle diverse situazioni familiari. Da questa prospettiva è stato suggerito il concetto di "defamilizzazione" per indicare "i termini e le condizioni ai quali le persone si strutturano in famiglie, e il livello a cui esse possono sostenere un tenore di vita accettabile indipendentemente dalla famiglia (patriarcale)". In una situazione, comune a tutti i paesi industrializzati, in cui gli obblighi sociali riposano su una cerchia più piccola di persone, e su legami familiari più fragili, il grado di defamilizzazione potrebbe essere decisivo per il benessere dei singoli e delle famiglie quanto lo è la forza degli stessi obblighi familiari.

La defamilizzazione non comporta la rottura dei legami familiari. Con le parole degli autori citati: "Il punto non è se le persone sono completamente "defamilizzate", ma piuttosto il grado in cui i pacchetti di previdenza sociale alterano l'equilibrio di potere tra uomini e donne, tra dipendenti e non-dipendenti, e quindi i termini e le condizioni a cui le persone si impegnano in accordi familiari o di cura". In altre parole, la questione non è indebolire le responsabilità familiari e rendere indeterminata l'interdipendenza familiare. È piuttosto supportarle, alleviando alcune delle costrizioni che ne derivano.

Ciò porta a mettere a fuoco la domanda di cosa si possa intendere per supporto alla famiglia. Se esso significa mettere in grado la famiglia ed i suoi membri di prendersi cura gli uni degli altri, sostenere gli obblighi che essi liberamente accettano di assumere, senza al tempo stesso creare squilibri di potere, iper-dipendenze, circuiti senza uscita, un certo grado di defamilizzazione potrebbe diventare la base su cui potrebbero essere negoziati nuovi contratti tra individui-famiglia-stato. Al contrario, la iper-familizzazione, o una ri-familizzazione forzata delle responsabilità e dei diritti individuali, potrebbe avere come effetto un sovraccarico che, a sua volta, potrebbe causare ulteriori problemi sociali (ad es. povertà, esclusione sociale), oppure un rifiuto totale di assumere obblighi familiari, sia attraverso un comportamento (non)riproduttivo, sia attraverso il rifiuto di ottemperare ai propri obblighi verso parenti adulti con necessità di assistenza. L'abbandono e l'ospedalizzazione dei disabili e degli anziani non autosufficienti forse non è che la reazione, ancora ampiamente minoritaria, ad obblighi strutturati esclusivamente in termini familiari, dove lo stato interviene solo come estrema alternativa e non come un interlocutore forte e "normale".

La mancanza di specifici diritti sociali nell'ambito dell'assistenza esplicitamente o implicitamente demandata agli obblighi familiari potrebbe avere come conseguenza - come avviene in Italia - una alta differenziazione di politiche e misure a livello locale, nello stesso paese. Tale fenomeno, a sua volta, determina lo sviluppo di ciò che altrove ho chiamato "sistemi locali di cittadinanza".

Altri possibili effetti perversi dell'iperfamilismo nell'erogazione di risorse e servizi e nella definizione degli obblighi interpersonali sono la rivolta e l'evasione fiscale. Si potrebbe riflettere sul fatto che quei paesi in cui il grado di defamilizzazione è più basso sono anche quelli dove la rivolta fiscale ha più voce, e dove a volte l'evasione fiscale è più alta: l'iperfamilizzazione potrebbe anche testimoniare di un'incapacità a creare la base della responsabilità civile, in una riedizione contemporanea dei perversi effetti sociali del "familismo amorale". Il ricorso al self-help, al volontariato, a gruppi senza fini di lucro, da questo punto di vista, in assenza di un chiaro contesto di diritti e doveri sociali e di cittadinanza, non rappresenta una soluzione. Da un lato, infatti, esso può aumentare l'uso e l'offerta discrezionali di risorse, incrementando così le differenze e le diseguaglianze sociali locali tra i singoli e tra le famiglie; dall'altro, analogamente alla solidarietà intrafamiliare, esso può convivere fianco a fianco con un basso grado di integrazione e solidarietà sociali al di fuori di quella del piccolo gruppo scelto. In realtà, nei contesti sociali e politici in cui la struttura di cittadinanza istituzionale e simbolica è debole, le associazioni e le attività di volontariato possono agire in due opposte direzioni: come strumento per attivare una cultura civile di diritti e obblighi; come strumento per offrire scuse autoassolutorie a chi non ha sviluppato tale cultura, rimanendo invece tra i propri "eletti", o pari.

Così la famiglia, nei suoi comportamenti, ma anche nelle forme della sua concettualizzazione è, e sarà sempre più, al centro del pensiero e dell'azione delle politiche sociali. E le politiche familiari sia esplicite che implicite sono, e saranno sempre di più, il fulcro di tali politiche.

 

Paradigmi familiari e diritti delle donne nel Welfare State italiano

di Franca Bimbi

 

In Italia, i figli vivono insieme ai genitori fino al momento del matrimonio, e si fanno mantenere fino a quando vivono in famiglia, e questo anche in famiglie dove solo uno dei genitori lavora, e indipendentemente dal loro avere un reddito indipendente o meno (cfr. Scabini e Donati, 1988; De Sandre et al., 1997). Tuttavia, nonostante il fatto che la responsabilità di mantenere e provvedere alle necessità dei figli sia protratta tanto a lungo, e malgrado l’enfasi morale e ideologica sulla famiglia posta da tutti i partiti politici, si avverte una generale carenza di politiche familiari (Gauthier 1995), tratto distintivo e persistente del periodo del dopo guerra (Bimbi 1997a; Bimbi e Della Sala, 1998; Saraceno 1998). Le cause di questa carenza vanno ricercate in tre direzioni. Prima di tutto dobbiamo ricordare che esiste ancora una profonda reazione al fascismo il quale, per la prima e unica volta nella storia italiana, aveva varato una politica esplicitamente pro-natalista e aveva assunto una posizione categorica nei confronti delle madri nubili (Saraceno, 1991; De Grazia, 1992); In secondo luogo, il modello di stato sociale affermatosi nel dopoguerra nei paesi del Mediterraneo aveva dato vita a un lungo periodo di assistenza familiare a bambini e parenti (Bettio e Villa, 1993), sostenuto da una legge sugli "obblighi parentali" oltre che da una residuale responsabilità dello stato nei riguardi dell’istituzione familiare (Trifletti, 1997). Ciò significa, tra l’altro, che lo stato organizza le proprie attività riconoscendo al contempo la legittima priorità del gruppo familiare nel mediare i diritti individuali. In terzo luogo, la tendenza demografica caratteristica, ovvero la presenza di cambiamenti profondi pur nella continuità dell’importanza attribuita alle forme tradizionali di legami matrimoniali e intergenerazionali evidenzia l’egemonia di un modello culturale largamente condiviso, il cui tratto distintivo è l’importanza del nucleo familiare.

La famiglia, comunque la si voglia definire nei vari stadi del ciclo vitale, conserva il suo ruolo tradizionale: continua ad essere vista come il sistema primario di protezione sociale, indipendentemente dai rapporti che l’individuo intrattiene con il mercato del lavoro e dai diritti dei singoli membri riconosciuti dallo stato sociale. È questo modello culturale a conferire alla natura sessista dello stato sociale le strutture che gli sono tipiche.

A partire dalla fine degli anni sessanta, l’Italia ha varato una serie di politiche apparentemente progressiste che riguardavano direttamente le donne, nel lavoro dipendente e nella cura dei figli: gli accordi per la parità della retribuzione (1962-63), l’introduzione del tempo pieno nelle scuole (1968), gli asili nido finanziati dalla spesa pubblica (1971), le nuove regole per il periodo di maternità (1971) e la legge sulla parità tra i sessi (1977). Tali politiche tuttavia non riflettevano né produssero cambiamenti sostanziali nella concezione della responsabilità delle donne per quanto riguarda la cura dei figli né per la distinzione tra i sessi in ciò che concerne l’impegno all’interno della famiglia (Bimbi, 1997b).

Queste politiche non hanno mai dato vita a un quadro coerente di politiche familiari a causa dei conflitti ideologici – e dei compromessi pratici – inerenti la natura della famiglia e le limitazioni alla libera scelta delle donne in materia di procreazione. La condotta dei due maggiori partiti politici, la Democrazia Cristiana (Dc) e il Partito Comunista Italiano (Pci) dalla seconda guerra mondiale in poi è stata caratterizzata dalla ricerca del compromesso, e lo stesso accade oggi tra il Partito Popolare Italiano (Ppi) e il Partito Democratico della Sinistra (Pds) . Ciononostante, il conflitto ideologico riaffiora di continuo, grazie all’influenza della Chiesa cattolica e alle richieste di garanzie all’interno del sistema politico da parte della Chiesa stessa, richieste fattesi sempre più pressanti con il declino della sua influenza all’interno della sfera dei comportamenti sessuali e familiari dei singoli individui.

Il timore di un riaccendersi di tale conflitto ideologico potrebbe spiegare il paradigma dominante delle politiche familiari, quello che definiamo il "paradigma familiare" secondo il quale la cura della crescita dei figli ricade interamente sulla famiglia, e la responsabilità della cura della famiglia ricade interamente sulle donne. Questo concetto non è stato quasi mai messo in discussione nei programmi politici dei principali partiti, almeno fino alla fine degli anni ottanta e all’inizio dei novanta. Il progredire delle politiche sociali nel corso degli anni settanta ha innescato un lento processo di erosione del "paradigma familiare", ma non ne ha mai intaccato la posizione dominante nella determinazione delle politiche familiari.

Il ruolo e la natura della famiglia e la definizione del ruolo "naturale" delle donne hanno rappresentato un elemento di tensione nella stesura della Carta Costituzionale (1946-47) e nel corso delle discussione del nuovo diritto di famiglia (1970), dell’introduzione del divorzio (1970) e della legge sull’aborto (1978), ma la classe politica nel suo insieme continua ad evitare di confrontarsi sulla politica familiare. Dal dopoguerra ad oggi, la politica del consenso che domina in Italia ha lasciato ben poco spazio a un dibattito politico aperto e libero riguardo alle politiche familiari, alla concezione delle responsabilità delle donne per quanto riguarda la crescita dei figli e la suddivisione del lavoro domestico.

L’enigma italiano consiste nel motivo per cui il verificarsi di importanti cambiamenti nella politica dello stato sociale non ha di fatto messo in discussione il "paradigma familiare" (Saraceno, 1994). L’introduzione di politiche intensive per la famiglia e di una nuova rappresentazione della responsabilità femminile nella crescita dei figli e nella suddivisione del lavoro domestico potrebbe minacciare una serie di compromessi politici e istituzionali in materia di famiglia e di diritti femminili considerati essenziali per il consolidamento delle strutture democratiche liberali.

1. La rappresentazione del ruolo delle donne e della famiglia, pur non occupando un ruolo prominente, è stata un punto cruciale nei dibattiti dell’Assemblea Costituente, nel biennio 1946-47. A livello politico-istituzionale, il conflitto ideologico si incentrava sulle diverse concezioni del ruolo delle donne e della famiglia. L’ideologia cattolica considerava, da una parte, il rapporto stato-famiglia alla luce del principio di sussidiarietà (Welty, 1966) e definiva la famiglia come una cellula sociale basata sul diritto naturale; dall’altra parte, individuava nella dottrina cattolica il fondamento della regolamentazione morale, legale e sociale della famiglia. In quest’ottica, la concezione delle donne all’interno del mercato del lavoro risultava dipendere da quella delle donne come madri, mogli e responsabili dell’andamento della casa. La posizione comunista non era peraltro meno ambivalente (Togliatti, 1965). Da una parte, il Pci sosteneva la necessità di riconoscere pari diritti alle donne, con particolare riferimento ai diritti economici, come la parità nella retribuzione e nella sicurezza del posto di lavoro. La rappresentazione delle donne come lavoratrici si incentrava essenzialmente sulla loro posizione all’interno dell’industria. Dall’altra parte, i comunisti ben di rado osavano sfidare le premesse fondamentali del "paradigma familiare" e non fecero alcun tentativo per affermare, all’interno dei loro programmi politici, una diversa concezione delle donne e della responsabilità della crescita dei figli, per non mettere a repentaglio il loro obiettivo fondamentale, quello di consolidare la democrazia italiana e di ottenere una legittimazione in quanto partito impegnato nella fedeltà ai principi fondamentali della Repubblica. La conseguenza di tutto ciò fu una fondamentale ambiguità della Costituzione del 1947 nei confronti dei diritti delle donne, in tre settori cruciali.

Il primo di essi è la stessa definizione di cittadinanza. L’articolo 3 sottolinea l’uguaglianza di tutti i cittadini "senza distinzioni di sesso" e allo stesso tempo obbliga i legislatori ad agire con l’obiettivo di rimuovere tutti gli ostacoli che possono "impedire il pieno sviluppo della persona e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori". La Costituzione adotta implicitamente un approccio favorevole alla pari opportunità per tutti, benché l’espressione "pari opportunità" sia stata introdotta in Italia solo negli anni ottanta;

Tuttavia, fino agli anni settanta questa spinta verso il "pieno sviluppo della persona" non ha apparentemente mai messo in discussione il ruolo preminente delle donne come mogli e madri. Né è sembrato che la definizione del posto "naturale" delle donne all’interno delle pareti domestiche potesse risultare in alcun modo conflittuale con le garanzie di "partecipazione di tutti i lavoratori" alla gestione politica ed economica della società. Le differenze tra i sessi entravano nella definizione di "lavoratore" soltanto in riferimento ad alcune funzioni tipicamente familiari assunte dalle donne.

Tutto ciò emerge con particolare chiarezza ove si considerino i diritti delle donne in quanto cittadini sul piano professionale ed economico. La Repubblica era "fondata sul lavoro", e l’articolo 37 della Costituzione impone uguali diritti e uguale retribuzione "per uno stesso lavoro", ma allo stesso tempo offre alle donne lavoratrici una protezione specifica, allo scopo di "consentire loro di adempiere le loro essenziali funzioni all’interno della famiglia".

Infine la Costituzione Italiana stabilisce esplicitamente un limite al riconoscimento dei rapporti familiari: la famiglia è definita come una "unità sociale naturale fondata sul matrimonio", e la parità "morale e giuridica" tra "marito e moglie" è definita "all’interno dei limiti fissati dalla legge per garantire l’unità della famiglia" (articolo 29).

Su tutte le questioni riguardanti la famiglia, la sinistra italiana si è sempre dimostrata particolarmente attenta alle richieste della Chiesa cattolica. Per questo, pur mantenendo il suo carattere riformista e adoperandosi per promuovere il diritto al lavoro, la Costituzione è stata a lungo dominata da una concezione delle donne come mogli e come madri. Allo stesso tempo essa sanciva il Concordato con la Chiesa cattolica (articolo 7) e offriva di fatto la copertura dei diritti costituzionali solo alle famiglie "legittime" (con la parziale eccezione della difesa dei diritti dei figli nati fuori dal matrimonio). È quindi un’ideologia cattolica quella che sta alla base del modello sociale dell’identificazione dei sessi.

Il modello di tale identificazione può anche essersi trasformato – sia nella legislazione sia nella percezione della popolazione in generale – ma l’ambiguità della Costituzione serve ancora a spiegare alcuni dei profondi conflitti che lacerano l’Italia in materia di ruolo sociale delle donne (Bimbi, 1993).

Il compromesso raggiunto sulla definizione di nucleo familiare non subisce alcuna modifica fino agli anni settanta, perché i due principali partiti italiani, il Pci e la Dc, mettendo da parte per una volta le loro differenze ideologiche, erano entrambi concordi nell’attaccare la mentalità consumistica che sottendeva ai nuovi schemi di comportamento delle classi medie e dei lavoratori. Negli anni sessanta la "American way of life" secondo cui il reddito familiare serviva a soddisfare le esigenze e i desideri individuali, era considerata il nemico principale dei tradizionali rapporti gerarchici all’interno della famiglia. L’ideologia cattolica guardava ancora indietro, al mondo contadino, come all’età dell’oro dell’autorità familiare (Guizzardi, 1982), dell’impegno e del sacrificio, mentre la sinistra tendeva a interpretare l’esigenza espressa dalle donne di poter accedere ai beni di consumo e agli elettrodomestici come un tradimento dell’emancipazione da raggiungere attraverso il lavoro produttivo, e un ritrarsi verso il modello borghese della casalinga improduttiva. Nelle famiglie dei lavoratori, che vi dominasse l’inclinazione social-comunista o quella cattolica, l’autorità del capofamiglia maschio continuava a regnare incontrastata: l’ingresso delle donne nelle fabbriche e negli uffici sollevava il problema della loro emancipazione in quanto lavoratrici, non in quanto donne.

Questa mistica della famiglia ha portato all’idea dell’esistenza di un mondo privato autosufficiente per ciò che riguarda le esigenze della vita quotidiana. Fino alla metà degli anni sessanta, la Chiesa cattolica era considerata come l’ "ente" naturale in grado di fornire assistenza sociale ai bambini e agli anziani, ed era pertanto il percipiente quasi esclusivo dei fondi statali (Fargion, 1998). Lo stato stesso si occupava direttamente soltanto dei casi di estrema indigenza, offrendo ai poveri un aiuto per accedere al quale era necessario esibire la cosiddetta "carta di povertà", il cui possesso era di per sé una stigmatizzazione sociale.

Tuttavia in questo stesso periodo lo sviluppo economico, industriale e urbano suscita nuove necessità che portano alla costruzione di uno stato sociale e, di conseguenza, alla legge del 1968 sulle scuole statali a tempo pieno e a quella del 1971 sugli asili.

Per controbilanciare la possibilità di accedere ai nidi, nel 1971 la Dc varò una nuova legge sulla licenza obbligatoria per le lavoratrici in maternità, che garantiva a qualunque categoria di lavoratori dipendenti un permesso di venti settimane all’ottanta per cento dello stipendio (a stipendio pieno nella Pubblica amministrazione). Se proprio le madri dovevano lavorare, se non altro avrebbero goduto di maggiori diritti nel periodo di maternità, anziché dover dipendere dai servizi sociali esterni.

Viste nella prospettiva attuale, ci si accorge che tutte queste leggi sono risultate fondamentali per la diffusione, tra le donne, delle esigenze di piena cittadinanza sociale. In particolare, le leggi sulle scuole materne e gli asili nido pubblici non andava a sfidare il paradigma familiare concernente la responsabilità femminile nella cura dei figli, ma consentì ai collettivi femministi di fare la loro comparsa sulle scene. La svolta femminista nell’approccio politico e concettuale ai diritti delle donne puntava in direzione di una possibile rottura con le ambiguità e i compromessi in tema di politiche familiari e di definizione sociale delle donne così come era stata fissata dalla Costituzione.

2. Negli anni settanta i servizi sociali italiani passarono dalla rappresentazione di un modello residuale decisamente minimale di previdenza sociale alla prospettiva di un vero e proprio stato sociale istituzionale. Allo stesso tempo, il dibattito femminista circa l’identità delle donne e la definizione dei loro diritti per ciò che riguardava le loro scelte in materia di procreazione, si trasformò in un dibattito parlamentare sui diritti civili.

Il dibattito sulla famiglia si spostò dall’emancipazione delle donne attraverso il lavoro per trasformarsi in un conflitto sulla ridefinizione delle gerarchie sessiste e generazionali.

L’elemento che più di ogni altro spinse in direzione di questo cambiamento di prospettiva fu il Movimento Femminista, che esercitò una influenza fondamentale sulla politica italiana negli anni tra il 1970 e il 1978 (Calabrò e Grasso, 1985). In questo periodo le nuove leggi sulla famiglia, sul divorzio e sull’aborto sfidarono il patto sulla condizione sociale delle donne negoziato in precedenza tra le varie forze politiche.

Negli anni settanta il femminismo influenzò profondamente i rapporti fra le tre principali forze politiche: i cattolici (istituzionalmente rappresentati dal partito della Democrazia Cristiana e sostenuti dalla Chiesa cattolica), i comunisti (rappresentati dal Partito Comunista) e i laici-liberali (rappresentati dai partiti socialista, repubblicano e liberale, Psi, Pri e Pli). Il termine "laico" è qui usato in riferimento a quei partiti politici tradizionalmente associati a una ferma opposizione ai tentativi della Chiesa cattolica di interferire nella vita politica della nazione.

Quest’ultimo gruppo di partiti aveva tentato fin dagli anni cinquanta di introdurre una legislazione che consentisse il divorzio, ma si era scontrato con l’opposizione (di genere diverso) tanto dei cattolici come dei comunisti. Infatti il Pci aveva adottato una linea pro-famiglia sia per soddisfare il suo elettorato, composto di lavoratori con una mentalità fondamentalmente patriarcale) sia per evitare di inimicarsi eccessivamente la Chiesa cattolica (da essi considerata una potente forza popolare che poteva rivelarsi un validissimo alleato). Nel referendum del 1974 i comunisti si trovarono costretti, sia pure controvoglia, a difendere il divorzio. Durante la campagna per il referendum popolare si mossero con estrema cautela, cercando di affermare un’immagine del loro partito come difensore dell’unità familiare e un oppositore del cosiddetto "individualismo" di cui il femminismo era un rappresentate tipico.

La legge sul divorzio dimostrò comunque che l’opinione dei cattolici non era quella che la Chiesa e la Dc avevano immaginato. Gruppi di cattolici praticanti, uomini e donne – insieme a gruppi di femministe cattoliche – si batterono in favore della legge, e anche in quelle aree in cui la Dc aveva la maggioranza assoluta (il Sud e le regioni del Nord-Est) i voti contrari alla sua abrogazione risultarono assai più numerosi del previsto (Caciagli e Spreafico, 1990). Il voto sul divorzio mostrò anche l’importanza del movimento femminista come effettiva voce politica delle donne. In effetti l’esito referendario ebbe ripercussioni assai più estese e profonde di quanto ci si potesse aspettare, considerato il peso politico dei partiti cosiddetti "laici-liberali".

In questa situazione divenne possibile anche l’approvazione di una legge sull’aborto. In questo caso però non vi fu praticamente nessun gruppo cattolico a sostenere le nuove misure. All’epoca il femminismo incominciava a pesare anche all’interno del Pci. Le manifestazioni di massa in favore della legge vedevano marciare insieme donne comuniste e femministe, e all’interno del partito stesso le donne iniziavano a far sentire la propria voce.

Il femminismo italiano vide così la fusione di due diversi approcci culturali: il primo, quello liberal-radicale, considerava la liberazione delle donne in termini di autodeterminazione nella sfera della sessualità e della famiglia; il secondo si fondava su un genere di opposizione al sistema caratteristico del pensiero marxista. Guardandolo oggi, l’esito più evidente dei cambiamenti avvenuti in quel decennio sembra essere la trasformazione della tradizionale economia della gratuità. Il ruolo delle donne, tanto nella procreazione come nella vita familiare, è stato ridefinito all’interno di un nuovo scenario di diritti sociali e civili concernenti l’istituto della famiglia.

Le battaglie femministe a favore del divorzio e dell’aborto agevolarono la ricerca di un accordo tra i partiti rappresentati in Parlamento sulle riforme del diritto di famiglia. Essi ritennero loro dovere di rendere formalmente democratica l’istituzione familiare, riconoscendo la sovranità della coppia all’interno di una visione organica dei diritti della famiglia. Il conflitto fu particolarmente acceso su quelle leggi che proponevano una visione dei rapporti familiari in termini di diritti individuali. La maggior parte dei pronunciamenti della Chiesa erano volti a ricordare ai cattolici – e anche al governo italiano – che i diritti individuali erano subordinati a quelli della famiglia in quanto nucleo collettivo (in particolare, per quanto riguardava la procreazione e il matrimonio). Nonostante ciò, la legge sull’aborto non soltanto stabilì che il corpo di una donna è di sua proprietà, ma anche che le donne hanno maggiori diritti di pronunciarsi sul destino dell’embrione dei loro partner maschi (Ergas, 1986). Fu questa la prima legge a prevedere delle circostanze nelle quali lo status giuridico di una donna aveva la precedenza su quello dell’uomo, e fu la prima misura di discriminazione positiva nella storia del diritto italiano.

Dopo l’approvazione del nuovo diritto di famiglia (1970) e della legge sull’aborto (1978), il dibattito si spostò dalla definizione di donna e di famiglia a temi meno conflittuali quali le pari opportunità nel mercato del lavoro (leggi in tal senso furono varate nel 1977, nel 1983 e nel 1991). La cittadinanza sociale delle donne – intesa come questione di diritti formali e di uguali opportunità nel settore del lavoro dipendente e dello stato sociale – non era un tema centrale per il femminismo degli anni settanta, più interessato ad affermare le discriminazioni sessuali nei diritti civili, a ricercare la liberazione personale attraverso le pratiche dell’autocoscienza e/o ad attivarsi come opposizione politica al sistema. Furono le femministe all’interno del sindacato (che fecero la loro comparsa alla fine del decennio in questione) ad avviare la discussione sulle pari opportunità – e l’argomento fu in seguito ripreso dalle donne all’interno dei diversi partiti politici. La facilità con cui il Parlamento approvò, nel 1977, la legge sulla "parità tra i sessi nelle condizioni di lavoro", si deve in parte anche alle donne democristiane (il ministro per il lavoro era allora Tina Anselmi, che fino al 1994 fu anche presidente della Commissione Nazionale per le pari opportunità). La legge in effetti sanciva una situazione già esistente, rafforzando il potere dei sindacati e legittimando la crescente presenza di donne istruite e qualificate all’interno del mercato del lavoro (Franchi et al., 1987). La storia del sindacalismo femminista ci fornisce un tipico esempio dei rapporti che si erano andati gradualmente affermando tra il movimento femminista e le forze politiche che rappresentavano le donne (Beccalli, 1985). Il femminismo è stato un terreno di coltura fondamentale per il Pci a partire dalla metà degli anni settanta (cioè dalle elezioni amministrative del 1975 e dalle politiche dell’anno successivo). Questo sviluppo condusse a una certa istituzionalizzazione del Movimento – con alcune delle sue leader che andavano ad assumere un ruolo attivo all’interno dei partiti e dei sindacati – e anche a una situazione in cui i partiti si rendevano disponibili a portare avanti temi cari al femminismo (è il caso della legge sull’aborto e di quella sulla violenza sessuale).

3. La crisi all’interno del movimento femminista e nella concezione dello stato sociale divenne evidente a partire dalla fine degli anni settanta. Era una crisi che si collocava all’interno del collasso generale nell’equilibrio precedentemente raggiunto dal sistema politico italiano. Tra l’assassinio di Aldo Moro ad opera di un gruppo terroristico (1978) e il vero e proprio crollo del sistema politico dominato dai partiti che avevano concordemente dato vita a una democrazia non competitiva (1992), il mondo era completamente trasformato.

A partire dalla fine degli anni settanta il Movimento femminista in quanto movimento di protesta iniziò a sprofondare in una crisi interna ed esterna. All’interno dei gruppi femministi, le donne divennero più interessate ai cambiamenti nello stile di vita e nel coinvolgimento culturale che non nell’azione politica indipendente (Boccia, 1987). Questo approccio condusse alla nascita di centinaia di piccoli gruppi coinvolti in attività socio-culturali (sparsi un po’ ovunque nei grandi centri urbani e nelle cittadine del nord e del centro e, sia pure in misura minore, anche nel sud del paese). Le donne davano vita ad attività che si occupavano di ricerche sociali, storiche e antropologiche, agenzie che fornivano consulenze alle amministrazioni locali sia nell’area della ricerca sociale applicata sia nella formazione del personale. Nell’Italia centrale e settentrionale, la cultura dei servizi sociali è spesso sfociata in un coinvolgimento politico diretto delle femministe nelle amministrazioni locali: le donne sono da tempo presenti in forza nei consigli e nelle amministrazioni comunali, fanno parte della forza lavoro intellettuale responsabile della gestione dei servizi sociali e si sono ormai affermate come leader politici a livello locale.

Nel complesso possiamo affermare che a partire dal 1977 il femminismo italiano entra in crisi perché pretende di incidere sul dibattito politico a livello socio-culturale anziché a livello decisionale. Fa sentire la sua voce indipendente nel dibattito culturale, ma non riesce ad agire come gruppo indipendente di pressione all’interno dell’arena politica. Un esempio di tali difficoltà lo si può trovare nel dibattito sulla nuova legge in materia di violenza sessuale, nel corso del quale fu sollevata la questione della inviolabilità dell’integrità fisica della persona (le vecchie norme proteggevano le donne soltanto in nome della "moralità pubblica e del pudore"). Il tema era emerso all’interno del Movimento alla fine degli anni settanta, ma la nuova legislazione sullo stupro, approvata nel 1996, fu interamente discussa e negoziata in Parlamento e tra le donne parlamentari dei diversi partiti.

Anche dopo il 1996, quando il primo governo che vedeva la partecipazione dell’ex partito comunista (ora Pds) insieme a una parte dell’ex partito democristiano (ora Ppi) ha istituito il ministero delle Pari opportunità, i gruppi femministi non sembrano comunque in grado di far sentire la loro voce indipendente all’interno del dibattito politico.

Per quanto riguarda lo stato sociale, a partire dai primi anni ottanta (Paci, 1982; Ascoli, 1984) le difficoltà finanziarie hanno introdotto due nuovi temi nel dibattito politico sulla questione: la considerazione di una ottimale commistione tra pubblico e privato, e la ridefinizione della solidarietà sociale (Ascoli, 1987; Paci, 1989; Ferrera, 1993). Di conseguenza sembrano esservi crescenti aspettative sulle famiglie (leggasi sulle donne) le dovrebbero farsi carico della maggior parte delle responsabilità riguardanti l’assistenza ai bambini e agli anziani. Il dibattito sulla solidarietà sociale ha posto un nuovo accento sui legami familiari e sull’importanza centrale dell’economica della gratuità per il funzionamento del sistema della riproduzione sociale. Ancora una volta si dà per scontato, almeno come affermazione implicita, che le donne sono le protagoniste assolute del buon andamento della riproduzione sociale.

Negli anni ottanta e novanta si riaccese nuovamente il dibattito sulle nuove esigenze e sulle possibili direzioni che la politica familiare doveva intraprendere (Comitato, 1994). Bastava menzionare – o non menzionare affatto – la "famiglia" o le "famiglie" in una bozza di legge o in una proposta di intervento per scatenare accesissime discussioni tra i vari movimenti politici e culturali coinvolti, ben prima che fosse possibile accertare l’effetto che le misure proposte avrebbero sortito. A ciò sottostanno due domande fondamentali. La prima, quale definizione della famiglia avrebbe dovuto costituire la base di queste politiche? E la seconda, fino a che punto le donne dovrebbero poter far valere la loro indipendenza in materia di procreazione e di maternità? La definizione di una politica sociale per la famiglia dipende dalle risposte a questi interrogativi.

Negli anni ottanta e novanta il tema dell’indipendenza delle donne nella procreazione è stato oscurato da un nuovo interesse nei confronti della famiglia. Il dibattito sul modello familiare che dovrebbe sottendere alle politiche sociali è stato ripreso agli inizi dello scorso decennio. I punti principali su cui verte il dibattito riguardante le politiche sociali per la famiglia sono i seguenti: come responsabilizzare ulteriormente le famiglie e quali nuclei familiari dovrebbero poter accedere ad aiuti economici straordinari; se sia giusto attribuire maggior importanza al nucleo familiare anziché all’individuo, ove si tratti di stabilire i requisiti per accedere alle agevolazioni previste; infine, se alle attività assistenziali debba o meno essere riconosciuto un valore economico e, al contempo, se il lavoro femminile fuori casa debba essere considerato alla stregua di una "scelta" individuale o di un diritto.

In questa situazione, la legge del 1989 proposta dal Pds su "Il tempo delle donne e i tempi delle città" si collocava come un tentativo di ristabilire pari opportunità all’interno di uno stato sociale italiano fondato sulle responsabilità delle famiglie. Gli uomini come le donne avrebbero potuto chiedere periodi di aspettativa per motivi familiari (in quanto genitori o per assistere parenti malati) senza rischiare una diminuzione del reddito, dell’anzianità o della pensione. L’obiettivo era quello di garantire a tutti la possibilità di un uso flessibile del tempo, nell’intero arco della vita lavorativa.

La legge non fu approvata. Tuttavia la riconciliazione dei tempi imposti dai centri urbani è un tema dominante nel dibattito politico femminile italiano. La discussione sui "tempi delle città" si è molto evoluta dalla metà degli anni ottanta, trasferendosi in sedi diverse e raccogliendo la partecipazione di svariati protagonisti sociali (Balbo, 1991; Tempia, 1993; Bimbi, 1997c). I gruppi e le associazioni femminili, le sindacaliste e le varie commissioni per le pari opportunità hanno proposto una prospettiva non sessista per riconciliare le ore lavorative con le necessità della vita quotidiana, per valutare il lavoro retribuito e quello non retribuito, per venire incontro all’esigenza di disporre di più tempo da dedicare ai rapporti interpersonali e di attribuire maggiore importanza al tempo di cui si dispone. L’Associazione dei Consumatori insieme alle associazioni di quei piccoli imprenditori che sono maggiormente in contatto con l’amministrazione pubblica, come gli artigiani, i lavoratori edili e i commercianti, hanno dato vita a gruppi di pressione per modificare le scadenze e gli orari della vita cittadina.

Nella sua ricerca, Belloni (Belloni, 1997) individua tre obiettivi principali di questa azione pubblica: razionalizzare la complessità degli orari cittadini (ad esempio, l’apertura domenicale dei negozi, la flessibilità degli orari scolastici per snellire il traffico nelle ore di punta, la creazione di percorsi pedonali protetti riservati ai bambini); introdurre innovazioni negli orari di apertura dei servizi pubblici e favorire l’applicazione di orari flessibili nei posti di lavoro e soprattutto nei servizi per l’infanzia (per esempio, apertura pomeridiana degli uffici pubblici, possibilità di accesso parziale agli asili anche per i bambini non iscritti); ottenere un trattamento più equo per le donne lavoratrici, dando loro la possibilità di gestire al meglio il loro tempo personale (per esempio, alcuni particolari accordi nell’organizzazione degli orari di lavoro hanno tenuto espressamente conto delle esigenze delle donne e dei loro figli).

L’uso del tempo secondo i due sessi è tenuto particolarmente in considerazione in alcune misure sperimentali adottate da diversi consigli comunali negli anni ottanta (variazioni degli orari scolastici; orario flessibile per i servizi di custodia dei bambini; orari di apertura stabiliti dai negozianti in base alle esigenze dei clienti…). Nove regioni (Toscana, Valle d’Aosta, Emilia Romagna, Veneto, Liguria, Marche, Friuli-Venezia Giulia, Lazio e Piemonte) hanno approvato una legge sui "tempi delle città".

Nel 1996, programmi specifici riguardanti gli orari urbani sono stati varati in ottanta città italiane (Belloni e Bimbi, 1997), tra cui numerosi capoluoghi regionali, come Roma, Milano, Venezia, Torino, Aosta, Bolzano, Trieste, Genova, Bologna, Ancona, Perugia, Napoli e Bari, ma anche Modena (la prima città ad aver lanciato un progetto sugli orari cittadini), Pistoia, Fano (che si è dotata di un progetto dedicato ai tempi dei bambini) e Catania. Molte città hanno aperto uffici appositi per migliorare gli orari urbani; diverse hanno varato progetti specifici mirati al conseguimento di effettive pari opportunità e all’incremento della partecipazione femminile nella vita pubblica e politica. La maggior parte di questi programmi sono stati elaborati e proposti da donne che occupano posizioni di responsabilità nelle amministrazioni comunali; alcuni degli uffici preposti alla loro realizzazione sono diretti da donne.

A livello nazionale, nuove proposte di legge riguardanti la ristrutturazione dei "tempi delle città" ("Maternità e paternità" nel dicembre 1994 e "Tempo di lavorare, tempo di vivere" nel marzo 1995) hanno riaperto il dibattito sui periodi di aspettativa per motivi familiari, avanzando apertamente l’idea che l’assistenza e la cura dei figli dovrebbe essere equamente suddivisa tra i genitori di entrambi i sessi. Allo stesso tempo i movimenti che rappresentano le casalinghe hanno avanzato proposte (1996) per l’introduzione di varie forme assicurative e pensionistiche riservate alle casalinghe e di uno "stipendio per maternità".

Le questioni specifiche sollevate dai dibattiti sulle politiche familiari hanno trovato alcune risposte tangibili anche a livello regionale (Bimbi, 1997d). Tra il 1989 e il 1995 sei regioni (Emilia-Romagna, Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Marche e Abruzzo) hanno approvato leggi regionali in materia di politiche familiari, e altre sono attualmente in discussione. Alcune di esse limitano il loro raggio d’azione alle coppie sposate, ma altre, superando i termini fissati dalla Costituzione (articolo 29) sono estese anche alle famiglie non unite dal matrimonio. Possiamo individuare almeno tre modelli diversi. Il primo favorisce il sistema del capofamiglia maschio che garantisce il reddito familiare, offrendo incentivi finanziari volti ad incrementare la responsabilità femminile nelle attività di assistenza. Il secondo è un modello prettamente pro-natalista, che offre sostegno economico alle nuove coppie di coniugi e a chi fa figli. Il terzo è volto ad agevolare la solidarietà familiare, ampliando il più possibile i diritti individuali e incoraggiando diverse misure intese a migliorare la parità tra i sessi.

Questo terzo modello, che coniuga il familismo italiano, il welfare istituzionale e il femminismo, lo si ritrova nella prima legge sulla politica familiare, approvata dalla regione Emilia-Romagna nel 1989. Fino dagli anni sessanta questa regione è sempre stata la prima a intraprendere un tentativo sistematico – con discreto, seppur parziale successo – per realizzare uno stato sociale istituzionale fondato su di uno schema generale di cittadinanza sociale. Si tratta di un tipo di esperimento di grandissimo interesse, perché nasce in aperto contrasto con il modello nazionale di stato sociale e perché è divenuto da subito il punto di riferimento di altri esperimenti locali.

Gli interventi sociali della legge in questione si basano su due presupposti fondamentali: la libertà di scelta individuale in campo sessuale, e l’ugual riconoscimento di tutte le forme di nucleo familiare.

A livello nazionale, negli anni novanta è stato istituito il ministero per la "Solidarietà sociale". Ad esso è stata conferita la responsabilità delle politiche familiari e dei temi che vanno dalle leggi sui minori e sui giovani a quelle per gli anziani e i disabili, sull’immigrazione e sul settore del volontariato. Il dicastero tuttavia non può contare su un proprio bilancio indipendente.

Nella legge proposta nel 1996 da Livia Turco, esponente del Pds e ministro per la Solidarietà Sociale ed ex presidente della Commissione nazionale per le pari opportunità, legge che fa sotto il titolo di "promozione dei diritti e delle opportunità nell’infanzia e nell’adolescenza", ritroviamo gli stessi temi discussi nelle proposte di legge del 1989 e del 1994-95 sul "tempo delle donne". È però importante osservare che il ministro della Solidarietà sociale è estremamente attento a condurre una politica familiare in grado di coinvolgere tanto i cattolici come i movimenti femminili, soprattutto in tema di riforma dell’assistenza sociale e di molestie sessuali contro i bambini.

Il nuovo ministro per le pari opportunità, Anna Finocchiaro – come Livia Turco, esponente del Pds – cerca di introdurre nel dibattito pubblico una immagine delle donne che le vede più autonome, sul piano economico e istituzionale, rispetto alla famiglia. Una direttiva presentata dal suo dicastero l’8 marzo 1997 contiene concetti quali la "integrazione delle prospettive di parità tra i sessi nelle politiche governative" e la "promozione di una cultura delle differenze tra i sessi" che sfida l’ideologia cattolica.

Ma la voce della Chiesa è ancora dominante nel dibattito pubblico come nelle questioni private di previdenza sociale. La ricerca del compromesso si è oggi spostata verso lo scenario politico del nuovo centro-sinistra, con diversi, possibili sbocchi.

Conclusioni

A volte, come nella nuova legge sui diritti dei minori (1997) il paradigma familiare sull’assistenza dei bambini concepita come responsabilità delle donne sembra venir messo in discussione. Altre volte, con la proposta di una riforma della previdenza sociale e del sistema pensionistico basati sul reddito familiare (1993-97) il modello di un regime familistico o di un sistema basato sull’uomo in quanto capofamiglia che provvede al reddito (con le proposte di legge del 1996-97 di sussidi per le casalinghe) sembra guadagnare terreno.

In questo panorama, un dibattito politico aperto sulla natura della famiglia e sulle responsabilità della crescita dei figli può diventare difficile o estremamente rischioso per gli equilibri politici, soprattutto dal momento che le organizzazioni legate alla Chiesa stanno cercando di introdurre delle modifiche alla legge sull’aborto. La Chiesa cattolica sostiene che la legislazione sulla famiglia e sulla procreazione dovrebbe conformarsi strettamente alle dottrine che essa proclama ed esercita pressioni a questo scopo (Congregazione, 1987). Tuttavia, l’influenza della Chiesa cattolica sul sistema politico appare più forte della sua capacità di influenzare direttamente i comportamenti dei singoli.

Per di più, fin dagli ultimi anni ottanta, sulle questioni inerenti l’aborto (Quintavalla e Raimondi, 1989) e la bioetica (Ventimiglia, 1988; Pizzini, 1992; Comitato di Bioetica, 1994; Comitato di Bioetica, 1995), la sinistra ha iniziato a tenere maggiormente in considerazione la posizione della Chiesa cattolica. I diritti dell’embrione – propugnati a livello europeo dal parlamentare italiano eletto a Strasburgo nelle file del "Movimento per la vita" – sono stati sostenuti in un documento del 1989 pubblicato dal Consiglio europeo. Nel 1996, i movimenti "pro-life" hanno presentato una carta che garantiva i diritti dell’embrione fin dal momento del concepimento, aprendo in tal modo la strada a una possibile revisione della legge. Al congresso nazionale del Pds (febbraio 1997) è stata approvata una mozione, contro tale proposta, che era stata presentata da un gruppo di donne politicamente vicine alla ministra per le Pari opportunità. Tanto il leader del partito come il ministro per la solidarietà sociale criticarono la mozione: il primo, richiamandosi alla "libertà di coscienza individuale" sulla questione, la seconda temendo che questo documento possa rappresentare un ostacolo nel dibattito politico sulle politiche sociali per la famiglia.

Il caso dello statuto dell’embrione (Comitato di Bioetica, 1996) e dell’aborto mette in luce tutte le ambiguità e le incertezze tipiche dell’attuale stato di cose quando si tratta di questioni femminili in Italia.

Sembra dunque che, dalla metà degli anni novanta, quasi cinquant’anni dopo l’Assemblea Costituente, il dibattito sulle politiche sociali per la famiglia abbia finalmente intrapreso il suo corso. Tuttavia, ancora non sappiamo se sia possibile separare il dibattito sulla previdenza sociale per le famiglie da quello sulla natura dell’istituzione familiare e sulla libertà di scelta delle donne. Quest’ultimo punto sembra minacciare i nuovi equilibri politici. A partire dal 1990 in Italia la cosiddetta politica familiare risulta essere una miscellanea di decisioni slegate tra loro, che riflettono una serie di compromessi soprattutto, ma non esclusivamente, tra il Pci come garante degli interessi della classe lavoratrice e operaia e la Dc, la cui base cattolica si divide in una varietà di tendenze politiche e ideologiche. Tuttavia l’Italia ha iniziato ad affrontare questioni che in gran parte del mondo esterno sono sul tappeto da tempo, e lo ha fatto in un periodo di recessione economica, che lasciava poco spazio all’utilizzo di risorse pubbliche per mobilitare il sostegno su questi temi.

Quello italiano è un caso emblematico, che illustra come sia possibile introdurre importanti cambiamenti nelle politiche sociali senza che questo conduca a trasformazioni significative nei modelli che informano la concezione della cura dei figli e della suddivisione dei compiti in base al sesso. Ma dimostra anche che ci sono dei limiti a quello che la politica può ottenere senza un cambiamento delle forme della rappresentazione. L’Italia indica inoltre come le strutture politiche e istituzionali possano soffrire importanti costrizioni per quanto riguarda lo spazio o le possibili opportunità di sfidare le forme convenzionali di tale concezione. L’ironia è che proprio nel momento in cui, negli anni novanta, abbiamo assistito al crollo di quelle strutture, che avrebbe consentito un dibattito più ambio sulle suddivisioni dei compiti in base al sesso e sull’assistenza ai bambini, lo stato ha iniziato a limitare la propria sfera di intervento e la spesa destinata alle politiche sociali.

Allo stesso tempo, il dibattito sulla natura della famiglia e sulla libertà di scelta delle donne sembra riaprire profondi conflitti politici, nella scia delle discussioni all’Assemblea Costituente e dei mutamenti intervenuti negli anni settanta.

La possibilità di nuovi paradigmi sul ruolo delle donne e della famiglia rischia probabilmente di estendere un conflitto profondo all’interno del governo di centro-sinistra e del Parlamento. Mentre le argomentazioni in favore delle politiche familiari potrebbero rappresentare un’opportunità di ridisegnare i confini di tale conflitto, per quanto temperato dalle limitazioni imposte alla spesa sociale e dalle continue difficoltà che incontra chi cerca di mettere in discussione il paradigma familiare che vede le donne responsabili dell’assistenza ai membri della propria famiglia.

Il risultato potrebbe essere un cambiamento nel paradigma dominante, ma anche una sfida alle conquiste politiche fatte nei decenni precedenti.

 

La famiglia: che cosa vogliamo veramente?

di Michael Rustin

Dovrei innanzitutto precisare chi o che cosa intendo per "noi" quando mi chiedo che cosa "noi" vogliamo davvero dalla famiglia. Intendo i socialisti democratici, dal momento che siamo qui anche su invito di una rivista americana che si definisce in questi termini. Se poi anche altre personalità influenti facciano altrettanto, in questi giorni di New Labour e New Democrats, e in cui l’Ulivo si confronta con questo dibattito specificamente anglo-americano, è probabilmente già stato chiarito nelle sessioni precedenti. Io desidero spiegare per quali ragioni la famiglia in quanto istituzione può essere ritenuta un fenomeno di particolare rilevanza per i socialisti democratici.

Esiste solo un numero limitato di strumenti per organizzare i rapporti tra gli esseri umani nella società. Uno di essi, predominante nell’attuale stato di cose, è quello del mercato, inteso come scambio di beni e di servizi tra individui, o entità che si comportano come individui, i quali agiscono per interesse personale. Spesso, ma non necessariamente, il mercato è un aspetto del capitalismo, il mezzo utilizzato da quanti detengono il capitale e dalle persone che costoro assoldano allo scopo di organizzare gli scambi del capitale stesso, della forza lavoro e di beni o servizi commerciabili.

Un secondo strumento è quello del potere politico, che si realizza attraverso la legge e che viene messo in atto attraverso organismi fondati sulla legge: più spesso istituzioni burocratiche, altre volte studi professionali o altre imprese che agiscono in base alle istruzioni ricevute dai governi, quando non sono direttamente pagate dai governi stessi per realizzarne i desiderata. Questa obbedienza alla legge può essere il frutto di un mandato democratico, ma può anche non esserlo. Lo stato era il detentore del potere in Europa ben prima che la democrazia divenisse il normale strumento del potere legittimo e conserva tuttora, come hanno sottolineato di recente Ulrich Beck e molti altri, numerosi attributi del suo retaggio autoritario. Anzi, alcuni tendono a considerare l’attività democratica e il potere decisionale che ne deriva come null’altro che una cornice ornamentale, o un elemento che fornisce tutt’al più un indirizzo generico a strutture che rimangono in gran parte più gerarchiche che democratiche.

Il terzo strumento di organizzazione sociale è costituito da quelle forme di rapporti umani in cui predomina il dono gratuito, il baratto o la sottomissione del proprio interesse agli interessi di qualche entità maggiore di sé. La famiglia è una delle principali entità di questo genere, ma di questa categoria fanno parte anche l’amicizia, l’associazionismo volontario, le chiese e persino le associazioni politiche, che possono fondarsi su principi simili.

All’interno delle famiglie, il dono e il baratto rappresentano un modo di concordare forme di cooperazione tra membri di una stessa generazione (i coniugi ad esempio, i quali, mettendo in comune le diverse risorse, energie e capacità di cui dispongono, ne traggono un beneficio reciproco) ma soprattutto di generazioni diverse. I genitori fanno "dono" del loro tempo, delle loro energie e del loro affetto ai figli. A loro volta, anche i figli fanno doni ai genitori, soprattutto quando questi diventano anziani o infermi o hanno bisogno di aiuto economico. La maggior parte dell’assistenza agli anziani e ai malati che si curano in casa ricade sui membri della famiglia, e naturalmente soprattutto sulle donne. La famiglia è uno degli strumenti principali attraverso cui vengono riconosciuti e riscossi gli obblighi di una generazione nei confronti di un’altra. Essa rappresenta, in misura considerevole, il luogo primario dell’identificazione tra gli appartenenti all’una e all’altra generazione.

In linea di principio ci aspetteremmo che i socialisti democratici siano simpatetici con la famiglia in quanto forma di vita sociale, poiché essa rappresenta una alternativa al lassismo, all’individualismo e all’alienazione dei rapporti sociali imposti dal mercato. È rimasta celebre la definizione di Marx, che descriveva la famiglia come un porto sicuro in un mondo privo di cuore. I socialisti si sono spesso serviti dei rapporti familiari come di una metafora per i rapporti sociali che avrebbero voluto veder realizzati: ad esempio nelle denominazioni di "fratello" e di "fratellanza" usate per definire i compagni lavoratori, o nell’idea di comunità, di aiuto e di responsabilità reciproca su cui si fondava in Gran Bretagna – e sicuramente anche altrove – il progetto per lo stato sociale lanciato nel dopoguerra. La famiglia ha messo a loro disposizione un intero lessico retorico per denominare quelle norme con le quali i socialisti e i progressisti avrebbero dovuto identificarsi. Se non sbaglio, un memorabile discorso tenuto da Mario Cuomo alla convention democratica, parecchi anni fa, ebbe un fortissimo impatto proprio perché era imperniato sull’idea dell’America vista come una grande famiglia onnicomprensiva.

Naturalmente le cose non sono tanto semplici. Non è mai esistita la famiglia nello spazio libero, come una sorta di alternativa volontarista e cooperativistaa rispetto ai regimi della gerarchia politica o dello scambio commerciale. Le forme di rapporto, e di predominio reciproco, su cui essa si fonda erano e sono strutturate dalla legge. I suoi membri hanno a disposizione diverse opportunità e subiscono diverse pressioni affinché si adoperino per collocare, sul mercato del libero scambio, la loro capacità lavorativa o i prodotti del loro lavoro. Le famiglie sono sempre e soltanto esistite all’interno di un preciso ordine normativo e culturale, non ultimo quello ecclesiastico il quale, come ci hanno ricordato Chiara Saraceno e Franca Bimbi, ancora oggi gioca un ruolo non secondario.

Gli effetti di queste diverse strutture consistettero nell’imporre all’ordine ipoteticamente volontario della struttura familiare dei tratti estremamente costrittivi e ineguali. Ancora nell’ultimo secolo, donne e bambini erano, in misura considerevole, proprietà di mariti e padri. Gli uomini avevano il permesso legale di controllarli e di punirli anche con la violenza. Sempre gli uomini godevano poi di una diversa libertà, in quanto potevano mettere sul mercato, come merce di scambio, la loro forza lavoro, mentre le donne erano, in molti gruppi sociali, confinate in casa, in una prigionia di fatto. Almeno in Gran Bretagna gli uomini godettero della libertà politica molto prima delle donne. Lungi dall’essere una situazione in cui la cooperazione volontaria per il reciproco beneficio rappresentava la norma, le famiglie erano in larga misura una istituzione basata sul dominio e sulla subordinazione di un sesso rispetto all’altro e di una generazione rispetto all’altra.

Considerata la situazione ereditata, non sorprende che nell’epoca moderna la famiglia sia andata soggetta a critiche profonde e integrali. Le donne soprattutto si sono organizzate e battute per limitare e attenuare le costrizioni imposte in nome della famiglia ma che erano in realtà, secondo loro, essenzialmente nell’interesse degli uomini. Le battaglie politiche per il divorzio e l’aborto, di cui hanno già parlato altri, rappresentano un aspetto importante di questa lotta. Membri di entrambi i sessi, ma forse soprattutto le donne, sempre più spesso scelgono nei fatti di non intraprendere la strada di un soffocante rapporto familiare, o di andarsene se questo diviene intollerabile. Così, soprattutto nel nord Europa e nell’America settentrionale, le percentuali dei divorzi e delle convivenze prima o in luogo del matrimonio, sono salite vertiginosamente, al punto che, statisticamente, in Gran Bretagna un matrimonio su tre rischia di finire con un divorzio, mentre negli Usa la percentuale è ancora più alta. Anche i giovani esercitano liberamente il diritto di vivere al di fuori della famiglia. Se in Italia è ancora normale che i ragazzi e le ragazze rimangano in casa con i genitori per tutta la durata degli studi e fino a quando si sposano a loro volta, in Inghilterra, in America o in Scandinavia è ormai cosa comune vedere giovani che vivono in piccole comunità con persone della stessa generazione, che coabitano nei campus universitari o che condividono appartamenti.

Questa massiccia fuoriuscita dalle costrizioni familiari, e il desiderio dei singoli di vivere una porzione maggiore delle loro vite al di fuori dei vincoli che la famiglia impone, genera una esigenza che è la diretta conseguenza di tutto ciò: occorre che le funzioni espletate dalla famiglia siano raccolte da altri organismi e forme di coesione sociale. Le donne hanno cercato un nuovo equilibrio tra quella parte della loro vita che viene assorbita all’interno del nucleo familiare, e l’altra parte spesa nel settore del mercato del lavoro. Nasce dunque l’esigenza che il governo e le agenzie governative e ministeriali raccolgano le responsabilità che le famiglie non vogliono più assumersi, o almeno non nella stessa misura di un tempo. Ecco allora la necessità di affidare prima e più a lungo i bambini ai nidi e alle scuole, e la richiesta ai servizi pubblici affinché forniscano assistenza domiciliare o residenziale agli anziani e ai malati. Mia suocera, che ha 93 anni ed è quasi del tutto invalida, può contare su non meno di quattro persone assunte e stipendiate dalle autorità locali, che le fanno visita a domicilio diverse volte nel corso della giornata e della settimana, e le forniscono aiuti di vario genere: l’aiutano ad alzarsi e a vestirsi, le fanno la spesa, le pulizie, il bucato e così via. Eppure ha due figlie adulte che vivono a non più di cinque o dieci minuti di strada e un figlio a una ventina di minuti di distanza, e tra tutti e tre potrebbero mettere insieme una somma più che sufficiente per pagare tali servizi. Di fatto riceve moltissima assistenza anche dalla sua famiglia, ma il punto è che esiste, a Londra, un sistema "pubblico" alternativo alla famiglia, che fornisce servizi straordinariamente efficienti finanziati con le imposte generiche a disposizione dell’amministrazione locale.

Uno dei principali metri di giudizio con cui tuttora la famiglia viene considerata da molte persone di sinistra è la sua tendenza ad entrare in urto con i diritti individuali o con le esigenze personali dei suoi membri. Le rivendicazioni fatte in nome dei "valori familiari" vengono criticamente reinterpretate come volte a preservare l’occulto predominio degli uomini sulle donne. In Inghilterra le preoccupazioni per il benessere dei bambini sono spesso formulate in termini dei diritti dei minori in quanto individui, chiamando anche in causa le loro implicite recriminazioni contro i genitori, per gli abusi da questi perpetrati. La soluzione più comune è allora quella di punire i membri della famiglia che si dimostrano oppressivi, allontanando da loro i bambini maltrattati per affidarli a presunti sostituti o a nuove famiglie attraverso le procedure dell’affidamento o dell’adozione. Diversi studi comparati, come quello condotto da Andrew Cooper che lavora alla Tavistock Clinic e insegna nella mia stessa Università, hanno dimostrato come il sistema di protezione dei bambini in vigore in Francia si impegni molto di più per sostenere le famiglie in difficoltà e persino quelle in cui i bambini sono maltrattati.

Ci sono naturalmente molti aspetti nei quali la famiglia continua ad essere ingiusta, riguardo al potere e alle responsabilità che affida agli uomini o alle donne. Accade spesso che, maggiori sono gli oneri che lo stato o la società affidano alla famiglia (assistenza a bambini, anziani e infermi), minore è la libertà di cui godono le donne. Ma è anche vero che la difesa e le battaglie per una più completa parità tra i sessi è, implicitamente o esplicitamente, impostata come una battaglia per una più completa libertà individuale, perché anche le donne possano godere appieno del diritto di scelta, e non in favore di forme più eque di cooperazione all’interno di rapporti liberamente scelti. La cultura dell’individualismo, e dell’individualizzazione, gioca in questo un ruolo cruciale, tanto più forse nel momento in cui il modello alternativo "anti-individualista", l’idea di welfare o di stato sociale, viene messo duramente sotto accusa.

La domanda principale che desidero sollevare è se il sostegno e il rafforzamento della famiglia, e di altre forme di rapporto e di cooperazione che dipendono dall’identificazione reciproca, dal dono e dal baratto, possa costituire un oggetto appropriato di cui si debba occupare la politica del bene pubblico. Se sia giusto, in particolare, che i socialisti democratici si impegnino ancora per questa idea, motivandola con ragionamenti che si rifanno alla loro tradizionale antipatia verso i rapporti di tipo individualista imposti dal mercato o le relazioni politiche di tipo coercitivo, in quanto forme dominanti nella vita sociale. Vorrei dimostrare che è giusto che lo facciano, e che possono farlo in modi che sono rispettosi dei poteri e dei diritti che essi attribuiscono a uomini e donne.

Stein Ringen, in un opuscolo della Demos (1998) e in un libro edito dalla Oxford University Press (1997), entrambi in parte estremamente validi (benché, sotto altri aspetti, decisamente distorti), ha messo in evidenza come la famiglia rimanga un importantissimo luogo di produzione, oltre che di consumo come viene universalmente riconosciuta. I "livelli di vita" o i beni necessari alla vita di cui godono i cittadini sono sostanzialmente forniti, o implementati, o da lavori svolti in casa o da membri della famiglia che lavorano gli uni per gli altri fuori di casa. Pulire, fare la spesa, cucinare, guidare, riparare, costruire, occuparsi del giardino, stare con i bambini eccetera. La maggior parte dei beni di consumo e delle macchine sono oggetti inerti e inutili fino a che non vi si investe del lavoro, trasformandoli in valore. Ringen sottolinea che la cooperazione tra i membri della famiglia è un modo altamente efficiente di incrementare il valore ricavato da tali beni, o dai proventi del lavoro collocato sul mercato. Cucinare un pasto per quattro non impegna un lavoro quattro volte superiore a quello necessario a cucinare per una persona soltanto. Due persone non hanno la necessità di occupare uno spazio vitale doppio rispetto a chi vive solo per ricavarne i medesimi benefici. Un giardino accudito da un’unica persona può essere goduto da molte altre. L’auto guidata da un unico autista può trasportare comodamente cinque persone. Ringen ne deduce che lo stile di vita misurato in termini di pil ne sottovaluta grossolanamente il valore reale, perché non tien conto del valore aggiunto dalla famiglia informale o dall’economia dell’amicizia.

Con le medesime argomentazioni Ringen spiega anche l’insoddisfazione avvertita da molti che avvertono come un reddito in aumento non riesca a produrre una sensazione di benessere incrementata nella stessa misura. Egli lo attribuisce non al fatto che la gente non capisce i suoi reali interessi, e attribuisce valori irreali a una aumentata capacità di acquisto, quanto piuttosto al fatto che i guadagni ottenuti a livello di reddito economico vengono in realtà "pagati" da perdite reali in termini di economia informale. Lavorare cinquanta ore alla settimana porta più denaro, ma significa anche avere meno tempo a disposizione per produrre quei "beni" generati dal lavoro svolto nel settore informale – il "lavoro" di giocare con i bambini, di tenere in ordine un bel giardino, di allenare la squadra di calcio dei ragazzini del quartiere o di mettere in scena una commedia con una compagnia di attori dilettanti. Si potrebbe aggiungere anche il "lavoro" della conversazione, o di provvedere alle necessità degli altri, o anche di progredire nella propria educazione.

Gli schemi di "produzione" e "consumo" che dominano la nostra visione attuale dell’economia non sono che costruzioni ideologiche, che mistificano il reale processo economico. Questi schemi fanno apparire il "lavoro" essenzialmente un sacrificio che dobbiamo intraprendere al solo scopo di guadagnare il denaro necessario a "consumare" i beni prodotti dal lavoro di altri. Ma in realtà la maggior parte dei "consumi" è semplicemente la collocazione di un altro processo di lavorazione, per nulla sgradevole – almeno non del tutto, benché possa comportare uno sforzo –, che viene intrapreso in un contesto di rapporti incentrati sul dono gratuito e sullo scambio, anziché sulla contropartita economica. E naturalmente molto del "lavoro" vero e proprio immesso sul mercato porta altresì numerose soddisfazioni e la sua mancanza è profondamente e dolorosamente avvertita da chi ne è privo: tra queste soddisfazioni sono da enumerare, e non come secondarie, quella della cooperazione, del riconoscimento reciproco e del dispiego delle proprie capacità ed energie.

Il ragionamento di Ringen prosegue sostenendo che, esattamente come appare più che giusto che la società, attraverso i suoi organismi elettivi di potere, sostenga e favorisca l’economia "formale" (mettendo a disposizione infrastrutture, fornendo un’istruzione alla futura forza lavoro, garantendo sicurezza, norme e assicurazioni), allo stesso modo i governi dovrebbero essere disposti a sostenere con decisione le famiglie in quanto luoghi di produzione e in quanto fondamentali produttrici di benessere sociale e individuale. Egli afferma che la nostra attuale "economia" sottovaluta, anzi evita del tutto di riconoscere, il "lavoro" svolto in quest’ambito e, lungi dal sostenerlo, lo pone in collisione con gli interessi del capitale in quanto indebolirebbe quest’ultimo, sottraendogli risorse umane.

Quando il "costo di opportunità" di far crescere un bambino o di occuparsi di un parente o di un amico anziano o infermo risulta troppo elevato, a causa delle compensazioni superiori che il mercato mette a disposizione, allora gli individui finiranno col ridurre l’impegno dedicato a questo genere di compiti. Ma se essi ottengono un riconoscimento sociale e vengono remunerati (sotto forma di assegni familiari o di contributi per chi si occupa di assistere un infermo) allora le persone potranno prendere altre decisioni, sicuramente non in tutti i casi ma certamente con un innalzamento della media. Il sistema di tasse e sussidi, oltre naturalmente all’organizzazione del mercato del lavoro e degli altri mercati, premia o sanziona in modo selettivo i diversi generi di attività umana. La spiegazione fornita da Ringen riguardo al ridimensionamento dei nuclei familiari, con sempre meno componenti, e soprattutto riguardo al venir meno dell’impegno profuso nel "lavoro" al loro interno, è che i costi di opportunità di tale "lavoro" contrapposti al "lavoro pagato" sono cambiati in favore del secondo.

Tutto ciò è in parte, evidentemente, una conseguenza positiva della nuova libertà di cui godono le donne, che possono scegliere di collocarsi sul mercato del lavoro e trovarvi un’occupazione remunerata. Appare però anche l’effetto di cambiamenti economici oltre che politici e culturali, poiché la crescita delle economie del terziario, servizi e informazione soprattutto, sembrano aver ridotto tutti i vantaggi relativi che si potevano trarre nei regimi produttivi precedenti, sia in quelli agricoli sia in quelli industriali. I costi di opportunità sono cambiati perché le donne oggi possono compiere diverse scelte, mentre prima ne avevano ben poche a disposizione. Questo naturalmente è positivo in sé, e non possiamo auspicare alcuna regressione, nessun ritorno a un’epoca in cui non potevano decidere alcunché.

Ma il fatto che il lavoro collocato sul mercato sia materialmente retribuito non è una buona ragione per dire che non si dovrebbe lavorare fuori casa. Sarebbe possibile individuare diversi ambiti di lavoro nel settore informale, soprattutto quelli che coinvolgono l’aiuto e l’assistenza a persone di generazioni diverse, e far sì che anche questi lavori siano riconosciuti e remunerati, su basi di assoluta parità tra i sessi. È evidentemente in questa direzione che si collocano gli assegni familiari, i permessi di maternità retribuiti, gli assegni di accompagnamento per gli invalidi. Persino le ferie pagate potrebbero ricadere nella stessa categoria, se si pensa alle "vacanze" come all’occasione per un lavoro "produttivo" volto a migliorare la qualità della vita, un periodo erroneamente definito come "tempo libero" solo perché è diverso dal "lavoro" che si svolge nel settore produttivo o nell’impiego statale o burocratico.

Una delle iniziative più scandalose del governo Blair è stata quella del "welfare to work", una legge rivolta alle madri nubili disoccupate che esigeva che queste donne si ricollocassero sul mercato del lavoro come condizione per accedere ai sussidi a loro destinati. La cosa più sbalorditiva era il fatto che tale pretesa non tenesse alcun conto dell’età dei figli, benché sia assolutamente ovvio che mentre i bambini sopra i quattro-cinque anni possono essere di norma collocati in un asilo o a scuola (e quindi se ne occupa lo stato), molti bambini dagli zero ai cinque anni non vengono collocati nelle strutture pubbliche, per scelta loro o dei loro genitori. Sarebbe assolutamente ragionevole considerare il tempo che i genitori passano ad occuparsi dei bambini piccoli come un tempo di lavoro, del tutto equivalente a quello che potrebbero impiegare alla cassa di un supermercato o a cucinare per una mensa scolastica; un tempo pertanto che meriterebbe una remunerazione economica equivalente. È un paradosso della diminuzione delle responsabilità familiari nei confronti dei bambini o degli anziani, motivata con questioni di parità tra i sessi, che l’esito di tale diminuzione sia che le donne che potrebbero occuparsi dei loro bambini o di altri parenti all’interno delle mura domestiche, finiscano invece per occuparsi di estranei, venendo per questo pagate dal governo o da enti privati.

Ovviamente, i cittadini di entrambi i sessi dovrebbero essere liberi di scegliere la via che preferiscono, ma non in una situazione che premia una scelta e penalizza l’altra.

Come sempre, la difesa a oltranza delle libertà personali rischia di mascherare oltre che di rappresentare interessi reali. Quali interessi vengono serviti portando avanti una situazione in cui la gente è sempre meno in grado di preparare un buon pranzo e finisce per dipendere dai piatti pronti comprati al supermercato o acquistati in rosticceria? Da una parte, chiaramente, gli interessi di uomini e donne molto occupati, cui viene risparmiato l’impegno di dover cucinare e lavare piatti e pentole, e che quindi possono occupare il loro tempo in modo diverso – il più delle volte, in effetti, soprattutto tra i "lavorodipendenti" degli Stati Uniti, sul posto di lavoro. Ma dall’altra parte, vengono serviti gli interessi dei capitalisti, che possiamo essere anche voi ed io, di quanti insomma investono nei supermercati e nelle catene di ristorazione veloce che approfittano di un’economia domestica sempre più indebolita per creare nuovi mercati su cui piazzare i loro prodotti.

C’è un altro aspetto in tutto ciò, e porta a chiedersi fino a che punto la politica dovrebbe intervenire, non per sostenere materialmente, ma per sanzionare legalmente la formazione e il mantenimento delle famiglie. È importante che sempre meno persone contraggano matrimonio, che per divorziare sia sufficiente inoltrare una domanda, che le persone possano con tutta facilità scaricare qualsiasi responsabilità nei confronti dei figli o dei genitori? Esiste una maniera giustificabile di conferire un supporto legale e normativo a rapporti e impegni durevoli, senza tuttavia violare con ciò la libertà individuale?

(Uno dei disastri provocati dal governo Thatcher è stato il tentativo di costringere al rispetto degli obblighi dei genitori al mantenimento dei figli minorenni, negando a questi ultimi, anche in età lavorativa, i sussidi di disoccupazione e rendendoli quindi materialmente dipendenti dai loro genitori. Credo che questa politica abbia messo in seria difficoltà molte famiglie con giovani disoccupati, non solo sul piano materiale ma anche per l’evidente venir meno del supporto pubblico nei confronti della funzione parentale. Credo che l’aumentata incidenza di giovani senza tetto, terribilmente evidente nelle strade cittadine e soprattutto a Londra, sia in parte conseguenza di questo tentativo punitivo e controproducente di imporre la solidarietà all’interno delle famiglie.)

Sono questioni estremamente complesse, e siamo ormai così assorbiti dai valori libertari e così (giustamente) sospettosi nei confronti dell’autoritarismo moralista (genere verso cui il New Labour mostra qualche inclinazione) che è difficile giustificare nuove concezioni "solidaristiche" che sembrino implicare una qualche coercizione per i singoli cittadini.

La soluzione proposta da Ringen, che considera il matrimonio come un contratto vincolante in cui tanto i coniugi come i figli ricoprono un ruolo legale e "democratico" (quasi una repubblica in miniatura) ci sembra di dubbia efficacia, in quanto inserisce una concezione basata sull’interesse razionale e sullo scambio contrattuale in una sfera la cui essenza appare qualcosa di diverso. Né ci sembra più attraente la proposta di contare sulla persuasione morale e sulla rieducazione, proposta che ha in comune con la prima un potenziale autoritario.

La migliore possibilità di progresso è forse quella che chiede allo stato di sostenere la famiglia e gli altri rapporti interpersonali duraturi non soltanto in termini materiali, come abbiamo già spiegato, ma anche attraverso quelle risorse necessarie a sostenerne l’impegno. È probabile che moltissime persone preferirebbero mantenere legami duraturi e assumersi le responsabilità di assistere gli altri componenti della famiglia, o amici e vicini di lunga data, se potessero farlo a costi ragionevoli. È quindi compito dello stato mantenere entro i giusti limiti tali costi, fornire servizi che integrino e rispettino i legami personali e garantire servizi di mediazione per la gestione e la negoziazione delle difficoltà, ivi comprese le agevolazioni per chi desideri uscire dall’ambito familiare, quando la rottura si riveli effettivamente la cosa più appropriata o semplicemente la più desiderata.

Questo già accade in molti modi, e si verifica laddove questa concezione di sostegno si è evoluta trasformandosi nel miglioramento di "servizi sociali" in precedenza più impersonali, che finivano per usurpare i rapporti familiari. Ne sono un esempio gli ospedali che invitano i genitori a rimanere con i bambini ricoverati, gli ospizi e le case di cura che agevolano la presenza dei parenti, le sale parto che accolgono i futuri padri, i servizi di consulenza e di mediazione per la soluzione dei conflitti coniugali, le politiche di assegnazione degli alloggi popolari che riconoscono l’esigenza di non allontanarsi dai parenti stretti, l’esortazione alla riflessione prima di procedere a un aborto.

Non vedo in che modo i socialisti democratici, giustamente critici nei confronti del mercato e del capitalismo in quanto forme dominanti dei rapporti sociali, e critici anche, altrettanto giustamente, nei confronti di uno stato che si propone come invadente sostituto di tali rapporti, possano trascurare la sfera della famiglia e dei suoi corollari informali, l’amicizia e l’associazionismo volontario, come dimensione essenziale di una società migliore. Tanto più se, in quanto socialisti, coltiviamo anche una particolare sensibilità nei confronti della dimensione emotiva, naturale e necessaria, della vita umana.

Questo è un altro tema, dal quale implicitamente dipendono quasi tutte le argomentazioni sopra esposte. Il razionalismo della tradizione illuminista, tanto nella sua versione liberale come in quella marxista, ha manifestato la tendenza a soffocare la dimensione affettiva dell’esistenza umana. La riflessione su "quel che vogliamo veramente dalla famiglia" ci impone di conferire nuovamente a quella dimensione il posto che le spetta nel quadro generale. È un paradosso del femminismo l’aver rivendicato il riconoscimento di queste aree di esperienza come politicamente rilevanti, e allo stesso tempo l’aver adottato una posizione severamente critica nei confronti della famiglia, che di quelle aree è stata fino ad oggi la sede primaria e naturale. Lo sviluppo di un modo socialista di immaginare la società futura, per essere convincente, dovrà necessariamente risolvere questi dilemmi.

Riferimenti bibliografici

Stein Ringen, The family in question, Demos 1998

Stein Ringen, Citizens, families and reform, Oxford University Press 1997

 

IIIa sessione:
Nuove sfide politiche:
quale futuro per il Welfare State?

Peter Edelman
(Georgetown University Law Center, Washington)

Claus Offe
(Humboldt Universität, Berlino)

 

Lo stato sociale in America: problemi attuali e oltre

di Peter Edelman

 

Robert Kennedy amava questa citazione da Camus: "Forse non riusciremo a trasformare questo mondo in un mondo in cui i bambini non siano più torturati. Ma almeno possiamo ridurre il numero di bambini torturati".

Negli anni '90, sia negli Stati Uniti che in Europa ci è stato ripetuto che sarebbe stato possibile trovare una risposta a problemi quali la sofferenza dei nostri bambini con una nuova politica, cui è stato dato il nome di Terza Via.

La Terza Via, ci viene detto, si fonda sulla pari dignità del governo e del settore privato, e sulla collaborazione di entrambi con una terza forza, la società civile. La Terza Via, ci viene anche detto, combina il dinamismo del libero mercato con un impegno di giustizia sociale. Un segno caratteristico di tale combinazione si dice sia la fine della politica dei diritti, in cui la gente otteneva qualcosa in cambio di niente, la fine dell'epoca in cui potevano esistere diritti senza corrispondenti responsabilità.

Non è questo il modo in cui io formulerei le mie opinioni, e tuttavia esso non è in contraddizione con le politiche sociali che auspico per i bambini e per gli altri gruppi deboli. Io credo nell'economia di mercato, certo con le dovute regole. Credo nella giustizia sociale. Credo ad un ruolo importante per le istituzioni civili. Credo infatti molto fermamente all'importanza di un impegno civile all'interno di ogni comunità in America, che unisca gli sforzi necessari a sradicare profondamente la povertà. Credo nella responsabilità individuale, sebbene possa farvi una previsione per il futuro, e dire che sono convinto che l'idea dei diritti legati alle responsabilità si debba applicare a tutti i membri della società, e non solo ai poveri.

Il problema è che, per molti sostenitori della Terza Via negli Stati Uniti, le parole non hanno lo stesso significato che per voi e per me. La Terza Via si rivela rappresentare non quel genuino partenariato a tre e quella condivisione di responsabilità suggeriti dalle parole stesse, bensì l'abdicazione delle responsabilità di governo nelle mani di gruppi amorfi di persone e di istituzioni nel settore privato. La giustizia sociale in cui i rappresentanti della Terza Via affermano di credere finisce per essere lasciata alla generosità del volontariato ed alla benevolenza di attori privati. La responsabilità personale cui si appella la Terza Via risulta essere la responsabilità dei poveri di comportarsi meglio, e non una responsabilità che si estende a tutte le istituzioni della società. Le imprese ed i cittadini ricchi sembrano aver il diritto di fare azioni lobbystiche sul governo per ottenere sussidi che all'inizio sembrano proprio "qualcosa in cambio di nulla", e nessuno sembra avere la responsabilità di aiutare i poveri, tranne i poveri stessi. I seguaci della Terza Via negli Stati Uniti potrebbere ben citare Camus con approvazione, ma le loro ricette politiche sembrano derivare piuttosto da Anatole France.

L'America non ha mai avuto uno stato sociale in senso europeo. Non ha mai offerto una rete di sicurezza che garantisca una base minima di sostegno al reddito, di copertura sanitaria, né altri tipi di assistenza per tutti i membri della società. La sua cosidetta rete di sicurezza è stata sempre una rete rappezzata, che ha fornito sussidi basati sui giudizi della società su chi li meritasse e chi no. Persino in questa situazione, alla destra radicale si è unito un gruppo che ha assunto diversi nomi - Terza Via, Democratic Leadership Council (Consiglio per la leadership democratica), Blue Dogs - il quale ha costruito una politica di discreto successo, basata sull'attacco ad uno stato sociale americano che non è mai esistito.

 

La via americana alla Terza Via

Questo dibattito non è affatto nuovo negli Stati Uniti. La destra ha sempre attaccato gli sforzi fatti per estendere gli aiuti ai poveri e ai deboli, affermando che si tratta di questioni in cui lo stato non ha alcuna responsabilità. Il Presidente Herbert Hoover disse esattamente questo quando i partecipanti alla bonus march si riunirono a Washington durante la Grande Depressione. A livello personale egli era solidale, e la Croce Rossa avrebbe dovuto fare tutto il possibile per venire in aiuto, ma certo tutto ciò non era responsabilità del governo. Il New Deal aveva messo fine a quella maniera di pensare, così almeno credevamo. Ma sbagliavamo. Grazie alla prosperità americana del secondo dopoguerra, eravamo convinti che riuscire a ricucire gli strappi nella nostra rete di sicurezza sarebbe stato solo questione di tempo. Avremmo avuto il servizio sanitario nazionale. Saremmo stati seri sulla piena occupazione ed avremmo avuto indennità di disoccupazione davvero soddisfacenti. Avremmo avuto un sostegno al reddito per chiunque ne avesse bisogno, specialmente i bambini. Ma sbagliavamo.

Progressi, ne sono stati fatti. Gli anziani, il nostro gruppo preferito, ottennero la copertura sanitaria nazionale nel 1965, ed i loro sussidi di previdenza sociale vennero ancorati all'inflazione nel 1972. I disabili hanno ricevuto sussidi per fasi, insieme alla protezione legislativa contro la discriminazione nel lavoro e l'accesso ai posti pubblici. L'operaio povero è diventato di moda negli ultimi anni, con la grande espansione di una tassa federale che integra il loro reddito. I poveri hanno ricevuto un sussidio sotto forma di bollini per il cibo nel 1970 , e i poveri e i disabili hanno avuto copertura sanitaria negli anni '60, un programma che, come costo totale, è diventato più costoso di qualsiasi altro nella rete di sicurezza sociale, se si fa eccezione della previdenza sociale. Affitti a basso costo, assistenza ai poveri per far fronte a costi di riscaldamento o di condizionamento d'aria, assistenza pedagogica per i bambini poveri oltre la scuola, borse di studio per permettere ai ragazzi poveri l'accesso al College, ed altri programmi ancora completano il quadro.

Il gruppo sociale più controverso negli ultimi trent'anni è stato quello dei non disabili in età lavorativa, in particolare con bambini. Tutti coloro che non avevano bambini non sono mai stati presi in considerazione per altri sussidi federali che non fossero i bollini per il cibo. Coloro che invece avevano bambini - specialmente le donne non sposate - sin dal 1935 hanno avuto il diritto ad entrare in quel programma che noi americani chiamiamo welfare (programma di assistenza pubblica). Non si è mai trattato di un programma generoso. Il livello dei sussidi viene fissato dagli stati, mentre il governo federale paga una parte dei costi. Nel Mississipi, per anni i sussidi hanno rappresentato l'11% della soglia di povertà; aggiungendo anche i bollini per il cibo, si arriva al 40% della soglia di povertà. Il costo del programma per il governo federale è sempre stato ben al di sotto dell'1% del bilancio federale.

Prima degli anni '60, gli stati, specialmente quelli del Sud, elargivano sussidi assistenziali alla gente che gradivano, e non li elargivano a chi invece non gradivano. Negli anni '60, una combinazione di circostanze quali la recente istituzione di una serie di avvocati per i poveri, alcune coerenti decisioni della Corte Suprema, ed un movimento militante di assistiti trasformò il vecchio programma "discrezionale" nel programma "di diritto" che la legge federale aveva sempre sostenuto, ma che invece tutti i responsabili avevano sempre ignorato come tale. Ebbero inizio allora, per poi continuare, una serie di reazioni sfavorevoli. Esse avevano una connotazione razziale. Il programma era sempre sproporzionatamente afroamericano, e questo semplicemente perché in America i poveri sono sproporzionatamente afroamericani; comunque nacque la leggenda di un programma a maggioranza nera. Così i destinatari di sussidi assistenziali furono ampiamente caratterizzati come pigri e sfaticati. Il razzismo era mimetizzato appena, seppure lo era.

 

Clinton: il prezzo della sopravvivenza politica

Ma il welfare non piaceva a nessuno. I beneficiari detestavano il modo in cui venivano trattati dai burocrati. La maggior parte di essi avrebbe preferito lavorare. Il sistema infatti non aiutava le persone a diventare autosufficienti, non c'erano abbastanza aiuti per far sì che la gente non dovesse continuare con l'assistenza come risorsa primaria, e i sussidi non facevano certo uscire nessuno dallo stato di povertà. E la destra detestava il welfare per le ragioni appena esposte. Negli anni seguenti ci furono sforzi di duplice natura per cambiare il sistema. Richard Nixon in realtà propose un reddito annuo garantito. Negli anni '80, gli stati tentarono un gran numero di esperimenti per rendere il vecchio sistema più orientato al lavoro, e ci fu una modesta riforma federale in tale direzione nel 1988. Ma una politica davvero buona, oppure una politica radicalmente terribile, avrebbero richiesto un massiccio cambiamento della distribuzione del potere politico all'interno del Congresso. In termini di cambiamenti fondamentali ci fu, nel Congresso, un punto morto. Fino al 1994. Anche allora, il cambiamento radicalmente conservatore che si verificò poi nel 1996, non avrebbe avuto luogo se l'America non avesse avuto un Presidente che aveva sposato la retorica della Terza Via e non si fosse impegnato in una strategia di sopravvivenza politica personale ad ogni costo. Anzi, questa affermazione non è ancora abbastanza forte. Il Presidente venne consigliato da tre dei suoi consiglieri politici più anziani che porre il veto a quella legge lo avrebbe aiutato politicamente. Dunque, l'affermazione corretta non è "sopravvivenza politica personale ad ogni costo". È che egli era disposto a fare tutto ciò che poteva per evitare anche il minimo rischio che potesse essere sollevata qualsiasi questione che minacciasse la sua sopravvivenza politica.

Perché mi accaloro tanto su questa faccenda? Quella legge è davvero tanto cattiva? Dopo tutto, non è forse vero che più di cinque milioni di persone sono uscite dal programma del welfare da quando, nel 1993, venne raggiunto il picco di 14,3 milioni tra adulti e bambini, e più di tre milioni da quando è stata approvata la legge, nel 1996?

Sì, la legge è molto cattiva. Una vera riforma del welfare avrebbe dovuto garantire che la gente avrebbe ricevuto tutto l'aiuto necessario a trovare lavoro ed a mantenerlo, ed avrebbe fornito una buona rete di sicurezza sociale per i bambini. Questa legge ha letteralmente cancellato qualsiasi obbligo per gli stati di assistere chiunque, ed ha istituito il termine massimo di cinque anni di durata per l'assistenza federale alle famiglie, senza considerare il fatto che possa intervenire una recessione.

Pochi stati hanno messo in atto buone politiche, ma la maggior parte stanno invece attuando politiche estremamente punitive. Se non lo si guarda troppo da vicino, il quadro finora non sembra troppo negativo perché fortunatamente questo è un periodo di grande prosperità negli Stati Uniti. Anche così però, solo il 60% di coloro che escono dal welfare trovano un lavoro, nella migliore delle ipotesi. Ma la maggior parte degli altri è stata letteralmente buttata fuori dal programma per mezzo di politiche punitive che li bandiscono, ad esempio, a causa della loro incapacità a seguire le regole del lavoro, oppure per comportamenti erronei, come il non presentarsi ad un appuntamento all'ufficio responsabile del welfare. Non sappiamo assolutamente cosa sia accaduto a tutte queste persone. Tutto ciò, del resto, non è neppure adeguatamente pubblicizzato, con tutti politici impegnati a riscuotere i crediti per la grande riforma del welfare del 1996, e con tutta la gente totalmente immersa nello scandalo Clinton. Quando scadrà il limite di tempo, o interverrà una recessione, oppure si verificheranno entrambi questi eventi insieme, allora dovremo affrontare problemi davvero seri, a meno che la politica in questo settore non cambi.

 

Le occasioni che dovremo affrontare

Questo è quanto la Terza Via ha portato agli Stati Uniti. Questa è l'applicazione del significato di "fine dell'epoca dei diritti senza responsabilità" negli Stati Uniti. Ai poveri, invece dell'assistenza che erano abituati a ricevere, è stato messo in mano un adesivo per il paraurti: C'è scritto: "Trovati un lavoro". Ecco la Terza Via.

La Terza Via sta anche producendo seri attacchi al nostro sistema di previdenza sociale, sebbene io sospetti che essi diminuiranno, almeno in via transitoria, ora che il nostro mercato azionario sembra molto più simile alle montagne russe di un luna park che non ad un serio veicolo di investimenti. Sembra essere un articolo di fede della Terza Via il fatto che noi non possiamo avere un servizio sanitario nazionale, o che se lo avremo, lo avremo nella formula del cosiddetto "managed care" che sta facendo impazzire l'America. Se il problema del servizio sanitario nazionale con un solo soggetto che paga è che esso è troppo caro, mi chiedo come ciò possa andar d'accordo con il fatto che pochi giorni fa abbiamo chiuso il nostro anno fiscale con un'eccedenza di 70 miliardi di dollari.

La Terza Via ha anche prodotto una massiccia serie di reazioni negative nei confronti di coloro che immigrano nel nostro paese con regolare permesso, forti tagli nel settore abitativo e nei sussidi alimentari, oltre che in altri programmi destinati ai poveri. Come complemento dell'attacco contro i poveri stessi, si è verificato poi anche un attacco contro gli avvocati dei poveri, in modo da essere sicuri che essi, per rappresaglia, non intentino azioni legali. RFK e Camus deplorerebbero in particolare i tagli che abbiamo fatto negli aiuti per i bambini disabili.

Detto ciò, questa cosidetta riforma del welfare ha anche creato un'occasione. Personalmente non l'avrei auspicata di certo, ma l'occasione ora c'è, e si tratta di un'occasione che può essere accettata solo se le istituzioni civili della nostra società al livello delle comunità si mobiliteranno e parteciperanno. Continuo a credere, naturalmente, che dobbiamo avere una politica sociale nazionale, in modo da garantire una copertura sanitaria generalizzata ed una rete di sicurezza sociale ed incrementi ai redditi bassi, in modo da far sì che la gente che lavora non sia spinta verso la povertà. Abbiamo bisogno di una politica nazionale che fornisca fondi per promuovere la rivitalizzazione dei quartieri urbani degradati, l'istruzione dei bambini poveri, ed altre pressanti necessità.

Ma per ridurre la povertà nel modo giusto negli Stati Uniti, avremo bisogno di seri sforzi per aiutare la gente a trovare e mantenere il lavoro, e di un cambiamento sostanziale nel modo in cui forniamo l'istruzione ai bambini poveri. Questi due compiti, terribilmente complessi, potranno aver luogo solo ed esclusivamente se tutti coloro che detengono potere e responsabilità pubbliche in ogni comunità si rimboccheranno le maniche ed agiranno. Ciò significa il settore degli affari, il sindacato, i filantropi, le istituzioni religiose, le università, le organizzazioni nonprofit - in poche parole, tutti. La politica federale è importante e vitale, ma tutta la politica federale del mondo non farà cambiare l'equazione di una data comunità a meno che la società civile - di cui la Terza Via parla tanto - non prenda tale sforzo sulle proprie spalle.

La cosidetta legge di riforma del welfare del 1996 ha reso evidente tutta la miseria della politica anti-miseria degli Stati Uniti d'America. Se mai riusciremo ad avere una migliore politica contro la povertà, ce ne serve una che ponga l'accento sui problemi che uniscono la gente, e non su quelli che la dividono. Ciò di cui abbiamo bisogno è, in buona sostanza, una politica dell'economia. Più della metà degli americani ha perso terreno nella nostra economia negli ultimi 25 anni, mentre a quel 20% che si trova in cima alla scala sociale è andato molto bene, e l'1% che sta al primo posto di essa è addirittura saltato fuori dai grafici. Abbiamo bisogno di un genere di politica che parli di un salario di sopravvivenza (living wage) per tutti coloro che non lo hanno, e dunque non solo per i poveri, che promuova un'assistenza medica quanto più ampia possibile, assistenza all'infanzia, alloggi, senza dimenticare il bisogno di istruzione di così tanti milioni di persone; che inoltre promuova e condivida un interesse per l'ambiente, per la sicurezza sociale, per il finanziamento di campagne specifiche, e per molte altre questioni ancora. Non dobbiamo abbassare la guardia sulla lotta a tutte le discriminazioni, ma dobbiamo anche smussare gli spigoli della politica dell'identità ed accentuare quando possiamo gli interessi comuni dimenticati i quali, presi tutti insieme, potrebbero formare una nuova maggioranza.

Per quanto riguarda il problema della povertà, l'abdicazione della responsabilità federale che si è verificata spalanca le porte alla possibilità che entri in gioco una versione genuina della Terza Via. Non credo infatti che la versione buona della Terza Via rappresenti nulla di nuovo. L'America ha sempre avuto forti istituzioni civili nelle sue comunità. Qualsiasi sia stata la retorica della Terza Via sulla politica del passato, si tratta in realtà di un fuoco di paglia. Noi tutti, liberal o progressisti, o comunque vogliamo chiamarci, abbiamo lottato a lungo per trovare ed applicare il giusto equilibrio tra il governo e tutte le parti del settore privato, e tra la politica nazionale e l'iniziativa ed il controllo locali. Nella migliore delle ipotesi, la Terza Via è semplicemente un'intelligente repackaging del pensiero progressista.

Nella peggiore, invece, ciò che avviene è la cosiddetta riforma del welfare del 1996. Dati i pericoli reali insiti nella pratica politica della Terza Via, personalmente preferirei dire che la mia politica è credere nell'efficacia del mercato, purché temperato da norme precise, e credere anche nella giustizia sociale, economica e razziale, da raggiungersi attraverso una combinazione di sforzi pubblici e privati, di politiche nazionali e locali. Questa formula, se attuata davvero, non sarebbe un ritorno al passato, ma sarebbe al tempo stesso anche molto diversa da quella Terza Via che esiste realmente nella vita politica reale americana.

Credo che Robert Kennedy e il Camus della citazione approverebbero. Se perseguiamo sinceramente la politica che ho delineato, riusciremo davvero a diminuire il numero dei bambini che vengono torturati.

 

Precarietà e mercato del lavoro:
una critica a medio termine delle risposte politiche disponibili

di Claus Offe

Tutte le società, per potersi perpetuare in un modo che sia compatibile con una qualunque idea di "ordine sociale", devono risolvere a livello istituzionale due problemi essenziali. Primo, devono convogliare la forza lavoro umana verso funzioni redditizie ("produttive"), il che si ottiene collocando le "persone" nei "posti". Nell’insieme delle norme che regolano l’esecuzione di tale compito sono previste anche esenzioni selettive dall’aspettativa di svolgere attività economicamente remunerative: sono quelle che si applicano, nelle società moderne, ai giovanissimi, agli anziani, ai malati e a quanti godono di un patrimonio indipendente. Dal processo di collocare le persone nei posti conseguono i modelli dell’inclusione (qualunque sia il livello di disuguaglianza all’interno della società), della partecipazione, del riconoscimento, del rispetto di sé e della disciplina, nonché un progetto complessivo di divisione del lavoro. Tutto ciò consente alle persone di nutrire una serie di aspettative relativamente stabili, riguardo al posto a cui appartengono e alla condotta di lavoro e di vita più appropriata. Il secondo compito delle società è quello di fornire ai cittadini – in modi che restino altrettanto fedeli a una sorta di schema generale, ripetitivo e sempre uguale per tutti – i mezzi di sopravvivenza e di relativo benessere, in cambio delle redditizie funzioni da essi svolte (ora, oppure in fasi precedenti della loro esistenza) e come precondizione dell’intrapresa o della prosecuzione di tali attività. Tali mezzi comprendono il reddito (o la possibilità di disporre dei mezzi necessari al consumo di "beni") e protezione (o almeno parziale compensazione contro i rischi e l’incidenza dei "mali").

Questi due problemi, che chiameremo della produzione e della distribuzione, si possono risolvere, a livello istituzionale, in una miriade di modi diversi. Essi variano a seconda delle società e delle epoche storiche, e attraversano differenti settori istituzionali. Schiavi e servi, soldati e monaci, studenti e contadini, lavoratori e casalinghe, e moltissime altre categorie sociali, partecipano in qualche modo preordinato all’equivalente economico dei doveri specifici (produttivi) e dei diritti (distributivi) che insieme formano, a livello individuale, l’identità sociale e, a livello collettivo, l’ordine sociale. Non occorre qui ripetere che le modalità con cui gli individui sono "collocati" ad occupare posizioni particolari – da una parte all’interno della divisione del lavoro e del regime produttivo, e dall’altra nel regime distributivo – sono soggette a valutazioni normative, riguardanti la loro conformità alla nozione in quel momento dominante di "giustizia sociale".

Nelle società moderne, il principale schema istituzionale che governa sia le attività redditizie sia la quota spettante a ciascun individuo del complessivo ricavo derivante dall’attività produttiva, è il contratto di lavoro, che dev’essere sottoscritto volontariamente ciascuno degli individui protagonisti – dalla parte della domanda come da quello dell’offerta – del mercato del lavoro; esso implica, almeno a livello di possibilità, rapporti "contrattuali" unilateralmente determinati da uno dei protagonisti in questione. Il contratto di lavoro è dunque intrinsecamente contingente; esso stipula anche, di norma, una remunerazione monetizzata (e non "in natura"), nonché la presenza del lavoratore in una "impresa" (e non nella sua "abitazione"). Infine, i contratti di lavoro sono generalmente inseriti in – e controllati da – una serie di "diritti": i diritti del lavoratore, inalienabili e pertanto non soggetti alle contingenze contrattuali. Il contratto di lavoro è una componente istituzionale essenziale delle società moderne. Per quanto riguarda la maggior parte degli altri schemi "non contrattuali" di produzione e/o di riproduzione, come quelli relativi ai bambini, ai pensionati, a chi lavora in casa, ai malati, a chi vive di sussidi pubblici, essi si considerano normalmente preparatori, o subordinati o derivati, rispetto al meccanismo chiave del lavoro stipendiato; a meno che non rappresentino una delle condizioni del già menzionato esonero riconosciuto dall’aspettativa generale che impone a tutti di avere un impiego stipendiato o comunque di svolgere un’attività redditizia. Se gli individui sono tutti impegnati in un lavoro, si ritiene che si adempiano almeno alcune delle condizioni necessarie a realizzare valori quali la libertà, la prosperità, l’efficienza e la giustizia.

Ma la centralità del contratto di lavoro in quanto fondamento dell’ordine sociale inizia a mostrare segni di erosione. O piuttosto, continua ad essere considerata fondamentale senza che riesca più ad adempiere la propria funzione di pietra angolare nei meccanismi del collocamento e della distribuzione e – per implicita conseguenza – dell’ordine sociale.

Il "problema della disoccupazione" viene subito in mente come la dimostrazione più ovvia di questo venir meno del lavoro contrattuale alle proprie funzioni-chiave a livello istituzionale. Ma una disoccupazione contenuta è un fattore fuorviante, ed eccessivamente eufemistico, in quanto sottovaluta sistematicamente le dimensioni di tale fallimento istituzionale. La "disoccupazione" è come minimo un’unità di misura incompleta, se si vuole stabilire la reale misura in cui gli schemi istituzionali del contratto di lavoro e del mercato del lavoro non riescono più nel loro obiettivo. Questo fallimento istituzionale assume diverse forme, alcune delle quali visibili, altre molto meno evidenti. Allo scopo di afferrare concettualmente l’intera gamma dei fenomeni rilevanti, si sarebbe tentati di affidarsi a spaventosi neologismi concettuali, quali "precarietà della situazione sociale" e "precarietà della sussistenza": dove il termine "precarietà" evoca, in entrambi i casi, la connotazione dell’instabilità e di una perniciosa imprevedibilità, oltre che la mancanza di riconoscimento e di prestigio sociale associata a una simile situazione. In altri termini, il contratto di lavoro non riesce né ad assegnare un "posto" nella società a un numero sempre maggiore di persone, né a garantire loro reddito e protezione adeguati.

Cominciamo dalla precarietà della situazione. Il "gap occupazionale" colpisce una grande varietà di persone. Tra esse, oltre a quanti sono ufficialmente registrati e contati come "disoccupati", ci sono tutti i lavoratori "scoraggiati", quelli che lavorano part-time mentre vorrebbero e potrebbero essere occupati a tempo pieno; ci sono poi i lavoratori che accettano, più o meno volontariamente, un pensionamento precoce o che si impegnano, per motivi altrettanto ambigui, in varie forme di apprendistato e di formazione professionale. I finti lavoratori autonomi e gli assunti con contratti a termine, sono altri casi da tenere in considerazione, così come le forme di occupazione vigenti nei mercati del lavoro irregolari o illegali.

Veniamo ora alla precarietà della sussistenza. È importante osservare come non esista un rapporto diretto e reciproco con le categorie citate in precedenza. Si può essere involontariamente "senza lavoro" e godere ugualmente di un livello dignitoso di reddito e di protezione (grazie, ad esempio, al sostegno della famiglia o ad accordi di assistenza e previdenza sociale); e, quel che più conta nel presente contesto, si può al contrario essere pienamente integrati in una qualche forma di processo produttivo senza godere di un livello di sussistenza e di protezione che si possa considerare adeguato in base ai criteri dominanti della giustizia sociale. È il fenomeno dei "lavoratori poveri" degli Stati Uniti o, in Europa, dei lavoratori "non protetti", il cui reddito resta ben al di sotto del livello che consentirebbe loro l’accesso a quei benefici della previdenza sociale ottenibili solo dietro la corresponsione dei contributi obbligatori. Questa duplice precarietà, e l’inadeguatezza dei paradigmi del contratto di lavoro e del lavoro per tutti che non riescono più a rappresentare le pietre miliari dell’ordine sociale, sono i problemi cui faremo riferimento nel presente articolo. Occorre quindi stabilire le possibili spiegazioni di questo fenomeno (1), le sue conseguenze, almeno nelle loro linee principali (2), e la scelta delle risposte e delle proposte politiche, analizzate e valutate in termini di giustizia sociale e di efficacia (3). Un tentativo di proposta politica, insieme alla descrizione del futuro scenario di condizioni economiche, conflitto sociale e configurazione di forze politiche, concluderà la trattazione.

1. Interpretazioni causali e rimedi associati.

Le spiegazioni degli attuali livelli elevati e persistenti di precarietà portano a evidenziare una sconcertante varietà di fattori causali. Essi possono essere, tra l’altro, di natura tecnologica, micro-economica, macro-economica, politica e socio-culturale.

Le spiegazioni tecnologiche della disoccupazione e della sotto-occupazione puntano sulla disparità, sperimentata dalle economie tipiche dell’Ocse, tra il tasso di crescita della produttività, quanto meno nel settore manifatturiero, e il tasso di crescita della redditività economica. Quando il lavoro diviene più produttivo, e ad esso non corrisponde una crescita sufficientemente rapida di redditività complessiva, il risultato è un vasto sotto-utilizzo delle risorse di forza lavoro disponibili. Allo stesso tempo, le possibilità di ridurre la disoccupazione, a un livello considerato in qualche modo "normale", solo attraverso l’accelerazione della crescita economica, vanno considerate evidentemente irrealistiche: sarebbe necessario infatti un (già ambizioso) tasso di crescita del 2,5 per cento solo per impedire un ulteriore incremento del tasso di disoccupazione ufficiale. Lo stesso verdetto, totale mancanza di realismo, colpisce l’altro termine del rapporto crescita-produttività. Se la crescita non può essere accelerata attraverso strumenti politici, è possibile rallentare la produttività del lavoro? La risposta è semplicemente "no". Perché una strategia che respingesse la possibilità di incrementare la produttività, verrebbe immediatamente punita dalla competizione internazionale. L’amara verità è infatti che la disoccupazione è il risultato del comportamento, indotto dal mercato, tanto dei vincitori come dei vinti nel gioco della concorrenza: la diminuzione dell’occupazione, attraverso l’introduzione di tecnologie che consentono di risparmiare mano d’opera, è il prerequisito della sopravvivenza competitiva almeno nella stessa misura in cui è la conseguenza di un fallimento competitivo.

Per inquadrare in modo diverso la medesima idea di "produttività contro crescita", potremmo anche prendere in considerazione l’ipotesi di un controllo delle innovazioni tecnologiche, in modo tale da favorire quelle che riguardano i prodotti e scoraggiare quelle che potenziano il processo produttivo, per quanto la linea di demarcazione tra le due cose in realtà sia spesso estremamente labile (come illustra benissimo il caso del personal computer). Messa in questi termini la questione, ne consegue inevitabilmente un altro interrogativo, su quali generi e quali quantità di nuovi prodotti potrebbero presumibilmente incontrare l’effettiva richiesta del consumatore (e allo stesso tempo provocare un incremento rilevante di richiesta di forza-lavoro) nelle ricche economie dell’Ocse. In passato, le forti crescite occupazionali sono state scatenate dall’immissione sul mercato di ondate di prodotti nuovi e dalla loro diffusione di massa (l’esempio più significativo è quello dell’automobile e del regime produttivo "fordista" ad essa associato); oppure dall’incremento vertiginoso nella produzione di armamenti in vista di una guerra (la Germania nazista) o ancora dalle necessità di ricostruzione nei periodi del dopoguerra (la Germania Occidentale). Ora, quale genere di nuovi beni di consumo, tali da prevedere un massiccio assorbimento di forza lavoro, è possibile immaginare oggi? Una risposta ovvia non esiste, a meno di essere disposti ad immaginarla non in termini di beni destinati ad essere immessi sul mercato, ma di beni che contino sul "consumo forzato" (prodotti destinati alla difesa, costruzione di strade e vie di comunicazione, strumenti per il controllo dell’inquinamento dell’acqua e dell’aria) e siano a carico del bilancio statale. Se proprio dobbiamo pensare a prodotti commerciabili, e se ragioniamo un attimo su quale sorta di oggetti la gente sarebbe disposta ad acquistare in quantità considerevoli, la risposta sarà probabilmente: gli stessi che già conosciamo (per esempio le automobili), ma con un’aspettativa di vita più lunga o una maggior resistenza all’uso. Ma se questa è la risposta, essa rappresenta una pessima notizia per il nostro contesto (nonostante le sue innegabili attrattive in termini di valori politici "verdi"). A lungo termine infatti, essa farebbe diminuire, anziché aumentare, la richiesta di nuovi beni, perché l’obsolescenza tecnica e la necessità di sostituzione si manifesterebbe meno spesso in una stessa unità di tempo.

Il risultato di questo genere di argomentazione tecnologica è, per solito, che rimane di fatto un solo genere di beni per i quali si dà una domanda virtualmente illimitata e un limitatissimo potenziale di innovazione produttiva in grado di ridurre la forza lavoro: si tratta dei servizi. Ma a questa visione di una società post-industriale di servizi, e malgrado gli innegabili "bisogni" sociali cui i servizi possono rispondere, si associano tre generi di "cattive notizie" economiche. Primo: molte attività legate ai servizi (come la progettazione e la contabilità) sono direttamente legate alla produzione; pertanto, un calo anche relativo nel tasso di crescita produttiva finisce per incidere anche sulla domanda di tali servizi. Secondo: il prezzo che si richiede per la fornitura dei servizi (per esempio quelli di natura medica o comunque personale) riflette direttamente il fatto che chi li fornisce può contare su un inferiore incremento di efficienza tecnica; e un aumento dei prezzi superiore alla media, limita l’effettiva richiesta di tali servizi. Il tasso di crescita dei prezzi del terziario supera quello del settore secondario, con o senza l’impatto addizionale della sindacalizzazione del primo (soprattutto nel settore dei servizi pubblici). D’altra parte, l’incremento di produttività, anche nel settore dei servizi, non si può e non si deve assolutamente escludere – come rivela uno sguardo alla rivoluzione tecnologica nel settore dei servizi bancari. Terzo: è risaputo che la domanda nei confronti della maggior parte dei servizi è direttamente legata al livello dei prezzi, il che implica che le prestazioni a pagamento tendono ad essere sostituite dal fai-da-te gratuito, per iniziativa dei fornitori o dei consumatori. Secondo diverse previsioni, ad esserne investita quanto prima e con maggiore rapidità sarà una delle maggiori industrie di servizio – quella del commercio al dettaglio, che sarà in larga parte sostituito dallo shopping elettronico e dalle macchine per la distribuzione automatica. Queste considerazioni si aggiungono all’affermazione secondo cui non basta immaginare l’emergere di una "società di servizi" per poter tornare all’epoca del "lavorare tutti"; si può prevedere un’eccezione a questa regola – nel settore dei servizi personali – ma solo se tali servizi potranno essere forniti a prezzi significativamente più bassi. Nelle condizioni attuali, in ogni caso, un aumento di personale tra gli addetti ai servizi pubblici (e ai servizi direttamente legati alla produzione) è da escludere come possibilità realistica: la richiesta di sempre nuovi tagli al bilancio, conseguenza delle crisi fiscali, e l’andamento della pubblica amministrazione esigono una gestione "più snella" e a dominare la scena è piuttosto la privatizzazione delle imprese che forniscono servizi pubblici.

Veniamo ora alle spiegazioni economiche. La disoccupazione (e più genericamente la precarietà di situazione), si ha quando ci sono più persone in cerca di lavoro che lavori in grado di trovare le persone. Questo squilibrio si può interpretare da due punti di vista: o la "domanda", cioè la richiesta di lavoratori, è troppo "bassa", o "l’offerta", cioè il numero di lavoratori disponibili, è troppo "ampia". La maggior parte degli esperti di economia e di politiche sociali optano intuitivamente e quasi automaticamente per la prima spiegazione. Nella nostra era post-keynesiana – in cui si ritiene in genere che i programmi nazionali per l’occupazione che si concentrano sulla "domanda" facciano più male che bene – la conclusione che di solito se ne trae è che il costo del lavoro (ovvero dei salari sommati ai contributi da versare per la sicurezza sociale dei lavoratori più i benefici non monetizzati e le provvigioni) dovrebbe essere ridotto, o affiancato da incentivi maggiori per quei datori di lavoro che creano nuovi posti di lavoro (purché occupati dai cittadini di quella nazione), quale che sia l’effetto che tutto ciò potrebbe sortire sui redditi dei lavoratori.

Quanto alla riduzione del costo complessivo dell’occupazione, le teorie prevalenti in merito alla "offerta" procedono dalla consueta e mai verificata affermazione, secondo cui un lavoro "più a buon mercato" produrrebbe automaticamente più richiesta e quindi più posti di lavoro. Il costo di un’assunzione, si sostiene, dovrebbe avvicinarsi al cosiddetto "salario di equilibrio", che consentirebbe di assorbire tutta intera l’attuale offerta di forza lavoro e pertanto di azzerare il mercato. Quel che i sostenitori di questa linea di pensiero dimenticano di considerare, tuttavia, è il fatto che, in qualsiasi economia avanzata, i "salari di equilibrio" sono in realtà due, e tali che si discostano nettamente uno dall’altro. Il primo, quello che azzera il mercato del lavoro, è significativamente diverso da quello che dovrebbe consentire di azzerare il mercato di beni e servizi. Ma se questo non accade, e l’offerta di beni e servizi immessa sul mercato non viene assorbita, non sarà possibile nemmeno assorbire l’altro mercato, quello del lavoro. Se infatti i beni prodotti non possono essere immessi (e assorbiti) sul mercato, saremo necessariamente condotti a una minor richiesta di forza lavoro. Esiste per di più una reazione "perversa" dell’offerta, che è un fenomeno comune nel mercato del lavoro: con il diminuire dei salari, l’offerta di forza lavoro – intesa come numero di persone in cerca d’impiego o come numero di ore per il quale cercano impiego – non scende assolutamente (grazie al cosiddetto "effetto lavoratori aggiunti"), ma al contrario cresce (almeno fino al quel punto nel tempo quando si instaura "l’effetto lavoratori scoraggiati"): esattamente il contrario di quel che osserviamo nel mercato delle banane. Dopo tutto, espanendo la loro offerta di forza lavoro, le famiglie cercano di raggiungere o mantenere quel che considerano il loro "adeguato" livello di consumo. Di conseguenza, abbassare il costo del lavoro non porta ad assorbire una "offerta" fissa, ma in costante aumento. Tutto ciò sia detto solo per sottolineare la duplice natura dei salari. I salari non rappresentano unicamente un costo produttivo per le imprese: essi costituiscono anche e soprattutto il reddito – o, se si vuole, il potenziale di consumo – delle famiglie dei lavoratori. Quando gli economisti puntano la loro attenzione unicamente su una o sull’altra di queste due funzioni del salario, finiscono per cadere in quella controversia piuttosto squallida che vede schierati i teorici della "destra liberale", invocanti la riduzione dei costi del lavoro, contro le ricette della "sinistra keynesiana", in difesa del mantenimento o dell’incremento dei salari reali. Entrambi, in nome del conseguimento o della riconquista della "piena occupazione per tutti". È certo che, dalla fine degli anni settanta, le dottrine economiche incentrate sull’offerta hanno prevalso ovunque in Europa occidentale, negli Stati Uniti e in Giappone. Le ricette keynesiane, soprattutto quelle che puntavano tutto sulla creazione e la ridistribuzione di nuovi posti di lavoro, hanno perso praticamente tutta la rispettabilità, culturale e pratica, di cui godevano un tempo. Ciò è accaduto per cinque, ben note, ragioni: (1) La globalizzazione dei rapporti economici e il sistema della fluttuazione dei tassi di cambio hanno vanificato ogni tentativo di mantenere il controllo sulle economie nazionali attraverso gli strumenti keynesiani della gestione della domanda. (2) Per di più, e proprio in ragione della sua natura, tale gestione della domanda si dimostra efficace unicamente quando si realizza "in modo inaspettato". Al contrario, quando diviene una pratica governativa di routine, che può essere anticipata da agenti ragionevoli, si limita a concedere sussidi agli investitori e non si trasforma in un aumento dell’occupazione. Oltretutto (3) l’inflazione, (4) l’aumento del debito nazionale e (5) il sovraffollamento degli investimenti nel settore privato, conseguenza del debito, sono tutti elementi che si ritiene abbiano portato alla disfatta politica e culturale delle teorie keynesiane.

L’uso inflazionato del termine "globalizzazione" come spiegazione razionale dell’attuale situazione, dovrebbe essere frazionato in almeno tre livelli.

 

Primo: l’integrazione economica dell’Europa occidentale non soltanto porta a una intensificazione della competitività sui mercati dei beni e del lavoro, ma anche a una perdita di sovranità nel campo delle politiche sociali ed economiche. Questa perdita tende a fornire ai politologi una scusa abbastanza ineccepibile per la loro mancanza di iniziativa, almeno per quel che concerne le politiche occupazionali. La questione "che cosa dovremmo fare?" diviene in larga misura irrilevante, semplicemente perché nessuna delle nazioni coinvolte può agire da sola, e anche perché finora nessun "patto politico" occupazionale transnazionale ha portato alcun frutto. Resta da vedere se quel che i paesi membri dell’Unione Europea (UE) non possono più fare da soli, si possa attuare attraverso politiche e istituzioni integrate, transnazionali, a livello europeo. E per quanto riguarda le politiche occupazionali, è difficile individuare i segnali promettenti di una determinazione ad adottarle e realizzarle; per non parlare poi dell’efficacia delle politiche stesse. Mentre, per quanto riguarda le politiche economiche, non ci si può stupire della situazione, almento all’interno della UE. In considerazione dell’impegno dei governi UE in vista del Mercato Unico e dei criteri di Maastricht che ne regolano l’accesso, è semplicemente impossibile concepire una qualche priorità che possa appesantire ulteriormente i bilanci statali con iniziative per favorire l’occupazione, tanto meno nel settore pubblico. E data la fine del socialismo di stato nell’Europa centro-orientale, e la totale perdita di ogni fascino precedentemente esercitato sugli occidentali, i governi non sono più sfidati a rivaleggiare con l’unico "successo" del socialismo di stato – posti di lavoro stabili e garantiti per tutti – nella speranza di immunizzare le classi lavoratrici dalla presunta e sospetta inclinazione a "passare dall’altra parte". Le politiche per favorire l’occupazione, così come le generose forme di previdenza e sicurezza sociale, introdotte in una situazione di guerra fredda, possono essere in parte interpretate come un "salario di affidabilità politica", inteso a contenere le defezioni ideologiche di parte della classe lavoratrice. In ogni caso per l’Occidente, rispetto all’epoca della guerra fredda, oggi è molto meno imperativo mantenere una piena occupazione per tutti – e, attraverso di essa, generosi benefici sociali, equità distributiva, armoniose relazioni industriali e stabilità politica – al solo scopo di tenere a bada le blandizie ideologiche dell’ "altra parte" e dei suoi leader comunisti.

 

Secondo: la produttività delle economie dell’Est asiatico non sta soltanto distruggendo sistematicamente il vantaggio competitivo di quelle occidentali, un tempo frutto delle loro infrastrutture e di tecnologie più avanzate, ma sta anche rendendo sempre più evidenti alcuni svantaggi concorrenziali in termini di locazione -almeno all’interno della Repubblica Federale Tedesca.

 

Terzo: dalla fine della guerra fredda, non sono soltanto le nazioni oltre la cortina di ferro, ma anche i paesi capitalisti dell’Europa occidentale a essere diventati post-comunisti. E questi ultimi si devono adeguare all’immediata vicinanza di sistemi economici in cui l’addestramento e la formazione della forza lavoro possono raggiungere, se non addirittura superare, i livelli a cui sono abituati, ma in cui il costo del lavoro, almeno per il momento, ammonta ad appena un settimo del loro (è il caso della Repubblica Ceca). Questo elenco potrebbe allungarsi fino a comprendere il peculiare problema tedesco dei passaggi da Ovest a Est, in gran parte legati ai consumi, nonché il fatto, piuttosto spinoso, che oggi molte delle regioni industriali sul cui territorio operano grosse aziende impegnate nel ramo della difesa si trovano a dover affrontare un "dividendo di pace" inequivocabilmente negativo.

Nel complesso, questa globalizzazione post-comunista si traduce in elevati livelli di disoccupazione all’interno dell’Unione Europea. Politiche occupazionali di una certa efficacia nelle singole nazioni o regioni sono intraprese soltanto al prezzo di una crescente disoccupazione altrove.

È difficile vedere in che modo si possa rispondere alla "globalizzazione" (in una qualunque delle sue tre versioni, con il loro impatto profondamente diverso caso per caso) attraverso politiche che siano almeno ragionevolmente promettenti. Nessuna discussione né proposta politica – che nasca dalla preoccupazione per l’interesse nazionale oppure in nome di una giustizia globale – può sperare con qualche fondamento di impedire ai paesi dell’Est, asiatico o europeo, di rifornire i mercati dell’Ocse con i loro prodotti industriali (compresi quelli a tecnologia avanzata); anche perché sono in grado di fornirli a prezzi altamente competitivi (il che comporta implicazioni piuttosto gradite, almeno in parte, a chi esporta capitali da investire nelle nazioni fuori dall’Ocse). Gli esperti di politiche economiche hanno imparato che il protezionismo può essere, ed è, punito dal mercato globale. E non esiste nemmeno una ragione moralmente plausibile per cui le vecchie nazioni industrializzate dovrebbero poter togliere la scala da sotto i piedi degli stati emergenti, bloccando – attraverso misure protezionistiche – i loro sforzi di industrializzazione, nell’Est o nel Sud asiatico, in America Latina o nei paesi dell’Est Europa. Diverso è chiedersi se sia giusto consentire che tali vantaggi concorrenziali siano frutto di palesi violazioni dei diritti dei lavoratori, degli standard ambientali e spesso anche dei diritti umani (com’è il caso del lavoro infantile). Allo stesso tempo, i politici occidentali possono imparare dal loro passato che il rispetto di quei diritti e di quelle preoccupazioni è in realtà frutto di un’industrializzazione coronata da successo, e pertanto si potrebbe consentire (e anzi favorire, attraverso appropriati incentivi politici) che lo stesso cammino sia seguito anche altrove.

Per quanto riguarda le politiche economiche, occorre ancora rilevare che mentre "tutti noi" siamo in qualche modo influenzati negativamente dalle due forme di precarietà del mercato del lavoro, "nessuno di noi" (o almeno i principali protagonisti collettivi che ci rappresentano), per ragioni istituzionali, ha un evidente interesse prioritario a recuperare una situazione di piena occupazione (e a sostenere i costi potenzialmente proibitivi che tale recupero comporterebbe). Come hanno fatto osservare i teorici del salario legato all’efficienza, i datori di lavoro – con un’incongruità che è solo apparente – hanno un ragionevole interesse a fissare i salari a livelli superiori al cosiddetto "salario d’equilibrio" – quello che consentirebbe di assorbire il mercato del lavoro. Tali salari "eccedenti" consentono infatti di economizzare sui costi di transazione comportati da alti livelli di mobilità e di fluttuazione nel mercato del lavoro. Inoltre i sindacati, se vogliono conservare la loro stabilità organizzativa, devono preoccuparsi piuttosto di difendere i salari esistenti, e sono costretti a privilegiare tale obiettivo ben al di sopra di quello occupazionale. Dal punto di vista sindacale, disoccupati, sottoccupati e quanti lavorano in settori non protetti soffrono, come è noto, di un grave handicap quando si tratta di accedere a forme di azione collettiva – e quindi di accedere alle risorse, politiche oltre che economiche, che tale azione collettiva organizzata rende disponibili. In questo contesto, non ha alcuna importanza che uno dei limiti istituzionali del mercato del lavoro risieda nel fatto che in esso sono coinvolti tre interessi dei lavoratori (salari, condizioni di lavoro, qualità e sicurezza del posto di lavoro) ma che soltanto i primi due possono essere oggetto di negoziati; mentre le associazioni che difendono gli interessi dei datori di lavoro non possono assolutamente sottoscrivere (senza correre il rischio di una defezione di massa dei loro membri) contratti collettivi, a livello settoriale o locale, che li vincolassero quanto al numero di lavoratori da assumere, per esempio, nel corso del prossimo anno.

Rimane da illustrare un ultimo gruppo di interpretazioni causali, che si aggiunge ai fattori tecnologici, economici, politici e istituzionali. Esso riguarda i prerequisiti culturali e morali del mercato del lavoro, inteso come componente essenziale dell’ordine sociale. Per dirla in modo brutale, il problema è che la precarietà (in entrambe le sue forme) deriva dal degrado delle infrastrutture motivazionali e cognitive dei lavoratori nelle società occidentali: una malattia morale imputata talvolta all’effetto demoralizzante di accordi eccessivamente generosi sul piano dei benefici sociali. Il declino dell’ "etica del lavoro" è giudicato spesso il problema chiave, quando si dice che i lavoratori "pretendono troppo" (in termini di reddito, di sicurezza e di tempo libero), mentre contribuisono "troppo poco" (in termini di impegno sul lavoro, di sopportazione, di capacità di apprendistato, di comportamento leale e rispettoso delle leggi e delle norme, nonché in termini di adeguamento alle necessità imposte dalla flessibilità).

Ma né il contenuto reale né le implicazioni politiche di questa serie di argomentazioni sono evidenti. È vero che il capitalismo industriale nutre – e in un certo senso, ci campa sopra – un consumismo edonistico e un diffuso tradimento delle presunte virtù del lavoratore di epoca vittoriana. Ma si può anche dedurne che le manchevolezze nel potenziamento delle risorse umane possono derivare da inadeguatezze degli stanziamenti per le scuole e per la formazione professionale, oltre che dalla natura sempre più esigente di molti impieghi, per i quali si impongono requisiti cui non si può pretendere che chiunque sappia corrispondere in modo adeguato. Il problema, in molte forme standardizzate di formazione permanente pubblica e privata e di aggiornamento professionale, è che spesso questi strumenti raggiungono solo quanti già hanno acquisito un livello abbastanza avanzato, mentre trascurano (o comunque non riescono a inserire adeguatamente nel mondo del lavoro) quelli che più avrebbero bisogno di aggiornare le proprie capacità e competenze. Non bisogna nemmeno sottovalutare il fattore dello scoraggiamento, del disorientamento, della frustrazione e del cinismo. Fattore causato – non causale – dalla percezione e dall’anticipazione di una delle due forme di precarietà, e che comprensibilmente potrebbe andarsi ad aggiungere ai sintomi di quel presunto degrato motivazionale e cognitivo. Per di più, le implicazioni politiche di questo genere di diagnosi sono tutt’altro che ovvie – a parte l’abolizione di strumenti istituzionali di previdenza e di protezione sociale, nonché l’aggiornamento delle capacità e delle competenze professionali attraverso investimenti in termini di risorse umane (vedi sopra).

Un’altra spiegazione sociale e culturale della precarietà del mercato del lavoro riguarda il declino di una forma di vita che dev’essere considerata, a parte il contratto di lavoro, un altro meccanismo fondamentale tramite cui le persone vengono collocate o inserite nella vita sociale: il nucleo familiare. Ciò implica una crescita complessiva, che varia radicalmente col variare dei paesi interessati, della partecipazione femminile al mercato del lavoro e della durata di tale partecipazione nel corso della vita delle donne. Poiché, in molti paesi europei, la media della popolazione si sposa più tardi o (sempre più spesso) non si sposa affatto, ha sempre meno figli e i matrimoni durano meno, nel settore dell’offerta del mercato del lavoro ha fatto la sua comparsa un serbatoio in continuo aumento di una forza lavoro femminile che un tempo era invece relegata nell’abitazione familiare e assorbita da un lavoro non gestito dal mercato. L’indebolimento della struttura familiare, e del sostegno sociale che la famiglia è in grado di fornire, può essere letto non tanto come un sintomo di "individualizzazione" ma, insieme, come la causa di un’addizionale offerta di lavoro da parte delle donne e e come la risposta alla percezione della precarietà del posto di lavoro, del reddito e della protezione sociale. La parità fra i sessi e l’accesso consentito alle donne come agli uomini all’istruzione superiore e al mercato del lavoro sono divenuti, in parte grazie alla mobilitazione politica e culturale del femminismo, un dato acquisito sul piano morale come su quello politico (anche se certo non una realtà socioeconomica), proclamato da quasi tutte le principali forze politiche (con l’eccezione dell’estrema destra). Di conseguenza, le politiche discriminatorie volte a escludere almeno in parte l’offerta di lavoro femminile dal mercato devono essere considerate moralmente e politicamente obsolete, specie nel momento in cui la precarietà della situazione e della sussistenza rendono un numero sempre maggiore di famiglie dipendenti dal fatto di riuscire a inserire sul mercato più di una "unità" di forza lavoro .

Per riassumere, si può immaginare un universo limitato di strategie concepibili in grado di portare a una "piena" (o quanto meno a una "maggiore") occupazione; e la maggior parte di esse appare decisamente preclusa dalle condizioni oggi dominanti o prevedibili. In primo luogo è praticamente impossibile attuare, nelle odierne economie aperte esposte alla globalizzazione, una politica di crescita, relativamente al mercato del lavoro, che operi sul settore della domanda; e se anche fosse possibile, i suoi risultati in termini occupazionali rimangono estremanete incerti e in ogni caso sicuramente limitati. Secondo, si potrebbe intervenire, come propongono i neo-liberal, sul settore dell’offerta. Ciò significa incrementare le attrattive della forza lavoro agli occhi delle imprese, migliorando quelle caratteristiche della forza lavoro che gli imprenditori apprezzano maggiormente. I lavoratori preferiti sono quelli a buon mercato (in termini di salari e di contributi sociali), specializzati (in termini di competenza tecnica e di atteggiamento e comportamento sul lavoro) e flessibili (soggettivamente disposti ad adeguarsi ai cambiamenti nei salari, nelle capacità richieste, nell’orario di lavoro, nel luogo in cui si lavora, oltre ad essere oggettivamente liberi da uno schema troppo "rigido" di diritti e di norme che regolano il rapporto contrattuale di lavoro). Perseguendo questa strategia, tuttavia, è probabile che si vada incontro a serie limitazioni politiche, oltre che a conseguenze fortemente negative sulla coesione sociale. Il fenomeno della nascita di una nuova "sottoclasse" e quello dei "lavoratori poveri" sarebbero gli indicatori più ovvi di tali conseguenze. Ci sono poi, ed è il terzo punto, le politiche negative relativamente all’offerta, che cercano di limitare l’accesso al mercato occupazionale. Le varianti più tradizionali di questa opzione prevedono di tenere le donne all’interno della famiglia, mandare a casa loro gli stranieri, estendere il periodo di formazione per i giovani lavoratori e promuovere il prepensionamento per quelli più anziani. Le prime due varianti si scontrano con obiezioni politiche e morali, nonché con un gran numero di ostacoli istituzionali; le ultime due con ostacoli economici parimenti proibitivi, in particolare per quanto riguarda le spese per l’istruzione e quelle pensionistiche. La riduzione dell’orario di lavoro è un’opzione strategica meno contrastata, ma anch’essa si scontra con ostacoli quasi insormontabili, che illustreremo in seguito. Da tutte queste considerazioni, non si può che trarre la conclusione (esposta nella terza sezione) che è necessaria una nuova generazione di strategie per inibire l’offerta di lavoratori; non solo necessaria, ma auspicabile e fattibile, intesa a creare un diritto economico dei cittadini, sufficientemente attraente da consentire loro di scegliere di rimanere privi di un posto di lavoro formale per limitati periodi di tempo.

 

2. Conseguenze sociopolitiche della precarietà.

Per quanto riguarda l’impatto della disoccupazione sulle persone che non riescono a trovare – e a mantenere – un posto di lavoro stabile, molto dipende dalla durata del periodo di disoccupazione, nonché dall’importo e dalla durata dei sussidi e dei servizi agevolati a cui possono accedere. Un caso a parte è quello, molto trascurato dalle statistiche sul mercato del lavoro, della disoccupazione giovanile – altrimenti definibile, grosso modo, come la condizione di chi non ha un lavoro senza averlo mai avuto prima, o quanto meno senza aver mai lavorato in modo regolare e contrattualizzato. Le conseguenze di quest’esperienza di precariato sono ben note, e non occorre qui soffermarsi su di esse. Esse comprendono un’assenza di quella autonomia derivata dalla "normale" partecipazione al mondo del lavoro e del consumo. Così l’isolamento sociale, la perdita di prestigio sociale e di stima di sé, i sensi di colpa, la graduale erosione di una condotta di vita disciplinata e organizzata, un impatto negativo sulla salute fisica e mentale e la perdita graduale della capacità di trovare un lavoro qualunque, sono tutte conseguenze ben documentate della precarietà. E questa è l’esito del fatto che la forza lavoro (specializzata) è in se stessa un "bene deperibile", che può svanire rapidamente quando non viene utilizzato. Bisogna poi aggiungere che una sorta di "incantesimo maligno" sembra aleggiare sulle persone vittime di lunghi periodi di disoccupazione, e tale alone spesso stigmatizza la persona che ne è colpita, per una sorta di regola secondo cui "l’ultimo arrivato è il primo che se ne va". Anche le forme di assunzione illegali o irregolari, nonché il ricorso a sistemi criminali per risolvere il problema del reddito (compreso quello derivato dalla vendita di droga) sono notoriamente implicazioni statistiche di una disoccupazione prolungata.

Altrettanto significative sono le dirette conseguenze di una situazione generale di disoccupazione diffusa e prolungata su quei lavoratori che sono (ancora) occupati. La loro preparazione ad adeguarsi alle richieste aziendali in termini di mobilità, flessibilità e ore di lavoro straordinario, la loro disponibilità ad affrontare restrizioni salariali, a livello personale o collettivo, e la decisione di astenersi da atteggiamenti conflittuali per ciò che riguarda la retribuzione e le condizioni di lavoro, sono tutti fattori condizionati dalla percezione della sicurezza del posto di lavoro o dalla minaccia di licenziamento.

A livello istituzionale, le conseguenze della disoccupazione e della precarietà del reddito sui sistemi di sicurezza sociale e di welfare sono altrettanto conosciute, almeno nel continente europeo. Che gli stanziamenti per la sicurezza sociale (in tutti i suoi settori, dall’età avanzata alla salute, dalla disoccupazione fino, come accade in alcuni paesi, all’assistenza a lungo termine) siano o meno strettamente legate ai contributi (anziché finanziate tramite prelievo fiscale), come accade in Germania, il fallimento del mercato del lavoro nel "collocare" i cittadini e nel provvedere al loro reddito e alla loro protezione economica è causa di una crescente pressione fiscale sui sistemi previdenziali. Lo scenario da incubo che tormenta i politici è quello del circolo vizioso: per poter onorare le rivendicazioni, previste dalla legge, dei disoccupati e di quanti percepiscono una qualche forma di assistenza sociale, è necessario elevare (o almeno mantenere ai livelli attuali) l’entità dei contributi (e anche delle tasse), che sono poi quelli che fanno salire il costo del lavoro (che è cosa distinta dai costi della retribuzione). Ma questi livelli di costo del lavoro, il continuo ricorso a segmenti di forza lavoro diviene non competitivo, e le imprese non possono più permetterselo. Di conseguenza, la disoccupazione genera ulteriore disoccupazione, anche a causa di una situazione demografica estremamente sfavorevole e della limitata possibilità, sul piano politico, di intervenire riducendo in modo drastico e improvviso il diritto legale – da parte di chi è afflitto da problemi di precarietà di impiego e di reddito – ad accedere a sussidi e servizi di previdenza sociale.

Questi limiti, tuttavia, non precludono un ridimensionamento e la parziale ricostruzione (Umbau) dell’intera struttura di Welfare State, che si sta avviando nella maggior parte dei paesi dell’Unione Europea così come in altri paesi Ocse, dagli Stati Uniti alla Nuova Zelanda. I vari tipi di stato sociale attualmente in vigore in questi paesi sono stati costruiti storicamente a partire da quattro elementi principali, la cui composizione risale addirittura alla fase iniziale dell’industrializzazione (nonché della progressiva "mercatizzazione" del lavoro), cioè al XIX secolo. Le forze propulsive di questa sequenza di elementi furono il conflitto di classe politicizzato (spesso percepito dalla classe dominante, ma anche dai suoi protagonisti, come potenzialmente "rivoluzionario") e il conflitto internazionale all’interno del moderno sistema degli stati sovrani: insieme, questi due fattori hanno scatenato gli sviluppi del futuro stato sociale; le circostanze della guerra e del dopoguerra hanno poi agito da catalizzatori per far compiere un balzo in avanti al suo rinnovamento istituzionale. Primo, i lavoratori dovevano essere protetti, sul luogo di lavoro, attraverso regolamenti stabiliti per contratto e riguardanti il tempo di lavoro e altre condizioni. Secondo, i lavoratori dovevano essere protetti anche fuori dal luogo di lavoro, attraverso accordi stabiliti per contratto i quali assorbissero (in parte) i rischi direttamente connessi al reddito: malattia, incidenti sul lavoro, impossibilità di svolgere attività retribuite dopo una certa età, e disoccupazione (quest’ultima, in genere, riconosciuta molto più tardi); tra queste politiche sociali erano comprese anche agevolazioni per l’acquisto della casa e per le famiglie numerose. Terzo, i lavoratori avevano conquistato il diritto a che la retribuzione fosse determinata non solo attraverso un contratto individuale, ma attraverso una contrattazione collettiva: la parte rappresentante l’offerta nel mercto del lavoro si raccoglieva così attorno ai sindacati, e veniva legalmente garantito il diritto di sciopero. Infine, si istituzionalizzava un impegno de facto (e in alcuni paesi, de jure) da parte dei governi che dovevano perseguire l’obiettivo del "lavoro per tutti", cui doveva essere data la massima priorità attraverso le politiche economiche dello stato. Oggi è evidente che, con il palese fallimento degli strumenti di quest’ultimo, più recente elemento del Welfare State – le politiche in favore dell’occupazione – tutta l’impalcatura delle altre componenti ormai acquisite dello stato sociale – protezione dei lavoratori, sicurezza sociale, contrattazione collettiva dei salari e delle condizioni di lavoro attraverso i sindacati – sono anch’esse in grave pericolo. Disoccupazione significa che ci sono molte più persone che non lavorano, e hanno bisogno di sostegno economico fintanto che non percepiscono uno stipendio. Ciò implica l’erosione di quel guscio istituzionale che proteggeva il mercato del lavoro, e che abbiamo imparato a dare per scontato e a considerare il pilastro portante dell’ordine e della stabilità nelle società industriali: in sintesi, il Welfare State. Al momento non è affatto chiaro quali potranno essere, se ve ne saranno, le conseguenze su larga scala e a lungo termine dell’erosione di questo guscio protettivo: conseguenze sulla legittimazione politica, sull’ordine sociale e sul genere e intensità del conflitto sociale che si oppone alla coesione sociale. Una cosa sembra di poter escludere con una certa sicurezza: i movimenti rivoluzionari di massa che cercano di rovesciare, attraverso forme di rivoluzione, le fondamenta del capitalismo industriale e con esso della democrazia liberale, con l’obiettivo di sostituire entrambi con un progetto istituzionale alternativo di economia politica. Per quanto possiamo predire riguardo alle conseguenze politiche, ci sembra di poter immaginare soltanto dei movimenti disuniti e dispersi in mille rivoli, magari forti di una decisa militanza, ma strategicamente inetti e di breve durata, in grado tutt’al più di inscenare manifestazioni di protesta contro licenziamenti di massa e tagli alla spesa sociale. Ad una riflessione sommaria, appare più probabile una svolta a lungo termine nell’attuale scenario, o un trasferimento del conflitto sociale a livello istituzionale. Esprimendoci in modo schematico, diremo che il conflitto sulle possibilità di vita si "sposterà verso l’alto", dalle tavole dei negoziati specialistici tra solidi partner sociali, ai governi nazionali e ancora oltre, ad agenzie governative transazionali; allo stesso tempo, lo scenario del conflitto si sposterà anche "verso il basso", nelle strade, e finirà per coinvolgere gli organismi dello stato che si occupano di repressione del crimine e di giustiza penale. Un altro elemento che sembra destinato all’ascesa è la politica del protezionismo populista di destra, che chiederà un rafforzamento dei confini contro il flusso di capitali verso l’esterno e soprattutto, con toni violenti e acutamente xenofobi, contro il flusso di forza lavoro "straniera" in cerca di occupazione.

Ancora più significativo, immagino, di un’azione di massa strategica in grado di sfidare l’attuale ordine politico, sono le conseguenze – estremamente rilevanti per la collettività – non-politiche o quanto meno pre-politiche. Timore, fatalismo, sottomissione e un’inclinazione a colpevolizzare le vittime sono tutte consuete risposte psicologiche all’esperienza della precarietà; e si uniscono alle sue ripercussioni, meno comprese di quando sarebbe auspicabile, sul comportamento e sulla cultura nella sfera politica. Ulteriori sintomi di tali conseguenze sono la lacerazione del tessuto sociale: cioè la disgregazione del sentimento, condiviso da quanti sono colpiti dalla precarietà e anche da quanti (per ora) non lo sono, di vivere tutti in una medesima società, soggetti agli stessi diritti e agli stessi doveri, alle stesse opportunità e alle stesse restrizioni. Il verificarsi di questa disgregazione può dipendere da fattori di spazio (come avviene con la segregazione urbana o regionale), di tempo (tra gruppi di età e di generazioni), di livelli di istruzione, di salute, di risorse familiari, di legalità (avere o non avere una residenza legale e una fedina penale pulita), di residenza in regioni a più o meno alto tasso di disoccupazione, di razza, di etnia. Insieme con le disparità sempre più acute nell’aspettativa di vita e con i sintomi di emarginazione, sempre più evidenti per vincitori e vinti. In un gioco in cui la posta è evitare o risolvere una condizione di precarietà, le risorse morali di solidarietà, o il gusto per cose tipo il benessere di "tutti gli altri" e il "piacere di vivere in una società giusta" sono destinate a diminuire drasticamente. È sempre più evidente che le misure di austerità mirate ad alcune categorie e i tagli allo stato sociale non incontrano più una resistenza decisa e coerente, ma l’approvazione più o meno tacita da parte della maggioranza, di quanti cioè hanno motivo di attendersi più bene che male dalla stretta alle cinghie altrui: e quel che rimane del conflitto, riguarda chi debbano essere i proprietari delle cinture, non quanti buchi vi vengano fatti.

 

3. Le scelte politiche fondamentali

Le cause della precarietà riassunte nella prima parte, contestualizzate nei tre generi di conseguenze inaccettabili (dal punto di vista funzionale oltre che morale) sottolineate nella seconda, lasciano i politici e in generale le forze politiche di fronte alle seguenti scelte fondamentali. O si ritiene, e si opera di conseguenza, che gli effetti di disorganizzazione sociale possano essere controllati e con il tempo eliminati, tramite il rinnovamento e l’irrobustimento del mercato del lavoro, in quanto quest’ultimo è il primo fattore dell’ordine sociale. O in alternativa si ritiene, e si opera di conseguenza, che tali sforzi di rinnovamento siano senza speranza (o intrinsecamente inaccettabili per le loro implicazioni economiche e morali), e che la risposta vada invece cercata non nell’eliminazione delle cause stesse, bensì nella graduale neutralizzazione che tali fattori causali (inammovibili in sé) comportano sulle aspettative di vita dei singoli, sull’ordine istituzionale e sulla coesione sociale. La scelta è dunque tra la ricostituzione del "lavoro per tutti" e il rendere tollerabile la disoccupazione, controllandone le conseguenze in termini di precarietà.

Questo scritto è in favore della seconda tra queste due alternative fondamentali. Per amor di realismo e onestà, la disoccupazione e le due forme di precarietà descritte all’inizio non possono più essere descritte come un "problema" (termine che implica la possibilità di trovare una soluzione, attraverso la giusta misura di sforzi politici, di inventiva e di determinazione), ma come un fenomeno negativo, una sfida che le economie, i governi e le società dei paesi Ocse devono affrontare. Non serve a nulla prendere di petto questa condizione, dolorosa ma cronica, attraverso la retorica della piena occupazione tanto amata dai socialdemocratici, come del resto anche dagli economisti filo-libero mercato. Non possiamo far altro che abituarci a convivere nel migliore dei modi con il fatto che una larga parte della nostra popolazione, di entrambi i sessi, non troverà vitto e alloggio grazie a un "normale" (cioè ragionevolmente sicuro, adeguatamente protetto e dignitosamente remunerato) posto di lavoro. La questione chiave rimane se e come possiamo modificare questa situazione, in modo da minimizzarne l’impatto negativo, sociale e politico, tramite una combinazione tra quelle iniziative contrattuali e di mercato che finora hanno governato la situazione e le condizioni di lavoro, e altre iniziative istituzionali – nella fattispecie, quelle fondate sui principi di cittadinanza e di comunità.

La reazione dominante a questa situazione nell’Europa di oggi è un chiaro caso di risposta del primo tipo. Parlando in generale, ci sono tre dimensioni che possono essere manipolate allo scopo di rendere più conveniente per le imprese l’assunzione di nuova forza lavoro: la retribuzione, la specializzazione e il tempo. In termini politici, e per quanto riguarda la prima di esse, ciò si traduce in politiche di riduzione più o meno controllata dei salari reali, del costo del lavoro, della sicurezza sociale e di vari altri benefici e servizi. Sottoposti alle pressioni concorrenziali del mercato mondiale, alcuni paesi europei vanno abbandonando l’idea di condizioni di lavoro ormai dichiarate "lussuose" e di stipendi uniformemente elevati. La definizione di salari, competenze e forme di protezione e di previdenza nel "rapporto di lavoro tipo" (Normalarbeitverhältnis) hanno perduto la loro "normalità" empirica, oltre che morale. Questo cambiamento è sostenuto anche, a livello politico, da un sempre crescente "fronte del capitale", che invoca un aumento delle assunzioni attraverso la riduzione dei salari e degli altri costi del lavoro. A questo stesso contesto appartengono anche le coraggiose proposte di Fritz Scharpf, illustre politologo socialdemocratico che pensa a una combinazione di "imposte negative sul reddito" e di solidarietà sociale, tramite l’introduzione, nell’economia tedesca, di un settore di lavoratori a basso costo, i cui salari verrebbero sovvenzionati tramite forti detrazioni dall’imposta sul reddito. Tuttavia, nulla sta ad indicare che le imprese sarebbero interessate a creare tali posti di lavoro a basso costo, e nemmeno possiamo essere certi che, anche in presenza di un simile interesse, questi posti saranno occupati soprattutto da lavoratori addizionali (e non dal declassamento di quelli già impiegati) e da lavoratori provenienti dal mercato interno (e non da lavoratori provenienti da altre nazioni europee o da extracomunitari). Soltanto se sarà possibile vincolare le imprese a queste condizioni, gli auspicati effetti positivi sull’occupazione (interna) potranno risultare realizzabili.

Veniamo ora alle competenze. Un’alternativa che renda l’occupazione "più economica", pur mantenendo costanti i livelli di produttività, significa far sì che i lavoratori siano più specializzati e più produttivi a costi che (si presume) rimangono costanti. È l’approccio politico del cosiddetto "capitalismo umano", che assume talora sfumature da "capitalismo umanitario" (Waters, 1996). Tale approccio presenta alcune innegabili attrattive, e altrettanto innegabili lacune. Primo: competenze più specialistiche richiedono periodi di formazione più lunghi, periodi nei quali la forza lavoro potenziale viene temporaneamente sottratta dalla massa rappresentante "l’offerta" sul mercato del lavoro (disoccupati e sottoccupati). Ma questa forza lavoro temporaneamente "disattivata" dev’essere in qualche modo sostenuta durante questi periodi, e l’attività formativa deve avere una remunerazione. Non è affatto chiaro da dove dovrebbero provenire le risorse necessarie a finanziare una "offensiva per la qualificazione dei lavoratori" su larga scala. Si tratta di un problema particolarmente spinoso, perché è nella natura del capitale umano (contrariamente a quello monetario) che l’investitore che tale capitale produce non rimane, secondo il principio liberale della "proprietà di sé", con la persona che ha investito di queste competenze. Alla fine ci si ritrova con il classico problema dell’azione collettiva: ciascun potenziale datore di lavoro disposto ad assumere personale qualificato, cercherà com’è logico di approfittare gratuitamente degli sforzi formativi compiuti da qualcun altro: il risultato non potrà che essere una sistematica riduzione dell’investimento nelle risorse umane. Ma, in secondo luogo, non è affatto certo che le specializzazioni acquisite attraverso anni di formazione ufficiale costituiscano veramente la variabile in grado di operare la differenza. Molti impieghi non richiedono e non sfruttano appieno le competenze che i lavoratori possiedono in realtà, e spesso le specializzazioni possedute dai lavoratori e quelle richieste dalle aziende non riescono ad incontrarsi, a causa dell’imprevedibilità delle esigenze di queste ultime. La formazione professionale è, dopo tutto, una "tecnologia del caos", in cui è notoriamente difficilissimo calcolare gli algoritmi che legano l’impegno al risultato, e il risultato all’uso economico che se ne può fare. In terzo luogo, occorre anche osservare che la capacità e la disponibilità delle persone – sopportare sempre nuovi cicli di obsolescenza delle loro qualifiche, sottoporsi ad aggiornamenti e approfondimenti che comunque non le mettono al riparo da possibili future obsolescenze – non può essere infinita. Le offensive per la qualificazione producono altrettanti perdenti (o falliti) che vincitori, e di solito ne beneficiano quelli che ne hanno meno bisogno (cioè quelli che si impegnano per conservare il posto). La terza dimensione citata sopra, il tempo, non può essere ulteriormente approfondita in questa sede. L’idea di fondo è che le imprese saranno razionalmente interessate ad impiegare più lavoratori (o a mantenere gli attuali livelli occupazionali) se i lavoratori stessi saranno disponibili ad una flessibilità riguardo ai ritmi di produzione, e accetteranno variazioni in termini cronologici del loro orario di lavoro. L’opzione di far lavorare le persone solo quando ce n’è bisogno, e solo per il tempo necessario, può anche far acquisire, marginalmente, un certo valore al singolo lavoratore; ma è anche un potente strumento per economizzare sulla forza lavoro totale che deve trovare un posto in qualche impresa.

Le attuali iniziative e proposte riguardanti il mercato del lavoro e le politiche dei salari hanno un tratto in comune: un atteggiamento difensivo. Possono riuscire al massimo a conservare i posti di lavoro esistenti, ma non ne creano di nuovi. Potrebbero incoraggiare i datori di lavoro ad assumere o a non licenziare, ma quando l’effetto è quello di una diminuzione dei salari reali, diventa più difficile per i produttori di beni di consumo riuscire a vendere la loro merce. E anche in assenza di conseguenze economiche tanto spiacevoli, rimane senza risposta un altro interrogativo. Se cioè una politica di smantellamento controllato di quelle forme di occupazione estensiva e di protezione sociale di cui oggi godono la gran parte dei lavoratori all’interno della UE, sarà in grado, e fino a quando, di scongiurare una o entrambe le reazioni disperate che già iniziano a manifestarsi: da una parte, la lotta della sinistra militante per invocare la protezione governativa del posto di lavoro (a qualsiasi prezzo, praticamente) e, dall’altra, la lotta della destra sciovinista per invocare la protezione governativa contro i lavoratori stranieri in cerca di lavoro. Se tali lotte dovessero divenire un fenomeno di massa, in una o nell’altra versione, ci troveremmo probabilmente ad affrontare delle sfide a un livello quasi sconosciuto in Europa dalla seconda guerra mondiale ad oggi. Non solo sarebbe in pericolo quella che oggi consideriamo una distribuzione abbastanza equa della ricchezza sociale, ma anche la stessa sopravvivenza delle istituzioni democratiche e del processo politico.

Queste sono le cupe prospettive che si presentano quando ci si attacca all’idea che un volume costante di salariati dovrà accalcarsi intorno a posti di lavoro sempre meno remunerati, accettando inoltre la necessità di acquisire maggiori competenze e di accettare orari di lavoro non così rigidamente definiti. Una lettura molto meno consueta dello squilibrio all’interno del mercato del lavoro è la seguente: quel che ci serve oggi non è un aumento del numero dei posti di lavoro, ma una riduzione del volume del lavoro (cioè il prodotto delle persone in cerca di lavoro per il numero di ore o anni in cui una persona lavora). Questa prospettiva conduce a una politica "in negativo" per quanto riguarda "l’offerta". Politica favorita non tanto dagli imprenditori quanto dai sindacati e dai politici. Il meccanismo più drastico grazie al quale sarebbe possibile alleggerire la pressione dell’offerta, è di tipo decisamente selettivo. La soluzione più ovvia consisterebbe nella proibizione di fatto, per alcune categorie di lavoratori, di inserirsi sul mercato: gli stranieri e le donne (sposate) soprattutto, poi forse anche i meno giovani. Ma simili misure non possono essere attuate per motivi legali e morali. Qualunque possibilità di incidere sul settore "offerta" attraverso il controllo del numero di persone ammesse all’ingresso nel mercato del lavoro dev’essere scartata, con la limitata eccezoine di politiche restrittive nei confronti dell’immigrazione di extracomunitari in cerca d’impiego. Non rimane che il controllo del tempo di lavoro: l’offerta può essere razionata in termini di giorni, di settimane, di anni o della durata della vita in modo tale che – rimanendo costanti tutte le altre condizioni – un’offerta sovrabbondante di forza lavoro possa essere ridotta o magari evitata completamente in futuro.

Verso la metà degli anni ottanta, questo era il modello concettuale dominante nella politica dei sindacati tedeschi che si impegnarono per la riduzione dell’orario di lavoro. La debolezza di questa logica, volta ad ampliare le opportunità occupazionali riducendo il tempo che ciascuno dedica al lavoro, risiede nel fatto che, in pratica, risulta eccessivamente esigente, sul piano morale, per il singolo lavoratore (e per le sue capacità di solidarietà) sostenere questo modello e adeguarsi ai suoi risultati. Questo accade perché la riduzione dell’orario di lavoro – il fatto è estremamente evidente nel caso del lavoro part-time – è un modo indiretto non soltanto di condividere il lavoro, ma anche di condividere lo stipendio. Dopo tutto, perché "proprio io" dovrei accettare di lavorare meno ore (e quindi rinunciare a una parte del mio reddito o a un potenziale aumento di stipendio) solo perché "anche tu" possa lavorare e guadagnare, soprattutto dal momento che non è affatto certo che "lui" (il datore di lavoro) vorrà e potrà premiare il mio sacrificio garantendo a te il beneficio di un posto di lavoro in più? Siamo sicuri che "lui" userà la mia e altrui riduzione dell’orario di lavoro allo scopo di creare una forza lavoro più ampia (o almeno più stabile)? Oppure "lui" riuscirà a compensare le ore lavorate in meno attraverso degli investimenti in grado di fargli risparmiare ore di lavoro e grazie a una maggiore flessibilità nel processo produttivo? E se così fosse, allora tutti ci troveremmo a stare peggio di prima. Questo gioco insomma implica un classico problema di benessere collettivo, in cui i pessimisti non stanno al gioco, e la loro defezione diffonde ulteriore pessimismo, il quale ben presto supera la capacità dei sindacati di controllare e mobilitare i lavoratori.

Da tutto ciò, risulta evidente che ben poco si può fare dal punto di vista della riduzione dell’offerta, sia rispetto al numero del personale coinvolto sia rispetto al tempo di lavoro di ciascuno. E ciò rimarrà vero finanto che rimane in vigore la norma (inculcata da tutte le principali istituzioni) secondo cui il valore e il successo nella vita di un individuo sono espressi in termini di mercato del lavoro, e dipendono dalla sua capacità di percepire un reddito da lavoro. Ma questo concetto di normalità è sbagliato quanto opprimente. È sbagliato perché induce la maggior parte della gente a iscriversi a una gara che può solo perdere. È opprimente, dall’altra parte, perché in una società centrata sul lavoro come la nostra, le istituzioni dominanti di fatti riservano le cose per cui vale la pena vivere (libertà, indipendenza, sicurezza, riconoscimento, stima di sé) a quelle persone che si dimostrano, nella vita economica, capaci di mantenere un lavoro e di percepire un reddito. Quelli che non riescono (perché disoccupati) ad adeguarsi alla norma, oppure decidono di non aderirvi (per esempio le madri o le "casalinghe", per non parlare dei "casalinghi") hanno bisogno di scuse estremamente valide, se vogliono evitare di apparire dei perdenti, ai loro stessi occhi prima ancora che di fronte agli altri. Chiunque non lavori, almeno sporadicamente o part-time, deve andare incontro a considerevoli svantaggi in termini di reddito e di sicurezza sociale e, spesso, anche in termini di (auto) disistima.

Le fondamenta morali, culturali e istituzionali di una società fondata sul lavoro permiano chi percepisce uno stipendio, ma molti cittadini non hanno più accesso a tale ricompensa. La società mobilita un costante surplus di forza lavoro che non può assorbire, cioè che non può utilizzare nella produzione di beni e servizi, e retribuire per tale produzione. E tuttavia l’idea che si possano condividere le comodità e i valori della vita soltanto se si riesce a "commercializzare" in modo adeguato la propria forza lavoro è divenua moralmente indifendibile. Che cosa può giustificare l’idea che la somma totale di tutte le attività utili che un essere umano può eseguire debba necessariamente passare attraverso la cruna dell’ago di un contratto di lavoro? Non è difficile citare tutta una serie di attività utilissime (come per esempio donare il sangue, cfr. Titmuss 1971), in cui la qualità del risultato è direttamente proporzionale al fatto di non essere eseguite come lavoro remunerato. È un concetto applicabile, per esempio, a molte forme di assistenza e di servizi prestati alle persone. Ma la preoccupazione normativa primaria è: sarebbe giusto limitare le opportunità di consumare, di accedere alla sicurezza e al prestigio sociale a quanti hanno potuto conquistare tali opportunità sul mercato del lavoro – nonostante l’evidente incapacità del mercato di garantire a un numero sempre crescente di persone un "posto" decente all’interno delle strutture di produzione e di distribuzione?

Un argomento in favore della piena occupazione che conquista un consenso crescente, seppure a volte apertamente cinico, suggerisce che l’integrazione del maggior numero possibile di persone nel mercato del lavoro è auspicabile non soltanto per ragioni di produzione economica e di giustizia sociale, ma per motivi di controllo sociale. La visione pessimista della natura umana che sottende a questo argomento è evidente: se gli esseri umani non lavorano sotto la supervisione e all’interno della gabbia costituita dalle obbligazioni contrattuali formali, non potranno che cadere in uno stile di vita sterile o caotico. È certo che questo argomento, visto in retrospettiva, scredita il valore umano di quel progresso tecnico ed economico che ha consentito di liberare molte persone dalla necessità di fare lavori pesantissimi e invalidanti. Allo stesso tempo, riconosce tacitamente lo squallore di un ordinamento sociale che non è in grado di mantenere l’ordine tra i propri cittadini se non attraverso i poteri disciplinari esercitati dalle organizzazioni preposte al mondo del lavoro. In una situazione di questo genere, l’elogio della modestia e della bellezza di una vita non legata a un contratto di lavoro, sebbene vincolata a mezzi estremamente limitati, risulterebbe del tutto inutile. Assicurare alle persone che può essere estremamente soddisfacente "fare qualcosa di utile per gli altri", all’interno della famiglia o nell’impegno di volontariato, oppure godersi la bellezza di un’esistenza dedicata alla contemplazione, difficilmente persuaderebbe qualcuno a starsene a casa. Semplicemente, le attuali strutture dell’opportunità non corrispondono a tale retorica moralista, se si esclude il tentativo esplicito di far stringere la cinghia agli altri. Al contrario, per i cittadini della nostra società fondata sul lavoro, le ricompense – materiali e immateriali – connesse alla presunta "normalità" del lavoratore stipendiato sono troppo attraenti perché un numero significativo di loro possa prendere in considerazione l’ipotesi di rinunciare a (o di rinunciare a combattere per) un lavoro a tempo pieno, con reddito corrispondente. Anzi, tanto più diventa precaria e improbabile la possibilità che ciascun cittadino adulto possa trovare e conservare un posto sicuro, soddisfacente e ben remunerato, tanto più intensa e aggressiva si fa la competizione – tra generazioni, tra sessi, tra gruppi etnici – per raggiungere questo "bene supremo" con il quale si identificano. Alcuni profeti del conservatorismo, osservando il valore eccessivo attribuito al posto fisso, si dichiarano convinti che la vita fuori dal mercato del lavoro (in famiglia, nelle comunità, nel proprio giardino, nelle cooperative, nelle associazioni non a scopo di lucro) debba essere rivalutata molto più di quanto possano fare le lodi moralistiche del sacrificio di sé, delle ambizioni modeste e del sentimento di appartenenza a una comunità. La rivalutazione del tempo libero e delle attività liberamente e individualmente scelte per riempirlo – o, dall’altra parte, la svalutazione della partecipazione al mercato del lavoro – è un progetto che arriva al cuore morale, istituzionale ed economico delle società industriali democratiche. Tali società non hanno altri modelli istituzionali cui affidarsi per affrontare questo dilemma: che la loro ricchezza viene prodotta da una percentuale sempre minore dei suoi cittadini, mentre tutti i cittadini esigono una quota sufficiente di questa ricchezza. Non c’è bisogno di essere un profeta per accorgersi del problema centrale di cui dovranno preoccuparsi le istituzioni delle nostre politiche economiche nel prevedibile, prossimo futuro, tanto a livello nazionale come a livello mondiale. La porzione della popolazione attualmente coinvolta nella creazione del valore economico continuerà a ridursi. Allo stesso tempo, i meccanismi "capillari" della distribuzione, che incanalano il reddito dal nucleo produttivo alla periferia non produttiva (come la famiglia, lo stato sociale e anche le politiche di aiuto allo sviluppo) si stanno inceppando. Non rimane che chiedersi con quale logica istituzionale e con quali giustificazioni morali si potranno incanalare le risorse e le aspettative di vita, in modo affidabile ed equo, dal nucleo produttivo alla "improduttiva" periferia.

 

4. I diritti economici della cittadinanza al di là del posto di lavoro.

Appuntiamo ora la nostra attenzione sull’altra risposta alla domanda politica fondamentale enunciata sopra. Anziché eliminare le cause dei livelli insufficienti di assorbimento di forza lavoro da parte del mercato, essa suggerisce di neutralizzarne le conseguenze, cioè la precarietà e il venir meno della coesione sociale. L’approccio corrispondente a tale domanda, nei confronti dei problemi posti dalla precarietà, consiste in una serie di strategie che invochino un reddito base come diritto economico della "cittadinanza" (opposta qui, come concetto, a "lavoratori"). Notiamo che questi modelli di reddito base differiscono, in un aspetto importantissimo, da tutti i suggerimenti di detrazioni e riduzioni fiscali per le fasce a minor reddito, che si dovrebbero tradurre in una riduzione degli stipendi senza la corrispondente riduzione del reddito. Nei modelli del reddito base, o di cittadinanza, la corresponsione di un reddito non è legata alle situazioni lavorative dei singoli (bisogno di lavorare, impiego attuale, disponibiità e capacità di lavorare, e così via) ma esclusivamente alla condizione di cittadino di ciascuno. Un accordo di questo genere avrebbe il vantaggio di rendere il reddito non più soggetto alle fluttuazioni della richiesta di lavoratori a buon mercato; la riscossione del reddito – e con essa una riduzione della disoccupazione evidente – diverrebbe invece operante non appena i cittadini scegliessero di contare esclusivamente su di esso, rinunciando al reddito addizionale che potrebbero ottenere da un lavoro dipendente, nel caso riuscissero a trovarlo. Potranno cioè decidere, secondo le proprie circostanze personali e quelle del mercato del lavoro nel paese o nella regione in cui vivono, se desiderano incrementare il loro reddito di sussistenza intrprendendo un lavoro regolare. La corresponsione di un reddito strutturale compenserebbe in tal modo il fatto che, mancando delle qualifiche richieste o mancando la richiesta di lavoratori tout-court, molti aspiranti lavoratori definiti "inoccupabili" non potranno mai venire integrati in modo permanente nel mercato del lavoro, sia pure con retribuzioni estremamente ridotte. E non ha senso fingere che le cose stiano diversamente e sottoporli di conseguenza a una prolungata ed umiliante esperienza di emarginazione e di fallimento.

Le giustificazioni normative a questa proposta si possono trovare facilmente. Primo, le società Ocse sono società "ricche", che possono permettersi di sostenere il costo di sussidi (o redditi) basati sul principio della cittadinanza. Queste società si sono mantenute ricche – ecco la differenza tra la situazione attuale e la depressione mondiale della fine degli anni venti – ma mancano di un meccanismo istituzionale che consenta loro di distribuire la loro ricchezza a tutti i cittadini. Secondo, la condizione distributiva non può più essere legata al contratto di lavoro, senza implicare una ingiusta esclusione di molti. Fintanto che la maggior parte dei lavoratori hanno realmente una possibilità di contribuire alla produzione della ricchezza comune attraverso un lavoro retribuito, il problema della distribuzione della ricchezza si risolve tramite il contratto di lavoro di ciascun individuo, e il sostegno alle famiglie e gli accordi per la sicurezza sociale che ne conseguono. Una volta che le cose non stanno più così, e questa condizione di presunta "normalità" (occupazione a tempo pieno e per tutta la vita, più sostegno familiare per quanti sono impossibilitati ad accedere al mercato del lavoro, più adeguato accesso alla previdenza e alla sicurezza sociale e sussidi di disoccupazione per quanti non percepiscono un reddito e non sono "dipendenti") è scomparso per sempre (come abbiamo dimostrato), il problema della distribuzione si può risolvere soltanto istituendo specifici diritti economici che tutti i cittadini si garantiscono a vicenda, e che diverrebbero una componente del loro essere cittadini. L’idea centrale di un "reddito di cittadinanza" consiste nel diritto a un reddito sufficiente, che non sia condizionato ad un posto di lavoro retribuito (un impiego precedente, la disponibilità a lavorare, o prove o circostanze, come la presenza in famiglia di bambini piccoli, tali da giustificare l’esenzione dalla regola del lavoro retribuito). Concretamente, ciò significherebbe che ipotesi quali "imposte negative sul reddito", "reddito di cittadinanza" o "sussidi detraibili" che si affacciano un po’ ovunque all’interno dell’attuale dibattito sulle riforme della politica sociale, non diventerebbero efficaci soltanto dopo che una persona è diventata un "lavoratore", cioè dopo che ha assunto il suo ruolo nel mercato del lavoro (o si sta preparando ad inserirvisi, come gli studenti che percepiscono una borsa di studio o i sussidi destinati a chi intraprende volontariamente periodi di formazione), ma piuttosto come una conseguenza automatica del fatto stesso di essere cittadini.

Se fossimo abbastanza preparati ad accostarci a concetti così diffusamente e accuratamente dichiarati tabù, totalmente estranei alle tradizioni e alle istituzioni della società industriale e della sua etica del lavoro, potremmo allora addentrarci in tre gruppi di obiezioni. La prima riguarda gli effetti dell’incentivo: perché una persona ragionevole dovrebbe voler lavorare, se gli viene garantita la sopravvivenza senza un posto di lavoro formale? Si potrebbe rispondere dando per scontato che un ritiro temporaneo dalle forma di esistenza del lavoro retribuito sarebbe veramente desiderabile – in virtù della situazione descritta in precedenza (e soprattutto in vista del fatto che non ci sono alternative). Dall’altra parte, il ritiro sarebbe limitato, poiché l’incentivo aggiunto di un reddito superiore non mancherebbe di produrre i suoi effetti sulla partecipazione al mercato del lavoro.

La seconda obiezione dev’essere presa più sul serio, ed è di natura economica. Se una minoranza percepisce un reddito di cittadinanza non legato al posto di lavoro, allora la maggioranza strutturale di quanti pagano le imposte sarà incline a favorire misure politiche che facciano diminuire il livello di tale reddito di cittadinanza fino a che, di conseguenza, l’effetto sortito da quest’ultimo sulla riduzione dell’offerta di forza lavoro sarebbe ridotto quasi a zero: infatti un reddito di cittadinanza che si collocasse vicino o sotto la linea di povertà renderebbe di fatto necessaria la ricerca di un posto di lavoro retribuito. Mentre la riduzione delle persone in cerca di lavoro era l’obiettivo primario dei fautori del libero mercato che proponevano l’imposta negativa sul reddito. Esistono tuttavia dei rimedi ipotizzabili per proteggerci da questa eventualità, come per esempio, una indicizzazione dei livelli di reddito di cittadinanza, che potrebbero essere ridotti solo con difficoltà, prevedendo per legge la necessità di super-maggioranze per l’approvazione di riduzioni in tal senso. In alternativa, o in aggiunta, il reddito base potrebbe essere regolato in modo tale che ne usufruiscano tutti i cittadini, indipendentemente dal loro reddito: ma soltanto quelli che dichiarano esplicitamente di rinunciare a un posto di lavoro retribuito avrebbero diritto a percepire un sussidio netto, mentre tutti gli altri dovrebbero pagare le imposte, in percentuale corrispondente al reddito.

Rimane, infine, l’obiezione più importante: "l’esclusione" di una parte della popolazione adulta dal mercato del lavoro, anche con una adeguata protezione materiale, può essere considerata una forma di cinismo morale, perché tale politica mira a "mettere fuori uso" la capacità umana di realizzare cose utili, o di fare un lavoro qualsiasi. In poche parole, superando la precarietà della condizione distributiva, questo progetto cementerebbe la precarietà della condizione produttiva, che diverrebbe esclusione permanente. Un simile approccio va contro i principi dell’uguaglianza materiale (in particolare contro quei principi che vietano le discriminazioni tra i sessi) e contro il diritto morale di svilupparsi e realizzarsi attraverso attività utili, o come tali riconosciute. L’ineluttabilità di questa obiezione può essere ridotta ai minimi termini da misure volte a far dipendere il reddito di cittadinanza anche da altri fattori, come l’età minima per accedervi (diciamo, 25 anni) e che incoraggino e promuovano una "rotazione" tra impiego remunerato e altre attività esterne al mercato del lavoro.

Certo, questo nuovo approccio alla soluzione del problema distributivo, e la proposta di svincolare il reddito dalle prestazioni nel mondo del lavoro, non potrà probabilmente essere accettato e realizzato a breve termine. Andando al nocciolo, anche se la proposta di un reddito-base per tutti fosse giudicata "giusta" e "semplice", sarebbe giudicata anche proibitivamente costosa per motivi politici. Le si frappongono concetti profondamente radicati e quasi universalmente condivisi in tema di giustizia economica (chi non lavora, non mangia) e di diritti e doveri degli individui. Per di più, è difficile accettare le conseguenze comportamentali ed economiche, che possiamo intuire solo attraverso una sperimentazione politica e pratica attentamente monitorata. Per entrambe queste ragioni, si rende necessario un approccio più graduale e reversibile.

Tale approccio può procedere in due diverse direzioni: a)ammissione dell’esenzione condizionale dalla partecipazione al mercato del lavoro (altrimenti definibile come "la libertà di chiamarsi fuori") e b) un’esenzione temporanea. Il primo approccio consiste in un sostanziale ampliamento dell’elenco, già esistente nelle nostre società, delle "scuse" ammesse. Tra queste scuse (se si ignora la condizione di chi gode di "ricchezza indipendente") ci sono le condizioni di disabilità, di anzianità, di malattia, di maternità, di servizio militare di leva, di formazione professionale. Tutte queste condizioni sono associate alle richieste di percepire un reddito senza svolgere attività produttive e valutabili in termini di mercato, benché il reddito così percepito sia generalmente limitato sia sul piano dell’entità sia per quanto riguarda la sua durata, e benché sia legato ad ulteriori condizioni. Il primo dei miei approcci graduali al reddito-base per tutti cercherebbe di allargare in modo sostanziale questo elenco di "esclusi riconosciuti" (fino ad includere, per esempio, le attività nel settore del volontariato e dell’assistenza, ma anche le attività associative inerenti allo sport, alla cultura, all’educazione e alla protezione ambientale) e di "decondizionare" i requisiti oggi legati alla durata delle condizioni o all’aver svolto in precedenza un lavoro retribuito. Il problema di questo approccio – che inserirebbe un numero sempre maggiore di attività "fuori mercato" nella lista complessiva di quelle attività "socialmente utili" tali da garantire a chi le svolge l’accesso a un reddito finanziato dal gettito fiscale – è che ragionevoli dubbi, sospetti e controversie sorgerebbero con ogni probabilità sul fatto che tali attività vengano effettivamente svolte da quanti percepiscono tale reddito, e se pure svolte, se esse realmente meritino di essere considerate "utili".

Il secondo approccio, ugualmente graduale e sperimentale, si baserebbe sulla dimensione temporale, che mette a disposizione interessanti possibilità di calibrare e indirizzare al meglio gli incentivi. L’idea base è la seguente. Ogni cittadino "nasce" avendo a disposizione un "conto sabbatico", da considerarsi diritto di cittadinanza e non condizione di lavoro. Ciò significa che la pretesa a questo diritto è condizionata unicamente dal possesso della cittadinanza legale, oltre che dalla disponibilità a rinunciare a un’occupazione retribuita o ad altre attività comunque lucrative per il periodo di tempo per il quale si inoltra la domanda. Diciamo che questo "conto" potrebbe coprire dieci anni di reddito a livello di sussistenza (reddito che dovrà essere fissato a un livello superiore, anche se non di molto, a quello stabilito per poter accedere ai sussidi sociali o di assistenza, che continuerebbero ad essere necessari); se ne potrebbe usufruire in qualsiasi momento dell’età adulta (diciamo dopo la maggiore età) e prima dell’età pensionistica. La durata minima dovrebbe essere fissata con una certa rigidità – per esempio, sei mesi – al fine di evitare che si riduca a una serie di "vacanze" dal lavoro. Il numero di anni complessivamente a disposizione potrebbe variare a seconda della situazione economica del paese. Per evitare che divenga un incentivo a trascurare la formazione professionale o programmi equivalenti, la possibilità di accedervi sarebbe limitata a quanti hanno ottenuto un diploma o un attestato che certifichi la loro frequenza a corsi di formazione e simili, o che dimostrino di aver lavorato per un periodo di tempo minimo, diciamo almeno tre anni. Per consentire una forma di controllo sullo schema temporale in base a quale gli individui spendono il loro "capitale di tempo", si potrebbero istituire dei meccanismi di sconto e di interesse. Poiché infatti sembra poco desiderabile che gli individui spendano i loro anni sabbatici all’inizio della loro vita lavorativa, si può immaginare di introdurre un forte tasso di sconto (o "interesse negativo temporale") in modo che ogni anno ritirato dal "conto sabbatico" prima di aver compiuto i trent’anni faccia diminuire gli anni rimanenti in ragione di uno a due. La "tassazione temporale" potrebbe essere resa progressiva, il che significherebbe che più anni una persona sfrutta dal prporio conto, tanto più salirebbero le deduzioni extra. Al contrario, ogni anno speso dopo l’età, diciamo, di 45 anni, "costerebbe" solo otto mesi. Sconti speciali potrebbero essere introdotti per chi ne usufruisce per avere e accudire dei figli o per dedicarsi all’assistenza di una o più persone, oltre che per dedicarsi alla formazione o all’aggiornamento delle proprie qualifiche professionali. Ci sarebbe anche un premio per chi non riscuote il proprio conto, o lo riscuote solo in parte; tale premio potrebbe andare a incrementare la pensione di anzianità. Non occorre spiegare che tutti questi parametri hanno qui unicamente una funzione illustrativa. I benefici che possono essere richiesti durante il periodo di "aspettativa" dalla partecipazione al mercato del lavoro (periodo che durerebbe, come abbiamo detto, un minimo di sei mesi alla volta) dovrebbe superare come entità i sussidi di disoccupazione ma essere fissato al di sotto del reddito medio nazionale. Il conto dovrebbe poi essere fisso e ad aliquota costante, non variabile in base al reddito personale, come avviene nei meccanismi della sicurezza sociale. L’ipotesi dell’aliquota costante significa che il sacrificio economico, per la persona che decide di usufruirne uscendo temporaneamente dal mercato del lavoro, sarebbe minore per chi già percepisce un reddito relativamente basso. E poiché le persone che percepiscono un reddito basso hanno maggiori probabilità di ritrovarsi disoccupate, appare ragionevole mettere a loro disposizione un incentivo leggermente superiore (o un disincentivo leggermente minore), se decidono di sfruttare l’opzione di "chiamarsi fuori" consentita loro dal "conto sabbatico". Inoltre, le categorie che percepiscono un reddito inferiore alla media hanno motivi in più per sfruttare il loro conto sabbatico allo scopo di aggiornarsi e riqualificarsi. Dal punto di vista finanziario, i costi del conto sabbatico personale potrebbero essere parzialmente coperti stornando una quota dei fondi oggi destinati all’assistenza sociale, al sostegno familiare e alle attività formative, nonché ai programmi di prepensionamento; e probabilmente si potrà prelevare qualcosa anche dai fondi destinati ai sussidi di disoccupazione e di malattia, anche se la misura della riduzione degli stanziamenti per queste risorse fiscali sarebbe un punto estremamente contestato.

I considerevoli vantaggi offerti dal conto sabbatico rispetto al primo approccio (quello di ampliare la lista delle "scuse ammesse") va ricercato nel fatto che esso garantisce totale libertà alla scelta delle priorità individuali nell’uso del tempo, man mano che emergono nel corso dell’esistenza della persona. Tale libertà di scelta verrebbe allo stesso tempo esercitata – e disciplinata – nella piena consapevolezza che i "fondi temporali" a disposizione di ciascuno in quanto diritto di ciascun cittadino, sono rigidamente limitati. Sembra quanto meno ragionevole attenderselo, se l’entità del reddito cui avrebbe diritto la persona che si sottrae alla forza lavoro disponibile per un tempo limitato sarà decisamente eccedente i livelli di "sussidio" o di previdenza sociale. In caso contrario, la "libertà" di chiamarsi fuori diventerebbe solo nominale, e riservata solo ai lavoratori a reddito più basso. La libertà di scelta potrebbe essere ulteriormente rafforzata con un progetto di "riassunzione preferenziale" riservata a quanti, dopo aver usufruito di parte del conto a loro disposizione, decidono di reimmettersi sul mercato del lavoro. Ancora, questo approccio presenta il vantaggio di rendere supeflua la copertura dei rischi standard (disoccupazione, malattia, eccetera) per quanti decidono di accedere al conto: necessità, contingenze e priorità individuali potranno trovare una soluzione altamente personalizzata e non burocratica. Infine, il conto sabbatico garantirebbe una possibilità di scelta sostanziale (anche se limitata) per "chiamarsi fuori" anche da posti di lavoro abbastanza redditizi, promuovendo in tal modo la rotazione ed evitando – in modo più affidabile di quanto potrebbe fare un reddito di sussistenza concesso senza condizioni e senza limiti di tempo – la divisione della forza lavoro, magari su una base di discriminazione sessista, tra partecipanti in permanenza al mercato del lavoro ed esclusi in permanenza.

Quale che sia l’approccio e il progetto scelto, una soluzione al problema della disoccupazione strutturale e della sottoccupazione, oltre che ai due generi di precarietà associati con tali situazioni, deve operare in senso "negativo" sul lato della "offerta", svincolare le necessità di reddito dalla remunerazione derivante dalla partecipazione al mercato del lavoro (e anche dal desiderio di inserirvici) e allo stesso tempo prendere estremamente sul serio le tre obiezioni menzionate sopra, perché tutte e tre meritano la più attenta considerazione. Presa nel suo complesso, questa nuova, ma "graduale" soluzione al duplice problema della "situazione" e della "distribuzione" si tradurrebbe in una implementazione a lungo termine dei tre principi che seguono. Primo, nessuno ha il diritto di escludere intere categorie di popolazione (in base al sesso, all’età, alla nazionalità, alle qualifiche, alle capacità eccetera) dalla partecipazione al mercato del lavoro. Tentarlo (o consentire alla precarietà, in qualsiasi sua forma, di espandersi di fatto fino a raggiungere questo obiettivo pur non esplicitamente dichiarato) significa mettere a repentaglio i livelli anche minimi di coesione sociale e di integrazione civile già gravemente in pericolo in molte società avanzate, e che già incidono in modo allarmate sul conflitto politico e sulla cultura politica. Secondo, poiché i cittadini adulti non hanno un "diritto al lavoro", ma hanno il diritto di competere per trovarne uno, allora tutti coloro che si ritirano volontariamente da questa competizione fanno un favore a quelli che desiderano rimanervi e le cui possibilità di riuscita sono incrementate di conseguenza. Quelli che si ritirano meritano dunque di essere compensati per tutta la durata della loro non-partecipazione. Tale compenso dovrebbe essere concepito come un diritto dei cittadini a un reddito base (per quanto limitato in termini di durata), senza altre ulteriori condizioni (come la necessità, la disponibilità a lavorare, la condizione di genitore o di sostegno del nucleo familiare) e finanzata dal bilancio statale, e di entità tale da garantire un modesto ma dignitoso livello di vita. Terzo, la compensazione per la decisione individuale (e sempre reversibile) di ritirarsi dal mercato nel lavoro non serve unicamente a "premiare" i singoli per aver sottratto la loro forza lavoro all’economia generale. Serve anche a incoraggiarli perché mettano le loro potenzialità a frutto in modo diverso dalla vendita di esse in cambio di uno stipendio. La regola morale che qui si implica è che dalle persone che accedono a un reddito senza avere un impiego retribuito ci si attende che svolgano delle attività utili senza essere pagate; anche se sono assolutamente libere di decidere da sé quali potrebbero essere queste attività, e per quanto tempo intendono svolgerle prima di rientrare – come regola generale – nella partecipazione al mercato del lavoro.

È vero che – al di fuori del circolo ristretto della casa e della famiglia – non è facile trovare un modo di mettere a frutto le proprie potenzialità, in attività utili e non mercificabili. Con lo sviluppo delle società industriali infatti, i lavoratori si trovano sempre più intrappolati in un processo di modernizzazione: per lungo tempo il mercato del lavoro è apparso troppo più gratificante di qualunque attività informale si potesse intraprendere individualmente. Il risultato è che queste ultime sono divenute praticamente inesistenti. Ora che il mercato non è più in grado di assorbire interamente la forza lavoro disponibile (o il potenziale di chi potrebbe svolgere attività socialmente utili), i modelli istituzionali delle attività non mercificabili non sono disponibili in quantità tali da poter fornire agli individui i mezzi di sussistenza oltre che il riconoscimento sociale del lavoro svolto. E non c’è ragione di aspettarsi che le forme alternative e informali di attività utili si moltiplicheranno spontaneamente o potranno essere create semplicemente attraverso la persuasione morale e la propaganda dei meriti dell’aiuto reciproco, della comunità e delle attività volontarie. Queste attività non mercificate devono essere "reinventate" a livello istituzionale, sostenute e incoraggiate, ma certamente non imposte agli individui che desiderano uscire dal mercato del lavoro, perché in questo caso finiremmo con l’interferire con le loro libertà.

In sintesi, una riorganizzazione istituzionale dell’occupazione che seguisse questi principi non potrebbe, com’è ovvio, eliminare la disoccupazione. Al contrario, la renderebbe istituzionale, creando un "posto", limitato in termini di tempo, per quanti rappresentano la forza lavoro eccedente rispetto alla domanda, che come abbiamo visto è in continua diminuzione. Ma potrebbe comunque contribuire a trasformare una situazione difficilmente evitabile a lungo termine, in cui non tutti i lavoratori saranno in grado di garantirsi un posto di lavoro stabile, contrattualizzato e protetto, in una situazione più tollerabile, meno conflittuale e meno iniqua.

 

5. Elementi di uno scenario.

Quanto è "realistica" l’aspettativa che gli orientamenti politici del genere esplorato nella sezione precedente divengano dominanti? Poiché abbiamo ipotizzato evidentemente una svolta politica piuttosto fondamentale, è assai probabile che l’idea di dire addio al contratto di lavoro come pietra angolare dell’ordine sociale sarà semplicemente liquidata come "utopica" e, almeno da alcuni, come "utopia negativa". Queste obiezioni tuttavia sono valide solo qualora l’alternativa possa essere considerata "non utopica" – l’alternativa cioè di restaurare livelli accettabili di partecipazione dei cittadini al mondo del lavoro, del reddito e della sicurezza tramite strumenti più convenzionali in termini economici, di mercato del lavoro e di politiche sociali. Ma se le premesse dell’analisi fin qui esposte sono corrette, e questi approcci di politica convenzionale sono destinati al fallimento, l’opzione politica diventa allora una scelta tra due utopie, anziché tra "realismo" e "utopismo". La domanda diventa allora: quale delle due "utopie" avrà la meglio? Certo, la percezione di una situazione di crisi può rendere le persone, tanto le masse di cittadini come le élites, profondamente conservatrici e del tutto restie a imparare e a rinnovarsi. Per timore del disordine e del disorientamento, tendiamo ad aderire in modo più pervicace agli schemi istituzionali che ci sono familiari, tanto più quanto meno questi diventano praticabili. Inoltre gli stati di crisi producono un effetto di disorganizzazione sulle capacità della società di governarsi; per esempio, l’integrazione del mercato a livelli transnazionali e globali è spesso ritenuta la causa di una condizione di "liberalismo sfrenato", la cui dinamica e i processi sociali ed economici che scatena non sono più controllabili da ciascuna nazione a livello individuale. Ma se la capacità soggettiva di apprendere dovesse inevitabilmente diminuire quando la necessità oggettiva di apprendere aumenta, non si spiegherebbero i fondamentali rinnovamenti delle società che si sono, di fatto, verificati nel corso della storia umana.

Anche dando per scontato che la capacità di rinnovamento istituzionale non sia disabilitata, in permanenza e senza soluzione di continuità, dall’esperienza della crisi e del malfunzionalmento, è comunque necessario sottolineare i fattori che con ogni probabilità determineranno la traiettoria dell’apprendimento, del riorientamento e del rinnovamento. Tali fattori possono essere ragionevolmente divisi in tre gruppi: tradizioni normative largamente condivise, esperienze presenti di fatti e di tendenze, attività delle classi politiche dominanti che invocano quelle tradizioni e interpretano quelle esperienze. Rivediamo insieme alcuni dei fattori appartenenti a ciascuna categoria.

a) Tradizioni normative. Do per scontato che le società moderne appartenenti al mondo industrializzato condividano tutte una qualche versione di tradizione morale universalista. Per quanto riguarda l’Europa e il Nord America, e forse in una versione differente anche il Giappone, il dovere di preoccuparsi dei rischi e del benessere degli altri è parte inalienabile del nostro retaggio morale. In altri termini, il privilegio e la diseguaglianza devono essere giustificate in qualche modo, e più sono evidenti migliore dev’essere la giustificazione: e le giustificazioni a disposizione sono decisamente limitate in numero ed entità. Certo, il numero di quegli "altri" che hanno la fortuna di appartenere a un mondo elitario può variare enormemente – dalla famiglia alla nazione all’umanità. Una conseguenza di questa eredità normativa (che ci viene dalle tradizioni giudeo-cristiana, illuminista-liberale e socialista) è la preoccupazione per i diritti dell’uomo e del cittadino, nonché per le precondizioni materiali che consentono l’effettivo godimento di tali diritti: una preoccupazione che dev’essere considerata parte del repertorio di argomenti operativi che possono essere addotti per valutare gli esiti delle misure politiche e delle istituzioni che ci governano. Nonostante il prevalere delle dottrine economiche neo-liberali e nonostante le loro evidenti affinità con le teorie e le prassi postmoderniste, queste eredità non possono essere intenzionalmente invalidate o "dimenticate".

b) Esperienze. Negli ultimi centocinquant’anni, una delle forze propulsive del rinnovamento delle politiche sociali è stata la percezione o l’anticipazione dell’imminente disgregazione dell’ordine e della coesione sociale. Mentre le forme di tale disgregazione, o il venir meno della coesione sociale, sono sicuramente cambiate e né il conflitto di classe organizzato, né la turbolenza del dopoguerra giocano oggi un ruolo significativo, altri generi di sintomi di disgregazione dominano la scena, e non possono non essere percepiti come un disagio potenzialmente minaccioso. In ogni caso, la presenza diffusa della precarietà (in una qualsiasi delle sue forme) viene vissuta come una fonte di contingenze negative che incidono anche su quanti ne sono meno direttamente colpiti.

Basteranno qui un paio di esempi illustrativi. Quella che i sociologi chiamano "riproduzione culturale" – la tradizione della cultura cognitiva e delle norme morali di una società – nella società moderna si realizza come una sorta di prodotto collaterale dell’istruzione formale. L’istruzione formale è a sua volta funzionalmente dipendente (e individualmente motivata) dall’inserimento anticipato di una forza di lavoro "istruita" nei ruoli occupazionali. Se i settori meno privilegiati delle nuove generazioni hanno qualche ragione di aspettarsi, in base alla loro attuale esperienza, che l’istruzione sia sempre meno un fattore in grado di portarli da qualche parte in termini occupazionali, di carriera e di sicurezza, ecco che le basi motivazionali dello sforzo e dell’ambizione ne risultano indebolite, e "abbandonare la scuola" diventa un fenomeno di massa (effetto ovviamente esacerbato dai tagli ai finanziamenti pubblici destinati all’istruzione secondaria e superiore).

L’organizzazione spaziale delle città moderne è spesso contraddistinta da modelli segregazionali, che tengono separati quanti vivono in condizioni di precarietà (compresa la precarietà dei diritti di cittadinanza e di residenza) dai "normali" partecipanti ai mercati del lavoro e dei beni di consumo e all’ordine legale. Tra le contingenze negative che ne risultano, ci sono le patologie familiari tipiche della "classe povera" costretta a vivere in spazi sempre più angusti, compresi la violenza e il commercio della droga. Inoltre le persone che vivono una partecipazione precaria al mercato del lavoro e quindi alla protezione sociale, sono costrette a dipendere da sistemi non protetti, non formali e spesso illegali o criminali per poter percepire una qualche forma di reddito. Di tali sistemi, l’assunzione informale nel mondo del "lavoro nero" (salari bassissimi, nessuna protezione, nessuna contrattualizzazione né versamento dei contributi sociali) genera le contingenze più negarive, perché va a fare concorrenza a imprese che assumono secondo le norme, e quindi mina ulteriormente le basi fiscali dei sistemi di sicurezza sociale. Infine, l’esperienza, come anche l’aspettativa, della precarietà è un potente fattore di erosione della vita familiare e del desiderio di riproduzione, che comporta l’ulteriore ripercussione di una intensificazione della precarietà, inevitabile quando la famiglia smette di funzionare come microsistema di sicurezza sociale. Non possiamo inoltre dimenticare le conseguenze politiche legate a una prolungata situazione di precarietà. Esse non si limitano ai sintomi di frustrazione e di cinismo con cui i cittadini e gli elettori reagiscono alla classe che li governa, e che sta clamorosamente fallendo nell’obiettivo di restaurare quella che si presume essere la situazione "normale", di una società dove c’è "lavoro per tutti". Comprendono invece anche un’ascesa delle forme etnocentriche e razziste di "esclusivismo" (a volte violento); la mobilitazione politica che fa leva su queste motivazioni si può già osservare in numerosi paesi Ocse. Tutte queste conseguenze, collettivamente rilevanti, della precarietà vengono portate all’attenzione dell’opinione pubblica sia attraverso i risultati dell’analisi scientifica delle società contemporanee sia tramite un’estensiva copertura da parte dei media.

c) Tentativi di rinnovamento da parte della classe dominante. Quanto più a lungo i sintomi di una crisi diffusa di instabilità istituzionale e della coesione sociale che abbiamo appena descritto si protraggono e si fanno dominanti, quanto più sono percepiti dall’opinione pubblica, quanto più inefficaci si dimostrano i rimedi, tanto più tutto questo viene percepito come una sfida dalle classi dominanti politiche ed economiche, che iniziano a rendersi conto della sperequazione tra i costi della disgregazione sociale e i guadagni in termini di efficienza comportati da una economia globalizzata, la quale a sua volta genera precarietà su vastissima scala. Le prove, che vanno accumulandosi, del fatto che la disgregazione sociale derivante dalla precareità non può essere né ignorata (per motivi sia economici che politici) né ragionevolmente superata come un prodotto collaterale della "deregulation" politica, della globalizzazione economica e della modernizzazione tecnologica, costringeranno le classi dominanti a prestare rinnovata attenzione alle domande fondamentali poste dall’ordine sociale. Sia in termini normativi (riguardanti cioè le eredità e le argomentazioni presentate al punto "a") sia in termini funzionali, il problema di come gestire il conflitto tra efficienza economica e coesione sociale si affermerà come il problema essenziale della governabilità. Inoltre, l’evidente urgenza di questo problema aprirà lo spazio a dibattiti su proposte e paradigmi giustamente considerati "impensabili" (o "utopici") fino a pochissimo tempo fa.

Quest’apertura dell’orizzonte delle considerazioni politiche e delle ristrutturazioni istituzionali è ulteriormente agevolato da due elementi piuttosto nuovi nella configurazione delle forze politiche. Primo, dopo la fine della guerra fredda e del confronto tra i due sistemi prevalenti, le classi dirigenti dei paesi Ocse non si trovano più di fronte a movimenti di massa organizzati e militanti, né alle richieste "rivoluzionarie", percepite come una minaccia alle autentiche fondamenta dell’ordine sociale. In assenza di tali minacce, le élites potrebbero essere in grado di permettersi un obiettivo più ampio in termini di apprendimento, di sperimentazione e di innovazione coraggiosa, di quanto avrebbe potuto essere ritenuto possibile e sicuro nella situazione precedente. Secondo, non soltanto il potenziale del rinnovamento istituzionale si è spostato dalla politica di massa alla politica di élite; è anche passato dalle frange più estremiste di questa élite al suo centro politico. Infatti, nel momento in cui l’universo delle dottrine politiche gestito da segmenti di quelle stesse élites è andato palesemente restringendosi in uno schema assai più angusto – l’approccio della sinistra liberale contro quello del conservatorismo liberale – la ricca tradizione del liberalismo politico repubblicano (in quanto opposto al liberalismo dell’economia di mercato) può venire riscoperta come serbatoio intellettuale in grado di progettare (come ha tentato di fare questo scritto) un nuovo equilibrio tra i diritti dei cittadini e le risorse economiche disponibili sul mercato.

Riferimenti bibliografici:

Killingsworth, M., 1987: Labor Supply, Cambridge, Cambridge University Press.

Rehn, G., 1977: "Towards a Society of Free Choice" in: Jerzy L. Wiatr, R. Rose (a cura di), Comparing Public Policies, Wroclaw, Ossolineum, pp. 121-157.

Titmuss, R., 1971: The Gift Relationship. From Human Blood to Social Policy, NY: Vintage.

Waters, W., 1996: "The Demise of Unemployment?", in Politics and Society 24 (1996), n.3, pp. 197-219

 

"I seminari di Dissent & Reset ad Abano Terme"

DOSSIER 1998

(a cura di Clementina Casula)

Esiste una "terza via" tra la socialdemocrazia ed il neoliberalismo? Quali sono le politiche sociali che dovremmo adottare a favore della famiglia e delle donne? Come procedere nella riforma del welfare state?

Riuniti dalle riviste Dissent e Reset nella deliziosa cittadina termale veneta, un gruppo di esperti accademici e giornalisti provenienti dall’Europa e dagli Stati Uniti si interrogano su alcuni dei quesiti più attuali dello scenario politico internazionale.

 

"Questo incontro (… ) è qualcosa di più di un convegno (…). Vorremmo dar vita ad un confronto permanente, che annualmente si rinnovi, per verificare le nostre idee intorno ai temi più rilevanti dell’attualità politica. Tra le nostre due riviste c’è una collaborazione non nuova e già collaudata in passate occasioni (…). In particolare ci accomuna l’idea (…) che la politica è animata fondamentalmente da un confronto tra Destra e Sinistra, per quanto siano nuove e varie le forme che queste parti politiche assumono, e per quanto nuovi e vari siano i temi proposti dall’agenda pubblica dei nostri tempi".

Giancarlo Bosetti, Direttore di Reset

"La nostre discussioni ad Abano Terme presentano un ampio spettro di punti di vista che sono spesso sostenuti vigorosamente. Il nostro proposito, tuttavia, consiste nel produrre non risposte definitive, bensì riflessione e scambio intellettuale in un momento di pericolo e possibilità per la sinistra occidentale".

Michell Cohen, codirettore di Dissent

"Riteniamo che i Seminari di Dissent e Reset ad Abano Terme rappresentino un importante incentivo alla partecipazione democratica al dibattito politico e sociale e all’elaborazione di risposte coerenti davanti agli interrogativi che le mutate esigenze della nostra società ci pongono (…) Per offrire a studenti, accademici, o chiunque si interessi a questi temi, una possibilità di riflessione più attenta e analitica sugli interventi ascoltati, abbiamo quindi pensato di raccogliere gli atti del convegno in questo Dossier".

Cesare Pillon, Sindaco di Abano Terme

Mauro Donolato, Assessore ai Beni Artistici e Culturali

 

 

Archivio attualità

 


homearchivio sezionearchivio
Copyright © Caffe' Europa 1999

Home | Rassegna italiana | Rassegna estera | Editoriale | Attualita' | Dossier |Reset Online |Libri |Cinema | Costume | Posta del cuore | Immagini | Nuovi media |Archivi | A domicilio | Scriveteci | Chi siamo